Wu Ming 4's Blog, page 106
January 14, 2014
Da Ronchi «dei Legionari» a Ronchi dei Partigiani. Di cos’è il nome un nome?
di Marco Barone (guest blogger)
Nel centenario dell’inizio della Grande guerra, questo articolo affronta nodi simbolici ed eredità odierne della cosiddetta «impresa di Fiume». Evento che, per linguaggio, stile, retorica e violenza, fu un’anticipazione del fascismo e un anello di congiunzione tra le due guerre mondiali.
Partendo dalla Calabria raggiungeremo Fiume per poi fermarci a Ronchi dei Legionari, provincia di Gorizia. Attraverso una lettura critica dell’impresa di occupazione fiumana e del personaggio D’Annunzio, metteremo in discussione la denominazione «dei Legionari», cercando di restituire la giusta dignità a un luogo, a una comunità, a una cittadina che ha lottato contro il fascismo, per quella libertà che va difesa anche attraverso i simboli, proprio quello che ci accingiamo a fare.
«Egli sapeva amarmi come tu medesimo sai. Dal Vittoriale degli Eroi egli partì per la morte a tradimento. L’orbo veggente scoprì subito il tradimento. I testimoni sono vivi.»
Con queste parole di amicizia e amore fraterno Gabriele D’Annunzio ricordava il suo amico Luigi Razza, nato a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia). Razza fu redattore del Popolo d’Italia e segretario dei Fasci d’azione di Milano, poi Deputato (dal 1924), segretario e poi presidente della Confederazione dei sindacati fascisti dell’agricoltura (1928-33), membro del Gran Consiglio del fascismo e ministro dei Lavori pubblici (1935). Morì mentre si recava all’Asmara.
Il legame tra D’Annunzio e Razza passa anche attraverso i luoghi e i simboli, e attraverso il mito dell’Impero Romano, «spada lucente» usata per calpestare la dignità di intere comunità, popoli e semplici cittadini.
Nel 1939 a Vibo Valentia venne inaugurata da Benito Mussolini, durante la sua visita alla città, il monumento dedicato a Razza. Eccolo, in Piazza San Leoluca, su un imponente piedistallo, alle sua spalle una stele con l’effigie marmorea della Vittoria alata.
A Razza «la sua città grata» ha riservato un’altra effigie nel Palazzo del Municipio, anche questo a lui intitolato. «La sua città grata» è scritto anche sul nastro della corona che periodicamente viene apposta alla base del monumento.
A Luigi Razza sono stati intitolati anche il locale aeroporto militare – base del reparto «Cacciatori Calabria» dei Carabinieri, lo stadio comunale, una piazza e la via principale del cimitero cittadino, ove primeggia su tutte l’immensa cappella del Ministro Fascista preceduta da un vialetto circondato, ancora oggi, da fasci littori, e ovviamente all’interno di quest’ultima si trovano foto di Mussolini e del periodo fascista. Del resto, sono a lui intitolate anche diverse vie in svariate città e cittadine d’Italia: Vibo, Milano, Palermo, Avola, Nicotera… Ma non finisce qui: Poste Italiane, su richiesta del Comitato Vibonese Luigi Razza, ha realizzato a margine di un recente convegno sul ministro fascista, uno stand per lo speciale annullo filatelico a lui dedicato, da apporre su una cartolina celebrativa a tiratura limitata.
Il 19 gennaio 1928, come molte altre città dell’Italia meridionale ma non solo, Monteleone venne richiamata con il suo antico nome latino di Vibo Valentia, in omaggio alla politica fascista di «romanizzazione» dell’Italia.
Le iniziative di omaggio e identificazione con l’antica civiltà dell’Impero Romano erano state anticipate proprio nel luogo che aveva fatto da base logistica (e null’altro) al caro amico di Razza, Gabriele D’Annunzio, ovvero Ronchi di Monfalcone, da cui era partita la marcia su Fiume.
Ronchi di Monfalcone divenne Ronchi dei Legionari. Fu uno dei primi, se non addirittura, il primo cambio di nome di un Comune d’Italia, nel pieno spirito della romanizzazione del Paese a opera del regime fascista. Ronchi dei Legionari deve il suo attuale nome alla spedizione capeggiata da Gabriele D’annunzio e sfociata nell’occupazione militare di Fiume. Una forza prevalentemente volontaria e irregolare di nazionalisti ed ex combattenti italiani, partendo da Ronchi, invase e occupò Fiume, città che – è bene ricordarlo – nel Patto di Londra del 26 aprile 1915 negli articoli 4 e 5 Fiume non era inclusa nelle richieste italiane in caso di vittoria.
«In nome di tutti i morti per l’Italia giuro di essere fedele alla Causa Santa di Fiume, non permetterò mai con tutti i mezzi che si neghi a Fiume l’annessione completa ed incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: Fiume o morte».
Questa la formula del giuramento di Ronchi. Venti ufficiali, duecentoventidue granatieri, quattro mitragliatrici, quattro pistole mitragliatrici, sedicimila munizioni per i fucili, la spedizione ebbe l’apporto determinante di una parte di esercito, soldati frustrati e confusi in seguito alla pace, alla riduzione di personale, alla smobilitazione, che vedevano in D’Annunzio ed in Fiume, con la piena complicità dello stesso Vate, mezzi utili per fini che solo la storia sarebbe riuscita a spiegare con gli eventi successivi. Fiume era solo uno strumento, non il fine. E’ interessante, a tale proposito, la testimonianza del maggiore Carlo Reina, Capo di Stato maggiore del comando fiumano dal settembre al dicembre 1919, poi per diversi motivi allontanato dal Vate e spedito in via punitiva a Zara.
Nella relazione sulle vicende fiumane che inviò a Prezzolini nel 1921, Reina scriveva:
«veniva trattato l’invio di circa un centinaio di Ufficiali in Italia per avvicinare e lavorare gli ambienti più facilmente rivoluzionabili, studiare gli edifici che in ogni singola Città avrebbero dovuto essere occupati, come banche, stazioni ferroviarie, poste, telegrafi ed infine studiare il moto di armare la milizia cittadina […] Era intenzione del Poeta di inviare in Italia [durante il periodo delle elezioni politiche, NdR] un adeguato numero di legionari col preciso mandato di rompere le urne il giorno delle elezioni. Già tutto era pronto per questa spedizione quando corse a Fiume Mussolini ad impedire l’attuazione.»
Poco prima della partenza per Fiume D’Annunzio – in seguito uno dei primi firmatari del manifesto degli intellettuali fascisti – scrisse a Benito Mussolini: «domattina prenderò Fiume con le armi». Poi lo implorò di non lasciarlo solo nell’impresa. Il 23 marzo del 1919, a Milano, Mussolini fondò i fasci di combattimento, e sempre in tale anno finanziò l’impresa di Fiume raccogliendo quasi tre milioni di lire. Una prima tranche di denaro, ammontante a 857.842 lire, fu consegnata a D’Annunzio ai primi di ottobre. In una lettera successiva, D’Annunzio certificò che parte della somma raccolta era stata utilizzata per finanziare lo squadrismo a Milano, e invitò Mussolini a fare suo il motto degli autoblindo di Ronchi:
«Mio caro Benito Mussolini,
chi conduce un’impresa di fede e di ardimento, tra uomini incerti o impuri, deve sempre attendersi d’essere rinnegato e tradito “prima che il gallo canti per la seconda volta”. E non deve adontarsene né accorarsene. Perché uno spirito sia veramente eroico, bisogna che superi la rinnegazione e il tradimento. Senza dubbio voi siete per superare l’una e l’altro. Da parte mia, dichiaro anche una volta che — avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari bene scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica — io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti. Contro ai denigratori e ai traditori fate vostro il motto dei miei “autoblindo” di Ronchi, che sanno la via diritta e la meta prefissa.
Fiume d’Italia, 15 febbraio 1920 Gabriele D’Annunzio.»
E’ vero che quell’impresa è stata ben vista anche da una parte di sinistra, anche per alcuni principi adottati nella Carta del Carnaro, ma quest’ultima aveva diversi aspetti di autoritarismo puro: vietava il diritto di sciopero, e in caso di grave pericolo per la Repubblica l’Assemblea Nazionale poteva nominare un Comandante per un periodo non superiore ai sei mesi. Il Comandante esercitava tutti i poteri politici e militari, sia legislativi che esecutivi. I membri del potere esecutivo funzionavano come suoi semplici segretari. Allo spirare del termine fissato per la carica, l’Assemblea Nazionale si doveva riunire e deliberare sulla conferma in carica del Comandante stesso, sulla sua eventuale sostituzione o sulla cessazione della carica. La Carta legittimava la proprietà privata e pur confermando la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione riconosceva maggiori diritti ai produttori.
Certo, la Russia bolscevica fu l’unico paese a riconoscere la Reggenza italiana di Fiume, e alcuni esponenti politici e intellettuali della sinistra videro nell’impresa un’occasione per rivoluzionare l’esistente, ma è il caso di precisare che il resto della sinistra e molti intellettuali, artisti e persone di cultura giudicarono il tutto una buffonata.
Ecco cosa scrissero alcuni professori e intellettuali in merito alla volontà di realizzare il monumento a D’Annunzio a Ronchi:
«[...] Oggi risulta chiaro – anche secondo il giudizio della più recente storiografia – che l’impresa dannunziana rappresentò [...] la premessa ideologica e tattica del fascismo [...] D’altra parte la stessa impresa, esasperando odi locali e conflitti nazionalistici, ostacolò l’avvio ad un’equa soluzione dei problemi politici dell’Alto Adriatico. Celebrare oggi questo episodio significa screditare l’ordinamento democratico del paese e compiere opera di diseducazione politica e civile, particolarmente nei riguardi dei più giovani, ai quali si addita come esemplare un gesto irrazionale di sovversione e violenza.»
Pier Paolo Pasolini ha scritto:
«[D'Annunzio] rappresenta e esprime l’Italia nel suo momento involutivo: nel momento cioè in cui il Risorgimento ha mostrato i suoi limiti, la sua vera essenza di rivolta aristocratica, il suo liberalismo apocrifo (cfr. Gramsci), e la nuova classe borghese è cominciata a diventare quello che è: una mostruosa riserva di egoismo, di conformismo, di paura, di mistificazione, di ristrettezza mentale, di provincialismo […] L’impresa di Fiume è stata una pagliacciata narcisistica. I poveri, onesti nazionalisti friulani ne sono delle ingenue vittime.»
Narcisismo e pagliacciate tra le antiche mura di Fiume. Reina, sempre nella relazione inviata a Prezzolini nel gennaio del 1921, denunciò che «ogni sera il Poeta andava a pranzo alla mensa degli Aviatori e sempre portava in regalo a ogni commensale una bottiglia di champagne; 27 erano i commensali e 27 le bottiglie che ogni sera venivano sturate da quei signori, mentre fuori la popolazione veramente soffriva la fame».
Veniamo al punto: il motivo reale del nome Ronchi dei Legionari. Dal libro di Silvio Domini Ronchi dei Legionari Storia e documenti, 2006, a pag. 147 emerge un documento tratto dall’Archivio Comunale di Ronchi, dove si evidenzia il chiaro intento politico di stampo nazionalistico e fascista. La proposta di ridenominazione presentata il 4 ottobre del 1923 dal Consiglio comunale popolar-fascista dice:
«rammentando la nobile ed audace Impresa del Comandante G.D’Annunzio, il quale partì con i suoi Legionari da Ronchi, per suggellare l’Italianità della Città di Fiume, rendendo con ciò noto per la seconda volta il nome di Ronchi nella storia delle rivendicazioni italiane.»
