Wu Ming 4's Blog, page 110
September 9, 2013
#NemicoPubblico, il libro #notav che fa arrabbiare politici e procuratori
Nemico Pubblico è un libro curato dal comitato No Tav Spinta dal Bass. Raccoglie diversi contributi su uno dei più emblematici casi di “mostrificazione” mediatica degli ultimi anni, quello di Marco Bruno, il “ragazzo della Pecorella”. Ci siamo occupati di quella storia poco tempo fa, e infatti anche la nostra ricostruzione è inclusa nella raccolta, di fianco a testi di colleghi come Erri De Luca, Ascanio Celestini e Claudio Calia, nonché di svariat* attivist* No Tav.
Gli introiti del libro vanno interamente al fondo per le spese legali del movimento, che negli ultimi tempi sta subendo un giro di vite repressivo. Lo stesso Marco si è ritrovato al centro di una nuova vicenda farsesca, che il libro non ha fatto in tempo a “coprire”.
Il giro di vite sembra farsi più rabbioso man mano che il demenziale progetto del TAV Torino-Lione perde pezzi e finanziamenti. Il “corridoio” Lisbona-Kiev a cui doveva agganciarsi non esiste più da tempo, e il tutto appare sempre più campato in aria. Eppure la repressione colpisce duro. Tanto che alcuni ipotizzano sia iniziata una “ritirata in stile Wehrmacht delle lobby SìTav”. Ritirata, perché molto probabilmente il TAV non si farà, ma ritirata violenta, che si lascerà dietro una scia di denunce, processi e anni di prigione. Ritorsione contro un movimento che ha capito l’assurdità del progetto con molti anni di anticipo e lo ha contrastato senza farsi mai intimidire, e al tempo stesso duro monito per chi lotterà domani e altrove.
In poco più di un mese – e nemmeno un mese qualsiasi: agosto! – Nemico Pubblico ha esaurito la prima tiratura di 1000 copie e adesso va in ristampa. Dato che non ha una vera e propria distribuzione in libreria, e viene venduto solo alle (sinora affollatissime) presentazioni o inviato a chi lo richiede per posta (basta scrivere a postmaster@spintadalbass.org), l’esito è stupefacente.
Ma il successo di vendite non è il solo risultato conseguito da questo libro: c’è anche l’evidente crisi di nervi di alcuni elementi di spicco del fronte Sì Tav e della nomenklatura. Chi ha seguito le polemiche di questi giorni ha potuto constatare che i libri (certi libri) possono ancora fare paura, persino in quest’Italia dove legge pochissima gente.
Per noi che due anni fa combattemmo sul fronte del cosiddetto #rogodilibri è stata solo una conferma, ma per altri è una vera scoperta.
Nell’ordine: il 14 agosto Il Fatto Quotidiano ha pubblicato la prefazione di Erri De Luca a Nemico Pubblico.
Ciò ha fortemente infastidito il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli.
Caselli è idolatrato da molti in virtù dei suoi trascorsi nell’Antimafia, ma tali trascorsi non raccontano tutta la sua storia, né dovrebbero schermarlo da qualsivoglia critica, come invece pensa qualcuno. Una delle tare che ereditiamo dalla lunga stagione del berlusconismo è proprio la visione acritica della magistratura e dei suoi “eroi”.
Nel caso specifico di Caselli: sul suo modo di intendere il proprio ruolo (anche sul palcoscenico dei media) e l’azione penale ci sarebbe molto da dire. Qualcosa scrisse a suo tempo il Luther Blissett Project nel saggio del 1999 Nemici dello Stato, ma senza andare troppo in là, si chieda ai valsusini cosa pensano dell’operato e dei sempre più frequenti proclami del settantaquattrenne capo procuratore, nonché della discrasia tra come egli descrive la valle (praticamente un “covo” di terroristi) e come la vive chi da oltre vent’anni è parte di un’eccezionale lotta di massa per scongiurare uno scempio ambientale, economico, sociale.
Lo diciamo ai disinformati: i No Tav ci sono dal 1989. Grazie a loro non s’è fatta l’ennesima inutile mostruosità di cui lamentarsi a giochi fatti. La loro resistenza ultraventennale ha permesso di vedere il bluff di un’opera velleitaria e obsoleta, che oggi in Europa nessuno vuole più (la stessa Francia non la ritiene prioritaria e l’ha appena rinviata alle calende greche).
Grazie ai No Tav che da oltre vent’anni tengono in scacco questa porcheria, la verità sta emergendo prima dell’irreparabile anziché dopo, come di solito accade in questo Paese di cattedrali nel deserto.
Ergo, i No Tav sono eroi civili.
Ma torniamo alle conseguenze di Nemico Pubblico.
Dapprima Caselli si è lamentato della prefazione di De Luca in una lettera al giornale, poi ha rilasciato un’intervista in cui agitava per l’ennesima volta lo spauracchio del terrorismo e lanciava obliqui avvertimenti agli intellettuali “cattivi”. Si riferiva non solo a De Luca, ma anche a Gianni Vattimo, filosofo recentemente “attenzionato” dalla procura per le sue simpatie No Tav. Quando De Luca gli ha risposto (“Caselli esagera”), alcune sue affermazioni sulla necessità di sabotare il TAV hanno fatto inalberare la società LTF (Lione-Torino Ferroviaria), che ha annunciato un’azione legale ai danni dello scrittore. A quel punto, il vicepresidente pidiellino del COPASIR (il comitato di controllo sui servizi segreti) ha proposto il boicottaggio dei libri di De Luca.
Noi, com’è ovvio, stiamo con De Luca. Quello che ha detto e scritto lui sul TAV lo pensiamo e lo abbiamo più volte detto e scritto anche noi.
Ad ogni modo, niente male per un libretto autoprodotto! Perché non lo ordinate anche voi? Ribadiamo: basta scrivere a postmaster@spintadalbass.org. Costa solo 10 euro, e aiuterete gli imputati No Tav.
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August 22, 2013
Speciale #PointLenana: Goffredo Fofi, Fahrenheit, Santo Peli, Buoni Presagi, salita al Mangart e visita alla tomba di Giuàn

Point Lenana in cima al Mangart, Alpi Giulie, 2677 metri.
Spedizione Giap – Cavre, 12 agosto 2013, vedi il resoconto linkato nel post. Clicca sull’immagine per ingrandirla.
[WM1:] Anche ad agosto Point Lenana ha proseguito la sua marcia, tra presentazioni in quota e in piano, escursioni, recensioni, interviste che usciranno nel futuro prossimo su diversi quotidiani e periodici.
Con i Funambolique stiamo lavorando a Emilio Comici Blues, un reading musicale tratto dai capitoli del libro dove è protagonista il grande alpinista triestino (1901 – 1940). E’ un work in progress, lo stiamo presentando in giro per il Nord-Est in serate che sono vere e proprie “prove aperte”. Le prossime date, insieme a quelle delle presentazioni “normali” (ehm…) da qui a fine ottobre, sono nel calendario.
In questo nuovo speciale, il più ricco da quando è uscito il libro, proponiamo:
1) Una recensione illustre, quella uscita oggi stesso sulla rivista Internazionale a firma di Goffredo Fofi. A nostra memoria, è la prima volta che un libro targato “Wu Ming” lo convince, e ne siamo contenti. E’ una “felice scoperta” anche per noi.
2) Un’altra recensione illustre, in esclusiva per Giap: quella dello storico Santo Peli, autore – tra le altre pubblicazioni – di La Resistenza in Italia. Storia e critica (Einaudi, 2005) e Storia della Resistenza in Italia (Einaudi, 2006).
3) L’audio di una conversazione sulle montagne nella storia d’Italia andata in onda a Fahrenheit l’8 agosto scorso. Partecipanti: Wu Ming 1, Marco Armiero e Loredana Lipperini.
4) La vivace e narrativa recensione di Point Lenana apparsa sul blog Buoni Presagi.
5) Il resoconto con foto e video di un’ascensione al Mangart, Alpi Giulie, organizzata da WM1 e un gruppo di giapster, con tanto di reading in vetta. Il Mangart fu la prima cima delle Giulie raggiunta da Felice Benuzzi nell’estate del 1922.
6) Il resoconto con foto della visita di Valeria Isacchini al cimitero tanzaniano dove giace il dottor Giovanni “Giuàn” Balletto, uno dei protagonisti di Fuga sul Kenya.
7) Testimonianze fotografiche dell’usanza di portare copie di Point Lenana in cima alle montagne d’Italia e non solo.
Buona lettura. Ricordiamo che Point Lenana è anche su Pinterest e su Tumblr.
Da Internazionale, n. 1014, 23/29 agosto 2013:
SCALATA LUNGO LA STORIA
Wu Ming 1, Roberto Santachiara, Point Lenana, Einaudi Stile Libero, pp.596, euro 20,00.
E’ stato una ricca lettura estiva e una felice sorpresa questo Point Lenana che sovrasta ogni discorso sul realismo in letteratura perché si sposta decisamente dal fronte del romanzo a quello della storia. C’è ben poco di inventato, in questa ricostruzione istruttiva e appassionante di una vita, quella dell’alpinista Felice Benuzzi che, prigioniero di guerra degli inglesi in Africa, fuggì con due amici per scalare il Monte Kenya e tornare subito dopo al campo. Attraverso Benuzzi gli autori raccontano un tragico Novecento – Trieste, l’Austria, l’Istria, i Balcani, due guerre mondiali, fascismi e antifascismi, le guerre d’Africa e le oscenità dell’occupazione coloniale (suscitando nel lettore nuovo disgusto per le figure criminali di Badoglio e Graziani), il dopoguerra e la guerra fredda, le contraddizioni che stanno alla base della nostra storia attuale. Ma il perno, l’osso, la pietra angolare di Point Lenana, che è un picco del Monte Kenya, è l’amore per la montagna, un secolo di storia dell’alpinismo. C’è molto da imparare o da ricordare, molto di sanamente pedagogico in questa ricostruzione in cui le abilità del buon narrare sono lo strumento per accostare la storia al racconto come al tempo di Martin Guerre, senza niente concedere alle fantasticherie e alle astuzie degli scrittori in cerca del best-seller buono a tutto.
POINT LENANA E LA STORIA MILITANTE
di Santo Peli

Santo Peli
Si arriva a p. 101, e…
“E dunque, che razza di libro è questo”? si chiede l’autore, forse mettendosi nei panni di qualche perplesso lettore, che fino a questo punto è stato erudito sulla biografia del triestino Felice Benuzzi, prigioniero in un campo di internanento inglese e protagonista di una scalata alla cima del monte Kenya (Point Lenana), ma che potrebbe, come me, essere ancora perplesso sul cammino intrapreso, e ancor più sulla meta.
Iil filo rosso, abbandonato e ripreso, in assoluta libertà compositiva, più e più volte, è costituito dalla biografia di Felice Benuzzi. Un libro scritto dall’alpinista-prigioniero, fa nascere un progetto di ricerca in
funzione di un libro; la prima tappa è costituita da una scalata dello stesso Wu Ming 1, che con alcuni compagni ripete l’impresa di Felice.
Durante il viaggio in Kenya il paesaggio origina ricordi storici, excursus sul colonialismo britannico, sulla rivolta dei Mau Mau, memorie di precedenti scalate, e questa procedura ci introduce al ritmo narrativo,
allo specifico tema dell’opera: attraversare la storia “di quattro imperi”, e della società e delle guerre europee e italiane, utilizzando come filo rosso le vicende biografiche di una molteplicità di personaggi
direttamente o indirettamente connessi alla vita di Felice Benuzzi, con una tecnica di montaggio che allarga e restringe continuamente il fuoco, che scorre dalla tassa sul macinato del neonato regno d’Italia alla questione dell’irredentismo, per giungere alla prima e seconda guerra mondiale, alla Resistenza, al dopoguerra.
Libertà compositiva, uso rigoroso delle fonti letterarie e storiche; materiale dunque eterogeneo, fuso in uno stile scorrevole, piacevolmente colloquiale ma sempre preciso nei riferimenti. Uno storico al lavoro, dunque, senza la palla al piede della nota a pie’ di pagina. Molta invidia e ammirazione, e intenso divertimento.
E dunque: “E’ un racconto di tanti racconti. Parla dell’Africa (di tante Afriche) e delle Alpi Giulie, parla di Italia e di «italianità», di esploratori e squadristi, di poeti e diplomatici, di guide alpine e guerriglieri. Attraversa i territori e la storia di quattro imperi. E’ un racconto di racconti di uomini che vagarono sui monti”.
E, aggiungo io, il racconto delle ricerche, delle scoperte, delle perplessità dell’autore mentre il libro sembra farsi sotto i nostri occhi, e dove la soggettività, la storia, la biografia del protagonista diviene a sua volta protagonista, sia pure assai discreta. E questa “liberazione della soggettività dell’autore” è un seconda caratteristica che fa di questo “libro di storia per tutti” un’avventura più godibile e coinvolgente di qualunque saggio di storia di taglio accademico. E’ forse la formula più felice, di quelle finora a me note, per risolvere il problema di una narrazione storica capace di coinvolgere un vasto pubblico, senza rinunciare alla precisione.
Storia partigiana, sia chiaro, decisamente partigiana. Storia militante, in un certo senso, se per “militante” si intende mettersi al servizio non di una “oggettiva verità”; al contrario militante nel campo del disvelamento della costruzione mitologica che il potere da sempre esercita per mascherare politiche di dominio e di sfruttamento, che nell’ignoranza, nella conquista della memoria hanno uno straordinario strumento. Smontare questo strumento, mettere in luce le retoriche, le strategie narrative del potere è dunque l’obiettivo di Wu Ming I. E in questo senso siamo di fronte ad una storiografia militante.
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Marco Armiero
L’8 agosto scorso la trasmissione di Radio 3 Fahrenheit ha ospitato Wu Ming 1 e lo storico dell’ambiente Marco Armiero, autore del saggio Le montagne della patria, Einaudi, Torino 2013.
Del libro di Armiero ci occupammo su Giap quando ne esisteva solo l’edizione britannica, intitolata A Rugged Nation.
Ecco la presentazione della puntata, tratta dal sito della trasmissione:
«Sulle nostre montagne sono accaduti momenti cruciali per la formazione della nostra identità nazionale. Il Risorgimento e la Grande guerra su tutti furono momenti che trovarono nel già duro scontro bellico proprio sui rilievi i loro momenti più duri ed eroici. Del rapporto tra le montagne e gli italiani si occupa il libro di Marco Armiero, Le montagne della patria (Einaudi), mentre ad altre montagne, quelle del Kenya, è dedicato Point Lenana (Einaudi), il romanzo dedicato alla figura dell’alpinista Felice Benuzzi scritto da Wu Ming 1 e Roberto Santachiara.»
Audio, Fahrenheit, 8 agosto 2013
Qui l’audio. La chiacchierata dura poco più di mezz’ora. In studio, Loredana Lipperini.
[Il genovese Alessandro Vicenzi, tenutario dello storico blog Buoni presagi , è un lettore e recensore attento e scrupoloso, con un approccio sovente "mimetico". Padroneggia l'arte di scrivere recensioni che ripropongono la "cifra" e l'andamento dei libri esaminati, divenendone "prosecuzioni con altri mezzi". Ne ha appena dato felice prova occupandosi di Point Lenana. La sua è una recensione digressiva e fortemente aneddotica, spezzata in due da un ricordo personale legato alla lacerata, irrisolta storia di Trieste. Buona lettura.]
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Una teoria formulata anni fa da un mio amico sostiene che dato un campo dell’agire umano c’è probabilmente un italiano che ha fatto qualcosa di straordinario di cui i suoi compatrioti sono per lo più all’oscuro. Era nata mi pare la prima volta che aveva sentito parlare di Perlasca, ma si adatta benissimo alla storia di Felice Benuzzi, Giovanni Balletto, Vincenzo Barsotti, che nel 1942, prigionieri di guerra in un campo inglese in Kenya, evasero per scalare (i primi due erano alpinisti, il terzo era solo incuriosito dall’impresa) il monte omonimo, che si vedeva attraverso i reticolati e di cui non sapevano quasi niente. Ci riuscirono un po’ per il rotto della cuffia, piantarono un tricolore su una cima secondaria invece che su quella principale resa inaffrontabile dal maltempo e poi tornarono al campo a consegnarsi, che l’idea di raggiungere territori non controllati dagli inglesi era impraticabile.
Benuzzi raccontò questa storia in un libro, Fuga sul Kenya la cui edizione inglese (No Picnic on Mount Kenya) ebbe e ha ancora una buona diffusione mentre quella italiana non è mai uscita dal circolo degli amanti di libri di montagna.
Il racconto di come Wu Ming 1 sia finito a raccontare, insieme a Roberto Santachiara (quello di Published in arrangement with Santachiara Literary Agency in fondo agli articoli di Saviano qualche anno fa, per intenderci; uno dei più importanti agenti letterari italiani, se non il più importante) (ne avete forse sentito parlare in qualche discussione sugli ebook) non questa storia ma tutto quello che poteva servire a capirne le origini, il contesto e le conseguenze è il primo capitolo di Point Lenana – che comprende anche un’escursione sulla punta Lenana dei due autori.
Point Lenana non è una riscrittura del libro di Benuzzi (che è stato ristampato poco prima da Corbaccio) ma piuttosto quello che in inglese si definirebbe un “companion”, come quei libri che danno al lettore curioso gli strumenti per cogliere tutti i riferimenti, per dire, nei libri di Tolkien. Solo che non è organizzato in modo enciclopedico, ma come un racconto che spazia dalla nascita di Benuzzi nella Vienna imperiale fino alla sua scomparsa negli anni Settanta (in ordine non strettamente cronologico). In mezzo, si può raccontare di colonialismo italiano, della guerriglia dei Mau Mau, della questione di Trieste irredenta, della nascita del fascismo, di un assurdo film ispirato alla vicenda di Benuzzi, del destino dei suoi compagni, della storia dell’alpinismo novecentesco… La vita di Benuzzi è quasi come quella di un personaggio-vettore (pensate al meccanismo di Forrest Gump) che tocca tanti punti sensibili degni di approfondimento nella storia del XX secolo.
INTERVALLO: La strage di via Ghega a Trieste
Uno dei protagonisti del libro è la città di Trieste, dove Benuzzi è cresciuto. Come ho accennato sopra, se ne racconta la storia sospesa fino al 1954 tra Italia, impero austro-ungarico prima e Jugoslavia poi. Con la parentesi del dominio nazista, che fece in tempo a regalare alla città l’unico campo di sterminio con forno crematorio attivo su quello che sarebbe poi diventato territorio italiano, la Risiera di San Sabba.
A Trieste ci sono stato con Lucilla la scorsa primavera; doveva essere la prima tappa del viaggio in Polonia, poi ci siamo resi conto che era impossibile da fare senza perdere un sacco di tempo per arrivare da Trieste alla Polonia e abbiamo cambiato i piani. Non ho mai fatto un post di viaggio perché ci stati neanche 48 ore e poi finiva che me la cavavo con uno o due post invece che con dodicimila e allora non c’era gusto. Però Trieste è bellissima e spero di tornarci (anche perché non c’era nemmeno una bava di vento e mi sono sentito un po’ defraudato dell’esperienza completa). Comunque. Alla Risiera (che adesso confina con un Lidl o poco ci manca) c’è una bella mostra che ricostruisce la storia dell’occupazione nazista, i progetti di pulizia etnica dagli slavi, il funzionamento del campo. Ci sono lettere strazianti di condannati a morte, una straordinaria per compostezza e dolcezza. C’è anche una teca che una volta conteneva la mazza usata dal boia per eventuali colpi di grazia. Oggi c’è una replica, fatta da un artigiano genovese, perché l’originale è stata rubata negli anni ’80; c’è anche una fotocopia del biglietto lasciato dai nazisti che la portarono via.
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Tra le altre, vediamo queste foto impressionanti di decine di persone appese nell’androne di un palazzo. Una rappresaglia nazista: cinquantuno prigionieri, italiani e sloveni, impiccati per un attentato in cui avevano perso la vita cinque soldati tedeschi (per avere la fama di inflessibili precisini, i nazisti quando si trattava di rappresaglie sembra avessero la tendenza a stare abbondanti come un salumaio disonesto). Guardiamo la didascalia e sbianchiamo. Via Ghega. La stessa via del nostro albergo. Non lo stesso palazzo per fortuna, ma quello di fronte. Dalle finestre, la sera, vediamo le finestre da cui hanno penzolato cadaveri di uomini e donne.
Oggi il palazzo ospita il Conservatorio, una targa sulla facciata ricorda l’evento. A Genova o a Bologna capita di passare davanti a lapidi che ricordano uno o più partigiani fucilati in quel punto. Ma davanti al luogo di una strage di quelle dimensioni (immagino le urla, i pianti, i rumori) non ero mai passato. “Questa città sanguina storia” mi viene da dire parafrasando il titolo di un capitolo di Maus.
Point Lenana è un libro di storie che è, allo stesso tempo, un libro di storia che si occupa in larga parte di colonialismo, di imperi e della loro dissoluzione: si dissolve quello austro-ungarico e ci finisce in mezzo Trieste, gli italiani cercano di creare il loro creando la Libia da territori rosicchiati all’impero ottomano, è un’impero quello etiope, è una tarda guerra coloniale quella degli inglesi contro i Mau Mau in Kenya dopo la seconda guerra mondiale.
Racconta di fascismo e antifascismo da una prospettiva relativamente inedita: di “antifascismo esistenziale”, cioè delle strategie di resistenza personali, “umane”, alla fascistizzazione della vita quotidiana si parla solo dal 1995, e il concetto aggiunge profondità e problematizza alcuni dei personaggi di cui si occupa il volume, nominalmente facenti parte delle strutture di regime (Benuzzi è in Africa come funzionario coloniale, allo scoppio della guerra) ma caratterizzati da scelte di vita estranee al regime (è sposato con una donna ebrea).
Racconta di montagna e di montagne; uno dei “coprotagonisti”, per così dire, una figura importante per la formazione di Benuzzi e di cui si racconta molto, è Emilio Comici, alpinista triestino morto nel 1940 che fu una delle figure di spicco dell’alpinismo italiano e un innovatore dell’approcio all’arrampicata (su youtube lo si può vedere in azione in almeno due video).
Racconta anche degli autori, del processo che porta al farsi del libro, dall’arrivo tra le mani di Wu Ming 1 di una copia di Fuga sul Kenya alle interviste con i parenti dei protagonisti, persino un fortuito contatto con un discendente del direttore del campo di prigionia kenyota, nato da una recensione al film che negli anni novanta fu tratto (con licenze artistiche che sconfinano nel ridicolo) dalla vicenda.
È un libro in cui ci sono tantissime cose, vuole essere il senso di questo parziale elenco; e in questa sua natura enciclopedica, multiforme (i registri variano molto, a seconda della materia trattata; ci sono anche brevi scambi di battute, inseriti per spiegare e “umanizzare” passaggi e decisioni storiche, che potrebbero essere delle vignette) e variegata stanno sia i pregi del volume sia i suoi difetti.
Chi è, infatti, il lettore di qualcosa del genere? Alla presentazione bolognese patrocinata dal CAI c’è stato un momento in cui dal pubblico si sono alzate lamentele di qualcuno che, mentre si parlava di Graziani e dei crimini di guerra del colonialismo italiano, ha sbottato “parliamo di montagna!”. Il fatto che l’interruzione sia arrivata proprio in quel momento non è stato casuale e ha rivelato, da scambi successivi tra platea e relatori, il fatto che in sala c’era chi si sentiva a disagio a vedere contestata l’idea degli “italiani brava gente” (avete mai sentito qualcuno dire per davvero “E ALLORA LE FOIBE?” mentre si ricordano i crimini fascisti? Ecco, lì è successo); però al di là di nostalgie e patriottismi, posso capire che chi si aspetti un libro “di montagna” possa rimanere deluso e confuso da quello che trova nel libro. I lettori curiosi, onnivori, aperti all’idea di un “oggetto narrativo” che saltabecchi tra i luoghi, le epoche e gli stili si troveranno a loro agio e si godranno un lungo racconto scritto con grande limpidezza. Per gli altri, invece, la densità e l’esplosione di storie a partire dalla scalata della punta Lenana, potrebbero essere un ostacolo.
Point Lenana trasforma, come detto nel finale, Fuga sul Kenya in un ipertesto rendendo “cliccabili” le parole chiave, ma è altrettanto vero che il libro di WM1 e Santachiara è a sua volta uno sguardo a volo d’uccello su molti dei temi trattati. È infatti impossibile immaginare che possa esaurire argomenti come l’irridentismo trientino, il colonialismo italiano o la rivolta dei Mau Mau (eventi con le cui conseguenze il mondo contemporaneo convive ancora): è un punto di partenza per chi voglia approfondire e la robustissima bibliografia che chiude il tomo è lì a dimostrarlo.