Mussolini ritardò l’accoglimento della richiesta come formulata dai fascisti di Ronchi, probabilmente perché in competizione con D’Annunzio. Ma quando comprese che la denominazione «dei Legionari» si conciliava perfettamente con lo spirito della romanizzazione dell’Italia che egli voleva imporre e avrebbe imposto, e pensando che la Marcia su Fiume altro non era stata che l’anticipazione della Marcia su Roma, non poté che acconsentire, ma perché acconsentisse fu necessario un mero atto di omaggio e di fedeltà che Ronchi doveva manifestare espressamente nei confronti del Duce.

Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, Gardone Riviera, foto di anonimo, metà anni Venti.
Il 17 maggio del 1924 il Consiglio Comunale a maggioranza fascista di Ronchi si riunisce in seduta straordinaria e delibera di nominare Benito Mussolini «cittadino onorario di Ronchi di Legionari».
Il 2 novembre del 1925, con il Regio Decreto firmato da Rocco e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n° 283 del 5 dicembre, il governo ufficializzò il nome «Ronchi dei Legionari».
Il 20 settembre 1938 Mussolini, dopo aver presentato a Trieste le Leggi Razziali (una delle scene-chiave del libro Point Lenana di Wu Ming 1 e Santachiara), si fermò a Ronchi dei Legionari per consacrare la fascistizzazione del toponimo in armonia con la fascistizzazione dell’Italia razzista.
Va precisato che la decisione di consacrare il nome di Ronchi ai legionari di D’annunzio, all’impresa di Occupazione ed italianizzazione di Fiume, avviene nel periodo delle leggi fascistissime, come la legge n. 2029 del 26 novembre 1925 che predispone la schedatura dell’associazionismo politico e sindacale operante nel regno, o la n.2300 del 24 dicembre 1925 che rimuove dal servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al regime, o la n. 563 del 3 aprile 1926 che proibisce lo sciopero. Il nome «Ronchi dei Legionari» cade proprio nel bel mezzo della fascistizzazione dell’Italia. Del resto, il fascismo si è appropriato dell’impresa di Fiume, ha fatto propri i simboli introdotti dal guerrafondaio D’Annunzio durante l’occupazione della città, come il saluto romano con il braccio alzato, la camicia nera istoriata di teschi e il grido «Eia, eia, alalà!». Il nome «Ronchi dei Legionari» sarà fascista e non potrà che essere fascista.
«E’ necessario impiegare il maggior numero di persone nella propaganda in paese e fra le truppe, oggi bisogna agitare e far sì che la Nazione tutta senta l’ora storica che attraversa. Il gesto compiuto a Fiume deve aver termine a Roma», queste le parole di Giovanni Giurati nel rivolgersi a un esponente di primo piano del combattentismo giuliano, ringraziandolo per il contributo offerto da Trieste ai legionari.
Francesco Giunta, il capo dei fascisti triestini, disse che bisognava liberare l’intera regione dall’incubo slavo, dimostrare a certi subdoli stranieri che Trieste era una città italiana che non teneva affatto alla qualifica anseatica, e poi marciare su Roma e scacciare i mercanti del tempio (Cfr. A.M. Vinci, «Dannunzianesimo e fascismo di confine», in Pupo – Todero (a cura di) Fiume, D’Annunzio e la crisi dello Stato liberale in Italia, IRSML 2011)
Né si deve dimenticare che il fascismo inserì D’annunzio tra i suoi precursori anche grazie ad alcuni stretti collaboratori del Vate come Malusardi, Marpicati, Amilcare De Ambris, che senza perdere tempo alcuno si congiunsero al nascente regime.
Innanzi al palazzo del Municipio di Ronchi domina nella piazza un monumento dedicato alla Resistenza. Ronchi ha la decorazione al Valor Militare per la Guerra di Liberazione, perché centinaia e centinaia furono i nostri concittadini che combatterono per la libertà contro il nazifascismo e per questo persero la vita.
E’ stridente il contrasto tra la denominazione fascista e la reale storia di Ronchi, l’identità di Ronchi, la vita della comunità di Ronchi, il senso di appartenenza a Ronchi. All’impresa di D’Annunzio non parteciparono cittadini di Ronchi. La città fu ed altro non fu che una semplice base logistica temporanea.
In un giorno di fine estate 2013, un gruppo di cittadine e cittadini decide di aprire un gruppo Facebook chiamato Ronchi dei Partigiani. Lo scopo del gruppo, che ha centinaia di condivisioni, è proporre una riflessione, una discussione, un dibattito sull’imposizione della denominazione «dei Legionari». Al tempo stesso, ne proponiamo anche la cancellazione, in modo assolutamente democratico, partecipato e dal basso, perché la reputiamo impropria, estranea all’identità di Ronchi e figlia della cultura fascista.
Il 15 novembre 2013 ho inoltrato una istanza di Accesso agli atti al Comune di Ronchi, dove formulavo vari quesiti e risollevavo il problema della cittadinanza onoraria di Mussolini a Ronchi, fatto strettamente connesso all’attuale denominazione.
Il Sindaco di Ronchi ha risposto in modo positivo, prendendo pubblicamente l’impegno di adoperarsi il prima possibile per revocare la cittadinanza onoraria a quasi 90 anni dalla concessione.
Anche il Partito della Rifondazione Comunista di Ronchi ha presentato una mozione per sollecitare la revoca della cittadinanza onoraria, e l’ANPI si è espresso in termini analoghi.
La campagna ha iniziato ad avere un piccolo ma importante effetto domino. Sono ancora tanti i Comuni italiani che hanno riconosciuto la cittadinanza onoraria a Mussolini senza mai revocarla. Uno di questi è Gorizia. Già, anche Gorizia ha tra i suoi “cittadini” Mussolini.

Il giulivo sindaco di Gorizia Ettore Romoli (Forza Italia)
Il Piccolo del 13 dicembre 2013 riportava la risposta data dal Sindaco di Gorizia Ettore Romoli a chi parlava di revocare la cittadinanza:
«Mi aspettavo che prima o poi qualcuno mi avrebbe posto questa domanda. Mi sembra che ci siano cose più importanti da risolvere. Lasciamo che la storia continui a dormire».
No, la storia non può continuare a dormire, l’indifferenza è il male dei mali e l’antifascismo è sempre attuale. I principi, la dignità, i valori, i diritti civil e, l’etica, devono essere sempre al primo posto. «Ci sono cose più urgenti» è la solita scusa, adottata non solo per evitare di affrontare il problema, ma anche perché, probabilmente, si condivide ciò che non si vuole revocare. Revocare l’atto di cittadinanza a Mussolini non è un semplice atto formale e simbolico, inutile per la città considerata, è invece un atto di sostanza e questa sostanza si chiama rispetto per la libertà, per la dignità di una intera comunità, rispetto per chi ha lottato contro la dittatura. Non voler revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini significa semplicemente essere favorevoli alla sua cittadinanza ed a tutto ciò che egli e il fascismo hanno rappresentato in questo Paese.
Nello stesso tempo, ecco risvegliarsi i sentimenti dell’Irredentismo. La Lega Nazionale di Gorizia ci accusa di essere antistorici:
«Nessuno può modificare la storia ed è pretestuosa qualsiasi divagazione sull’argomento. Il 12 settembre 1919 partì da Ronchi la Marcia su Fiume e in seguito la città divenne parte integrante dello Stato italiano!».
Ancora una volta, è il caso di rimarcare che il legame tra l’impresa di Fiume e la comunità di Ronchi è un grande artificio. E’ lo stesso d’Annunzio nei suoi diari a definire Ronchi «piccolo borgo inconsapevole». Inoltre, l’impresa non ha inciso minimamente nella coscienza collettiva dei ronchesi, che non vi hanno preso parte né ne sono stati condizionati. Ne è dimostrazione il forte impegno antifascista della popolazione durante la guerra di liberazione. Quanto a rivendicare l’italianità di Fiume, è un comportamento incomprensibile oltre che anacronistico.
La Lega Nazionale ci accusa anche di aver manipolato le foto storiche, e ciò sarebbe degno della Enciclopedia Sovietica. In verità, premesso che gli abbonati dell’enciclopedia Sovietica quando un personaggio eminente “scompariva” ricevevano nuove voci da incollare sopra quelle degli scomparsi, noi non abbiamo manipolato nessuna foto. Semplicemente, abbiamo realizzato un logo che vede cancellati con una X il nome i Legionari, sostituiti dai Partigiani.
Ronchi non è dei Legionari, non appartiene ai Legionari e mai potrà appartenere ai Legionari.
«Il Dio di Dante è con noi», disse il Vate in un’altra occasione, il 20 settembre 1919. «Il Dio degli eroi e di martiri è con noi. È con noi il Dio tremendo e soave che ha i suoi oratorii sul Grappa, sul Montello, nel Carso, che ha le sue mille e mille croci nei cimiteri silenziosi dei fanti, che ha quattordicimila croci in quella terra arsiccia di Ronchi da dove l’altra notte ci partimmo credendo sentire nell’aria l’odore beato del sangue di Guglielmo Oberdan misto al fiato leonino dei combattenti di Marsala accorsi. […] Chi può sperare non dico di abbattere ma di flettere questa volontà umana e divina? […] E il Dio nostro faccia che il vento del Carnaro, passando sopra Veglia, sopra Cherso, sopra Lussin, sopra Arbe, sopra ogni isola del nostro arcipelago fedele e giurato, nel natale italico di Roma e di Fiume romana, giunga ad agitare vittoriosamente tutte le bandiere d’Italia.»
Queste parole di D’Annunzio sono tratte da Nel Natale di Roma, discorso pronunciato il 20 settembre 1919. E’ questo lo spirito che ancora oggi qualcuno difende e rivendica. La Fiume romana che festeggia i propri natali assieme a Roma, sua madre ideale; il ricordo di Buccari, con l’indiretto ma ovvio richiamo alla Grande guerra; l’italianità dall’area adriatica; il richiamo al luogo della cattura di Oberdan che era proprio a pochi passi dalla dimora che ospitò D’Annunzio prima di partire per Fiume; il richiamo al primo martire dell’irredentismo, alla redenzione, tutti elementi che ben connotano la marcia su e di Fiume.
Ronchi è un luogo collocato vicino al confine. E ciò che era oltre il confine orientale veniva considerato barbaro e selvaggio. D’Annunzio, al quale recentemente è stato anche dedicato uno spazio espositivo – altamente celebrativo dell’impresa fiumana – a pochi passi dal Municipio di Ronchi, così si esprimeva parlando dei croati:
«il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato oppure (…) quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso…» (dalla Lettera ai Dalmati)
Un altro esempio del suo razzismo è ne Gli ultimi saranno i primi. Discorso al popolo di Roma nell’Augusteo, 4 maggio 1919:
«Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandrie di porci!»
«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.» Queste le parole esplicite, pronunciate da Mussolini durante un viaggio nella Venezia Giulia nel settembre del 1920. Come si può notare, c’è piena sintonia con il linguaggio, lo stile e l’intento dannunziano.
A tal proposito è interessante riportare quanto scrive Anna Di Gianantonio in relazione alle barbarie del fascismo in questa fetta di terra.
«Nel nostro territorio in quel breve lasso di tempo il duce aveva già mostrato il suo volto anti slavo, accanendosi contro gli sloveni della zona per non macchiare l’identità italiana di luoghi per la cui “redenzione” erano morte centinaia di migliaia di soldati durante la guerra. Territori per nulla compattamente italiani e che bisognava dunque stravolgere nella loro identità. Da qui spedizioni punitive nei villaggi intorno a Gorizia, legge Gentile sulla scuola che prima limiterà, poi impedirà di parlare la lingua slovena, inizio della procedura di italianizzazione dei cognomi, prime persecuzioni contro il clero. E siamo appena agli inizi della dittatura. Mi pare inutile continuare nell’elenco dei successivi, e ben noti, crimini del fascismo al confine orientale, segnati in maniera radicale dalla politica razzista nei confronti degli slavi, che non erano affatto, come ha recentemente affermato Sergio Romano, esclusivamente provenienti dal “contado” ma costituivano un pezzo importante della borghesia cittadina. Intervistato sulla questione della cittadinanza al duce, il sindaco Romoli ha detto che “bisogna lasciare dormire la storia”, dimenticando che è proprio perché la storia si è lasciata troppo a lungo sonnecchiare che la città ha un’identità così frammentata e debole. E’ proprio perché come italiani non abbiamo mai voluto chiedere scusa agli sloveni e riconosciuto i nostri errori che la città ha stravolto a fini ideologici il suo passato, cercando di guadagnare il più possibile dalla finta identità del “bono italiano”. Ora i tempi sono maturi per chiudere i conti con quelle vicende e iniziare una fase nuova di collaborazione tra le popolazioni del goriziano. Il GECT, l’organismo che lo stesso sindaco ha individuato come quello che dovrà rilanciare l’economia di Gorizia, è ospitato proprio nel Trgovski dom, edificio sottratto agli sloveni dal fascismo. Come si può collaborare senza togliere la cittadinanza al duce che ordinò il sequestro e la razzia di quell’edificio?»
Parole che ovviamente condivido.
Eppure in una delle pareti del Palazzo che ospita il Comune di Ronchi sono riportate due date: la prima è quella dell’impresa di Fiume, la seconda quella dell’annessione di Fiume all’Italia avvenuta il 16 Marzo 1924, quando Vittorio Emanuele III arrivò a Fiume e ricevette le chiavi della città.
Luca Meneghesso ha scritto:
«esistono, come nel caso di Ronchi, imposizioni di tipo ideologico. Più diffuse quelle di tipo nazionalistico: basti pensare a tutti i toponimi slavi (ma anche friulani?) stravolti. Ad esempio il caso del monte Krn che in italiano diventa monte Nero (per la somiglianza di Crn – nero in sloveno – e Krn) nonostante si tratti di un “becco affilato” che scintilla candido di neve per tutto l’inverno come ricorda Boris Pahor. Oppure il caso che unisce entrambe le imposizioni con Sdraussina (Zdravščine) che diventa Poggio Terza Armata: deslavizzazione, italianizzazione ed esaltazione dell’esercito al tempo stesso. Pasolini però, che nella parte critica mi pare convincente, nella parte propositiva, un monumento (?) a Ascoli, mi pare ingenuo e fuori luogo. Graziadio Isaia Ascoli non solo non fu rivoluzionario, ma neanche fu una vittima del fascismo (essendo morto nel 1907). A lui inoltre è dedicata quella Società Filologica Friulana che, nata nel 1919, è cresciuta durante il fascismo senza rischi. Ascoli, inoltre, è stato l’inventore di quel nefasto neologismo concettuale di “Venezia Giulia” che è da rigettare per diversi ordini di motivi che «altri prima di me hanno analizzato e che sono gli stessi, più altri, per cui rigettare il monumento ai legionari (oltre che il suffisso a Ronchi). È possibile a posteriori una revisione critica di un’opera imperialistica anche su un piano semplicemente toponomastico? Ronchi dei Partigiani mi piace ma la questione è più complessiva e non la risolveranno i ‘taliani/talians/italiani in quanto amministratori (e gli amministratori anche se furlani bisiachi e sloveni pur sempre italiani restano). D’altra parte neppure i sottani, furlani, bisiachi o sloveni che siano, si interesseranno alla cosa. La nominazione-denominazione è annichilente atto d’imperio. Cose da padri e padroni: non è di là che passa l’emancipazione… Scardinare il linguaggio istituzionale, viralizzare i dialetti, imbastardirsi, ripartire dal basso. Nessuno in dialetto dice “Ronchi dei Legionari” o “Venezia Giulia”: è così che Legionari e gens italiche sono già morti.»
Chissà che magari un giorno, oltre a revocare la cittadinanza onoraria a Mussolini, non si proceda anche a cancellare la denominazione «dei Legionari». E chissà che in tale momento non sia possibile realizzare tra Fiume/Rijeka e Ronchi un gemellaggio, nel nome di una storia che non dorme ma è viva e sveglia, perché la storia siamo noi. Ronchi potrebbe essere uno dei primi comuni a essere intitolato formalmente ai partigiani, e la forma sarà sostanza, sostanza di dignità.

Fiume / Rijeka oggi
Chiudo riportando la motivazione della Medaglia d’Argento al valor militare assegnata a Ronchi per l’attività partigiana svolta dai suoi cittadini dopo l’8 settembre 1943
«Già duramente provato dalle operazioni nel primo conflitto mondiale e, forte delle sue tradizioni di dignità civile e politica, reagendo con indomito coraggio alla lunga e crudele dittatura fascista, il popolo di Ronchi dei Legionari, pur se in condizioni di grave inferiorità tecnica e numerica, dopo l’8 settembre 1943, organizzò la Resistenza contro l’occupatore, impegnandolo in numerosi e cruenti scontri. Nel corso di venti mesi di lotta partigiana, malgrado persecuzioni, deportazioni nei campi di sterminio, distruzioni e torture, i Ronchesi furono tra i protagonisti della rinascita della Patria, lasciando alle future generazioni un patrimonio di elette virtù civili, di coraggio e di fedeltà agli ideali di giustizia.»
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January 12, 2014
Difendere la Terra di Mezzo | Calendario presentazioni 2014
16 gennaio, Roma: C.S.A. Astra 19, via Capraia 19 (Tufello), ore 19:30 (qui un’articolata e interessante recensione che annuncia la presentazione romana).
24 gennaio, Teramo: Laboratorio Politico Gagarin Sessantuno, via Mario Capuani 61, ore 21:00.
2 febbraio, Oderzo (TV): Spazio Zero, via Piave 2, ore 16:00.
15 febbraio, Torino: Luna’sTorta, via Belfiore 50/e, ore 21:00 (preceduta da aperitivo alle 20:00).
Contatti: beppemarchetti@gmail.com
16 febbraio, Aosta: Espace Populaire, via J. C. Mochet 7, ore 18:00
25 febbraio, Modena: Istituto Filosofico di Studi Tomistici, via San Cataldo 97, Ore 21:00
26 febbraio, Pavia: Spaziomusica, via Faruffini 5, ore 21:30
(modera Chiara Codecà)
15 giugno, Ara, frazione di Grignasco (NO), Casa delle Grotte di Ara, ore 14:00.
Tolkien Day, 7 dicembre 2013
Audio dell’incontro al Video Games Museum di Roma (VIGAMUS), nell’ambito del Tolkien Day, 7 dicembre 2013.
Con Roberto Arduini, Wu Ming 4 e Claudio A. Testi.
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January 7, 2014
Quattro più quattro uguale otto. Anzi 34. O forse 520 (cioè 13mila).

Lo scorso 23 dicembre abbiamo concluso due raccolte importanti: da un parte, le 34 giocate per la partita di “tarocchi narrativi” che ha preso il nome di #Tifiamo4; dall’altra, le 520 quote per la stampa di 4, il libro di fotoracconti con gli scatti del collettivo TerraProject, le parole di WM2, il design di Ramon Pezzarini e la cura di Renata Ferri.
A dire il vero, quest’ultima raccolta si era conclusa sul sito di Produzioni dal Basso già una settimana prima della scadenza prevista, con il raggiungimento dell’obiettivo prefissato di 13000 euro. Ma a dire il vero proprio fino in fondo, la raccolta dei danari è ancora in corso, perché PdB raccoglie solo prenotazioni, “intenzioni di sostegno”, e sono i responsabili del progetto virtualmente finanziato che devono poi contattare tutti i sottoscrittori, per chiedere di trasformare le buone intenzioni in moneta sonante (e non in basoli per lastricare le vie dell’Inferno). Altre piattaforme si sobbarcano anche questo lavoro, ma chiedono in cambio un 10% della somma raccolta. L’invito che rivolgiamo a tutti i mecenati di 4, è quindi quello di concludere le operazioni di pagamento entro il 10 gennaio, così da consentire un’organizzazione rapida delle fasi successive (correzione bozze, stampa, spedizione).
4 sarà il primo libro pubblicato da Wu Ming con la formula del crowdfunding. Ci pare significativo che, nelle sue varie fasi, pensamenti e ripensamenti, questo progetto di fotoracconti abbia tentato anche la strada dell’editoria tradizionale, per poi scartarla ed esserne scartato. Esito prevedibile, in fondo, per un libro dalla natura ibrida, che agli editori di narrativa richiedeva uno sforzo anomalo sulla qualità delle illustrazioni, mentre a quelli di libri d’arte e fotografici proponeva un formato troppo legato al testo. E quindi per alcuni c’erano poche immagini e troppe parole, per altri viceversa. Ecco perché, alla fine, abbiamo pensato che questo bambino problematico e meticcio, invece di farsi adottare da un editore per poi presentarsi ai lettori, doveva saltare un passaggio, andare più per le spicce, cercando direttamente una nicchia di persone che potesse capirne la natura e avesse voglia di sperimentarla.
E’ chiaro quindi che, per noi, si tratta di un modello produttivo “collaterale”. Come abbiamo già detto altre volte, sarebbe impensabile ricorrere al mecenatismo popolare per finanziare i romanzi collettivi che imp(r)egnano diversi anni delle nostre vite: sia per l’entità della cifra (due/tre anni di stipendio-base per quattro persone non sono comunque spiccioli), sia per l’entità dell’impresa (che trova ancora nella casa editrice un partner essenziale). Tuttavia, sapere che la strada del crowdfunding è percorribile, anche per cifre non proprio irrisorie (nemmeno 13mila euro sono spiccioli), ci consente di mettere una freccia in più nella faretra, e di poter valutare come “praticabili” anche progetti che l’editoria – specie in questo momento – considererebbe azzardati.
Per quel che riguarda la raccolta di racconti, invece, sappiamo che il curandero Mr.Mill si è già sprofondato nella lettura e promette per fine gennaio di produrre l’agognata antologia. A scanso di equivoci, ribadiamo che il nome “contest” che abbiamo attribuito all’iniziativa, e il continuo parlare di “giocate”, “tarocchi narrativi”, mani di carte e partite, non significa che ci sia una vera e propria competizione: i racconti, in linea di massima, una volta rivisti e sistemati insieme al curatore, saranno tutti pubblicati, senza particolari selezioni o vincitori o premi.