Wu Ming 1 sulla via normale del Mangart, Spedizione Giap – Cavre, 12 agosto 2013. Clicca sull’immagine per ingrandirla.
Il 12 agosto scorso Wu Ming 1, Lo.Fi, Tuco, RikuTrulla e altre/i giapster nonché membri del gruppo escursionistico triestino “Le Cavre” [le Capre] salgono sul Mangart, quarta vetta delle Alpi Giulie, montagna attraversata dal confine-non-più-frontiera tra Italia e Slovenia.
Per l’ennesima volta e sull’ennesima montagna, WM1 segue le orme di Felice Benuzzi.
In una luminosa mattina dell’estate 1922 il dodicenne Felice, guidato dal padre Giovanni (“Nino”), salì sul Mangart e vide, in alto sulla pianura friulana, un improvviso e strano luccichio. Nino ipotizzò fosse un riflesso dell’arcangelo dorato in cima al campanile di Santa Maria di Castello, Udine.
Novantun anni dopo, benché la giornata sia meno baciata dal sole, la spedizione Giap – Cavre avvista lo stesso bagliore, nello stesso punto, e lo fotografa.
Questo e altro nel resoconto scritto da Lo.Fi. sul tumblr di Point Lenana.

[WM1:] All’incirca un mese fa la scrittrice Valeria Isacchini, autrice del libro Fughe (Mursia, 2012) dove si racconta anche di Benuzzi e dei suoi compagni di evasione, si è recata in Tanzania, nei pressi di Moshi, in cerca della tomba di Giuàn Balletto.
Si tratta di un cimitero greco-ortodosso. Giuàn fu – almeno fino a una certa fase della sua vita – un cattolico osservante, ma (come raccontiamo in Point Lenana) morì suicida e la locale chiesa cattolica si rifiutò di seppellirlo nel suo camposanto.
Per gentile concessione di Valeria, vi proponiamo il suo resoconto, con le foto che ha scattato. Il testo era in inglese perché indirizzato anche ad Adrian Balletto, nipote di Giuàn che non legge l’italiano. La traduzione è mia.
Isacchini, come saprà chi ha letto i suoi libri o i suoi contributi apparsi sul web, ha posizioni e sensibilità distanti dalle nostre. Eppure, durante e dopo la stesura di Point Lenana c’è stato un cortese scambio di informazioni e consigli bibliografici. Comportarsi così non è da tutti. Infatti nel libro è citata, sia nel testo sia nei “Titoli di coda”.
Quando, in segno di ringraziamento, le ho inviato una copia con dedica, le ho scritto via email queste righe: «Leggendo Fughe ho avuto momenti di intensa dissonanza (politica, di interpretazione storica etc.) Cosa che però non mi ha impedito di godermi il testo, il ritmo, le storie raccontate. Sono sicuro che succederà lo stesso a Lei per Point Lenana.»

«Ad Arusha ho preso una corriera per Moshi. Le parole in Swahili che mi ha insegnato, makaburini [cimitero, N.d.R.] e kaburi [tomba, N.d.R.], mi sono state molto utili, dato che nel distretto di Arusha poche persone sembrano comprendere l’inglese. L’autista della corriera mi è parso divertito del fatto che una turista andasse in cerca di un makaburini, perché ha sorriso poi ha detto qualcosa agli altri passeggeri, e tutti si sono messi a ridere…
Il cimitero è malconcio, trovare la tomba non è stato semplice con tutti quei cespugli.»

«Per fortuna mi ha aiutata una signora (di madre britannica e padre tanzaniano), che ha chiesto al custode di trovarla. Non era in buone condizioni, come può vedere. Allego alcune foto, anche se non sono granché. Il giorno prima, sono stata derubata della mia macchina fotografica. Era la prima volta che mi succedeva in tutti i viaggi che ho fatto da sola, quindi penso – e spero – di aver pagato il mio debito alla statistica.»

«Tempo fa qualcuno ha tagliato l’albero dietro la tomba per fare legname e un ramo, cadendo, ha rotto la lapide. Ho estirpato e rimosso l’erba, e ho cercato di pulirla per quanto possibile. Non è facile leggere il nome.»

«Non ero certa di trovare fiori nei pressi del camposanto (e invece ho trovato un cespuglio di bouganville lungo la strada), così mi sono portata da casa dei fiori di seta (violette africane).»

«Ho raccontato un po’ di Giovanni alla signora e al custode, e quest’ultimo mi ha detto che Giovanni aveva una moglie nativa, Sabina, che vive ancora a Marango, dalla quale ha avuto un figlio [John Balletto, oggi vive ad Arusha e fa l'organizzatore e guida di safari, N.d.R.]»

«La signora ha detto: “Voi Europei vi prendete cura delle tombe”. In Africa è un’usanza un po’ strana, come certamente Giovanni ben sapeva.»
Su Twitter vediamo due modalità di lettura attiva e condivisa di #PointLenana: foto di brani con commento e (bellissimo!) foto del libro in montagna.
Il primo ad avere l’idea di fotografare il libro su una vetta, se non sbagliamo, è stato Simone Vecchioni. la cima era quella del Monte Vettore (2476 metri, vetta più alta delle Marche).
Le foto di #PointLenana sulle cime sembrano dire che anche in tempi di ebook, l’oggetto-libro mantiene una sua forza simbolica e specificità. Specificità. Ci sono alcune cose che si possono fare con un libro elettronico che non si possono fare con uno di carta, ma qui ci concentriamo sul “viceversa”.
Ecco alcuni esempi:

Il giapster Raffaele Coriglione si è portato il libro fino all’Uhuru Peak del Kilimanjaro. Finora è il record di altitudine.

La giapster Paola di Giulio si è portata Point Lenana sul Corno del Renon, 2261 metri, sulle Alpi Sarentine, a nord di Bolzano.

Chiara si è portata Point Lenana sul Testa Grigia, 3315 metri, Alpi del Monte Rosa. Il Testa Grigia è sullo sfondo, la foto è del giorno precedente l’ascensione.