Dopo Tifiamo Asteroide e Tifiamo 4, lo stesso Mr. Mill, su Twitter, ha lanciato l’idea di un “contest di racconti” legato all’Armata dei Sonnambuli, il nostro romanzo collettivo in uscita (forse) a marzo. L’idea ci piace, di sicuro non si farà in vista della pubblicazione, ma certo in seguito gli spunti non mancheranno.
Nel frattempo, in attesa di 4 e #Tifiamo 4, quello che segue è il fotoracconto Fuoco in formato audio, registrato dal vivo il 9 Novembre scorso, alle Murate di Firenze, per l’inaugurazione della mostra fotografica Wu Ming + TerraProject = 4. Un viaggio di fotografie e racconti.

La voce e il testo sono di WM2.
Gli strumenti musicali suonano grazie a Giovanni Azzoni e Michele Freguglia di Frida X, e dovrebbero essere xilofoni, fischio, chitarra e basso elettrico, ma i due, nell’occasione, hanno portato tanta di quella roba sonora, che si fa fatica a ricordare la line up dei tre racconti musicati.
Il tutto dura 17’ 30’’.
Buon ascolto.
WM2, Giò Azzoni, Mic Freguglia – Fuoco (da: “4 – Il Reading”)
Audio | WM2, Giò Azzoni, Mic Freguglia – Fuoco (da: “4 – Il Reading”)
Aggiornamento: Chi non ha partecipato alla campagna di crowdfunding, ma vuole lo stesso metter le mani su “4″, può ordinarne una copia a questo indirizzo: quattro(presso)terraproject.net
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January 3, 2014
Nel sessantennale delle sue storie, 54 diventa una cronaca via Twitter
From Live Tweeting 54 on Vimeo.
Agli albori del nuovo anno ci siamo resi conto che 2014 – 1954 = 60.
- Grazie al cazzo – dirà qualcuno, – è aritmetica da terza elementare!
No, intendiamo dire che nel 2014 cadono i sessantesimi anniversari degli eventi accaduti nel 1954.
- E allora?
E allora fai poco il sardonico, imbezèl, pensaci un momento: Dien Bien Phu, le tensioni sulla Germania ovest nella NATO, gli inizi della TV in Italia, Hitchock gira Caccia al ladro in Costa Azzurra… Noialtri ci abbiamo scritto un intero romanzo, che si svolge tutto nel ’54, e infatti si chiama 54.
Ecco, l’altro giorno ci è venuto in mente che gli eventi del romanzo si sono svolti esattamente sessant’anni fa, nel 2014 ricorrono tutti gli anniversari a cifra tonda.
Lo abbiamo fatto notare su Twitter, così, per cazzeggiare:
Ci vorrebbe qualcun* che fa il #54livetweet
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) January 1, 2014
Già, perché uno degli utilizzi più interessanti di Twitter è la cronaca in diretta dagli eventi storici.
Ad esempio, c’è un/a tale (o più tali?) che da due anni racconta la seconda guerra mondiale come se stesse accadendo ora. O come se qualcuno la stesse twittando dal passato.
Questo genere di narrazione come potremmo chiamarlo? Time travel non-fiction?
Quando il live tweeting fa combaciare passato e presente in occasione di un anniversario, quest’ultimo diventa molto più di una scadenza formale, si riempie di echi e significati.
Poco tempo fa, ne ha scritto anche il New York Times.
Si può fare anche con la fiction, e a maggior ragione con il romanzo storico, dove fiction e non-fiction, invenzione e storiografia, sono in costante tensione.
Abbiamo buttato lì: perché non fare il live tweeting, a sessant’anni di distanza, di quel che avviene in 54? Potrebbe essere un modo collaborativo di ri-narrare e anche riscoprire il romanzo, portandolo su un’altra piattaforma, accompagnando lo sviluppo del plot con l’ausilio di link, immagini, video, cinegiornali d’epoca…
Beh, detto fatto!
Inizia il live tweet di #54. Un anno coi personaggi del romanzo di @Wu_Ming_Foundt. Musiche di @yoyomundi e altri http://t.co/EErE7kAP2v
— Live Tweeting 54 (@54livetweet) January 1, 2014
Stamattina, domenica 3 gennaio 1954, Lucky Luciano è stato schiaffeggiato da un quidam all’ippodromo di Agnano. Guardate il video: l’energumeno con gli occhiali neri accanto a Luciano – quello che il boss trattiene dal pestare coram populo l’autore della bravata – si chiama Stefano Zollo, più noto in certi ambienti come «Steve Cemento».
O almeno, così decidemmo di chiamarlo noi nel 1999 – appioppandogli il nome di un nostro amico conducente d’autobus – dopo aver visto il film Lucky Luciano di Francesco Rosi (1973). A proposito, lo hanno appena restaurato.
Insomma, che altro dire? Mentre scriviamo, l’account @54livetweet ha già più di 300 follower. Partecipiamo tutt*, e buon 1954!
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December 30, 2013
Per il Capodanno e l’Epifania, il gioco di carte tratto da Q. Buon 1549!
«Due anni fa ascoltavo, al Rebeldia a Pisa, WM1 suggerire che forse qualcuno un giorno avrebbe dato un seguito a Q, magari in un fumetto o in un gioco.
Avevo provato a raccogliere l’idea del gioco, ma non sono riuscito a far di meglio che utilizzare l’ambientazione veneziana dell’ultima parte del vostro romanzo.
Trovate allegato il regolamento e le carte, ancora assente la parte grafica. Consideratelo il mio piccolo contributo al decennale.
Qui ci starebbe bene una frase con “transmediale”… blabla… ”Henry Jenkins” … blablabla. Son tutte cose che ho imparato da voi, quindi completatela a piacimento.
Se vi capita di provarlo, ogni commento mi farebbe felice.
A presto,
Enrico Trincherini»
Questo ci scriveva Enrico nel 2010. Riportammo la sua mail sul blog di Altai, proponendo i seguenti link:
SCARICA LE CARTE DA GIOCO DI Q (PDF da ritagliare)
SCARICA IL REGOLAMENTO DEL GIOCO
«Ogni giocatore assume l’identità di un personaggio nella Venezia del 1549 e sostiene segretamente una fazione, gli Zelanti o gli Spirituali, in lotta per la conquista del Soglio Pontificio e dell’egemonia nella Chiesa. Al termine della partita, la fazione che ha più punti influenza a proprio favore l’elezione del nuovo papa e i giocatori che la sostengono sono dichiarati vincitori. Nel corso della partita è fondamentale capire quali siano i giocatori appartenenti alla propria fazione, senza dimenticare che anche la lealtà dell’alleato più fedele può sempre venir meno…»
Un paio di settimane fa abbiamo ripescato il vecchio post e l’abbiamo segnalato su Twitter per chi all’epoca se l’era perso. I retweet e segnali di interesse sono stati numerosi, tanto che il gioco è stato recensito da Fabio Pagano sul blog specializzato Giochi & giocatori.
- A questo punto, perché non finire il 2013 di Giap con un rilancio del gioco?
- Perché no?
P.S. Per saperne di più su Enrico Trincherini, qui e qui.
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December 22, 2013
News dalla Terra di Mezzo | Parabole, corsi, murales, la desolazione di Smaug
1. Tolkien in Sicilia
Le due presentazioni siciliane di Difendere la Terra di Mezzo sono state entrambe animate e piuttosto originali. A quella ospitata dal comitato No Muos di Niscemi è seguita una visita presso il perimetro della base U.S.Navy che sorge poco fuori dal paese. Lo scenario è surreale: in mezzo al paesaggio di una riserva naturale si trova la base militare americana, le cui recinzioni cingono un altopiano irto di 42 antenne radio, alte come la torre degli Asinelli di Bologna (o piuttosto come la torre di Barad-dûr). Al centro di una seconda linea recintata, svettano i tre “gambi” sui quali dovranno essere issate le tre gigantesche parabole satellitari che integreranno il Mobile User Objective System (Muos).
Ancora una volta ci si trova in presenza di una lotta paradigmatica: la popolazione locale si batte contro lo scempio del territorio, in questo caso contro la sua militarizzazione, e in difesa della propria salute. Di fronte all’arbitrio assoluto che salta letteralmente agli occhi quando si attraversano quelle lande, vengono alla mente, per contrasto, concetti come autodeterminazione, partecipazione, comunità. E viene da pensare alla gente che deve vivere e crescere i propri figli sotto quel “cappello” di onde radio.
Inevitabile pensare anche alla Val di Susa, sul confine opposto dello Stivale, e al refrain di accuse sempre uguali con cui i sedicenti cultori del progresso misurato in P.I.L. e metricubi di cemento denigrano i difensori delle tante terre di mezzo: N.I.M.B.Y., conservatori, reazionari… e poi “violenti”, “terroristi”, ecc. E giù con le denunce, le perquisizioni, la criminalizzazione dell’esercizio attivo della cittadinanza. E ci si rende conto che non è affatto casuale ritrovarsi lì a parlare delle storie di Tolkien, nelle quali si stigmatizza il progressismo tecnocratico e tecnolatra che sfocia nel “sarumanesimo”.
Il caso vuole (ma in verità non è un caso…) che lo street artist Blu, autore del murale sulla parete dell’XM24 a Bologna (raccontato da WM4 ad aprile scorso), nel quale ha utilizzato l’immaginario tolkieniano per illustrare una parte della storia dei conflitti bolognesi, abbia regalato alla lotta dei niscemesi contro il Muos alcune opere murali a tema. Trovarsele davanti, durante una promenade serale sul belvedere di Niscemi, dopo la presentazione di Difendere la Terra di Mezzo, è stato un po’ come chiudere un cerchio.
Anche la presentazione presso Officina Rebelde a Catania ha riservato piacevoli sorprese. L’incontro è durato oltre due ore, con domande e interventi che confermano ancora una volta la voglia di parlare seriamente e con cognizione di causa di un autore tanto visibile quanto maltrattato. WM4 è rimasto in debito di una risposta sul parallelismo tra lo schema del Silmarillion e il Pentateuco. Vedrà di porvi rimedio in qualche modo, nei limiti delle sue possibilità. Un grosso ringraziamento va fatto ai compagni e alle compagne di Officina Rebelde per avere reso possibile tutto questo. Un comune amico messicano direbbe: seguimos en combate.

Clicca per ingrandire.
2. Tre corsi su Tolkien
Tra inverno e primavera 2014, in tre città italiane, si terranno corsi su Tolkien che si potrebbero considerare “cugini”. Uno dei quali, be’, si sa… è made in Wu Ming.
Il primo è quello organizzato presso l’Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena dall’8 gennaio al 12 febbraio 2014, e ha il vantaggio di essere accessibile anche in streaming.
Il secondo è quello di WM4, all’interno del progetto Wu Ming Lab presso il Laboratorio 41, e si terrà a Bologna nelle quattro domeniche di marzo.
Il terzo è quello a cura dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani, che si terrà presso il Vigamus (museo del videogioco), a Roma in aprile.
Tutti i dettagli si trovano QUI.
3. La desolante desolazione di Smaug
[WM4 ha ricevuto alcune richieste affinché qui su Giap esprima un parere sul secondo film tratto da Lo Hobbit. Ecco dunque di seguito, in una versione più organica, i suoi commenti apparsi su un thread nel sito dell'ARST, a proposito del film di Peter Jackson.]
Lasciando da parte qualunque pretesa purista e ragionando su questo secondo film come fosse un prodotto nuovo, solo lontanamente ispirato a Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien, restano alcuni problemi su cui non è possibile sorvolare. Il fatto è che cambiando la trama, cambiano anche le dinamiche tra i personaggi e il loro carattere. Al centro di questo film c’è dunque il confronto tra Thorin e Smaug, presentato come un’antica faida che deve trovare la sua resa dei conti. La quale però va a sovrapporsi all’antica faida presentataci nel primo film: quella tra Thorin e (il redivivo) Azog. Per questo diventa necessario far mollare la presa a Azog, sviandolo su Gandalf, cioè sulla seconda sottotrama. E però non si poteva interrompere la caccia ai nani, l’invenzione jacksoniana che è uno dei motori della vicenda fin dal primo film. Quindi il posto di Azog ha dovuto essere preso da qualcun altro. Ed ecco spuntare dal nulla il figlio Bolg. Quella che nel primo film avevamo immaginato essere una reductio ad unum di due personaggi, in realtà era soltanto un’entrata in scena dilazionata. Ma essendo Thorin impegnato con Smaug, Bolg è dovuto diventare piuttosto l’avversario di qualcun altro, cioè delle new entries Legolas e Tauriel. L’elfa marziale e bonazza con le labbra turgide, eccitante in quanto micidiale, secondo i cliché laracroftiani e tarantiniani, è un personaggio femminile la cui unica funzione, al momento, è flirtare con il più belloccio dei nani. Qui casca l’asino: se Jackson non si è fatto problemi a sovvertire la storia tolkieniana, allora era lecito aspettarsi l’inserimento di un personaggio femminile un poco più pregnante e sensato. Le opportunità non mancavano di certo.
Insomma, la foga di infarcire la storia ha prodotto una reazione a catena che Jackson è riuscito a gestire solo perché, con grande mestiere, ha implementato al massimo la spettacolarità dell’action movie e del videogame ammazzatutto, spalmandola su tutto il film e tenendo alta l’adrenalina.
Resta il fatto che nel troncone di trama principale, Bilbo e Thorin si rubano la scena a vicenda, perché non si capisce chi dei due deve vedersela col drago. Nel tunnel sotto la montagna entra prima Bilbo da solo; poi lo raggiunge Thorin; infine entrano anche gli altri nani. E lì comincia un duello con il drago (precisamente ciò che Tolkien aveva evitato e c’era un motivo…) nel quale Thorin giganteggia su Bilbo, finché Smaug, che ha bell’e sgamato Bilbo e riconosciuto Thorin, smette di combattere entrambi, e di punto in bianco decide di andare a distruggere Pontelagolungo. Fine del secondo episodio.
L’impressione generale è che Jackson abbia voluto la botte piena e la moglie ubriaca (absit iniuria per Fren Walsh, che è parte in causa): stravolgere la trama a proprio piacimento, ma cercando comunque di timbrare i cartellini giusti per mandarla a parare dove aveva voluto Tolkien. Il problema di fondo sembra essere la sfiducia di Jackson (e di Boyens, Walsh, Del Toro) nel fatto che il testo di Tolkien contenesse già in potenza gli elementi necessari a farne un film che forse non sarebbe stato altrettanto spettacolare della precedente trilogia, ma avrebbe potuto essere “diverso” e non meno bello. Jackson ha voluto le montagne russe e il videogame 3D addirittura più che nel Signore degli Anelli e quindi ha trasformato la storia a tale scopo. Ma il risultato è sconclusionato. La seconda parte del film ha troppe incoerenze logiche. Se alla fine il drago andava affrontato dentro casa sua, a cosa serviva portarsi dietro uno “scassinatore”? E perché lo scassinatore invisibile a un certo punto si toglie l’anello e si rende visibile? Vengono a cadere proprio i caposaldi della storia…
La cosa che senza dubbio Jackson è invece riuscito a fare è il collegamento tra questo prequel e la storia già narrata nel Signore degli Anelli. L’Anello non è già un personaggio principale, ma comincia ad avere una sua personalità e i suoi influssi su Bilbo. Le intenzioni e i moventi iniziali di Gandalf sono ben spiegati attraverso il flash-back a Brea. Già vengono messi in gioco Sauron e i Nazgul (questi ultimi in maniera incongrua, che un purista potrebbe contestare: gli Spettri dell’Anello non sono fantasmi, nel senso di spiriti dei morti, ma vabbé…). E bisogna aggiungere che finalmente è resa l’ambiguità degli Elfi attraverso il personaggio di re Thranduil (anche se resta completamente inspiegato perché a un certo punto il suo faccino efebico venga momentaneamente scarnificato… bah!): almeno gli Elfi non sono così buoni come apparivano nella precedente trilogia. Migliore attore, migliore faccia, perfettamente congrua al make-up: Ken Scott, nel ruolo di Balin. Il momento in cui piange di commozione, rientrando a Erebor è magistrale. Ottimo anche Martin Freeman, che riesce a preservare il suo talento comico anche quando la storia ha ormai virato sull’epico-eroico. E poi il grande Stephen Fry, impagabile benché purtroppo sottoutilizzato; la resa del governatore di Pontelagolungo come un ricco e decadente “elisabettiano” è un tocco di grazia. Infine potrebbe apparire un po’ forzata l’ostentazione di abitanti scuri di pelle, di origine afro e Maori, a Pontelagolungo. Ma è la licenza del regista che giustamente immagina e rappresenta l’umanità meticcia di oggi, con un’iniezione del suo paese natale. Why not?
La recensione (stroncatura) più dettagliata che mi sento di condividere è QUESTA.
4. Difendere la Terra di Mezzo: recensioni online
Tra le recensioni del saggio di WM4 comparse in rete, peschiamo questa firmata da Ivan Cavini, il più talentuoso illustratore tolkieniano italiano.
Ed eccone altre:
Terra di Mezzo; il lettore digitale; la spelonca del libro
5. Una curiosità
A proposito di murales… In Piazza Verdi a Bologna, nel cuore della zona universitaria, da qualche tempo campeggiano su un muro alcuni Ent piuttosto incazzati. Come dire: per ogni cerchio che si chiude ce ne sono altri che si aprono… Al prossimo bollettino dalla Terra di Mezzo!
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News dalla Terra di Mezzo: parabole, corsi, murales e la desolazione di Smaug
1. Tolkien in Sicilia
Le due presentazioni siciliane di Difendere la Terra di Mezzo sono state entrambe animate e piuttosto originali. A quella ospitata dal comitato No Muos di Niscemi è seguita una visita presso il perimetro della base U.S.Navy che sorge poco fuori dal paese. Lo scenario è surreale: in mezzo al paesaggio di una riserva naturale si trova la base militare americana, le cui recinzioni cingono un altopiano irto di 42 antenne radio, alte come la torre degli Asinelli di Bologna (o piuttosto come la torre di Barad-dûr). Al centro di una seconda linea recintata, svettano i tre “gambi” sui quali dovranno essere issate le tre gigantesche parabole satellitari che integreranno il Mobile User Objective System (Muos).
Ancora una volta ci si trova in presenza di una lotta paradigmatica: la popolazione locale si batte contro lo scempio del territorio, in questo caso contro la sua militarizzazione, e in difesa della propria salute. Di fronte all’arbitrio assoluto che salta letteralmente agli occhi quando si attraversano quelle lande, vengono alla mente, per contrasto, concetti come autodeterminazione, partecipazione, comunità. E viene da pensare alla gente che deve vivere e crescere i propri figli sotto quel “cappello” di onde radio.
Inevitabile pensare anche alla Val di Susa, sul confine opposto dello Stivale, e al refrain di accuse sempre uguali con cui i sedicenti cultori del progresso misurato in P.I.L. e metricubi di cemento denigrano i difensori delle tante terre di mezzo: N.I.M.B.Y., conservatori, reazionari… e poi “violenti”, “terroristi”, ecc. E giù con le denunce, le perquisizioni, la criminalizzazione dell’esercizio attivo della cittadinanza. E ci si rende conto che non è affatto casuale ritrovarsi lì a parlare delle storie di Tolkien, nelle quali si stigmatizza il progressismo tecnocratico e tecnolatra che sfocia nel “sarumanesimo”.
Il caso vuole (ma in verità non è un caso…) che lo street artist Blu, autore del murale sulla parete dell’XM24 a Bologna (raccontato da WM4 ad aprile scorso), nel quale ha utilizzato l’immaginario tolkieniano per illustrare una parte della storia dei conflitti bolognesi, abbia regalato alla lotta dei niscemesi contro il Muos alcune opere murali a tema. Trovarsele davanti, durante una promenade serale sul belvedere di Niscemi, dopo la presentazione di Difendere la Terra di Mezzo, è stato un po’ come chiudere un cerchio.
Anche la presentazione presso Officina Rebelde a Catania ha riservato piacevoli sorprese. L’incontro è durato oltre due ore, con domande e interventi che confermano ancora una volta la voglia di parlare seriamente e con cognizione di causa di un autore tanto visibile quanto maltrattato. WM4 è rimasto in debito di una risposta sul parallelismo tra lo schema del Silmarillion e il Pentateuco. Vedrà di porvi rimedio in qualche modo, nei limiti delle sue possibilità. Un grosso ringraziamento va fatto ai compagni e alle compagne di Officina Rebelde per avere reso possibile tutto questo. Un comune amico messicano direbbe: seguimos en combate.

Clicca per ingrandire.
2. Tre corsi su Tolkien
Tra inverno e primavera 2014, in tre città italiane, si terranno corsi su Tolkien che si potrebbero considerare “cugini”. Uno dei quali, be’, si sa… è made in Wu Ming.
Il primo è quello organizzato presso l’Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena dall’8 gennaio al 12 febbraio 2014, e ha il vantaggio di essere accessibile anche in streaming.
Il secondo è quello di WM4, all’interno del progetto Wu Ming Lab presso il Laboratorio 41, e si terrà a Bologna nelle quattro domeniche di marzo.
Il terzo è quello a cura dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani, che si terrà presso il Vigamus (museo del videogioco), a Roma in aprile.
Tutti i dettagli si trovano QUI.
3. La desolante desolazione di Smaug
[WM4 ha ricevuto alcune richieste affinché qui su Giap esprima un parere sul secondo film tratto da Lo Hobbit. Ecco dunque di seguito, in una versione più organica, i suoi commenti apparsi su un thread nel sito dell'ARST, a proposito del film di Peter Jackson.]