Tony si è portato il libro sul Colle della Mologna Grande, 2364 metri, Alpi Biellesi.
Questo modo di far vivere il libro sulle rocce, di trasformare il libro stesso in “alpinista”, ci piace molto, e speriamo di ricevere altre foto.
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August 20, 2013
Robin e Skip salutano Elmore Leonard, 1925 – 2013
Skip disse a Robin che il giorno dopo, se c’era bel tempo, doveva far saltare in aria un’auto sul Belle Isle bridge, e poi avrebbe finito. Quel genere di ripresa si chiamava “kush”. La macchina sarebbe corsa oltre il parapetto, per poi esplodere a mezz’aria in una grande palla di fuoco, ed entrando nel Detroit river avrebbe fatto: “Kussssshhhhhhh“, e a quel punto si sarebbe alzato un gran fumo.
- Figata, – disse lei – Ti piace il tuo lavoro, eh?
- Beh, insomma, – rispose Skip – Sono stronzate, lo sai, è cinema. Però è abbastanza divertente. Sicuramente più di lavorare come comparsa, tutto il giorno sotto il sole mentre il regista cazzeggia con la star.
- Oggi ho letto una notizia sul giornale e mi sei venuto in mente tu – disse Robin – Hai sentito del tipo saltato in aria?
- Sì, ho visto. Qualcuno gli ha ficcato della dinamite sotto il culo. Ma non sono stato io, stavo lavorando. – Skip sorrise e addentò un grissino – E’ almeno da… beh, insomma, è un bel pezzo che non uso la dinamite.
- Però scommetto che ti ricordi come si fa.
Skip sorrise ancora: – Certo, però non lo usiamo quasi mai, quel tipo di esplosivi.
Aspettavano la cena al ristorante “Da Mario”, in midtown Detroit, tra tavoli con tovaglie bianche e dipinti a olio di paesini del Sud Italia. Skip beveva vodka e mangiava i grissini intingendoli nel burro. Robin fumava, sorseggiava vino rosso e guardava Skip dietro lenti brunite.
- Per esempio, nelle scene di guerra, tipo granate o colpi di mortaio, usiamo la polvere nera e la accendiamo con una miccia elettrica. Per le scene tipo kush, o le volte che vedi una macchina che va giù da un burrone poi scoppia, ci leghiamo sotto delle bottiglie di plastica piene di benza, tipo dieci litri, e le facciamo saltare a distanza. Basta pigiare un bottone, come quando apri il garage.
- Io parcheggio in strada – disse Robin.
- Come no, come ai vecchi tempi. Mi ricordo che c’erano il garage di papà, il garage di mammina e il garage della signorina Robin, uno in fila all’altro, accanto a quella reggia che avevate a Bloomfield Hills.
- Lo sai che in galera mi ci ha portato mamma in macchina?
- Non sapevo nemmeno che si potesse.
- Sì, tutto il tragitto fino a Huron Valley. Per il viaggio si era comprata un tailleur grigio, un gessato. Lei e il giudice speravano che mi mandassero ad Alderson, cazzo, fino in West Virginia, ma papà ha convinto qualcuno del Dipartimento di Grazia e Giustizia.
- Per averti vicino a casa. – disse Skip – Molto carino da parte sua.
- Io speravo di andare a Pleasanton, California. Almeno prendevo un po’ di sole.
- Li vedi ancora, i tuoi vecchi?
- Papà è andato al Creatore, ha avuto una trombosi. La mamma non la vedo quasi mai, lo capisci anche tu il perché. In questo periodo è in crociera intorno al mondo. E’ quello che fa adesso: viaggiare.
- Tua madre era un viaggio – disse Skip – Aveva sempre quel modo sarcastico di parlare. A te riesce anche meglio.
- Oh, grazie mille – disse Robin. Sbuffò il fumo in direzione di Skip e bevve un altro sorso di vino.
- Io al carcere di Milan ci sono andato su un pullman del governo – disse Skip – Mia madre non so neanche dove fosse, quel giorno. Il pullman aveva reti di plastica ai finestrini, nel caso ci fossimo liberati delle manette e dei ceppi. Eravamo io più cinque o sei ispanici con le braccia piene di solchi. Ho pensato: cazzo ci faccio io qui con ‘sta gente? Sono un prigioniero politico. Avrebbero dovuto mettermi in una di quelle prigioni di lusso tipo country club, dove hanno mandato gli stronzi del Watergate, ma mi sa che mi consideravano cat-ti-vo.
- Tu eri cattivo – disse Robin – Secondo me quando hai fatto saltare il Palazzo Federale, quelli un po’ si sono incazzati.
- Sì, chiaro, però la cauzione che si sono tenuti quando ci siamo fatti di nebbia, insomma, bastava a risarcirli dei danni. Almeno in parte. – Skip continuava a mangiare grissini, aveva briciole nella barba – Pensa che roba, quando ci hanno presi per la seconda volta, se solo avessero saputo la metà delle cose che avevo fatto… Cazzo, tutti quegli anni in clandestinità…
- Ah, vivere là fuori con la maggioranza silenziosa – disse Robin – Io lo so perché stanno in silenzio: non c’hanno un cazzo da dire. Pensa che ho cominciato a rubare nei negozi, così, per passare il tempo. Ho addirittura rubato un reggiseno, una volta.
- Io vivevo in una comune vicino a Grants, New Mexico – disse Skip – con reduci del flower power che si scazzavano tutto il tempo. Morivo di noia. Sono salito a Farmington e ho trovato lavoro ad aggiustare televisori, ché almeno continuavo a lavorare con cavi e corrente. Quel giorno mi sono detto: amico, se sei un criminale ricercato, perché non ti dai direttamente al crimine? Così mi sono trasferito a Los Angeles.
- Sei mai entrato in un ufficio postale a cercare la tua faccia?
- Sì, però non l’ho mai vista.
- Nemmeno io. – Robin appoggiò i gomiti sul tavolo e si chinò verso Skip. – Quando finalmente ho trovato il tuo numero, e ho saputo che eri a Detroit…
- Non ci potevi credere, eh?
- Sai, non sei mica cambiato tanto.
- Magari sono di mezzo passo più lento, – disse Skip – ma ho ancora tutti i capelli. A casa faccio un po’ di pesi, mi tengo in forma.
- Mi piace la tua barba.
- Delle volte la tengo, delle volte la taglio. Me la sono fatta crescere in Spagna, ci sono andato appena uscito di gaiba. Ho cominciato come comparsa nei film, poi sono diventato stuntman, e poi tecnico degli effetti speciali. Un tipo di nome Sidney Aaronson stava girando un kolossal, Il sacco di Roma. In realtà, nel sacco c’era solo merda. Sai quante volte mi hanno ucciso, in quel filmaccio?
Robin lo vide fare un cenno al cameriere che passava con un carrello di vassoi. Skip ordinò un’altra vodka e una bottiglia di Valpolicella. Il cameriere, basso e sulla cinquantina, rispose con accento italiano: – Solo un minuto, solo un minuto, per favore – e si allontanò.
Skip fece l’occhiolino a Robin: – Fai partire il cronometro. Ha un minuto esatto.
- No, non sei cambiato per niente. – disse Robin.
Skip Gibbs sorrise. Un ragazzino di trentott’anni: capelli biondi raccolti in una coda dietro la nuca, briciole tra i peli della barba. Skip “Uomo Lupo”, con addosso un giubbino satinato nero e sulla schiena la scritta rossa “Speedball”. Era il titolo di un film in cui aveva lavorato: effetti speciali, far scoppiare polvere nera, caricare pistole finte. – E tu sei ancora un gran pezzo di fica – disse a Robin, stringendo un po’ gli occhi azzurri. – E’ sempre bello vedere una donna magra con le tette grosse – Lo sguardo era rivolto alla felpa tanè di cotone, tre bottoni slacciati in cima. – E vedo che stanno ancora al loro posto.
- Basta mettere su le cassette di aerobica di Jane Fonda – disse Robin – Ti siedi, le guardi e rimani in forma. E’ automatico.
- Ah, ecco. – disse Skip – Basta che tu non sia diventata una lesbo-femminista vegetariana o roba del genere, ok? Ho bellissimi ricordi di noi due a letto. E anche sul pavimento. E nei sacchi a pelo, e in macchina…
Adesso era Robin Abbott a sorridere, vaga, senza concedere troppo. Quieti occhi nocciola dietro occhiali da sole, viso pallido e attraente, capelli castani raccolti in un’unica, grossa treccia. Ogni tanto ci giocava, la arrotolava intorno alle dita, se la portava al petto.
- I capelli sono diversi – disse Skip – Ma a parte quelli… – Strinse ancora gli occhi – La prima volta che ti ho vista, al Lincoln Park di Chicago… E’ stato un bel po’ di tempo fa. Avevamo… quanti anni, diciannove?
- Tu ne avevi diciannove. Io solo diciotto. – disse Robin – Era il sabato prima della convention democratica. Ventiquattro agosto del ’68. – Robin annuì, persa nel ricordo – Il Lincoln Park…
- Migliaia di persone, – disse Skip – ma io ti ho notata subito. Oh, ma guarda un po’, c’è una bella furetta dell’Università del Michigan. Portavi una canottiera, tenevi alto un cartello con la scritta “ESERCITO DI MERDA”, e lo sventolavi in faccia agli sbirri. Io continuavo a guardarti, ti si vedevano i capezzoli, e avevi capelli lunghi fino al culo. Mi sono detto: questa devo proprio conoscerla.
- Anche i tuoi capelli erano più lunghi – disse Robin – Gli sbirri cercavano di afferrarli, per bloccarti. Siamo riusciti a scappare, e io te li ho legati in una coda.
- Perché, credi che non mi ricordo? – disse Skip toccandosi la nuca – Mica li porto così, di solito, ma questa era un’occasione speciale.
- Ti riconoscerei ovunque – disse Robin – Te la ricordi la prima volta? Nella macchina di quel tale?
- Come no, con gli sbirri che si son messi a picchiarci sopra. – Skip sorrise – Un’intera squadra di sbirri coi caschi blu. Io alzo lo sguardo e vedo ‘ste facce da suini, uno picchia sul finestrino e mi domanda: “Che stai facendo lì dentro?”, e io: “Perché, non si vede? Sto trombando!”, e in quel momento cominciano a prendere a calci la fiancata, poi arriva il proprietario e non ci può credere: “Ehi! Che cazzo state facendo alla mia macchina?!”, poi si butta contro gli sbirri e quelli lo manganellano a sangue e lo buttano sul cellulare. – Skip si strofinò un occhio col dorso della mano – Se ci penso, piango ancora dal ridere.
- E l’ultima volta che siamo stati qui, te la ricordi? – chiese Robin.
Riapparve il cameriere con il drink e la bottiglia di vino. La aprì e ne versò un poco nel bicchiere di Skip, per l’assaggio. Robin guardò Skip tenere il sorso in bocca, lui le fece l’occhiolino, e per un attimo lei pensò che avrebbe sputato e messo in piedi una scenata col cameriere. Skip adorava le scenate. Invece mandò giù e le fece un sorriso.
- Nah, figurati se davo di matto, quello è un cameriere vero, c’ha pure lo smoking, facile che fa ‘sto lavoro da tutta la vita.
Robin ritentò, con pazienza: – Ti ricordi l’ultima volta che siamo venuti qui a cena?
Skip dovette pensarci un momento. Robin lo vide guardarsi intorno, in cerca di un appiglio per la memoria. – Dunque, ci hanno arrestati nel ’78… Non è stato dopo che ci hanno riportati…
- No, infatti, è stato prima. Prima della clandestinità.
- Cazzo, un bel po’ di tempo fa.
- Siamo venuti qui il quindici dicembre del ’71. – disse Robin – Una settimana dopo il ritorno da New York. – Aspettò ancora mentre Skip aggrottava la fronte e si concentrava – Eravamo andati a New York per quell’iniziativa contro la guerra.
Skip si riscosse: – Ah, già, in quella grande cattedrale.
- St. John the Divine – disse Robin – Tu stavi alla porta a vendere i biglietti e te la sei svignata con quasi novecento dollari.
- Anche di più.
- Mi avevi detto quasi novecento.
- Era il Comitato Popolare per questo e quell’altro, vatti a ricordare.
- Comitato Popolare per la Pace e la Giustizia.
- Esatto. C’erano tutte quelle celebrità, ognuno a fare il suo discorsetto. Era una pallazza mortale e non accennava a finire, per questo ho deciso di fotterli.
- Però quando siamo venuti qui a cena, eri già in bolletta.
- Avevo comprato una tonnellata di acido e qualche chilo di streppa.
- Ricordo che mi hai detto: “Conviene mangiare rapidi e alzare i tacchi”, e io ti ho risposto: “Potresti fare una colletta ai tavoli”.
Skip riprese a guardarsi intorno: – Merda, è vero. Mi ricordo anch’io adesso.
Robin lo vide fissare lo sguardo su tre musicisti che vagavano per il ristorante. Bassi e tarchiati, con gilet rossi. Due con la chitarra, uno col contrabbasso. Cantavano The Shadow of Your Smile attorno a un tavolo di gente che cercava di ignorarli.
- Ho vuotato il cesto del pane e tu lo hai usato per fare colletta, – disse Robin, riattirando l’attenzione di Skip – Sei andato davvero da un tavolo all’altro.
Skip sorrideva: – Sì, c’era una coppia, gli faccio: “Domando scusa, non è che mi mettereste qualcosa nel cestino?”. Il tizio capisce che ho finito il pane e mi dice di rivolgermi al cameriere ché me ne porta lui dell’altro. Volevo morire.
- Lo sai che ti è tornato l’accento da campagnolo dell’Indiana? – disse Robin – E’ più marcato di una volta.
- Eh, a forza di girare con quei due stuntmen texani. Casinari, ma bravi. Prima che il signor Mario mi dicesse di tornare al mio tavolo, ho tirato su cinquanta o sessanta dollari.
- Trentasette – lo corresse Robin – E la cena, drink inclusi, ci è costata trentadue e cinquanta. Potevi pure lasciare la mancia, ma mi sa che non l’hai fatto.
- Non è possibile, ti ricordi la cifra esatta?
- Dopo che abbiamo parlato al telefono ho controllato sul mio taccuino. Trentadue e cinquanta.
- Ah, è vero, i tuoi taccuini. Ne hai riempiti un bel po’, a forza di scrivere quella rubrica.
- Sopra c’è tutto quello che abbiamo fatto, – disse Robin – dall’estate del ’68 a Chicago al giugno del ’72 quando ci hanno arrestati e siamo scappati. Ci sono anche i nomi di ogni persona che abbiamo frequentato, compreso chi ci ha smollati.
- Mi è sempre piaciuta la tua roba, faceva ghignare. Scrivi ancora?
- Per i primi due anni ho scritto le “Note dalla clandestinità”, le diffondeva il Liberation News Service. Dopo la galera ho scritto quattro romanzi d’amore. Mai sentito parlare di Nicole Robinette? Fuoco di smeraldo? Fuoco di diamante?
- No, mi pare di no.
- Beh, Nicole Robinette sono io.
- Perché non scrivi la tua, di storia? Sarebbe più eccitante.
- Ho un’idea migliore – disse Robin.
Attese la reazione di Skip, lo guardò prendere la vodka, berla quasi tutta e scuotere il ghiaccio nel bicchiere. Era lì, ma non ascoltava ogni parola. In mezzo alla barba era comparso un sorrisetto.
- Cazzo, ci siamo divertiti, eh? Sex & drugs & rock’n'roll. Il vecchio Mao e Carlo Marx ci hanno provato a starci dietro, ma non avevano speranze contro Jimi Hendrix, i Doors, i Grateful Dead, Janis, Big Brother & the Holding Company… Per non parlare della mia band preferita, lo sai qual era: gli MC5. Cazzo, gli MC5. Quelli erano veri fuorilegge.
Robin sentì il trio di suonatori finire Don’t Cry for Me, Argentina. – E i viaggi con la dinamite? Eri fattissimo, in quelle sere.
- Dovevo esserlo, con la macchina piena di esplosivi. La prima volta, quando tornavamo da Yale, Michigan… Sulla M19, due corsie. Vedevo la strada che spariva e riappariva, come se si aprisse una voragine di fronte alla macchina, e pensavo: “Merda, stiamo per morire”, però poi mi ricordavo che era un trip e brancavo il volante che pareva mi scoppiassero le nocche. Però ti dico: mai fatto un brutto trip in vita mia, mai con l’acido. Gli unici brutti trip che mi ricordo erano quando non ero in trip. Svegliarsi in una cella piena di cazzoni che si salutano con le dita a V, quello è un brutto trip.
E Robin: – Anche quando sei entrato qui, prima, mi sembravi un po’ in là.
- Giusto un poco. Dopo il lavoro, solo una canna e un po’ di birra. Mi piace ancora l’acido, ma non sempre ne trovo. Ogni tanto, quando sono a L.A., rimedio un po’ di blotter. Non è male, ma una buona purple Owsley, o un po’ di gelatina di quella di una volta, ti mettono in contatto coi tuoi antenati. Adesso per strada vogliono venderti solo crack e merda del genere, che ti fotte il cervello. Invece l’acido ti fa bene, basta che non esageri, sennò ti strini i neuroni. E’ tipo un lassativo per il cervello, ti rilassa e intanto spurga la testa.
Robin bevve un sorso di vino. – Me ne è rimasto un po’ – disse, e vide il sorriso di Skip erompere dalla barba, e gli occhi azzurri mandare un lampo.
- Sai, io soffro di claustrofobia. Paura di non poter andare fuori.
- Casa mia è dietro l’angolo.
- Troppo bello per essere vero. Di che tipo è?
- Blotter. C’è un piccolo “1″ stampato sopra.
- Merda. E io che devo tornare al lavoro. Fanno le riprese in notturna.
- Beh, quando lo vuoi, è lì. – disse Robin.
Skip la guardò divertito: – Mi stai lanciando l’esca, non è così? Hai in mente qualche trucco e ti serve l’aiuto del vecchio Skip.
Robin gli concesse il solito sorriso vago.
Quando arrivarono i suonatori in gilet rosso, decise di star zitta e lasciar fare a Skip. Lo vide fissare il capo mentre quello chiedeva, con accento italiano, come stavano il signore e la signora e se avevano una richiesta particolare. Vide l’espressione spensierata di Skip mentre chiedeva: – Ragazzi, ve la ricordate una band di queste parti che si chiamava MC5? – L’italiano si sforzò. MC5? Non ne era sicuro. Che canzoni avevano fatto? E Skip, coi suoi occhi chiari e innocenti: – La più famosa si chiamava Kick Out the Jams, Motherfuckers. La conoscete? – E Robin pensò: dìo, quanto mi sei mancato.
***
Avete appena letto il cap. 2 di: Elmore Leonard, Freaky Deaky, 1988. Ed. it. Einaudi Stile Libero, 2007, traduzione di Wu Ming 1.
TRADURRE ELMORE LEONARD – di Wu Ming 1 (2003)
POSTFAZIONE A MR. PARADISE - di Wu Ming 1 (2004)
SE SUONA “SCRITTO”, LO RISCRIVO. LA SFIDA DI ELMORE LEONARD AI TRADUTTORI ITALIANI – di Wu Ming 1 (2006)
COME TRADURRE ELMORE LEONARD
COME TRADURRE ELMORE LEONARD
Intervento telefonico di Wu Ming 1 all’incontro su Elmore Leonard organizzato a Cagliari dal circolo “Mieleamaro”, nell’ambito del ciclo “Un mercoledì da lettori”, 3 marzo 2010, ristorante Manàmanà.
Mp3 160k, 5 mega, 5:43 min.
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August 16, 2013
Zombi 2, Revisited (ITA, 2013, 15’ circa)
Trailer
Un film saggio che parla dell’eredità del colonialismo, di resistenza, di Lega Nord, di zombi, e della coincidenza per cui Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci è uscito proprio quando sono iniziati i primi studi critici sul colonialismo e l’Italia è diventata una delle destinazioni dell’immigrazione africana.
Regia, sceneggiatura e montaggio: Simone Brioni. Soggetto: Fabio Camilletti. Correzione colore: Jennifer Burns, Fabio Camilletti e Giulio Giusti. Assistente al montaggio: James Graham Ballard. Fotografia: Ermanno Guida. Suono: Katherine Louise Clyne. Assistenti di post-produzione: Lidia Mangiavini e Cecilia Brioni. Produzione: Wu Ming 2 e Institute of Advanced Studies, University of Warwick.
Scena 1
Una fotografia, scattata in Etiopia negli anni Trenta, tenuta in una mano. Ritrae alcune donne che salutano romanamente la camera. I loro volti non si distinguono con precisione, ma è certo che hanno la pelle nera. Nell’altra mano il telecomando. Premo il tasto ‘play’ del lettore DVD. Apocalypse Now. Menù. Seleziona scena. Play. Marlon Brando, in chiaroscuro. Parla sottovoce, con la voce spezzata. “L’orrore. L’orrore”.
Come il saggio The Gothic, Postcolonialism and Otherness: Ghosts from Elsewhere di Tabish Khair dimostra brillantemente, buona parte dell’immaginario gotico della letteratura occidentale è abbinato, sin dalle origini, alle colonie e ai loro abitanti. I mostri avevano una pelle diversa e provenivano da posti sconosciuti e ostili. Questa rappresentazione serviva a “giustificare” la conquista di mezzo mondo da parte delle potenze occidentali, con la scusa di civilizzare i barbari, di redimerli dalla loro condizione di mostri per restituirli al genere umano. In altri termini, potremmo dire che l’orrore di cui Kurtz parla al termine di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, non si riferisce solamente alle atrocità del colonialismo occidentale in Africa, ma evoca un intero immaginario, costruito sulla paura di un’alterità minacciosa, che ha caratterizzato la conquista europea del resto del mondo e la cui eredità è ancora percepibile. Questo aspetto lo esprime bene Frantz Fanon nelle prime pagine de I dannati della terra, quando afferma che non è tanto la dominazione e lo sfruttamento dei colonizzatori, quanto l’interiorizzazione di stereotipi discriminatori a rendere i colonizzati simili a zombi.
Scena 2
Si sente l’Internazionale in sottofondo. Gli zombi sono tanti, hanno fame. Vederli tutti insieme fa pensare a Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, se non fosse per la loro pelle scura. Ma non siamo in Italia, siamo ad Haiti. Fa parte delle convenzioni del genere.
Il riferimento di Fanon agli zombi merita di essere approfondito. Nella tradizione cinematografica gli zombi sono, com’è noto, cadaveri che resuscitano, hanno poteri soprannaturali e un’attitudine ostile nei confronti dei vivi. Hanno fame, non parlano, si muovono in massa, e come ne La lunga notte dell’orrore di John Gilling (1966) si rivoltano contro un padrone malvagio. Non è quindi un caso che spesso essi siano stati identificati con la classe operaia.
Ma per capire come mai Fanon si riferisca agli zombi per parlare dei soggetti colonizzati, occorre risalire alle origini haitiane di questo mostro, riferendosi al primo film del genere: Zombi bianco di Victor Halperin (1932). Perchè gli zombi in questo film risorgono proprio su quest’isola caraibica? Una prima risposta a questa domanda è certamente che Haiti fu destinazione della tratta degli schiavi africani verso il nuovo continente. Le carni scure degli zombi e il loro incedere lento, non possono che ricordare la condizione di questi schiavi. Una seconda risposta, è legata alle relazioni coloniali tra Haiti e gli Stati Uniti, protrattesi dal 1915 al 1934. Zombi bianco fa irrompere ad Hollywood mostri che provengono da Haiti, dà voce alla paura che i colonizzati si possano ribellare contro i colonizzatori statunitensi.
Scena 3
Walking Dead. Serie 1. Episodio 1. Siamo negli Stati Uniti. Arriva uno sceriffo a cavallo in città. Potrebbe essere un film western. Ma non lo è. Lo sceriffo viene attaccato dagli zombi. Si rifugia all’interno di un carro armato. Sembra non avere scampo. Poi viene salvato da un ragazzo asiatico, che assomiglia a Data dei Goonies.
La paura che i colonizzati si ribellino contro i colonizzatori è rintracciabile a tutt’oggi nel genere statunitense dello zombi movie. L’esempio più recente è forse il primo episodio della prima serie di Walking Dead di Frank Darabont. Dopo essersi risvegliato dal coma ed aver scoperto che è esplosa una misteriosa epidemia negli Stati Uniti, lo sceriffo Rick Grimes si muove verso Atlanta a cavallo a in cerca della sua famiglia. Una volta raggiunta la città Rick viene attaccato da un nugolo di zombi, che lo costringe a trovare rifugio in un carroarmato. Questa scena unisce a mio parere due immagini strettamente legate all’immaginario “coloniale” statunitense. In primo luogo, la cavalleria utilizzata durante le guerre per la conquista del West contro gli indiani-americani, che in questo caso non esce vittoriosa dal confronto ma sconfitta. In secondo luogo, il carro armato assediato dagli zombi evoca le operazioni militari condotte dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. La rappresentazione degli zombi, del resto, non differisce di molto dall’immagine dei musulmani offerta dai media internazionali dopo l’undici settembre: una torma di soggetti sub-umani, senza volto né voce, animati da istinti violenti e irrazionali.
Questo non è il solo riferimento alla “rivolta dei colonizzati” o alla resurrezione del colonialismo nella serie. Nel quarto e nel quinto episodio della seconda serie, Daryl Dixon evoca il massacro degli indiani-americani prima che gli zombi confinino gli umani all’interno di una vera e propria riserva. Nel quinto episodio della seconda serie Shawn Green dice che i bombardamenti dell’esercito americano su Atlanta per eliminare gli zombi ricordano le esplosioni di napalm in Vietnam.
Scena 4
Riassunto di Zombi 2. Una nave arriva nel porto di New York. A bordo c’è uno zombi, il cui arrivo propagherà l’apocalisse. Ma non lo sappiamo ancora. Un giornalista, Peter West, e la figlia del proprietario della barca, Anne Bowles, decidono – o meglio, lui decide, lei lo segue – di investigare sul caso e ritrovare il padre della ragazza. Vengono aiutati a raggiungere l’isola da due turisti statunitensi, Brian e Susan. A Matul scoprono che i morti si rianimano e attaccano i vivi. Un dottore, David Menard, cerca di fermare l’epidemia. Non ci riesce, sua moglie Paula viene uccisa, e la situazione precipita rapidamente. Non ci sono superstiti. New York è invasa dagli zombi.
Ricapitoliamo. Gli zombi si muovono da una periferia colonizzata verso un centro (spesso gli Stati Uniti), sono neri, hanno fame, si muovono in gruppo, e resuscitano la memoria di eventi violenti accaduti nel passato. Sono esseri liminali, divisi tra la vita e la morte, tra il passato (un passato coloniale, o comunque in cui la discriminazione razziale sembra occupare un ruolo importante) e il presente. Queste sono, a grandi linee e non senza generalizzazioni, alcune delle caratteristiche del genere.
Seguendo queste coordinate, proviamo ora ad analizzare un film italiano del 1979, Zombi 2 di Lucio Fulci. Questo film riporta in luce alcuni stereotipi legati alla rappresentazione dell’altro come mostro che ha caratterizzato il colonialismo occidentale. In primo luogo, gli zombi hanno la pelle scura e provengono da un’isola caraibica chiamata Matul, mentre i vivi sono bianchi, borghesi, statunitensi. Fulci sottolinea le caratteristiche raccapriccianti degli zombi, per esempio facendo soffermare la telecamera sui vermi che escono dai loro corpi. In una scena significativa uno zombi lotta contro uno squalo e lo uccide, mettendo in luce un’altra caratteristica spesso associata ai colonizzati, vale a dire la loro forza bruta, animalesca. In un’altra scena gli zombi sono rappresentati come cannibali che banchettano sul corpo di un personaggio femminile. Il riferimento al colonialismo è inoltre evidente nell’attacco finale degli zombi, quando i vivi si rifugiano in una chiesa missionaria, uno dei simboli della colonizzazione occidentale del resto del mondo.
Sarebbe però ingeneroso ridurre l’intero film alla rappresentazione dicotomica tra zombi/colonizzati/neri e vivi/bianchi. Per esempio, una delle vittime degli zombi, Susan, è meticcia, e risorgono anche i corpi dei conquistadores nel cimitero spagnolo. Il riferimento ad un immaginario coloniale va inteso a mio parere in senso più ampio, come la paura di un passato con cui non si è fatto i conti e che incombe sul presente.
Scena 5
Un soldato italiano che stringe a sé una ragazza etiope, nuda. Voce di sottofondo. Discorso di Benito Mussolini a Trieste il 19 Settembre 1938: “Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime.”
Alcuni riferimenti al passato coloniale in Zombi 2 risultano più chiari in relazione alle leggi fasciste contro le unioni interrazziali del 1937 e le leggi razziali del 1938, che portarono, com’è ormai noto, all’apartheid tra bianchi e neri nelle colonie. Per esempio, l’idea che i colonizzati siano contagiosi, la si ritrova già in Tempo di Uccidere di Ennio Flaiano (1948), uno dei pochi testi a denunciare i crimini italiani in Africa, benché sia influenzato da una retorica e da un immaginario appartenenti ad un periodo precedente. In questo romanzo è presente una donna etiope, spesso descritta come più simile ad un animale che ad un essere umano. Come Giovanna Tomasello nota in L’Africa tra mito e realtà. Storia della letteratura coloniale italiana (2004), questa donna porta un turbante bianco, a significare il fatto che fosse affetta da una malattia. La frequente rappresentazione delle donne africane come contagiose è un lascito delle politiche sulla purezza della razza promosse durante il fascismo.
La paura delle unioni interraziali è inoltre evidente in una scena del film, in cui viene descritta l’aggressione di uno zombi ad una donna bianca, Paula. La camera segue lo zombi alle spalle, mentre guarda la donna, nuda sotto la doccia. Lo zombi cerca quindi di entrare nel bagno e uccide Paula perforandole l’occhio con un’enorme scheggia. La scena è una metafora non troppo sottile di uno stupro ed evoca la minaccia sessuale dei soggetti colonizzati e la paura delle unioni interraziali. Questa paura è inoltre evidende nella causa della resurrezione degli zombi, i riti vudù, che il dottor Menard definisce come il risultato di una mescolanza tra animismo e cristianesimo. Questi elementi sembrano sottolineare un preciso sottotesto del film: la combinazione tra culture e razze diverse può essere pericolosa, perchè può distruggere l’ordine costituito.
Scena 6
Nemesi. L’Africa nella letteratura coloniale è spesso identificata con una donna. La penetrazione dell’occhio della donna in Zombi 2 rappresenta la vendetta dei colonizzati verso i loro antichi padroni, che sono penetrati nella selvaggia Africa, possedendola.
Da dove nasce la paura di Zombi 2? Nasce dalla perdita di un privilegio che esiste nella società che gli zombi verrebbero a distruggere, per portare ad uno stato di caos ulteriore. Un privilegio di genere, anzitutto. Le donne sono rappresentate nel film come oggetto di uno sguardo voyeristico, o come vittime di violenza. Anne segue le istruzioni di Peter ed è “naturalmente” attratta da lui. Paula è schiaffeggiata violentemente dal marito, che cerca di trovare una soluzione alla resurrezione dei morti. Il ruolo delle donne nel film è secondario e riflette i valori dei loro compagni maschi.
Il privilegio è inoltre esercitato in termini di razza. A Matul, il dottor Menard ha un servitore, Lucas, che non fa altro che obbedire ai suoi ordini. Lucas è superstizioso ed il suo ruolo non è altro che quello di esistere in opposizione a Menard, paladino sconfitto della ragione occidentale. A New York, la situazione non è affatto diversa. In una delle prime scene del film un medico rimprovera con veemenza il lavoro del proprio aiutante africano-americano. Anche la scelta di uomini bianchi come ultimi superstiti del genere umano è problematica (rimando, per uleriori approfondimenti a riguardo, a un bel saggio di Franco Moretti intitolato “La dialettica della paura”), in quanto esclude le minoranze dalla possibilità di poter rappresentare la specie nella lotta contro il mostro. Infine, il privilegio è esercitato grazie alla scelta di utilizzare la nudità e la violenza – il film di Fulci è uno dei primi film splatter – non per far riflettere il proprio pubblico ma per stimolarne gli istinti più immediati come, per l’appunto, la paura. Questa paura in realtà sembra voler mantenere l’ordine costituito così com’è, benché sia (o forse proprio perché lo è?) sessista e razzista.
Scena 7
Estratto da Cabiria. Maciste, l’imbattibile gigante, è incatenato e costretto a girare una macina come animale da soma. Maciste è africano, ma usa la sua forza a servizio dei romani contro i cartaginesi, come gli ascari nelle campagne di Libia e d’Etiopia.
Per continuare questa analisi è importante specificare una cosa. Zombi 2 è un film di genere, e come tale risponde a precisi stilemi e regole. L’ambientazione americana è senz’altro una di queste. Tuttavia se prendiamo seriamente i punti sollevati nella quinta scena del nostro film saggio, non possiamo che interrogarci sul perché il film di Fulci sia stato prodotto ed abbia avuto insperato successo in Italia, e se esista un legame con le circostanze storiche e sociali in cui è stato realizzato.
Verso la fine degli anni settanta avvengono due fatti in Italia che scuotono l’intorpidita coscienza collettiva, e la sua amnesia sul periodo coloniale. In primo luogo, iniziano a diffondersi i primi studi critici sul colonialismo italiano per opera di Angelo Del Boca e altri storici. Questi studi portano in luce una storia di crimini efferati, di sterminio di civili con gas tossici, di campi di concentramento (rimando a un interessante sito a proposito: http://www.campifascisti.it/mappe.php). Il risultato di questi studi non ha finora permeato la società italiana (e sembra confermarlo il mausoleo di Affile in provincia di Roma a Rodolfo Graziani, uno dei peggiori criminali della seconda guerra mondiale, a cui Wu Ming 1 ha dedicato un prezioso articolo), eppure è innegabile che abbia riportato alla luce la memoria di un periodo cruciale nella costruzione dell’identità nazionale italiana.
Il colonialismo infatti va di pari passo con l’unificazione del paese, dato che la prima acquisizione commerciale da parte della compagnia Rubattino sul porto di Massaua in Eritrea, risale al 1869, solo otto anni dopo l’unificazione. Il colonialismo fu fondamentale per unire una giovane nazione contro un nemico comune, e a trasformare gli italiani in un popolo di “bianchi”, cosa che fino ad allora non era affatto scontata. Sono molti gli esempi che si potrebbero portare per dimostrare l’importanza del colonialismo nella costruzione del carattere nazionale (da dove viene il caffè che beviamo, uno dei simboli dell’“Italianità”?). Mi limito solo a segnalare che il primo lungometraggio italiano, Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, fu realizzato per celebrare la vittoria italiana durante la guerra italo-turca del 1911 che diede inizio all’avventura coloniale italiana in Libia.
Non sorprende quindi che sia proprio un film a riportare in vita questo rimosso storico. E non uso la parola “rimosso” senza una ragione, evocando un’analisi psicoanalitica: il colonialismo è stato rimosso in seguito ad un trauma, vale a dire le sconfitte italiane di Adua (1896) e Dogali (1887). Secondo Fabio Camilletti, è anche alla luce di queste sconfitte, che è possibile spiegare la nevrosi, tipicamente italiana, a voler “far vedere” ciò di cui si è capaci, a voler dimostrare di essere una grande potenza europea, di non essere secondi a nessuno, e al tempo stesso difendersi con il catenaccio quando si gioca a calcio.
In un articolo di tutt’altra natura (intitolato Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze), Camilletti offre invece un’indicazione importante per comprendere il motivo per cui quel trauma e quel rimosso si siano esplicitati proprio in un film dell’orrore. Lo studioso sostiene che il proliferare di storie dell’orrore anticipò e diede una forma fittizia alle ansie che in quel momento serpeggiavano in Europa e sarebbero state portate alla luce qualche anno più tardi dalla psicoanalisi. Similmente, si protrebbe dire che Zombi 2 è uno degli espedienti attraverso il quale si esplicita la relazione perturbante dell’Italia rispetto al suo passato coloniale, un trauma ancora insanato, che gli studi storici coevi riportano in luce proprio negli stessi anni.
Scena 8
Immagini che si susseguono velocemente, una dopo l’altra. La nave all’ inizio di Zombi 2, che porta l’apocalisse a New York. L’arrivo della nave fantasma nel porto di Wisborg, con a bordo topi pestiferi in Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922) di Wilhelm Murnau. Le immagini di navi e barconi cariche di immigrati, sui manifesti della Lega Nord.
C’è un altro fatto che riporta alla luce la memoria coloniale italiana e un precedente incontro con l’“altro africano”, vale a dire l’inizio dell’immigrazione africana in Italia che raggiunge numeri significativi proprio dalla fine degli anni settanta. Siamo in un periodo che precede l’arrivo dei barconi che verranno utilizzati nei manifesti della Lega Nord per seminare la paura dell’invasione degli immigrati. Eppure è significativo che Zombi 2 si apra proprio con una nave che entra nel porto di New York. Questa scena sembra essere un riferimento al capolavoro di Wilhelm Murnau, Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922). Siegfried Kracauer, autore di un testo fondamentale sull’espressionismo tedesco Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, parla di questa scena come di una rappresentazione metaforica dei sentimenti anti-semiti della Germania degli anni ’30. In Nosferatu, lo “spirito tedesco” è assediato da “presenze minacciose” che arrivano dall’esterno, su una nave fantasma. Kracauer sostiene che non sia un caso se un anno dopo sarebbe avvenuto il putsch di Monaco. Similmente, la nave che porta l’infezione zombi a New York potrebbe essere vista come il barometro delle inquietudini dell’Italia di quegli anni verso l’immigrazione.
Scena 9
Di nuovo, si sovrappongono due immagini. Da un lato il poster di Zombi 2, con i mostri che invadono New York. Dall’altro gli immigrati invadono l’Italia. Li vediamo procedere lentamente alle loro spalle. Non hanno volto, né identità. L’apocalisse è inevitabile.
Zombi 2 attinge da un immaginario coloniale per rappresentare la paura che i colonizzati si ribellino ai loro padroni di un tempo, invadendoli. La paura di questa invasione è chiaramente rappresentata in uno dei poster del film, che assomiglia in maniera impressionante a uno dei manifesti della Lega Lombarda della fine degli anni ottanta. Non so se chi abbia realizzato questo poster si sia ispirato ai film dell’orrore, come sembrerebbe, né m’interessa saperlo. È importante tuttavia sottolineare che entrambi i manifesti invitano a ricercare le cause dell’inquietudine all’esterno (nell’immigrazione) e non all’interno (nella storia coloniale) dell’Italia.
Scena 10
Una massa di uomini e donne affamati, con i vestiti strappati e le carni scure si avvicina lentamente. La protagonista assomiglia a Renata Polverini, e guarda terrorizzata il sindaco di Affile, che sta al suo fianco. Entrambi se la danno a gambe, ma non hanno scampo. Gli zombi li divorano, lacerandogli le carni.
Varrebbe invece la pena ritrovare le cause di questa inquietudine nell’inconscio nazionale, nel fatto che l’Italia non abbia fatto i conti con il suo passato. L’esempio più recente (e forse il più agghiacciante) di mancata decolonizzazione della memoria è il mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, il macellaio di Fezzan, ad Affile. Penso che in Germania non si potrebbe erigere oggi un monumento a Goebbels, solo perché (e cito dal sito del comune di Affile) “figura tra le più amate e più criticate, a torto o a ragione, fu tra i maggiori protagonisti dei burrascosi eventi che caratterizzarono quasi mezzo secolo della storia [tedesca]”. In Italia invece è stato possibile (lo ammetto, ho scelto il paragone con la Germania per dare ulteriore esempio di quella nevrosi tutta italiana di voler dimostrare di essere come le altre nazioni europee, a cui accennavo prima). Un altro modo per non fare i conti con il passato è invece quello di rimuoverne i simboli, senza alcuna discussione pubblica. Nel 2010 il governo Berlusconi restituì tra le polemiche la stele di Axum all’Etiopia riuscendo a vendere l’operazione come un’opera di valorizzazione dell’identità di quel paese invece di una restituzione dovuta di un bottino di guerra. Come sostiene Antonio Morone, il fatto che l’Italia abbia preso parte attiva alla guerra in Libia nel 2011 bombardando una sua ex-colonia senza che questo intervento militare fosse “oggetto di discussione nelle diverse sedi istituzionale né tanto meno nelle piazze italiane”, mostra ancora una volta come il risultato degli studi storici realizzati finora riguardo alla storia coloniale italiana “non si sia riversato in un comune sentire degli italiani” (http://www.linkiesta.it/bombe-italian...).
Un film saggio però deve indicare anche strade per il futuro, possibili modi per fare i conti con la memoria. Crogiolarsi nella denuncia dei modi in cui non si sono fatti i conti con il passato coloniale è un interessante quanto inutile autocompiacimento. Come ricorda Wu Ming 2, negli ultimi vent’anni sono state prodotte una serie di opere scritte sia da italiani sia da immigrati provenienti dalle ex-colonie, che hanno contestato la visione unilaterale della storia che ci è stata presentata finora, mettendo in discussione il mito degli “italiani brava gente” (http://www.dinamopress.it/news/la-gue...). Queste opere sono cruciali per rendere partecipe la società italiana di una pagina di storia colpevolmente dimenticata.
Per quanto mi riguarda, negli scorsi tre anni ho coordinato un gruppo di lavoro che ha cercato di squarciare un velo di silenzio sul nostro colonialismo realizzando due documentari, intitolati La quarta via. Mogadiscio, Pavia e Aulò. Roma post-coloniale (entrambi distribuiti da un editore indipendente di Roma, la Kimerafilm). Queste due opere, che hanno per protagoniste le scrittrici Kaha Mohamed Aden e Ribka Sibhatu, parlano del colonialismo italiano rispettivamente in Somalia e in Eritrea all’interno dello spazio urbano di Pavia e di Roma, cercando di de-zombificare queste città, di de-colonizzarne finalmente la memoria.
Epilogo
Simone Brioni è Visiting Fellow presso l’institute of Germanic and Romance Studies, Univeristy of London. Si occupa della rappresentazione letteraria e cinematografica del colonialismo e delle migrazioni in Italia.
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August 14, 2013
Sinistra è riconoscere il conflitto. Sulla nostra intervista a «Repubblica»
Molti se ne saranno già accorti, ma lo segnaliamo ai distratti: in homepage su repubblica.it c’è un’intervista a WM1 e WM4 realizzata da Michele Smargiassi a Bologna un paio di mesi fa*. Argomento: cosa vuol dire “sinistra” oggi.
In giro per la rete se ne sta discutendo molto, su Twitter c’è una girandola di commenti e virgolettati.
I commenti sul sito di Repubblica sono prevedibilissimi e di basso profilo:
c’è il piddino di Bologna incazzato per i nostri attacchi alla giunta (e per il referendum sulle scuole cattoliche) che scrive “questi a Bologna fanno solo danni”;
c’è il travaglista incazzato che ritira in ballo la questione Einaudi**;
c’è l’”emme-elle” incazzato perché abbiamo preso le distanze da Pol Pot e non abbiamo detto la nostra su Lenin, Stalin e Mao;
c’è quello che dice “mentre voi parlate dei massimi sistemi Berlusconi vince”, e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello il sospetto che “Berlusconi vince” perché ben rappresenta un Paese “tarato sul minimo”, con una “sinistra” che non pensa mai in modo sistemico;
c’è il classicissimo “andate a lavorare!” (scritto da qualcuno che sicuramente in quel momento sta lavorando!);
notevole quello che scrive: “questi c’avranno tipo 20 anni e hanno gia’ le idee chiare su qualunque cosa?” (Grazie, alcuni di noi vanno per i 50!);
infine c’è la cazzata che viene scritta sempre, quella da ignoranti italiettocentrici: “In fondo gli Indignados spagnoli cos’hanno combinato, dove sono finiti? Non se ne sente più parlare.”
Prima o poi chiederemo a qualcuno che segue da vicino la situazione spagnola di fare un post per Giap che descriva per filo e per segno le evoluzioni e ramificazioni che ha avuto e sta avendo il movimento “15 de Mayo”: le lotte nate con la mobilitazione di due anni fa e proseguite in tutto il Paese, gli escraches a politici e industriali, i picchetti di massa contro sfratti e confische di case, gli scioperi autoconvocati, la resistenza organizzata contro le retate di migranti… E’ senz’altro una situazione con limiti e difetti, ma è viva, è mobile e conflittuale.
Se uno legge solo la stampa italiana, ripiegata sul nostrano politicismo e sul “Non C’è Alternativa” alle Basse Intese, è normale che di tutto questo non sappia nulla.
Vabbe’, al di là dei commenti, leggete l’intervista, poi fateci sapere.
* Se interessa, ecco la registrazione della chiacchierata:
la registrazione della chiacchierata
Smargiassi intervista WM1 e WM4 all’XM24, 09/07/2013
Dura 42 minuti. Conversazione a tratti caotica, con il compagno Willie Tattoo (hasta siempre nostro candidato sindaco!) che ci girava attorno in bicicletta. Smargiassi ha fatto un ottimo lavoro di “ripulitura” e connessione delle parti disgiunte. Ha anche infilato un riferimento a #Tifiamoasteroide :-)
**qui l’ultima volta che abbiamo detto la nostra al riguardo:
WM1 su Radio Città del Capo, 09/09/2010, 5’34″
WM1 sulla questione Einaudi, Radio Città del Capo, 09/09/2010, 5’34″
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August 10, 2013
Scarica #Tifiamoasteroide. Cento racconti per annientare il governo Letta
Ci sono voluti due mesi (l’appello è datato 6 giugno). Non è stato facile gestire l’abnorme mole di materiali ricevuti, a riprova che questo governo è molto apprezzato. Non è stato facile, ma alla fine eccola qui: Tifiamo asteroide, l’antologia di racconti che annichilisce il governo Letta e le sue basse intese, e lo fa non una volta, ma cento volte, cento volte cento, cento volte cento volte cento!
A cura di Mauro Vanetti.
Da un’idea di Alberto Biraghi.
Postilla di Wu Ming.
Editing e revisione a cura di Simona Ardito, Roberto Gastaldo, Natale aka VecioBaeordo, Mauro Vanetti e Alessandro Villari.
Copertina di Luigi Farrauto.
Progetto grafico e impaginazione di Simona Ardito
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in PDF e in ePub
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[L'ePub ha ancora qualche sbavatura, ma le Perseidi non attendono. Lo sistemeremo nei prossimi giorni. Aggiungeremo anche il formato mobi/Kindle.]
Proponiamo qui la nota/prefazione scritta da Mauro Vanetti.
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NOTA DEL CURATORE
A metà mattina ho sentito il telefonino vibrare: era qualcuno che mi menzionava su Twitter. Ero impegnato e non ci ho badato. Sono andato a controllare pochi minuti dopo ed erano i Wu Ming.
Due anni fa li avevo conosciuti di persona, così: «Ma sei a Bologna? Allora stiamo facendo un chiasmo perché noi invece siamo a Pavia».
Un chiasmo. Miracolo che ricordassi dal liceo, per giunta scientifico, che diamine fosse un chiasmo.
Avevo proposto un caffè per l’indomani a Pavia, loro in partenza per tornare a Bologna e io appena rientrato nella mia città. In effetti mi avevano poi chiamato per far colazione: «Ciao, siamo i Wu Ming».
Questo è per dire che sono dei tipi che a volte saltano dei passaggi.
Su Twitter avevano scritto che nominavano «ufficialmente e a sua insaputa» me curatore di una raccolta di racconti che era stata appena immaginata. Ero perplesso ma lusingato. L’hashtag che stavano utilizzando era #TifiamoAsteroide. L’idea, che veniva fuori dal cazzeggio antigovernativo sui social network di Alberto Biraghi, era abbastanza essenziale: un ebook, scaricabile gratuitamente dal celebre sito dei Wu Ming, Giap, fatto di un gran numero di racconti tutti con lo stesso finale. Il finale era semplice ed efficace: un grande meteorite, forse addirittura un asteroide, colpisce e annienta il governo Letta.
Lo dico per i posteri: il Letta i era un’aberrante formula di governo concepita nella primavera 2013 e basata sulla collaborazione dei maggiori partiti conservatori italiani, collaborazione già sperimentata l’anno prima con un governo di economisti cyborg non appartenenti a nessuna formazione politica. Tra questi partiti ve ne era uno, il Partito Democratico, che, per ragioni storiche e residui legami con l’apparato sindacale, molti consideravano appartenente al campo progressista, ma era in realtà diretto da mutanti. Questo aveva senz’altro aumentato lo scandalo visto che in tale formula di governo il pd si trovava alleato col suo presunto avversario storico, il supervillain miliardario megalomane Silvio Berlusconi. Nel periodo del governo Monti la collaborazione in sostegno dei ministri bionici era stata giustificata sulla base della avanzata tecnologia su cui si basavano quegli organismi semiartificiali. Era un governo hi-tech, non connotato politicamente, i cui membri obbedivano soltanto alla Legge Meno Uno della Robotica: «Un ministro del governo Monti non può permettere che, per le sue azioni o a causa della sua inazione, un membro dell’élite umana subisca un danno». Se tutto sommato funzionava coi cyborg – pensarono – andrà bene anche direttamente con i politici, e al posto degli androidi ci si sono messi loro, cercando comunque di obbedire alla medesima Legge.
Come si noterà, la politica italiana di questi tempi è già molto simile a un cattivo fumetto di fantascienza distopica. Nel predire e auspicare e metaforizzare una fine fumettosamente catastrofica per i suoi protagonisti non abbiamo fatto altro che spingere la realtà alle sue estreme conseguenze.
Ho dunque stabilito poche righe di finale obbligato, cioè queste:
Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica. Dove fino a un istante prima si trovava Enrico Letta, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall’enorme cratere si levavano nubi di fumo nero.
Ho voluto complicare un po’ la sfida mettendoci quella prima persona plurale e “quella musica”. Come si vede, però, non ho esplicitamente parlato della caduta di un corpo celeste; questo ha permesso numerosi tentativi di hacking basati sul rispetto del finale ma sull’attribuzione alla catastrofe di una natura diversa da quanto previsto dal titolo della raccolta. E a proposito di fraintendimenti volontari del finale obbligato, anche il governo delle larghe intese non è detto che fosse questo primo governo Letta; molti autori hanno ipotizzato infatti (forse solo per esorcizzarlo) che il 2013 apra una lunga era di governi di larghe intese, segnando di fatto l’entrata in un regime semi-dittatoriale. Risuona sinistramente bene con questa ipotesi minacciosa l’assurda rielezione di Giorgio Napolitano, che si trova così nella paradossale condizione di capostipite di una dinastia di presidenti costituita solo da lui. Presidenti che si autoclonano, pontefici doppi, un Enrico Letta e un Gianni Letta: un’epoca di moltiplicazioni che sembrano ingannevoli come gli sdoppiamenti della propria immagine nei labirinti di specchi. Qualcuno ha pensato bene di moltiplicare pure Letta, immaginando che l’Enrico Letta del finale obbligato non fosse lo stesso Enrico Letta oggi vivente, ma un suo successore, un suo sequel.
Insomma, le regole che avevo messo sono state strapazzate in tutti i modi. «Immaginate», direbbe qualcuno, «perché avremo bisogno di tutta la vostra fantasia». Non è mancato chi ha esagerato in fantasia, cambiando il finale, in quei casi (con una sola, meritevole e consapevole eccezione) ho accolto il racconto ma discutendo con l’autore un suo riadattamento alla prescrizione.
Nell’insieme dei racconti, compare un gran numero di personaggi, alcuni dei quali ricorrono per ragioni ovvie: i ministri. Va registrato che il ministro Josefa Idem, sbeffeggiata in alcuni contributi, è stata costretta a dimettersi per la potenza evocativa dell’asteroide ancora prima che il libro venisse pubblicato, segno forse – speriamo! – che questo governo si sgretolerà molto prima che Enrico Letta faccia in tempo a clonarsi.
La compagna Margherita Hack, invece, che è protagonista senza nome di un altro racconto, è morta prima che il libro uscisse: le porgiamo così un omaggio e un ricordo.
Ci sono autori (l’autentico Girolamo De Michele, un dubbio Francesco Guccini) che sono anche citati in altri racconti, così come i Wu Ming e addirittura… io.
Non mancano diverse figure mitiche e storiche, incluso Iddio e il Suo eterno Nemico. Berlusconi compare diverse volte come una figura patetica e malinconica, impegnato in riflessioni introspettive e retrospettive. Un famoso comico che non fa più ridere fa diverse apparizioni (ma, vi garantiamo, almeno questa volta non ha preso una lira di royalties) e da un racconto all’altro non interpreta sempre lo stesso ruolo. Sono citati Hitler, Marx e naturalmente moltissimi musicisti di tutti i generi, da due Strauss (Richard e Johann, non imparentati, il secondo è anche spacciato per autore) ai Rancid. L’eclettica combriccola farebbe ingrigire d’invidia la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
I racconti citano più o meno l’intera letteratura e filmografia fantascientifica mondiale, con una certa predilezione per le storie di alieni che vengono declinate nelle loro tre forme principali: l’extraterrestre invasore o bombardatore, l’extraterrestre profugo o immigrato, l’extraterrestre protagonista di una vicenda a parti ribaltate dove gli alieni siano noi. Il contatto con ciò che è radicalmente diverso, foss’anche nella forma di un provvidenziale filotto cosmico, sembra l’unica terapia alla sindrome da adattamento alle larghe intese.
Molti autori hanno anche attinto dalle sceneggiature dei film catastrofici di Hollywood, rovesciando la retorica dell’emergenza nazionale che domina le giustificazioni governative almeno dall’estate del 2011.
Il thriller cospirativo è un altro genere che sembra apprezzato da chi ha contribuito a Tifiamo asteroide; spesso i complotti sono architettati da manipoli di ribelli, come in Matrix o in Guerre stellari, talvolta sono macchinazioni di chi regge le sorti del Paese: se nel Ciclo della Fondazione Isaac Asimov aveva immaginato fondazioni secolari basate sulla “psicostoria” capaci di predire e guidare gli sviluppi politici, noi ci dobbiamo accontentare dei nostri psicostoriografi caserecci, la piduisteggiante Fondazione VeDrò, da cui sembra sia stata selezionata una parte consistente del personale politico tripartisan dell’esecutivo Letta, a partire dagli stessi Letta e Alfano. Quest’estate per la prima volta i vedroidi, come si autodefiniscono (il nome non può che alludere alla presenza tra loro di alcuni individui robotici), non terranno il loro summit pubblico a Dro, in Trentino: i fan asimoviani riconosceranno la strategia occulta pensata da Hari Seldon per l’elusiva Seconda Fondazione. Ma davvero non ci siamo contenuti per quanto riguarda le ispirazioni dei contenuti: ci sono le metafore allucinate di Dick, c’è il totalitarismo invadente di Orwell, c’è la guerra interplanetaria di Wells, ci sono le migrazioni forzate di Battlestar Galactica, c’è la balistica spannometrica di Verne, ci sono i fenomeni paranormali di massa di Valerio Evangelisti, c’è il futuro anteriore de Il pianeta delle scimmie e tutto l’armamentario dei paradossi temporali. Siamo riusciti a fare anche un capitoletto fantasy! E non manca l’ironia, la presa per i fondelli, la cazzata goliardica, qualche volta la pura e semplice evocazione di un accidente allo stramaledetto governo ladro, il “che vi venga un colpo!” che prelude sempre a ogni sommossa e a ogni insurrezione.
Mentre con l’aiuto inestimabile di quattro volontari, che sono anche autori, ho letto, corretto, rivisto e ordinato i cento racconti che abbiamo ricevuto, mi sono accorto che qualcuno avrebbe potuto criticare il format della catastrofe risolutiva come espressione di un senso di impotenza da parte della sinistra di classe, dei movimenti di lotta sociale, delle organizzazioni e dei collettivi anticapitalisti in Italia. Si potrebbe anche malignare sulla confusione ideologica, vista la varietà di riferimenti ideali che più o meno trasparentemente sono sottesi ai diversi racconti.
Il ritardo dell’esplosione della rabbia popolare e proletaria in Italia, con tutte le contraddittorie teorie che usiamo per spiegarlo, è un tema che innerva molte di queste pagine. La ricerca di scorciatoie in questi casi è naturale; i mandarini al potere dovrebbero già esser sollevati dal fatto che ci siamo limitati a scorciatoie scritte e sognate e non a quelle praticate…
Mi vengono in mente certe circolari di polizia di epoca fascista, dove i questurini segnalavano con preoccupazione al governo centrale la comparsa sempre più frequente di scritte murali contro il regime. Chi, rischiando la pelle, scriveva con un pennellaccio Abbasso il duce sul muro di un’osteria di paese, era un frustrato o faceva palestra di Resistenza?
E sia: forse è davvero frustrazione la nostra, ma c’è frustrazione e frustrazione. C’è la frustrazione operosa di chi si agita per uscire da una condizione intollerabile, come il pulcino che cerca col becco il primo punto di frattura del guscio, e c’è la frustrazione sterile. Se inizialmente sembrano condizioni analoghe, il risultato finale è diverso quanto il canto di un gallo è diverso da una frittata. In alcuni racconti in particolare, e nell’intera raccolta vista come incoerentissima opera complessiva, si intravede l’ombra del beccuccio che tasta l’uovo dall’interno, si capisce che il tracciato del sentiero non vuol essere una scorciatoia ma solo la pista dell’esploratore in avanscoperta, che sa che quando si va davvero, si parte tutti insieme, tutti insieme si torna.
Li abbiamo messi dentro tutti e cento, senza filtro, scartandone solo uno che era un’evidente provocazione fascistoide (siamo buoni ma mica fessi).
Alcuni sono molto belli e non sfigurano al fianco di un paio di divertenti contributi di scrittori affermati che hanno voluto partecipare. Ce n’è anche qualcuno così così, ma è folklore popolare, non lamentatevi: ci si può sempre divertire con l’effetto “dilettanti allo sbaraglio” e comunque non ci prendiamo troppo sul serio.
Avevo scritto che la lunghezza massima ammessa era dieci milioni di battute, poco superiore all’opera monumentale di Proust Alla ricerca del tempo perduto, e vedo che qualcuno è stato appena dentro il limite; altri invece hanno puntato sull’effetto fulminante del racconto brevissimo.
Alla fine del lunghissimo processo di revisione e impaginazione, io e alcuni dei co-curatori ci siamo trovati simultaneamente online per dare gli ultimi ritocchi al libro. Abbiamo messo in sottofondo la colonna sonora dei racconti, che avevamo raccolto coscienziosamente su uno spreadsheet condiviso via Web, alzando il volume al massimo.
A un certo punto via chat l’impaginatrice ci ha scritto di accendere subito la televisione, perché stava succedendo un fatto pazzesco. Ho pensato che forse per qualche miserabile conflittucolo di palazzo era caduto il governo prima che facessimo in tempo a pubblicare l’antologia, e sarebbe stato un peccato: volevamo farlo cadere noi!
Ho acceso lo schermo e ho fatto appena in tempo a vedere le ultime scene della catastrofe che aveva appena colpito Roma. Al momento dell’impatto, da tutte le case attorno, da tutte le famiglie raccolte davanti alla tv, si è levato un urlo fortissimo di esultanza, sembrava quando tutti gridano «gol!» in simultanea alle partite dei mondiali ma innaturalmente più poderoso; l’aria è tremata mentre la telecamera della diretta vacillava per l’onda d’urto.
Stava andando una delle varie canzoni di Bob Dylan presenti nella playlist, forse quella del raccontino di Prunetti. Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica.
Dove fino a un istante prima si trovava Enrico Letta, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall’enorme cratere si levavano nubi di fumo nero.
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Quale razza? Genere, classe e colore in «Timira» e «L’ottava vibrazione»

[Il 12 agosto 2012 veniva inaugurato ad Affile (RM) il Vespasiano di Sangue in memoria di Rodolfo Graziani, macellaio d'Italia. Nonostante le polemiche, le maledizioni abissine e la revoca dei fondi regionali, il monumento è ancora lì e non più tardi del 29 giugno scorso, ha visto riunirsi a convegno un centinaio di fascisti, con il solito corredo di saluti romani. Per non dimenticare questa vergogna, nei prossimi giorni pubblicheremo qui su Giap due articoli sulla memoria del colonialismo italiano.
Cominciamo con il nuovo numero di Studi Culturali (n°2, Anno X), rivista pubblicata dalla casa editrice Il Mulino . In copertina, la notissima foto di Mario Balotelli in versione Hulk, e all'interno una "tavola rotonda" a cura di Gaia Giuliani intitolata: La sottile linea bianca. Intersezioni di razza, genere e classe nell'Italia postcoloniale. Obiettivo di questa sezione "è raccogliere suggestioni provenienti da un numero ampio e interconnesso di discipline al fine di indagare le dimensioni sia discorsive sia materiali dell'immaginario razzista italiano". Qui di seguito riportiamo l'intervento di Sonia Sabelli - su Timira e L'ottava vibrazione - preceduto dalla "didascalia" scritta da Daniele Salerno per commentare l'immagine di copertina. Buona lettura.]
L’incredibile Hulk “azzurro”. Così molti giornali italiani e stranieri, riprendendo il titolo di El País, definirono Mario Balotelli all’indomani della semifinale dell’Europeo 2012, vinta dall’Italia grazie a una doppietta del calciatore nato nel 1990 a Palermo da genitori ghanesi e cresciuto in una famiglia bresciana.
La definizione si deve alla foto che pubblichiamo in copertina. Balotelli esulta dopo il secondo goal, quello della vittoria, segnato contro la nazionale tedesca: messa la palla in rete, il giocatore si sfila la maglia, lasciandola cadere ai suoi piedi, e tende i muscoli; sul braccio destro è ben visibile il lutto indossato dalla squadra per ricordare Manuele Braj, soldato italiano morto pochi giorni prima in Afghanistan. Le ginocchia sbucano tra i calzettoni azzurri – orlati dal tricolore – e i pantaloncini bianchi con il gagliardetto della nazionale e la scritta Italia.
In quella definizione sta tutto il meaning of Mario, per riprendere il titolo della copertina che Time dedicherà qualche mese dopo a Balotelli: un Hulk, ma azzurro; un italiano, ma nero. Due aggettivi di colore che vanno a mutare un tratto semantico dei sostantivi cui si riferiscono: l’essere verde di Hulk e soprattutto la, storicamente costruita, bianchezza dell’italiano, argomento della tavola rotonda curata da Gaia Giuliani che costituisce il cuore di questo numero di Studi Culturali.
La figura di Balotelli invade lo spazio semantico della bianchezza italiana e lo fa da un luogo discorsivo centrale dell’immaginario nazionale e maschile: il campo di calcio. E non un campo di calcio qualsiasi, ma il rettangolo di gioco dove va in scena il rito sportivo per eccellenza: l’eterna sfida Italia-Germania, che rinnova ogni volta la memoria di uno dei miti (ri)fondativi dell’identità nazionale del secondo dopoguerra, Italia – Germania 4 a 3 (anche quella una semifinale).
Come il protagonista di Autobiografia del rosso, un romanzo di Anne Carson, Balotelli costringe all’aggettivazione, così da modificare sostantivi che non ne includono l’identità e di cui il calciatore, con l’esposizione del suo stesso corpo, mette in crisi i significati: a cominciare proprio da quelli legati al campo semantico dell’italianità. La parola aggettivo, come ci ricorda sempre Carson, è a sua volta un aggettivo: epítheton che in greco significa “apposto”, “aggiunto”, e quindi “importato”, “straniero”, e il cui prefisso – epí – usiamo ancora oggi per formare la parola epidermide. L’incredibile Hulk “azzurro”, dunque. L’italiano nero. E forse, un giorno, molto più semplicemente: l’italiano.
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Quale razza? Genere, classe e colore in Timira e L’ottava vibrazione
di Sonia Sabelli
In questi ultimi giorni la stampa italiana ha definito la neoministra italocongolese Cécile Kyenge come la prima donna «di colore» (come se dire «nera» fosse un insulto e come se il bianco fosse un non-colore) ad assumere l’incarico di «ministro» (al maschile, come se un ministro non potesse essere una donna e come se la gente nera non avesse un sesso). Non è dunque un caso che l’interessata abbia dovuto ribadire di essere una donna nera e di esserne fiera. Evidentemente, come ci insegnano le femministe e le lesbiche afroamericane, sessismo e razzismo agiscono sempre simultaneamente: sono «sistemi interconnessi di dominio che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (hooks 1991, 39). A partire da questa consapevolezza, riprendo qui alcuni degli stimoli offerti dall’intervento di apertura di Gaia Giuliani sull’identificazione tra bianchezza e italianità e sulle intersezioni di genere, classe e colore, per verificare come tali temi siano rappresentati nella letteratura italiana contemporanea. Il mio intervento si concentra in particolare su due romanzi, L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli (2008) e Timira. Romanzo meticcio di Wu
Ming 2 e Antar Mohamed (2012), che testimoniano il recente interesse mostrato da alcuni scrittori molto noti per la storia coloniale italiana.
Nella postfazione, Lucarelli presenta il suo bestseller come «un romanzo
storico ambientato in Eritrea attorno alla battaglia di Adua» (1896). Passata alla storia come una «disfatta» – secondo la prospettiva colonialista incarnata dal narratore del romanzo è «la più grande sconfitta mai subita da un esercito coloniale europeo» (Lucarelli 2008, 441) – Adua si configura piuttosto, agli occhi del popolo etiope e dei movimenti panafricani, come quella «vittoria africana» (vedi Haile Gerima, Adwa. An African Victory, documentario, Etiopia, 1999) che ha messo in questione «la “supremazia bianca” dei discorsi europei e il progetto di intensificazione dello sfruttamento dell’Africa» (Derobertis 2010, 16). Il romanzo di Lucarelli, però, col suo sguardo esotista, saturo di stereotipi razzializzanti che riecheggiano la letteratura e la fotografia di epoca coloniale, non opera quel rovesciamento dei punti di vista che ci si aspetterebbe da un romanzo contemporaneo, confermando quanto la prospettiva postcoloniale non sia una questione cronologica ma di consapevolezza critica. Timira, invece, fin dal sottotitolo, si propone esplicitamente di attraversare la linea del colore, mescolando memoria, documenti d’archivio e invenzione narrativa: nella quarta di copertina si spiega che il romanzo è stato scritto a sei mani da «un cantastorie italiano dal nome cinese [Wu Ming 2], insieme a un’attrice italosomala ottantacinquenne [Isabella Marincola, sorella del partigiano nero Giorgio] e a un esule somalo con quattro lauree e due
cittadinanze [suo figlio Antar Mohamed]» – anche se poi sarà pubblicato dopo la morte di Isabella, che perciò compare solo come protagonista e non come figura autoriale. Un particolare non secondario, se affiancato alla consapevolezza (che emerge negli «interludi») della relazione gerarchica che si instaura necessariamente tra chi detiene il potere di raccontare la propria versione delle storia e chi invece viene raccontata/o, oltre che dei rischi connessi all’interiorizzazione di una mentalità coloniale, sempre in agguato nelle nostre teste di occidentali (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 345).
Qui analizzo in particolare le rappresentazioni della bianchezza e della nerezza che compaiono nei due testi, a partire dalle loro intersezioni con la costruzione del genere e dell’italianità. La costruzione dell’italianità segue percorsi
diametralmente opposti nei due testi, per ovvi motivi di ambientazione storica:
se Timira costituisce un tentativo di decostruire l’identificazione tra colore e nazione nell’Italia dei respingimenti e del pacchetto sicurezza, L’ottava vibrazione si inserisce senza soluzione di continuità in quella tradizione letteraria che narra l’Africa come «il lato oscuro», il «cuore di tenebra» (vedi i versi in epigrafe che spiegano il titolo del romanzo) e che legge il colonialismo come una metafora avventurosa e come uno dei miti fondativi della nazione e della maschilità bianca, oppure, per usare le parole dell’autore, come «il nostro Far West» . Certo, si deve riconoscere a Lucarelli la capacità di evidenziare le continuità, spesso dimenticate, nella storia del colonialismo italiano, dall’età liberale, in cui si svolge il romanzo, all’impero fascista, che si distinguerà per l’aspetto specifico delle politiche sessuali improntate sulle leggi razziali, con la criminalizzazione delle unioni miste e il divieto di riconoscere i figli nati da esse. Inoltre, è significativa la presenza tra i soldati coloniali di un socialista che ammira Andrea Costa (il deputato che nel 1887, durante il dibattito parlamentare sul rifinanziamento della missione coloniale seguito al massacro di Dogali, aveva affermato «né un uomo né un soldo») e dell’anarchico internazionalista Pasolini, che non perde occasione per mettere in evidenza «le contraddizioni del sistema» e si rifiuta di combattere declamando ad alta voce i versi di Ulisse Barbieri: «ma non capite, o branco di cretini, che i patrioti sono gli abissini?» (Lucarelli 2008, 36 e 257). Ma vi sono altri elementi che ripropongono la funzione storica del colonialismo in quanto metafora della costruzione della maschilità italiana come bianca e coloniale. Ad esempio, la descrizione del soldato «insabbiato» Sciortino come un contadino meridionale poco intelligente, che non ha pensieri ma solo sensazioni, e agli occhi dei commilitoni «sembra un abissino» (ivi, 389), riproduce gli stereotipi razzisti sul Mezzogiorno d’Italia come sinonimo di arretratezza e sottosviluppo. Mentre l’insistenza quasi ossessiva sulle varietà regionali dell’italiano che caratterizzano la parlata dei soldati è un segno della mancanza di omogeneità linguistica e culturale di una nazione che ha appena avviato il suo processo di unificazione linguistica e culturale; in questo contesto, si inserisce la percezione della Colonia Eritrea come il luogo in cui i soldati e i funzionari coloniali che popolano il romanzo di Lucarelli possono realizzare il sogno di coprirsi di gloria e soddisfare il desiderio di provare emozioni forti, diventando degli eroi. Se è vero che queste rappresentazioni corrispondono alla necessità di costruire una memoria del colonialismo italiano, è anche vero che quella di Lucarelli – come ha affermato Paolo Jedlowski – è «una memoria che non prende posizione» oppure – come ha precisato Giulietta Stefani – «questa posizione è a tratti ambivalente», proprio per la mancanza di una problematizzazione, evidente soprattutto nelle rappresentazioni stereotipate dei personaggi, sia colonizzati che colonizzatori, e delle relazioni tra i due gruppi.
Ritengo invece che siano proprio le relazioni tra i due gruppi, e in particolare le rappresentazioni del colore, del genere e della sessualità, i nodi cruciali su cui si gioca la possibilità di rilevare in questi testi una prospettiva postcoloniale, che contribuisca a decostruire gli stereotipi razzisti, sessisti e disumanizzanti, oppure a rinforzarli.
In un documentario che significativamente si intitola Quale razza (A.Amadei, video-intervista con Isabella Marincola, Motoproduzioni, 2008 ) Isabella Marincola incalza così il suo intervistatore: «Io sono un’italiana, con la pelle scura. ti va bene a te? O sei anche tu un razzista? [...] mi ricordo che qualcuno mi ha detto: “sei la vergogna della razza!” Allora mi sono chiesta: “quale razza?”». Gli stessi interrogativi ritornano in Timira, quando la protagonista reagisce agli insulti razzisti decidendo di dedicarsi «con grande entusiasmo» a questa particolare abilità, essere «la vergogna della razza», che ha il potere di disorientare i suoi interlocutori (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 279-80). Figlia di una donna somala e di un soldato coloniale che decide di allevare lei e il fratello in Italia, perché convinto che «il figlio meticcio, quando educato da italiano, possa aspirare
alle stesse conquiste di un italiano intero» (ivi, 50), da bambina Isabella è convinta di avere la pelle nera per via del sole di Mogadiscio (ivi, 103). Da adulta, invece, reagisce al razzismo identitario che la considera automaticamente una straniera, una «profuga in patria» (ivi, 181), perché non coincide con la norma somatica bianca, rivendicando la possibilità di identificare nerezza, meticciato e italianità.
Isabella si autodefinisce infatti come «un’italiana dalla pelle scura» (ivi, 395), ma sa bene che per la mentalità comune questo è ancora un ossimoro: «se sei italiano e hai la pelle scura, sei una contraddizione vivente. Devi dimostrare che sei davvero italiano, devi essere più italiano degli altri» (ivi, 449). Paradossalmente, lo stesso trattamento le viene riservato sia dall’amica albanese Merushe – di fronte alla quale deve ribadire di essere italiana nonostante la propria nerezza (ivi, 120) – sia in Somalia, dove la chiamano «gaal», infedele, e dove suo figlio si rifiuta di frequentare la scuola italiana perché vorrebbe dire che si vergogna di essere somalo (ivi, 425). L’unica soluzione che le permetta di sfuggire alla logica nazionalista, identitaria e razzializzante in cui si trova intrappolata suo malgrado, è quella di riaffermare una duplice appartenenza: «la mia patria era l’Italia, mentre la Somalia era la mia matria» (ivi, 282), conclude Isabella citando implicitamente Igiaba Scego: «Eravamo dei dismatriati, qualcuno – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia» (Scego 2005, 11).
In entrambi i romanzi, l’affermazione della bianchezza come sinonimo di
italianità è complementare alla svalutazione della nerezza, considerata come
la quintessenza dell’alterità. Nell’Ottava vibrazione, in particolare, l’avanzare
dell’esercito del Negus ad Adua, anticipato dal rombo assordante dei tamburi e da un «puzzo aspro e feroce» che è l’«odore di altra gente, di altri soldati», è descritto come «un’onda nera», una «marea che cresce, un flusso inarrestabile, che arriva di corsa, urlando» (Lucarelli 2008, 425-426), quasi a riprodurre le immagini minacciose e inquietanti di «orde» ed «esodi biblici» spesso associate alle migrazioni contemporanee. In perfetta continuità con l’immaginario coloniale, i soggetti colonizzati sono rappresentati sempre come esseri inferiori e animaleschi: c’è un ascaro con la «faccia da cavallo» (ivi, 16, 19), il piccolo Berè squittisce «come un topo» (ivi, 69), un altro bambino è «nero e irsuto proprio come una scimmietta» (ivi, 242) e Sabà si aggrappa al suo soldato «come una scimmia» (ivi, 138), fino all’estremo di Aicha che, dall’inizio alla fine del romanzo, è apostrofata soltanto come «la cagna nera» (ivi, 11, 12, 14, 80, 194, 446). secondo il narratore «Aicha è un animale, è una iena, un gatto nero, che filtra il mondo attorno soltanto con i sensi» (ivi, 233) e come un animale non possiede nemmeno la capacità di parlare: «Aicha non ha parola, non ha pensieri, solo sensazioni, come una iena o un gatto nero» (ivi, 235). Più in generale, le rappresentazioni delle donne nere oscillano tra le due figure femminili tipiche dell’immaginario coloniale – Aicha, la prostituta «nuda, sporca e nera» (ivi, 13), dalla «sensualità selvaggia e rovente» (ivi, 87), che esiste solo per soddisfare i desideri sessuali dei maschi italiani, e Sabà, la madama dolce e servizievole, che è un gradino più in alto nella gerarchia razzializzante perché «non è una selvaggia, è
una donna, è la madama di un ufficiale italiano» (ivi, 71), e infatti parla l’italiano e si prende cura del soldato Branciamore come se fosse sua moglie, anche se «lui ce l’ha già una moglie, in Italia» (ivi, 137). Comunque, entrambe le figure sono sempre posizionate in una relazione di inferiorità gerarchica con l’apparente candore, peraltro solo esteriore, delle donne bianche e italiane, come nel caso di Cristina (ivi, 86-87 e 96-97), la moglie del cavalier Leo Fumagalli, «bello e ricco e troppo preso dal sogno di fare un giardino della Colonia italiana d’Eritrea» (ivi, 24). Le donne nere rimangono dunque imprigionate nei soliti stereotipi razzisti, sessisti e disumanizzanti: «le negrette [...] con le poppe di fuori [...] la Venere nera, la Circe
d’Africa [...] vado in Colonia e me le trombo tutte» (ivi, 35); mentre gli uomini neri sono rappresentati come «i negroni [...] che hanno fatto a pezzi gli inglesi [...] così cattivi, ma così cattivi, che si limano i denti a punta per mordere [...] vi tagliano l’uccello [...] ve lo schiaffano nel culo [...] un’orda di negri disumani» (ivi, 35-36), e dunque come una minaccia costante per la virilità bianca e italiana, che deve proteggersi dal rischio di una castrazione non solo simbolica (ivi, 118). Le uniche figure maschili che trasgrediscono la rappresentazione esclusivamente eteronormativa della sessualità – la coppia omosessuale composta dai due zaptiè (carabinieri indigeni) Ahmed e Gabrè, che in realtà sono spie del Negus, e il maggiore Flaminio, l’ufficiale «effeminato» che si eccita alla vista del sangue giovane – rimangono piuttosto marginali e appaiono come delle mere eccezioni che servono a riconfermare la regola e la superiorità di una maschilità bianca, italiana ed eterosessuale.
Decisamente più complesse appaiono le rappresentazioni del genere, della classe e del colore in Timira, non solo in virtù del più dilatato arco temporale in cui si sviluppa il romanzo ma soprattutto grazie alla moltiplicazione delle voci e dei punti di vista, che offrono a chi legge la possibilità di una seria presa di distanza critica e non un mero rispecchiamento della prospettiva colonialista.
La lettera con cui il maresciallo Marincola annuncia al fratello la decisione di far allevare in Italia i figli «meticci» ci restituisce immediatamente l’assurdità di un razzismo paternalista che serve a confermare il potere civilizzatore del colonizzatore bianco. Inoltre, la reazione del suo superiore ribadisce subito il nesso già rilevato sopra tra affermazione del potere coloniale e conferma della maschilità bianca ed eterosessuale: «per quanto lo riguardava una sola cosa era fondamentale: che lo sfogo della nostra maschile esuberanza non facesse venire meno la virilità, la spina dorsale e il prestigio, senza il quale centinaia di migliaia di individui non resterebbero sottomessi a poche migliaia» (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 51).
Nel racconto delle suore missionarie che la accompagnano in Italia, Isabella è
descritta, secondo il cliché colonialista, come una «bimba selvaggia» dal «musetto d’ambra» (ivi, 64-67), mentre agli occhi di Flora Virdis, la moglie del padre, appare come «l’immagine del peccato di suo marito» (ivi, 68) ed è «stupida come una scimmia» (ivi, 91). Per il figlio Antar, che si prende cura di lei quando ritorna in Italia da «profuga nel suo paese», questa donna indipendente e appassionata rappresenta una presenza scomoda e ingombrante, che arriva a mettere in crisi anche il suo rapporto di coppia; mentre per lo scrittore Wu Ming 2 è una fonte inesauribile di storie da raccontare. La stessa protagonista, a tratti, interiorizza lo sguardo razzializzante che fa della nerezza un disvalore, simbolo di bruttezza e animalità (ivi, 94), tanto da convincersi di essere sterile, secondo la peggiore propaganda fascista «che descriveva muli e mulatti come una razza bastarda di ibridi infecondi» (ivi, 307). Poi però ci regala pagine esilaranti, quando riesce a ironizzare sugli atteggiamenti sessisti, razzisti ed esotizzanti degli italiani: sul datore di lavoro che identifica la sua pelle nera con «promesse di sesso facile, selvaggio e caldo come una notte equatoriale» (ivi, 128) e sull’ossessione degli italiani per «il culo delle donne somale» (ivi, 295); su coloro che negli anni Trenta la vezzeggiano «come una bertuccia ammaestrata» perché vedono in lei «l’icona dell’avventura coloniale» o sul commerciante che la sceglie per reclamizzare degli occhiali con la montatura d’avorio «perché il bianco risalta bene sulla pelle nera o perché l’avorio, gli elefanti, l’Africa, la venere nera…» (ivi, 169); su coloro che ridono della sua eleganza perché ai loro occhi evoca «l’immagine di una scimmia con gli occhiali» (ivi, 170) o su chi si stupisce della sua cultura «perché una morettina così ben istruita, capace di tradurre dal greco e dal latino, non poteva discendere da una stirpe di cammellieri e bingobongo» (ivi, 205); ma anche su chi dà per scontato che lei e il fratello Giorgio debbano avere l’antifascismo nel sangue, perché «figli della colonia», mentre durante il ventennio Isabella è impegnata su un altro fronte, a combattere la sua «resistenza da camera contro un duce in gonnella» (ivi, 187-188). La matrigna è infatti colei che vorrebbe confinarla nei ruoli di «mignotta» o «servetta» (ivi, 206) che sono stati storicamente attribuiti alle donne nere e immigrate, quegli stessi ruoli che le verranno offerti quando intraprenderà la carriera cinematografica, interpretando proprio una schiava. Quando si trasferisce in Somalia, Isabella si rende conto che «l’alternativa secca tra madre e puttana non conosce confini» (ivi, 355) mentre, quando ritorna in Italia, si trova costretta a lavorare come assistente domestica per un’anziana signora che, paradossalmente, si chiama Itala (ivi, 211). A partire dal rifiuto di omologarsi alla norma che ammette le donne nere e immigrate nel mercato del lavoro solo come «colf» e «badanti» (unica alternativa: lo sfruttamento nel mercato della prostituzione), tutta la vita di Isabella Marincola potrebbe essere letta allora come una strategia di resistenza contro sessismo e razzismo, come un rifiuto a lasciarsi imprigionare nei ruoli imposti dalle linee di genere, classe e colore.
Certo, non si può fare a meno di rilevare che Isabella Marincola era una donna anziana mentre i due autori di Timira – che si propongono di disseppellire lo scrigno di storie intrecciate tra Europa e Africa di cui lei è portatrice – sono giovani e maschi (vedi Randall 2012). Inoltre, la riflessione conclusiva che propone la condizione di profuga come una metafora del presente italiano, in cui saremmo tutte e tutti profughi in quanto cittadini di uno stato che non c’è (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 458-465), risulta piuttosto forzata, proprio perché rischia di cancellare le differenze e le gerarchie di potere inscritte sulle linee di genere, classe e colore. Ma, nel complesso, il risultato di quest’esperimento di scrittura collettiva (ivi, 344-346) è un’efficace contronarrazione, che funziona come un potente antidoto contro il persistere della mentalità razzista e sessista, contribuendo attivamente all’affermazione di una consapevolezza postcoloniale nella letteratura italiana contemporanea. Per questo credo che Timira debba essere letto anche alla luce dell’emergere, negli ultimi venti anni, delle scritture migranti e postcoloniali nella letteratura italiana: da Nassera Chora e Geneviève Makaping, fino a Gabriella Ghermandi e Cristina Ali Farah, solo per menzionarne alcune, le opere di autori e autrici afroitaliane e originarie dalle ex colonie sono infatti i luoghi culturali chiave in cui oggi si costruisce una memoria critica del passato coloniale italiano e si decostruisce l’idea che la bianchezza sia «il colore legittimo» nell’Italia contemporanea. La presa di parola dei soggetti che sono stati razzializzati è infatti una strategia di resistenza contro il persistere di quegli stereotipi razzisti e sessisti che storicamente sono serviti a giustificare il colonialismo e che oggi invece sono funzionali a gestire i flussi migratori in tempo di crisi: influenzano la percezione della violenza maschile contro le donne e i discorsi pubblici sull’immigrazione (, stratificano il mercato italiano del lavoro secondo le linee del genere, della classe e del colore (vedi Curcio e Mellino 2012) e riproducono disuguaglianze sociali che limitano l’accesso ai diritti di cittadinanza. Sono queste le soggettività che ci ricordano quanto sia necessario e urgente «parlare di razza» nell’Italia contemporanea, interrogarsi sui diversi significati che questa costruzione culturale assume e sugli effetti che produce, illuminando anche i nessi con la costruzione del genere e dell’identità nazionale.
***
Qualche link per approfondire:
WM1 recensisce L’ottava vibrazione su Nandropausa
Paolo Jedlowski, La memoria pubblica e i media: il caso del passato coloniale italiano.
Giulietta Stefani, Eroi e antieroi coloniali. Uomini italiani in Africa da Flaiano a Lucarelli.
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August 3, 2013
Sentiero Luminoso Bologna – Milano. Primo aggiornamento.