Lasciando da parte qualunque pretesa purista e ragionando su questo secondo film come fosse un prodotto nuovo, solo lontanamente ispirato a Lo Hobbit di J.R.R.Tolkien, restano alcuni problemi su cui non è possibile sorvolare. Il fatto è che cambiando la trama, cambiano anche le dinamiche tra i personaggi e il loro carattere. Al centro di questo film c’è dunque il confronto tra Thorin e Smaug, presentato come un’antica faida che deve trovare la sua resa dei conti. La quale però va a sovrapporsi all’antica faida presentataci nel primo film: quella tra Thorin e (il redivivo) Azog. Per questo diventa necessario far mollare la presa a Azog, sviandolo su Gandalf, cioè sulla seconda sottotrama. E però non si poteva interrompere la caccia ai nani, l’invenzione jacksoniana che è uno dei motori della vicenda fin dal primo film. Quindi il posto di Azog ha dovuto essere preso da qualcun altro. Ed ecco spuntare dal nulla il figlio Bolg. Quella che nel primo film avevamo immaginato essere una reductio ad unum di due personaggi, in realtà era soltanto un’entrata in scena dilazionata. Ma essendo Thorin impegnato con Smaug, Bolg è dovuto diventare piuttosto l’avversario di qualcun altro, cioè delle new entries Legolas e Tauriel. L’elfa marziale e bonazza con le labbra turgide, eccitante in quanto micidiale, secondo i cliché laracroftiani e tarantiniani, è un personaggio femminile la cui unica funzione, al momento, è flirtare con il più belloccio dei nani. Qui casca l’asino: se Jackson non si è fatto problemi a sovvertire la storia tolkieniana, allora era lecito aspettarsi l’inserimento di un personaggio femminile un poco più pregnante e sensato. Le opportunità non mancavano di certo.
Insomma, la foga di infarcire la storia ha prodotto una reazione a catena che Jackson è riuscito a gestire solo perché, con grande mestiere, ha implementato al massimo la spettacolarità dell’action movie e del videogame ammazzatutto, spalmandola su tutto il film e tenendo alta l’adrenalina.
Resta il fatto che nel troncone di trama principale, Bilbo e Thorin si rubano la scena a vicenda, perché non si capisce chi dei due deve vedersela col drago. Nel tunnel sotto la montagna entra prima Bilbo da solo; poi lo raggiunge Thorin; infine entrano anche gli altri nani. E lì comincia un duello con il drago (precisamente ciò che Tolkien aveva evitato e c’era un motivo…) nel quale Thorin giganteggia su Bilbo, finché Smaug, che ha bell’e sgamato Bilbo e riconosciuto Thorin, smette di combattere entrambi, e di punto in bianco decide di andare a distruggere Pontelagolungo. Fine del secondo episodio.
L’impressione generale è che Jackson abbia voluto la botte piena e la moglie ubriaca (absit iniuria per Fren Walsh, che è parte in causa): stravolgere la trama a proprio piacimento, ma cercando comunque di timbrare i cartellini giusti per mandarla a parare dove aveva voluto Tolkien. Il problema di fondo sembra essere la sfiducia di Jackson (e di Boyens, Walsh, Del Toro) nel fatto che il testo di Tolkien contenesse già in potenza gli elementi necessari a farne un film che forse non sarebbe stato altrettanto spettacolare della precedente trilogia, ma avrebbe potuto essere “diverso” e non meno bello. Jackson ha voluto le montagne russe e il videogame 3D addirittura più che nel Signore degli Anelli e quindi ha trasformato la storia a tale scopo. Ma il risultato è sconclusionato. La seconda parte del film ha troppe incoerenze logiche. Se alla fine il drago andava affrontato dentro casa sua, a cosa serviva portarsi dietro uno “scassinatore”? E perché lo scassinatore invisibile a un certo punto si toglie l’anello e si rende visibile? Vengono a cadere proprio i caposaldi della storia…
La cosa che senza dubbio Jackson è invece riuscito a fare è il collegamento tra questo prequel e la storia già narrata nel Signore degli Anelli. L’Anello non è già un personaggio principale, ma comincia ad avere una sua personalità e i suoi influssi su Bilbo. Le intenzioni e i moventi iniziali di Gandalf sono ben spiegati attraverso il flash-back a Brea. Già vengono messi in gioco Sauron e i Nazgul (questi ultimi in maniera incongrua, che un purista potrebbe contestare: gli Spettri dell’Anello non sono fantasmi, nel senso di spiriti dei morti, ma vabbé…). E bisogna aggiungere che finalmente è resa l’ambiguità degli Elfi attraverso il personaggio di re Thranduil (anche se resta completamente inspiegato perché a un certo punto il suo faccino efebico venga momentaneamente scarnificato… bah!): almeno gli Elfi non sono così buoni come apparivano nella precedente trilogia. Migliore attore, migliore faccia, perfettamente congrua al make-up: Ken Scott, nel ruolo di Balin. Il momento in cui piange di commozione, rientrando a Erebor è magistrale. Ottimo anche Martin Freeman, che riesce a preservare il suo talento comico anche quando la storia ha ormai virato sull’epico-eroico. E poi il grande Stephen Fry, impagabile benché purtroppo sottoutilizzato; la resa del governatore di Pontelagolungo come un ricco e decadente “elisabettiano” è un tocco di grazia. Infine potrebbe apparire un po’ forzata l’ostentazione di abitanti scuri di pelle, di origine afro e Maori, a Pontelagolungo. Ma è la licenza del regista che giustamente immagina e rappresenta l’umanità meticcia di oggi, con un’iniezione del suo paese natale. Why not?
La recensione (stroncatura) più dettagliata che mi sento di condividere è QUESTA.
4. Difendere la Terra di Mezzo: recensioni online
Tra le recensioni del saggio di WM4 comparse in rete, peschiamo questa firmata da Ivan Cavini, il più talentuoso illustratore tolkieniano italiano.
Ed eccone altre:
Terra di Mezzo; il lettore digitale; la spelonca del libro
5. Una curiosità
A proposito di murales… In Piazza Verdi a Bologna, nel cuore della zona universitaria, da qualche tempo campeggiano su un muro alcuni Ent piuttosto incazzati. Come dire: per ogni cerchio che si chiude ce ne sono altri che si aprono… Al prossimo bollettino dalla Terra di Mezzo!
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December 20, 2013
#ZittiMai! Solidarietà a Mauro Vanetti (e un po’ di link su quel che accade a #Pavia)

Mauro Vanetti
[Chi bazzica queste lande si è imbattuto tante volte in Mauro Vanetti. Oltre a essere uno dei commentatori di Giap - e guest blogger - più acuti e apprezzati, è stato anche il curatore dell'antologia Tifiamo Asteroide. Mauro è un informatico e un attivista politico. Nella sua città, Pavia, è tra i protagonisti di una multiforme battaglia contro le mafie e il business legale del gioco d'azzardo, nonché tra i promotori di Senza Slot e co-autore del recentissimo libro Vivere senza slot. Storie sul gioco d'azzardo tra ossessione e resistenza (nuovadimensione, 2013).
A monte di tutto questo, Mauro è un militante comunista, membro del PRC e della Tendenza Marxista Internazionale, che in Italia si raggruppa intorno al giornale Falcemartello.
E' proprio dal sito di Falcemartello che riprendiamo la seguente chiamata alla solidarietà, perché Mauro sta subendo un attacco e bisogna aiutarlo a difendersi e contrattaccare, al di sopra delle differenze, delle diverse appartenenze e dei tribalismi delle tante sinistre.
A noialtri, poi, usare Giap per difendere un giapster sembra il minimo.
N.B. In generale, a Pavia c'è un clima pesante. Emblematico , autore del libro Sprofondo Nord (2011). Non solo Giovannetti ha subito un fuoco di fila di querele: ha avuto anche la casa incendiata, e nel rogo è andato distrutto il magazzino della sua piccola casa editrice, Effigie.]
Volantinaggio lunedì 7 gennaio 2014 alle ore 9 davanti al Tribunale di Pavia, in occasione della prossima udienza
Fare politica a Pavia dalla parte dei lavoratori
Mauro Vanetti, un nostro compagno di Pavia, ha subito un attacco giudiziario da parte di Pietro Trivi (NCD), un esponente del centrodestra al governo della città. Pavia è una città lombarda a forte penetrazione mafiosa, dove la deindustrializzazione continua (ultimo caso, la annunciata chiusura dello stabilimento Merck, che dà lavoro complessivamente a circa 400 persone) ha lasciato spazio a un capitalismo parassitario e speculativo (palazzinari, gioco d’azzardo, corruzione). L’università e gli ospedali sono i centri di potere più importanti e non è casuale se proprio il direttore sanitario dell’ASL, Carlo Chiriaco, è stato al centro di un grande scandalo ‘ndrangheta nel 2010 che ha coinvolto (con intercettazioni, imputazioni e arresti) anche esponenti del PdL, della Lega Nord e di una locale lista di centro. Tra le persone intercettate mentre si trovava in automobile con Carlo Chiriaco durante la campagna elettorale figura per l’appunto Pietro Trivi.
Sulla questione della mafia e della corruzione i nostri compagni pavesi sono sempre stati molto vigili intervenendo con azioni di denuncia politica e anche contribuendo in modo decisivo ad organizzare manifestazioni pubbliche di protesta. Sono intervenuti anche nelle maggiori vertenze sociali legate al lavoro (Elnagh, Merck) e alla casa (sfratti, Green Campus, Punta Est), oltre che nel contrasto alle violenze dei neofascisti locali, legati in vari modi alla destra ufficiale.
Con queste attività militanti i compagni si sono fatti molti nemici tra i potenti di Pavia. L’attacco a Mauro è essenzialmente un attacco contro tutti noi e contro quello che abbiamo fatto in questa città a partire dagli anni Novanta.
Ritorsioni politiche del centrodestra contro gli attivisti antimafia?
Il 12 ottobre 2011 due esponenti molto in vista del PdL di Pavia, l’avvocato penalista Pietro Trivi [a destra nella foto], assessore al Commercio del Comune di Pavia, e Carlo Chiriaco [a sinistra nella foto], ex direttore dell’ASL, vengono assolti in primo grado dall’accusa di corruzione elettorale aggravata. Secondo il giudice, la consegna di denaro da parte di Chiriaco e Trivi al sindacalista della UIL Galeppi durante la campagna elettorale non configurano un reato. Immediatamente parte una campagna politica da parte del centrodestra pavese volta ad affermare che chi aveva sostenuto che ci fossero infiltrazioni mafiose nella politica di Pavia doveva “chiedere scusa”. «Ora qualcuno dovrà chiedere scusa» dice il sindaco Alessandro Cattaneo a “la Provincia Pavese” del 13 ottobre 2011. Due settimane dopo, Pietro Trivi querela esponenti di diversi partiti avversari che vanno dal PD a Rifondazione Comunista passando per il Movimento 5 Stelle.
(Eppure le infiltrazioni mafiose nella politica di Pavia ci dovevano ben essere se nel dicembre 2012 Carlo Chiriaco viene condannato in primo grado a 13 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Tra le accuse: «costituisce elemento di raccordo tra alti esponenti della ‘ndrangheta lombarda e alcuni esponenti politici; favorisce gli interessi economici della ‘ndrangheta garantendo appalti pubblici [...]; procura voti della ‘ndrangheta a favore di candidati in occasione di competizioni elettorali comunali e regionali»!)
Mauro Vanetti, classe 1979, militante comunista da quasi vent’anni molto conosciuto in città, attivista antimafia e antislot, riceve una querela per diffamazione. Questa querela ha lo scopo di mettere il bavaglio a un oppositore politico: se Vanetti venisse condannato saremmo di fronte a un precedente inquietante sia per le libertà digitali nel nostro Paese sia per la libertà di critica politica.