Movimento lento.
di Wu Ming 2
Se inserite in un motore di ricerca la parola “lentezza”, il risultato è una lista di siti che propongono di vivere, viaggiare, lavorare, mangiare fuori tempo rispetto ai ritmi incalzanti della quotidianità. Dietro questa comune rivendicazione, però, si nascondono e spesso si mescolano due visioni del tutto differenti. Da una parte, quella di chi vuole ritardare l’arrivo del futuro e quindi considera la lentezza come una sorta di macchina del tempo, capace di riportare in vita gli aspetti più sani di un passato ormai perduto. Dall’altra, quella di chi ritiene che nessun cambiamento reale, e dunque nessun futuro vivibile, possa prodursi senza una rottura del tempo.
Credo che l’approccio più utile e fecondo al tema della lentezza, consista nel sottolineare questa seconda prospettiva, evitando di farsi contagiare dalla prima. I bei tempi andati in cui la vita seguiva un altro ritmo erano infatti tempi di schiavitù, di mortalità infantile, di piccole città stato sempre in lotta tra loro, di donne confinate in casa, di lavoratori senza diritti. In poche parole: erano bei tempi, forse, soltanto per un pugno di privilegiati che se li potevano permettere.
Se l’apologia del passato suona reazionaria e stucchevole, non sempre le cose vanno meglio con l’evocazione del futuro. Il più delle volte finiamo per raccontarcelo come una semplice proiezione del presente, dritta davanti a noi a distanza di tempo, ovvero come un presente invecchiato, che di conseguenza non scalda il cuore a nessuno.
Le continue, frenetiche innovazioni tecnologiche ci danno l’impressione di un mondo che cambia a ritmi velocissimi, anche se spesso quelle innovazioni non sono altro che obsolescenza programmata, merci pensate per diventare vecchie prima di consumarsi, così da alimentare un paradossale “consumo senza consumo”. Il classico cambiamento che non cambia nulla e anzi riproduce il sistema di cui è figlio, il solito tran tran. In questo senso la frenesia è davvero il contrario dell’utopia. Perché chi si lascia incalzare dal presente è incapace di pensare il futuro, se non come “presente invecchiato”, presente spruzzato di morte. La lentezza invece dovrebbe essere soprattutto questo: darsi il tempo di desiderare un altro tempo, un altro stato di cose, diverso da quello presente. Si potrebbe dire che essa è necessaria come impulso utopico, ma non è sufficiente come programma. Anzi, spesso è proprio nel passaggio della lentezza da impulso a programma, da stimolo per pensare un mondo nuovo a chiave di volta per costruirlo, che nasce la confusione tra i due approcci di cui sopra.
Il capitalismo si è imposto come sistema produttivo imponendo sulla vita un unico tempo: quello del lavoro. La diffusione degli orologi ha sancito questa distruzione della crono-diversità: il tempo del pasto diventa la pausa-pranzo di un’ora, il tempo di una pisciata in fabbrica viene quantificato, il tempo libero è dalle-alle.
Non contento, nella sua fase più tardiva il capitalismo si è mangiato anche lo spazio: ormai siamo tutti dentro la globalizzazione, in cerca appunto di spazi alternativi, liberati, utopici. Ma non basta liberare lo spazio, se il tempo rimane schiavo. Occorre creare una doppia discontinuità: nel tempo e nello spazio. Non a caso, uno dei movimenti alternativi più interessanti degli ultimi vent’anni – i NoTav della Val di Susa – proprio su questa doppia articolazione hanno costruito il loro successo. Radicamento sul territorio, presidi, marce, luoghi simbolici (cioè un altro spazio) insieme al rifiuto delle scadenze imposte dai cantieri, con vent’anni di mobilitazione ad libitum, pazienza, racconto, critica, riscoperta della Storia (cioè un altro tempo).
E’ chiaro che l’importanza di queste due variabili dipende dal fatto che la nostra stessa vita si svolge nello spazio-tempo e sarebbe impensabile all’infuori di esso. Tuttavia, c’è una particolare attività nella quale queste due dimensioni della nostra esistenza sono coinvolte in maniera molto evidente: il movimento. Attraversare un certo spazio in un certo tempo. Per questo credo che il movimento lento – camminare, pedalare – sia l’esperienza che più di ogni altra può trasmetterci l’impulso utopico a desiderare un altro futuro. Abbiamo bisogno di prendere coscienza della nostra frenesia e di quello che essa ci fa perdere e ci occulta. Ma per farlo dovremmo riuscire a guardarci da fuori, e questo non è affatto facile, se rimaniamo immersi nel byt, la parola che in russo indica la quotidianità. Se vogliamo immaginare un beat diverso – un altro ritmo e un altro tempo – dobbiamo prenderci una pausa dal byt. Camminare può essere questa pausa. Soprattutto: camminare attraverso spazi che ormai sono pensati per altri tempi, per altre velocità. Andare a piedi da Bologna a Firenze, il “collo di bottiglia” d’Italia, dove si concentrano due autostrade, tre statali, quattro linee ferroviarie. Costruire un sentiero da Bologna a Milano – come stiamo cercando di fare sul nostro blog – per imparare a leggere il paesaggio di quella Grande Pianura che ormai consideriamo tabula rasa, buona giusto come piedistallo per capannoni, outlet in forma di villaggio, villette a schiera e infrastrutture. Perché camminare, – immergersi nel territorio senza la mediazione di un finestrino, liberi di guardarsi intorno, privi di ostacoli da evitare al volo, – ci consente soprattutto di rallentare e approfondire lo sguardo. Di capire che il futuro è davanti a noi, ma non lo si raggiunge correndo in linea retta. Occorre scartare, deviare, scoprire passaggi sghembi e segreti, come un viandante che cerca il suo sentiero, perché sa che esiste, magari nascosto, e per questo in tanti lo chiamano utopia.
***
Il Festival della Viandanza è stato una grande occasione di incontro e di confronto sul progetto del Sentiero Luminoso. Ne sono nati suggerimenti, proposte, consigli di viaggio che sommati ai commenti raccolti su Giap e alle mail piovute in queste settimane, formano già un tesoro prezioso.
Massimo Montanari della Compagnia dei Cammini mi ha proposto di partire da Bologna con una squadra di asini – nel senso stretto di Equus Asinus – e di raggiungere con la medesima l’elegante Piazza Duomo. Alberto Conte di Itineraria mi ha spalancato il mondo delle tecnologie GPS e di strumenti come MapSlow e Land. Roberta Ferraris mi ha messo a disposizione gli articoli di Airone e NoLimits (1997) sul suo viaggio a piedi da Milano a Bologna (e poi Roma, insieme a Riccardo Carnovalini). Valentina Scaglia mi ha indicato luoghi imprevisti dove attraversare il Po e scampoli di antiche foreste in mezzo ai campi di mais.
Nel frattempo, per vie telematiche, il solito Simone Franchino mi ha messo in contatto con i NoTav di pianura, mentre Matteo Toller preparava un tumblelog dedicato al progetto e che aprirà le porte a settembre. Andrea Mainardi si è offerto di farmi da guida tra i cippi partigiani nella zona di Correggio, Francesco di Spazi Indecisi ha cominciato a segnalarmi edifici abbandonati e archeologie industriali. Claudio Madella (aka Clettox) mi ha segnalato la lotta per il Pagiannunz di Abbiategrasso, Paolo Menzani di Transitum Padii mi ha promesso percorsi alternativi tra Parma e Piacenza e poi oltre il Grande Fiume…
Tutto questo per dire che:
1) L’elaborazione del percorso richiederà più tempo del previsto e la partenza è fissata per la tarda primavera del 2014.
2) Come suggerito da Vecio Baeordo, ho deciso di delimitare lo spazio all’interno del quale individuare il Sentiero Luminoso, altrimenti la raccolta di info e suggerimenti diventa ingestibile. Poiché il progetto ha come nucleo fondamentale la coppia di opposti velocità/lentezza e in particolare il tracciato AV tra Bologna e Milano, ho stabilito di considerare due linee guida: 1) Il tragitto del TAV – inteso come fascia, larga 4 km, 2 da una parte e due dall’altra; 2) Il percorso geometricamente più breve tra le due città, ovvero la retta che le congiunge (ma poiché le città non sono punti sul piano, si tratta in realtà di due rette: una che unisce il punto più a Nord della Tangenziale di Milano con il rispettivo punto più a Nord di quella di Bologna, e l’altra che fa lo stesso con i punti più a Sud. Combinando queste tre linee si ottengono i confini del territorio che attraverserò in cammino.
A settembre, sull’apposito tumblelog, forniremo le coordinate precise e gli strumenti per visualizzare il percorso. Al momento, giusto per stimolare ulteriori consigli, diciamo che l’area d’interesse è delimitata a Nord da Nonantola, Novellara, Casalmaggiore, Crema, Melzo e a Sud da Modena, Parma, Piacenza, Somaglia, Rozzano.
Rimane un dubbio: la “fascia” ferroviaria di 4 km è stabilita in maniera arbitraria. L’idea sarebbe quella di considerare un territorio che “sente” la presenza della linea AV, ad esempio come impatto visivo. Non sono però riuscito a trovare valutazioni precise sull’ampiezza di questo tipo di impatto. Anche perché il tracciato AV non è sempre uguale: a volte passa su viadotti alti 12 metri, altre volte è solo “in rilevato” e nel caso del ponte sul Po è sorretto da due torri di 60 metri… Qualcuno ha un criterio da suggerire?
Altra domanda: qualcuno sa dirmi se la diga sul Po che si trova a Isola Serafini – con annessa conca malfunzionante – è transitabile a piedi?
***
Sempre a proposito di storie e di sentieri, ricordiamo che anche quest’anno WM2 accompagnerà un piccolo gruppo di vaindanti lungo la Via degli Dei, da Bologna a Firenze, in collaborazione con la Compagnia dei Cammini. Si parte il 5 settembre e si ritorna il 10. Qui per info e prenotazioni.
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July 30, 2013
We shall overcome! Le Basse Intese contro il referendum di #Bologna
Come le Basse Intese PD – PdL hanno rimosso il referendum di Bologna sulla scuola pubblica. La volontà di 50.000 bolognesi non conta nulla. Disprezzate le 86.000 persone che sono andate a votare. E’ la democrattura, bellezza. Su Internazionale.
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July 25, 2013
#PointLenana, raffica estiva di recensioni e commenti