Un attacco ai diritti democratici digitali
Le frasi incriminate sono due commenti che secondo Trivi sono apparsi su Facebook. Trivi non ha prodotto nessuna prova dell’esistenza di questi commenti, si è limitato a stampare degli screenshot, cioè a riprodurre con una stampante le immagini che sostiene essere apparse sul suo computer. Non c’è stata nessuna indagine per verificare che quei commenti siano effettivamente comparsi su Facebook (provate a cercarli: sono introvabili) né che a scriverli sia stato Mauro Vanetti. Non sono stati forniti URL, log, sorgenti HTML della pagina web, indirizzi IP, niente di tutto ciò che normalmente gli inquirenti allegano a un processo di questo tipo e che è richiesto dalla giurisprudenza per condannare qualcuno per ciò che scrive sul Web.
Nel corso delle udienze Pietro Trivi ha cominciato a produrre un grande numero di screenshot: vi compaiono altri commenti su Facebook attribuiti a Mauro Vanetti, pagine del suo sito con articoli e lettere sulla questione della ‘ndrangheta a Pavia, foto del profilo ecc. Che cosa significa questo “pedinamento virtuale”, questa schedatura delle opinioni politiche di Vanetti, che peraltro non sono mai state nascoste, visto che ha scritto molti articoli su riviste e siti di sinistra e ha addirittura pubblicato un libro contro il gioco d’azzardo a Pavia?
Un attacco al diritto di critica contro il sistema mafioso
D’altronde, anche il contenuto dei presunti commenti non diffama Pietro Trivi!
Il primo commento recita: «Uno dopo l’altro, tutti i politici pavesi che se la intendono con la mafia la stanno facendo franca. Non saranno i giudici a levarceli dai piedi, dovremo pensarci noi». Nello screenshot non compare il nome di Pietro Trivi né di nessun altro politico. L’autore del commento (che secondo Trivi è Mauro Vanetti) si limita ad affermare che esistono a Pavia dei politici che se la intendono con la mafia, e che la stanno facendo franca. Più sotto l’autore del commento chiarisce: «non penso che la mafia sarà mai sconfitta in tribunale se non viene prima sconfitta nella società, semplicemente perché gran parte di ciò che fa la mafia non è tecnicamente illegale». È forse questa opinione politica che è stata portata in tribunale?
Il secondo commento è una battuta in un lungo scambio di commenti: «Mi diverte sempre quando qua sopra interviene un picciotto». Che il “picciotto” in questione sia Pietro Trivi lo ha dedotto… Pietro Trivi stesso, nella querela. Subito sopra al commento (ammesso che si pensi di poter ricostruire in modo univoco un thread di Facebook, ma non è così visto che i commenti possono essere modificati e rimossi) ci sono altri commenti che non sono di Pietro Trivi. In ogni caso la parola “picciotto” ha un significato vago, letteralmente vuol dire “ragazzo”, talvolta indica le persone che non fanno parte dell’alta gerarchia mafiosa ma di cui si servono le organizzazioni criminali per perseguire i propri interessi.
A Pavia esistono dei politici che se la intendono con la mafia? e a Pavia esistono dei “picciotti”, degli individui compiacenti che sono utilizzati dalla mafia per i propri scopi? Chi osa dirlo, anche senza fare nomi precisi, deve essere portato in tribunale e messo a tacere? Non sarebbe meglio punire semmai chi osa negarlo, dopo che su questo argomento si sono scritti fior di libri e sentenze giudiziarie?
Con le querele i potenti mettono un prezzo alle nostre parole
Trivi ha querelato negli stessi giorni anche altre persone con accuse analoghe. Da una di queste persone querelate ha ottenuto 15mila euro. Chi vuole criticare la mafia a Pavia rischia di dover pagare 15mila euro? Le querele dei potenti contro i cittadini che non stanno zitti sono uno strumento per zittirci, sono un sopruso, sono il tentativo di chi ha il potere di sfruttare le proprie conoscenze e la propria influenza per far condannare ingiustamente delle persone comuni.
Con questa campagna vogliamo far crescere la consapevolezza di questo scandalo giudiziario che rischia di svolgersi a Pavia nei prossimi mesi e al tempo stesso chiediamo un aiuto ad amici e compagni: difendiamo Mauro Vanetti da questa persecuzione, difendiamo tutti i pavesi dall’omertà. Raccogliamo fondi per contribuire alle ingenti spese legali, per annullare l’effetto di questo micidiale meccanismo intimidatorio.
Costruiamo una campagna di lotta e solidarietà contro la prepotenza della destra!
Sinistra Classe Rivoluzione – FalceMartello – Pavia
Donazioni di solidarietà:
con PostePay dedicato 4023 6006 5041 3893 intestato a Mauro Stefano Vanetti
con PayPal inviando denaro a mauro.vanetti@email.it con causale “Zitti mai”
Per informazioni dettagliate è possibile contattare direttamente Mauro Vanetti all’indirizzo mauro @ marxist.com o al numero 328-3657696 o su Twitter (@maurovanetti). Questa campagna sarà improntata alla massima trasparenza: vi terremo informati di cosa avviene nel tribunale, vi faremo avere le carte processuali, vi daremo spiegazioni sui retroscena, vi daremo un rendiconto delle donazioni ricevute e del loro utilizzo. Dateci una mano e impariamo insieme come ci si difende da prepotenze come questa.
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December 19, 2013
Speciale #PointLenana e #Timira | Narrazioni ibridate tra Limonov e il Corno d’Africa
A meno di un mese dal primo “speciale congiunto” su Timira e Point Lenana, la disponibilità di nuovi materiali già consente (e richiede!) la pubblicazione di un secondo, e prevediamo già un terzo a gennaio.
Iniziamo con una bella e puntuale recensione di Point Lenana apparsa sul blog del collettivo Militant.
Consigli per gli acquisti: Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara
-Se per Wu Ming 1 la storia narrata in questo libro si allontana dalla sua «zona di comfort», quell’insieme di letture, argomenti, narrazioni e percezioni vicine al mondo culturale che si frequenta, per noi questo libro è lontano anni luce da ogni possibile comfort culturale. Come potrebbe essere altrimenti, visto che si narrano, in una forma particolare che poi indagheremo, la vita e le esperienze di un prigioniero italiano di guerra nell’Africa coloniale, non convintamente fascista ma neanche antifascista, e dopo la guerra palesemente anticomunista nelle funzioni istituzionali che andò a ricoprire? Il tutto, poi, legato da un argomento centrale che attraversa il libro e che edifica il contesto in cui è calata tutta la narrazione: la montagna. Insomma, apparentemente, niente di più distante dai nostri interessi, tanto politici quanto personali. Questa è anche la ragione per cui questa recensione giunge in ritardo, a otto mesi dalla pubblicazione.
Come collettivo politico, l’obiettivo che ci poniamo nel consigliare determinati libri è sempre quello di renderli strumenti utili alla costruzione di un immaginario di classe, la riscoperta – o riproposizione – di una nostra possibile autonomia culturale. E questo libro si inserisce perfettamente in questo filo rosso, contribuisce a costruirlo, ad allacciare punti, andando a scandagliare uno dei più grandi rimossi della storia nazionale italiana, la sua vicenda coloniale. Per meglio dire, una storia non tanto rimossa nel senso di “nascosta”, quanto intossicata da una serie di narrazioni che, nel corso dei decenni, si sono imposte egemonizzando il discorso sulla nostra avventura coloniale. Ma andiamo con ordine.
Il libro si presenta immediatamente come ibrido tra la narrazione romanzata e il saggio storico-biografico. Un vero e proprio «oggetto narrativo non identificato», come lo definisce il collettivo Wu Ming. Ma in questo caso la sperimentazione degli autori è andata molto al di là dei loro precedenti tentativi. Il testo risente, a nostro avviso in maniera determinante, dell’evoluzione del rapporto fra il collettivo di scrittori e il loro blog, Giap! Per dirla altrimenti, e in un senso assolutamente non squalificante ma anzi virtuoso, il testo assomiglia ad un lunghissimo post di Giap! Una ricerca storica documentata mista ad una capacità narrativa attraente, sommata ulteriormente a una verve politica decisiva, contribuiscono alla costruzione di un nuovo genere letterario. Crediamo che tutto questo sia determinato dal lungo e proficuo scambio sociale tra autori e lettori, ma ancor di più fra autori e “giapster”. Non a caso, i post su Giap! costituiscono uno dei nostri riferimenti “metodologici” attraverso i quali cerchiamo di impostare il nostro blog. Proprio perché Wu Ming relaziona i diversi piani linguistici e analitici non sommandoli, ma moltiplicandoli. Sinteticamente, una semplice opera di narrativa avrebbe mancato l’obiettivo della concretezza storica in cui si situa tale vicenda. Allo stesso tempo, un lavoro esclusivamente accademico, un saggio storico, avrebbe privato l’opera sia di un suo reale interesse per un pubblico più vasto, sia di una sua possibilità di superare steccati mentali e ideali. Soprattutto, sarebbe stata molto poco affascinante.
Il libro vorrebbe essere una sorta di opera biografica aperta di Felice Benuzzi, un prigioniero di guerra che fugge dal campo inglese in cui era internato insieme a due suoi amici per scalare il Monte Kenya. Dopo la scalata, Felice e compagni tornano al campo di reclusione e si riconsegnano agli inglesi. La vicenda viene letta come tentativo di rivalutazione della propria condotta morale, politica, umana, dopo vent’anni di fascismo, cercando con un gesto forse disperato di recuperare almeno un proprio orgoglio, una propria personale redenzione rispetto ai troppi silenzi, ai troppi accomodamenti, che lui e tutta la sua generazione avevano dato a Mussolini. Un estremo tentativo di recuperare un minimo di dignità, e allo stesso tempo tornare a vivere da uomini liberi nell’atto di scalare la montagna. In tutto questo, l’impossibilità dichiarata di racchiudere un’intera vicenda umana in definizioni schematiche, precise, definitive. Ogni vita presenta molte sfaccettature, così come ogni episodio storico si presta a diversi piani di lettura. Wu Ming 1 sembra lasciarci questa come riflessione finale: possiamo davvero giudicare in senso univoco quella massa di italiani che tacitamente appoggiarono quel regime così come tacitamente se ne discostarono? E se si, come interpretare quei segnali, molte volte impliciti, di reazione “esistenziale” a un potere politico subìto più che avallato esplicitamente? E se è possibile tracciare queste problematiche in senso storico, come renderle strumento utile per interpretare il presente?