Alla fine arrivammo al rifugio della stazione meteo. Il mio umore era all’insegna del chi-me-l’ha-fatto-fare, ma in quel momento mi girai e, in fondo al lungo sentiero percorso, vidi la montagna, il massiccio già lontano, azzurro, levitante sul verde degli alberi. Mi resi conto che solo dieci ore prima ero stato lassú, proprio in cima, e il mio umore trasmutò, e quelle dieci ore mi sembrarono niente. Niente. (Foto di Roberto Santachiara, clicca per ingrandire)
E’ come se Point Lenana non fosse uscito a fine aprile ma a metà luglio, tanti sono i lettori che lo stanno scoprendo adesso. Forse c’era bisogno di un po’ di tempo, per molti c’era uno “scoglio” da superare, una comprensibile esitazione: “Un libro che parla di montagna?!” Anche per questo era ed è importante presentarlo in giro per l’Italia. Scarpinare, raccontare, sciogliere le diffidenze.
Altrettanto importante era ed è proseguire il libro con altri mezzi, estendere il suo mondo con un incessante lavoro collettivo in rete (qui su Giap, su Twitter, su Tumblr, su Pinterest…) e con ripetute escursioni a tema. Diversi lettori hanno potuto discutere di Point Lenana mentre “ci mettevano il corpo”, vivendo un’esperienza fisica, fuori dalla loro zona di comfort.
Ebbene, lo sbattimento paga: il libro è accolto sempre meglio, i riscontri positivi si moltiplicano, ogni giorno riceviamo una nuova recensione. Il passaparola si intensifica e tutto fa pensare che stia per raggiungere il tipping point, l’istante in cui si inarcherà e diverrà autosufficiente. Grazie a tutt* per questo momento di impegno e condivisione.
Qui sotto proponiamo alcune recensioni uscite nei giorni scorsi in rete, su quotidiani e su riviste specializzate, oltre all’audio di un’intervista che WM1 ha rilasciato a Radio Onda d’Urto di Brescia. Ricordiamo che il calendario delle presentazioni è qui. Buona lettura e buon ascolto.
Dal blog La Balena Bianca, 21 luglio 2013:
ESEGESI DELL’ALPINISMO E “FUGA” NELLA STORIA
di Fabio Disingrini
Nell’inverno 1943 tre prigionieri di guerra italiani, Felice Benuzzi, Ecce Homo, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti, evadono dal campo di prigionia inglese di Nanyuki e scalano il monte Kenya issando una bandiera tricolore sulla Punta Lenana salvo riconsegnarsi alle autorità britanniche diciassette giorni dopo. L’ascesa sarà inavvertita in Italia e il testo di Benuzzi che la racconta – Fuga sul Kenya, edito nel 1947 da L’Eroica di Milano – resterà in sostanza giacente fuorché diventare Oltremanica e Oltreoceano un best-seller nella sua traduzione con titolo No picnic on Mount Kenya… Ecce Libro. «Roba da fasci», penserà Wu Ming 1 maneggiando questa strana missiva del suo agente letterario Roberto Santachiara: un volume di Felice Benuzzi, triestino, nel novero di quella «trista retorica giuliana sull’italianità della città irredenta» e quell’impresa di nostrano e «particolare filone, quello di una certa pseudo-storiografia divulgativa che si è data il compito di propinare narrazioni rassicuranti e assolutorie», un «paradigma vittimario» di pronto utilizzo per gli italiani brava gente, «sempre capaci di arrangiarsi e all’occasione di compiere grandi atti di eroismo» (pp. 15-16). Eppure c’è una semiotica altra da definire, una certa metastoria da esumare nei suoi sostrati, un’ucronia congenita nei disegni della New Italian Epic… Ecce Point Lenana.
Il libro è prima un récit d’ascension, una letteratura testimoniale in presa diretta dei due autori sull’orme “benuzziane”, poi un entrelacement di vite declinate nell’epica: dalla Vienna di Freud, Klimt, Trotsky e del fu clochard Adolf Hitler, alla Trieste furente di Wilhelm Oberdank (aka Guglielmo Oberdan), Ruggero Timeus e Scipio Slataper; da Gea della Garisenda e la sua «promessa dell’Africa che è la promessa della fica» (p. 132), alle ebbrezze marziali di D’Annunzio, Carducci e Giovanni Pascoli, «proprio lui, dopo una vita spesa a cantare la natura e la vita dei campi, il fanciullino e l’uccellino, il vecchiettino e il lumicino, il sonnellino e il gelsomino, il rondinino e il biancospino, proprio lui che ha dedicato versi all’uccisione del suo babbino» (p. 135). Gli assolutismi di Franz Ferdinand e le solitudini di Francesco Giuseppe, la Grande Guerra sulle Alpi Orientali, i Ragazzi del ’99, Giuseppe Ungaretti, Fiume, la Grande Proletaria e la vittoria mutilata: «Mi sembra che in questa storia i poeti abbiano tutti un ruolo nefasto» (p. 157) e del resto con la guerra e i nazionalismi gli artisti danno il peggio di sé, è un vero e proprio «complesso militar-poetico» (p. 257) e lo dice anche Slavoj Žižek.
Point Lenana è un’esegesi dell’alpinismo prima, altrimenti e dopo «vent’anni di culto dell’azione elevato a religione civile» (p. 27), di «vitalismo dozzinale» dell’ascesa e strumentalizzazione muscolare alla Rudatis. È la poetica del “bacillo dei sassi” di Benuzzi e del mal di montagna di Giuan, protagonisti di quella fuga alpinistica che sembrava patriottarda anziché sensoriale, ed è lo spettro blues di Emilio Comici, il maestro del sesto grado, rocciatore divelto dal consorzio civile: tre icone di quell’antifascismo latente ed esistenziale, di «un’opposizione al regime passiva ma endemica e inestirpabile» (p. 454) che fra meriti contraddittori e lealtà statuali segnerà l’epilogo del «tragico Arlecchino camuffato da imperatore romano» (p. 165), la fine del suo tempo, il Götterdämmerung degli dei posticci e di ogni finzione mitologica. Che cosa sarà del resto l’andare in montagna se non un apprendistato alla Resistenza (concetto già molto caro a Primo Levi) e una «metonimia del prendere le armi contro i nazifascisti»? (p. 514) Perché Point Lenana è prima il riesame della deriva littoria, della miopia ideologica (allora come oggi) dei partiti di sinistra che disinnescarono gli Arditi del popolo, del do ut des del Balilla Meazza, di Binda, Nuvolari e Primo Carnera, della “direttiva entrista” e dell’“arte di non esser governati tanto”, dell’anacronismo coloniale, delle bombe all’iprite fra negazionisti o relativisti del gas come Indro Montanelli, dell’(ancora una volta attuale?) madamato, del prestigio di razza e della legislazione antisemita, delle rentrées danarose e arriviste del Maresciallo d’Italia e del “Vespasiano di sangue” del Viceré d’Etiopia – al secolo Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani – per l’inutile compiacente nomenclatura del ventennio, dello svelto colpo di spugna a spron di amnistie e tribunali compiacenti i fascisti che, cambiato il colore della camicia, potevano tornare utili per un nuovo “governo tecnico” (!).
Così focali in Point Lenana saranno anche il ritratto del duca Amedeo d’Aosta, massimo esponente nel suo Dramma di Eschilo dell’antifascismo apolitico in colonia, e le idiosincrasie del Negus Hailé Selassie, martire austero della demenza fascista e insieme garante di «un governo autoritario con tare ereditate dal sistema feudale e altre importate dal capitalismo» (p. 484). Perché dopo Timira di Wu Ming 2 in Point Lenana c’è ancora tanta, anzi, tantissima Africa: la rivoluzione Mau Mau, il rastafarianesimo, il consumismo indotto dei “client-countries” britannici, l’Eccidio di Mogadiscio e il missionariato di Giuan mentre il calco sinottico e ispirativo di Follow The Fleet, pellicola americana con Fred Astaire e Ginger Rogers, ricorderà invece tante pagine di 54 (Wu Ming) se non per stilemi, almeno nella suggestione filmica.
E alla fine il lettore, lost in foreshadowing da così tante pagine, vorrà avanzare la sua soluzione: se Point Lenana, per stesso lecit autoriale un «oggetto narrativo non identificato» (p. 380) fra saggio e racconto, avrà svelato il caleidoscopio concettuale di quel tricolore dei prisoners of war e se Fuga sul Kenya sarà ormai come «un ipertesto dove ogni parola é diventata “cliccabile”» (p. 493). Se le “due bandiere” di Felice – l’ambasciator romantico che cerca le montagne muovendo per il mondo – e Giuan, afflitto dal male oscuro dell’alpinista, avranno saputo saldare nella loro melanconia la guerra della memoria o se, come lo spleen di Comici, anche questa storia non avrà offerto risposte e si potrà solo continuare a raccontarla.

20 luglio 2013, Point Lenana Tour: WM1 sul Monte Vettore. Clicca per ingrandire.
La Repubblica, 23 luglio 2013:
SE LA NUOVA EPICA RIPARTE DAL KENYA
di Giuseppe Leonelli
Wu Ming è un collettivo impegnato da anni in un processo di rifondazione della narrativa italiana, che persegue «la morte del Vecchio» identificato nei «giochetti tardo-postmoderni» di troppi scrittori contemporanei [A voler essere precisi la "morte del Vecchio" è un'altra cosa, è un mitologema che si trova dentro i romanzi del New Italian Epic, ma pazienza, N.d.R.]. Il romanzo dovrebbe ritrovare uno spirito epico raccontando «imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose». È un programma particolarmente caro a Wu Ming 1, fra i membri più attivi del gruppo, che ora firma, in collaborazione con Roberto Santachiara, l’opera dal titolo Point Lenana (Einaudi, pagg. 596, euro 20).
Il romanzo, se si può definire tale, si apre con l’arrivo al personaggio che dice io, cioè Wu Ming 1, «in una mattina come un’altra del febbraio 2009», d’una busta che contiene un libro, Fuga sul Kenya, scritto da un «tal Felice Benuzzi». Gliel’ha mandata l’amico, in seguito coautore, Ro- berto Santachiara. Il libro, pubblicato nel 1947, racconta un fatto avvenuto in Africa nel 1943, allorché tre italiani – il triestino Felice Benuzzi, il genovese dott. Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti di Camaiore – evadono da un campo di prigionia inglese e scalano il Monte Kenya per piantare sulla vetta la bandiera tricolore, quindi ritornano al campo, suscitando l’ammirazione del nemico.
La breve vicenda, iscritta in tre vite e in un limitato arco temporale, si dilaterà, una volta sottoposta all’attenzione degli autori di Point Lenana, in un’amplissima rete di avvenimenti, alcuni connessi e consequenziali, altri casuali, che, sviluppandosi dal passato al presente e al futuro, riempiranno di sé tutto il corso di un’epoca. Il risultato è un complesso diegetico in cui s’intrecciano vari libri, giustamente definito, dagli autori, «racconto di tanti racconti», la maggior parte dei quali si svolge in Africa, luogo deputato dell’epos contemporaneo, ma anche in Italia e altrove: un libro che «parla di Italia e italianità, di esploratori e squadristi, di poeti e diplomatici, di guide alpine e guerrieri».
L’espediente tecnico che produce e tiene insieme il racconto è un processo di «ibridazione di saggistica e narrativa», di per sé non del tutto originale, perché vi hanno fatto ricorso storici e romanzieri in varie epoche; ma interpretato con senso felice del ritmo ed espresso in una lingua asciutta e intensa, che punta sempre verso la realtà, connotandone con efficacia la sostanza subliminale. Eccoci, dunque, proiettati in un arco temporale che va dal 1910 al 1946, innescato da avvenimenti recentissimi, datati fra il 2009 e il 2010. L’esito di quest’avventura narrativa, rigorosamente sostenuta dai documenti (si veda l’accuratissima sezione bibliografica finale) è un grosso tomo, montato come un film, che si legge, si può dire, in un fiato.
C’è una vaga suggestione ariostesca nella velocità con cui il racconto si muove fra «le donne, i cavallier, l’arme, gli amori», ovvero i fatti e i misfatti del nostro tempo. Intravediamo, in apertura di libro, Wu Ming 1, uomo della bassa ferrarese, mentre emerge dalla prima scalata della sua vita che replica, per amore di conoscenza, quella di Benuzzi e compagni; qualche pagina dopo, retrocediamo nel tempo e siamo a Vienna, a Trieste, tra la guerra e le montagne dei primi venti anni del secolo. Verranno in seguito il mal d’Africa, Graziani, Badoglio e l’Impero, tutti prodromi alla vita di Benuzzi, quindi l’altra guerra, i Mau-Mau e tutto il resto che il lettore scoprirà da sé. Compresi il male di vivere, e quindi le lacrimae rerum, ma anche il misterioso senso dell’armonia che, nello sguardo dei prigionieri della vita, pervade l’epifania delle montagne protese verso le alte costellazioni.
Dalla rivista on line Doppiozero, 21 luglio 2013:
Wu Ming 1, Santachiara. Point Lenana
di Enrico Manera
Visivamente, mi figuro Klaus Kinski e Werner Herzog impegnati sul set di Fitzcarraldo in un corpo a corpo con la natura per dare vita a una narrazione che ha l’andatura molleggiata di un gatto, capace di verticalizzazioni impreviste e improvvise e di carezzare morbidamente come di artigliare a sangue.
Penso questo in uno stato di coscienza tra il sonno e la veglia dopo una intensa giornata di presentazione di libri, oltre quattro ore, piacevolmente impegnativa. Tra questi, in particolare, Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara con uno dei due co-autori nella tappa torinese di un vero e proprio tour, impressionante per lunghezza, durata, intensità. Una opportunità per ragionare su diversi nodi che riguardano la narrazione, il suo ruolo pubblico, la sua politicità e il suo potenziale pedagogico.
Il nuovo libro di un membro del collettivo Wu Ming e del loro agente letterario, è un oggetto narrativo non-identificato, un anfibio tra narrativa e saggistica, una non-fiction novel, una inventio ficta. Un (l)ibrido assemblaggio di storie dentro la storia, un itinerario iniziatico tra diversi materiali mitologici, una mappa precisa e in movimento di geografie umane che attraversa vicende di alpinismo e viaggi estremi, di libri di alpinisti e viaggiatori estremi; di Trieste e Istria, Dalmazia; di fascismo e di antifascismo; di colonialismo inglese e italiano; di Kenya, Libia, Etiopia; di razzismo e di post-colonialismo. Di biografie e di tipi umani che quelle vicende hanno attraversato, negoziando e riposizionandosi rispetto ad esse. Tutto questo si stratifica come in una millefoglie a partire dalla vicenda reale di Felice Benuzzi, Giùan Balletto, Enzo Barsotti e della loro impresa. Prigionieri di guerra italiani in un campo inglese in Kenya nel 1943 evasero solo per scalare, senza cibo e in condizioni di fortuna, la Punta Lenana del Monte Kenya. Raggiungono la cima, lasciano tracce del loro passaggio e tornati giù si riconsegnano alle autorità. Per «salvare le loro anime», con un gesto che in Italia viene letto come virile e fulgido esempio di amor di patria o spacconata fascista e che, con gli occhi del resto del mondo è diventato un classico dell’alpinismo e della più nobile fuga into the Wild (cfr. Benuzzi, No picnic on Mount Kenya e la versione italiana Fuga sul Kenya).
Lo strudel, il vortice di cui scriveva Benjamin, è reso ancora più gustoso dalla meta-narrazione: nel 2010 i due coautori hanno ripetuto il viaggio, sono saliti sulla Punta Lenana e raccontano l’esperienza, con il a fatto che uno dei due è un alpinista provetto, l’altro non era mai salito oltre i 1000 metri, mentre qui si parla di 5000 e tre fasce climatiche. Laddove altri lavori del consorzio narrativo bolognese ci fanno vedere il montaggio finito, mostrando il backstage nei titoli di coda, qui il cantiere è aperto e anche il montaggio è trasparente nel testo, con le mail degli autori, le interviste delle tante persone contattate, i documenti di un lavoro di archivio e ricerca di quattro anni di salita al libro.
La montagna, il racconto della quale ha una lunga e consolidata tradizione di genere (in ordine sparso e scriteriato: Petrarca, Goethe, Comici, Motti, Bonatti, Messner, MacFarlane) è per WM1/Santachiara il luogo fisico e simbolico attorno a cui si articola una pratica che sta tra la danza e la disciplina spirituale. Se da un lato può essere malamente inteso (ed è stato fatto dal fascismo) come gesto superomistico e virilizzante, nella sua dimensione più propria è ricerca del vuoto (o del tutto, il suo simmetrico speculare), dell’interiorità e dell’alterità. È la cornice metaforica che nelle parole di Benuzzi significa «meraviglia, umiltà, freschezza di sentimenti». In Primo Levi: «il sapore di essere forti e liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino»; andare in montagna è «un’impresa matura e responsabile, a cui il fascismo non ci aveva preparati, e che emanava un buon odore asciutto e pulito» .
La montagna è un iper-segno: è luogo post-umano in quanto «mina in noi la compiaciuta convinzione che il mondo sia fatto per l’uomo» (MacFarlane), è simbolo dell’eternità, per via della pietra che significa l’inorganico e dura oltre il tempo (con più cognizione di causa: Caillois, Starobinski, Jesi, Assmann). È legata alla metafora primaria per cui ‘alto’ è associato a situazioni emotive positivamente connotate, fin dal neonatale essere presi in braccio e dallo sguardo infantile che è sempre verso l’alto (Lakoff). In montagna il cervello umano sembra funzionare in altro modo, a partire da una differente ossigenazione che attiva una spinta alla percezione del reale, capace di dare seria dipendenza e creare profonde malinconie oltre che stati estatici, dai quali la ricaduta può essere fatale (il libro racconta anche sottotraccia una storia dei tanti alpinisti suicidi).
Per tutte queste cose andare in montagna per uomini e donne di generazioni diverse diventa anche un’utopia vissuta, il fatto tangibile che un’altra vita è possibile, in solitaria ma più spesso nella comunanza di intenzione: è esperienza della pulsione utopica che spinge a fare cose che sono riflesso del desiderio di vivere altrove.
«Non esiste l’azione concentrata, esiste il campo di concentramento»: Benuzzi è un alpinista triestino che, in cerca di un altro mondo, prima ancora di fuggire dal campo di prigionia, era fuggito dall’Italia per fare il funzionario pubblico nelle colonie dell’Africa Orientale Italiana, non prima di aver sposato un’ebrea tedesca clandestina (Stefania “Marchi”, cioè Marx). Nel 1938, peraltro. Gran parte del libro è narrata grazie alla sua voce e a quella delle figlie, Daniela e Silvia, per un ritratto umano che rifugge il gusto agiografico; da tutte le altre voci e dalla messa in luce del loro contesto emerge una presa di coscienza lucida di cosa sia stato il fascismo per una generazione.
Il sotteso impegno pedagogico-culturale rende Point Lenana un libro particolarmente consigliabile al ventenne di oggi. Il salto tra Trieste e Addis Abeba, via Tripoli, permette di raccontare con precisione e semplicità i crimini di guerra del fascismo giuliano e del colonialismo italiano, i grandi rimossi della nostra storia pubblica grazie alla narrazione assolutoria del «buon italiano» che negli ultimi vent’anni ha contribuito a rendere più ottusa un’opinione pubblica che già prima non scherzava.
Ma il discorso tocca anche lettori più maturi e preparati. «Il prius logico delle leggi antiebraiche è il razzismo in Africa e il prius logico del razzismo in Africa è il razzismo antislavo» sintetizza uno dei due coautori. Il durissimo razzismo del fascismo di confine che prepara le vendette future, l’arroganza dell’Impero e le stragi dimenticate di Libia e di Eritrea, i campi di concentramento italiani, le miserie umane dei campioni di antropologia italica Badoglio e Graziani, le pur buone intenzioni di Amedeo d’Aosta che non possono redimere il marcio del colonialismo, le ricerche ignorate di Del Boca perché moltissimi si bevevano le nostalgie giovanili di Montanelli, le amministrazioni locali nostrane che oggi sperperano denaro per fare monumenti a criminali di guerra, la rozza ignoranza delle nostalgie fasciste e il revisionismo da salotto buono dei quotidiani nazionali. Tutto questo trova posto in Point Lenana, insieme alla Resistenza – che è un andare in montagna – e alle diverse forme che la ribellione esistenziale può assumere, oltre l’andare in montagna. Come trovano posto la ribellione indigena dell’Africa post-coloniale, gli spettri dei Mau Mau che materializzano il terrore del selvaggio cannibale, di fronte a un occidente bianco che si autoassolve e animalizza paternalisticamente un’Africa che non conosce veramente.
Molta storia scorre nelle pagine di un libro in cui, per usare una metafora di Filippo Sottile, la storia è simile a un ascensore di cui si vedono i meccanismi operanti, salendo e scendendo dalla tromba delle scale accompagnati dai ricordi del portiere del palazzo. La voce narrante della storia, solitamente affidata al neutro storiografico del saggio, viene destrutturata dalla pluralità delle storie e dalla dislocazione che le fa esplodere per arborescenza. Fin dagli esordi lo stile Wu Ming è caratterizzato dal montaggio ‘cinematografico’ e dalla decostruzione del mito dell’autore, dalla dimensione collettiva intensamente praticata, dalla tematizzazione di eroi eccentrici, di nodi complessi e di comunità minoritarie e trasversali, dai plot irriducibili a stereotipi maistream e trionfali, dal legame con i movimenti militanti e con un’eterogenea opposizione culturale, dal radicamento in una transmedialità in divenire attraverso la rete, dalla programmatica nuova epicità ragionante.
Scrive Yves Citton che il progetto culturale di Wu Ming, nel suo insieme, «condensa una serie di pratiche, di partiti presi e di teorizzazioni che forniscono un’eccellente piattaforma di riflessione sullo statuto delle storie, dei miti, delle comunità e delle scenarizzazioni ancora da inventare».
La scrittura, al pari del cinema e della musica sempre presenti, è intessuta di valore pubblico e politico, e svolge un ruolo decisivo nella battaglia contro il discorso mediatico dominante, che significa sostanzialmente semplificazione banalizzante, riduzione della complessità, rimozione della scomodità, omologazione stereotipante e reificazione mercantilistica. Il montaggio con cui è prodotta (e la sua esposizione) è un modo per riscattare il ‘mito’ come racconto che salva la significatività e il potenziale comunicativo del racconto, fino a farne uno strumento di mitologia ‘autentica’, cioè non dogmatica e indiscutibile, per comunità in rivolta in cui «singolarità di ogni scrittura e la dimensione comune della moltitudine» (Citton), individuo e comunità, trovino il loro equilibrio.
Nella continuità di paesaggio immaginale tra la linea di ribellione/emancipazione che solca le controculture e le tante vicende di rivolta/rivoluzione della storia si producono «attraverso le gioie del contagio» i «germogli» di «nuovi mondi del possibile preclusi alla ragione contabile» e le ragioni di una ricerca della «felicità» presente. Wu Ming può essere considerato un paradigma di produzione narrativa per la ricostruzione di un immaginario di sinistra: che per Citton non può che essere «un bricolage eteroclito di immagini frammentarie, di metafore dubbiose, di interpretazioni discutibili, di intuizioni vaghe, di sentimenti oscuri, di folli speranze, di racconti senza cornice e di miti interrotti che prendano insieme la consistenza di un immaginario, tenuto insieme [...] dal gioco di risonanze comuni che attraversano la loro eterogeneità per affermare la loro fragilità singolare».
Point Lenana inserisce in questo progetto narrativo anche la comunicazione della storia, su base rigorosamente documentaria, su cui si dovrebbe iniziare a riflettere seriamente, preso atto di una crisi delle Humanities e dello scarso appeal degli studi storici (che poi significa ignoranza mostruosa dei più e degrado della vita pubblica). Ma qui è lo scrivente che parla dopo aver preso un sentiero parallelo, un recensore-lettore che tra l’altro insegna filosofia e storia a gente più giovane e per cui il problema della narrazione è anche rovello di una negoziazione quotidiana.
Gli autori del libro confessano apertamente che il loro campo-base è stato l’amore per i personaggi, le cui tracce sono state disseppellite e restituite a nuova vita.
È un racconto di racconti di uomini che vagarono sui monti. Uomini che in pianura e in città indossavano elmi, cotte di maglia, armature da ufficio, e solo in montagna si sentivano finalmente leggeri, finalmente sé stessi. La montagna era tempo liberato, rubato al dover vivere, conquistato con unghie, denti e piccozza. Quando scendevano – perché prima o poi tocca farlo – la vita li riafferrava, la gravità li tirava giú e tornavano a essere, come scrisse uno di loro che poi si tolse la vita, «i falliti». Lo furono anche nella buona sorte: qualcuno ebbe successo nella professione, girò il mondo, fece piú di una bella figura in società, poté contare su una famiglia che lo amava… Eppure, nulla di tutto ciò rimpiazzava una salita in montagna, una notte in bivacco, uscire dal rifugio e assistere in marcia al sorgere del sole. Tutti i giorni sognavano. Sognavano il cameratismo della cordata o la pace concentrata e acuta dell’ascesa in solitaria. Tutti, senza eccezioni, sognavano il vento che sferza naso e guance mentre lo sguardo si perde dalla vetta, rivivevano l’istante prima della discesa, l’ultimo languore che precede la tristezza, la mancanza, il congedo dal mondo che non conosce il dover vivere.
Ripenso a Kinski e a Herzog, al loro teatro nella giungla. Al felino sornione e a due teste che ruggisce con determinazione o gorgoglia sommessamente, gettando sassi nell’acqua che producono cerchi dall’ampiezza imprevedibile. Ritrovo lo stesso coinvolgimento totalizzante in una comunità di lettori stretta intorno ai loro autori. È chiaro a tutti che scrivere è andare in montagna.

Point Lenana sul Monte Vettore, 2476 mt., vetta più alta delle Marche. Fotografia di Simone Vecchioni, clicca per ingrandire.
Dalla rivista (Meridiani) Montagne, luglio 2013:
TANTI RAMI INTORNO A BENUZZI
di Marco Albino Ferrari
A detta degli stessi autori, Point Lenana è un vero e proprio UNO, cioè un Unidentified Narrative Object o, se preferite, un oggetto narrativo non-identificato. Tant’è che alla fine della lettura non saranno pochi i problemi che vi troverete a risolvere per decidere su quale scaffale inserirlo: tra i romanzi storici? Tra i saggi? Tra i libri di viaggio? Tra i récit d’ascension? Forse finirete per appoggiarlo sul comodino così da riprendere la lettura di quando in quando, ritornando su qualche dettaglio delle innumerevoli e curiose storie che nelle oltre cinquecento pagine si intrecciano. Il filo narrativo, o meglio il “tronco portante” del libro, è la vicenda arcinota di Felice Benuzzi e dei suoi due compagni che durante la guerra fuggono da un campo di prigionia inglese sotto il Monte Kenya e, con attrezzi tecnici ed abbigliamento del tutto inadatti, riescono a dar luce al loro sogno arrivando sulla vertiginosa cima equatoriale. Da quell’avventura nascerà un best-seller internazionale, No Picnic on Mount Kenya (Fuga sul Kenya è il titolo italiano, che ha conosciuto fortuna più contenuta rispetto alla rimaneggiata versione inglese, vedi Montagne n. 58, pag. IX). Dal tronco portante, però, il team degli autori (ibrido pure quello: uno scrittore parte integrante del collettivo Wu Ming e un noto agente letterario) devia, deraglia, sale su rami secondari che invece che assottigliarsi si fanno via via più solidi e diventano vere e proprie storie indipendenti. E’ stato “come navigare in un ipertesto”, dicono gli autori verso la fine del viaggio. “Ogni parola, ogni nome, ogni riferimento en passant è diventato ‘cliccabile’.” Si parte così dagli sforzi di Benuzzi e compagni sulla montagna e si passa all’irredentismo triestino (città di Benuzzi), si transita poi per le evoluzioni di Comici sulle muraglie dolomitiche, si devia sul racconto delle prebende milionarie di una figurina orrenda della nostra storia patria, Pietro Badoglio, e sul suo socio gassatore di negri in Abissinia, Rodolfo Graziani. Che siano sullo sfondo o in primissimo piano, le montagne non mancano mai: così come l’alpinismo, i viaggiatori delle alte quote, il Cai, i libri di scalate, l’amore per i grandi orizzonti. Un libro che consiglio caldamente ai lettori di Montagne: sarà assai facile rimanere sospesi a uno degli infiniti rami che si staccano dal tronco portante.
L’11 luglio scorso WM1 è intervenuto telefonicamente nella trasmissione Flatlandia di Radio Onda d’Urto (Brescia). A intervistarlo c’era Gianbattista (Sancho) Santoni. Ecco la registrazione.
Chiudiamo, per ora, linkando la bella e toccante recensione di una lettrice gardenese, Stefania Demetz, nata e cresciuta nei luoghi in cui Emilio Comici trascorse gli ultimi anni di vita.
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