Ma il libro cessa immediatamente di essere una biografia, o “solo” una biografia, sin dal principio. Le vicende umane di Felice si tramutano nelle vicende sociali del suo contesto culturale, e queste evolvono in una sorta di contro storia sociale dell’Italia del ventennio. La biografia di Benuzzi diventa biografia dell’Italia liberale prima e fascista poi. Una biografia non autorizzata, una contro narrazione volta a espellere tutte quelle tossine depositate dalla retorica ufficiale. Compresa la “tossina madre” di tutte le retoriche nazionali sulle vicende italiane del ventennio: la narrazione dell’”italiano brava gente”, del “colonialismo dal volto umano”, del fascismo quale regime “all’acqua di rose” rispetto ai ben più autoritari regimi nazista e comunista. E’ qui che il libro sviluppa tutta la sua forza. Quantomeno, è in questo senso che noi, come collettivo, intravediamo tutto il suo potenziale. Attraverso una costruzione narrativa efficace come abbiamo appena accennato, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara ripercorrono il vero volto del colonialismo italiano. Fatto di pulizie etniche, utilizzo massiccio dei gas contro la popolazione civile, campi di concentramento e politiche di sterminio delle popolazioni autoctone, violazioni di ogni diritto o convenzione internazionale, razzismo pervadente tutta l’esperienza coloniale e tutto il regime fascista sin dal suo esordio. In poche parole, l’embrione politico che farà da scuola a tutti i governi reazionari del novecento. Si dirà che cose del genere sono state già ampiamente analizzate da alcuni dei migliori storici che questo paese possa vantare, quali Angelo del Boca o Giorgio Rochat, ma è altrettanto vero che una certa cappa mediatico-culturale ha impedito a tali ricerche di raggiungere qualcosa di diverso della solita nicchia di eruditi o appassionati alla materia. Libri come questo contribuiscono invece alla rimozione di alcuni paletti radicati nel ventre dell’opinione pubblica, quali ad esempio il ruolo italiano nelle missioni militari, visto come costruttore di scuole e portatore di pace. Niente di più falso così come niente di più implicitamente accettato. Una forma ideologica pervasiva e difficilmente scalfibile. Un conto è dire che il fascismo è stato un pessimo regime politico. Un altro è dichiarare, provandola attraverso una mole di documenti, la sostanziale continuità politica e ideologica tra stato liberale, fascismo e Italia post-fascista. Un’operazione infatti sottaciuta anche dal PCI, alfiere di una rottura storica determinata dalla Repubblica nata dalla Resistenza che nei fatti non si produsse, o si produsse solo marginalmente e/o formalmente.
Concludiamo qui le nostre riflessioni. Il testo ci sembra inaugurare un nuovo tipo di ricerca storica. Una ricerca che tenga insieme il momento “evasivo” del narratore a quello “rigoroso” del ricercatore. In questo senso, non possiamo che augurarci nuovi sviluppi in tal senso. Se l’evoluzione del collettivo Wu Ming sarà questa, non possiamo che attendere con interesse il prossimo oggetto narrativo non identificato a firma collettiva.
In calce al post, un commento «pavloviano» ha avviato una discussione interessante. E’ intervenuto anche Wu Ming 1. Proponiamo qui un estratto del suo commento più lungo e denso.

di Wu Ming 1
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Esatto, il «contesto». Per tutto il libro, la narrazione impietosa del contesto problematizza, decostruisce, a volte contraddice e sempre «mette in tensione» quel che Benuzzi scrive – e non scrive – e quel che ci hanno raccontato la moglie e le figlie.
Questo avviene, mi sembra in tre modalità, in ordine di esplicitazione:
1) Avviene «di default»: descrivere con accuratezza la conquista delle colonie italiane in Nordafrica e in Africa orientale, e la legislazione razzista che ne derivò, serve a ricordare che la presenza di Benuzzi in Libia ed Etiopia fu ineluttabilmente parte della macchina di violenza coloniale, che è violenta sempre, anche nella normalità e in «stato di pace», perché è violento in sé il rapporto coloniale, e ciò prescinde dalla eventuale «buona fede» o «buona volontà» del singolo;
2) Avviene tramite un conflitto strisciante, continuo, abrasivo, tra testimonianze e voce degli autori. Per fare un esempio tra i tanti, Benuzzi parla bene del generale Nasi e ne scrive un obituary ossequioso e commosso, mentre noi dello stesso personaggio abbiamo già elencato – e continueremo a elencare – responsabilità, nefandezze e ipocrisie, anche nel contesto della prigionia in Kenya, proprio quello in cui Benuzzi lo colloca nel finale del suo articolo. Idem per quanto riguarda il mito del Duca d’Aosta.
3) Avviene tramite un conflitto diretto ed esplicito tra testimonianze e voce degli autori. L’esempio più eclatante è alle pagine 296-297: Stefania Benuzzi dice che Felice (almeno quando era con lei) era disinteressato alla guerra d’Etiopia e che addirittura non andò alla grande adunata sotto Palazzo Venezia del 2 ottobre 1935, e subito dopo noi mettiamo in questione la testimonianza, ed elenchiamo tutti i motivi per cui è logico supporre che invece Felice credesse nell’impresa etiope e fosse presente all’adunata.
E’ proprio tutto questo decostruire e mettere nel contesto, però, che permette di leggere in Fuga sul Kenya e in altri scritti (uno su tutti il racconto autobiografico «Quattro, quattordici o mai») allegorie del superamento di una soglia esistenziale e di un’epoca, racconti di una «iniziazione» oltre il fascismo. Un superamento che, come quello dell’Italia intera, rimase contraddittorio: Benuzzi e tanti come lui avevano un’idea evidentemente molto diversa dalla nostra sui confini tra bambino e acqua sporca. E noi questa contraddittorietà la esploriamo.
Resta che Fuga sul Kenya è un libro che nega, nella sua scrittura e nella storia che racconta, molti degli assunti della mentalità fascista, e a volte lo dice in modo chiaro, come quando Benuzzi critica con un tono nauseato il vitalismo forzoso, il culto dell’«azione concentrata» nel quale, crescendo dentro il regime, era stato indotto a credere.
E badate che da dove partiva Benuzzi – fascismo di confine, uno zio fiduciario dell’Ovra, il ramo austriaco della famiglia massicciamente filonazista – la distanza per arrivare a questo era molto, molto lunga.
Chiaramente, se uno il libro lo legge a cazzo di cane, con un preconcetto sulla scelta del tema e del personaggio, e magari nelle orecchie il giudizio a priori di qualcuno che «ne sa» e gli ha detto che il libro «fa l’apologia di un fascista», tutto questo non può che sfuggirgli.
In Point Lenana, a pagina 38, l’io narrante che mi mette in scena dice:
«Cerco storie che siano scomode anche per me e per chi grosso modo condivide le mie idee. Sarebbe troppo facile raccontare cose scomode solo per gli altri, per chi la pensa diversamente da me. Non varrebbe la pena conoscere, se conoscere non ci mettesse in crisi. Un sapere rassicurante per chi lo coltiva non può nemmeno essere detto un sapere, è solo un girare intorno al non-voler-sapere.»
Mutatis mutandis, mi sembra che questa sia la «molla» di molte narrazioni ibride degli ultimi anni, libri a cavallo tra fiction e non-fiction che, proprio grazie a questa natura ambivalente e cangiante, riescono a esplorare un soggetto, un personaggio, da una molteplicità di angolature che la scelta di un genere più «fisso» non avrebbe forse consentito.
Si tratta di evoluzioni del romanzo, le tecniche utilizzate su materiali di diversa origine e su diverse tipologie di testo sono in fondo tecniche introdotte in letteratura dal grande romanzo realista dell’Ottocento, poi temprate nel fuoco del Novecento: alternanza tra autore «onnisciente», stile indiretto libero e flusso di coscienza; foreshadowing; attacchi in medias res; descrizioni, a volte ottenute con un cut-up, che mescolano diversi tempi dell’azione; storia-nella-storia etc.
Tutto quest’arsenale di tecniche viene usato, in genere, per incursioni fuori dalla «zona di comfort» di cui sopra.
Penso a un libro di cui molto si è parlato nell’ultimo anno, Limonov di Emmanuel Carrère. La narrazione ibridata permette all’autore di condurre un’esplorazione senza precedenti di una figura che presenta forti tratti di sgradevolezza, e con la quale Carrère è in esplicito dissenso sul piano politico: lo scrittore e politico russo Eduard Limonov, il «rossobruno» per eccellenza, fondatore del Partito Nazionalbolscevico, per anni amico e compare del guru di estrema destra Aleksandr Dugin (col quale poi ha rotto). Non solo Limonov è una lettura utilissima per capire la fase eltsiniana e putiniana della restaurazione neocapitalistica in Russia (della «privatizzazione» di tutto il privatizzabile, della depredazione legalizzata delle risorse da parte degli oligarchi etc.), ma è utilissima per capire la mentalità e le condizioni che rendono possibile il cedere alla «tentazione» rossobruna.
Solo che il libro non sarebbe così utile se si limitasse a fare un ritratto negativo di Limonov, se dicesse solo: Limonov è un narcisista che pur di brillare è diventato una merda fascistoide, uno che ha mescolato a cazzo di cane elementi di stalinismo e fascismo in un cocktail ultranazionalista, Evola e Dimitrov uniti nella lotta; insomma: uno sparacazzate. Tutto vero, intendiamoci, ma è una polemica politica che in rete si può trovare ovunque. Invece Carrère usa le armi della letteratura per farci entrare nel personaggio, o meglio: ci fa entrare e uscire, entrare e uscire, e ci porta in quella zona-limite dove siamo costretti ad ammettere che Limonov non è solo una merda e uno sparacazzate, che non tutto quel che dice e scrive può essere ritenuto folle o inaccettabile o sbagliato. Carrère, ad esempio, non nega mai che Limonov sia un grande scrittore, e dice che anche libri scritti nella fase più fascistoide sono inaspettatamente pieni di umanità, e in ogni caso utili a comprendere la situazione in Russia agli inizi del XXI secolo.
Però, dopo avere riconosciuto questo, Carrère trae una conclusione perturbante, che a detta di alcuni ha sorpreso e inquietato lo stesso Limonov: il fatto che oggi Limonov sia all’opposizione del regime putiniano è un incidente storico. In realtà, se fosse al potere, si comporterebbe esattamente come Putin.
Questa conclusione è tanto più tagliente per il fatto che Carrère – e nel corso del libro non lo ha mai negato – è affascinato da Limonov. Entrare e uscire dal personaggio. Entrare e uscire.

Eduard Limonov (a destra) ed Emmanuel Carrère.
Al netto di tutto, e basta leggere i due libri per capirlo, noi ci siamo lasciati affascinare da Benuzzi molto meno di quanto si sia fatto affascinare Carrère da Limonov. Non sto facendo un impossibile parallelismo tra due personaggi che non c’entrano un cazzo l’uno con l’altro: sto facendo un parallelismo tra due «oggetti narrativi non-identificati» scritti fuori dalle zone di comfort dei loro autori.
Noi siamo stati affascinati non da Benuzzi, ma da Fuga sul Kenya, una narrazione nella quale abbiamo trovato eccedenze, lapsus, non-detti più potenti di molti «detti». Ma anche in questo caso, abbiamo proceduto a entrare e uscire, entrare e uscire, entrare e uscire. [...]
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Come fratelli e sorelle: vite profughe, esistenze partigiane
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Come fratelli e sorelle: vite profughe, esistenze partigiane
§ RedReading #6 – Come Fratelli e Sorelle di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio.
Con la partecipazione di Wu Ming 2, Antar Mohamed, Lorenzo Teodonio, Cristina Ali Farah, Eva Gilmore, PierPaolo Di Mino, Lorenzo Iervolino, Fiora Blasi, Fabrizio Spera, Luca Venitucci.
Nato il 31 maggio 2012, come lettura per voce e chitarra, per accompagnare la presentazione di Timira al Centro Sociale Strike di Roma, in seguito riproposto con alcune modifiche alla già citata Casetta Rossa (Roma) e in formato di radiodramma musicale sulle frequenze di Radio Onda Rossa (sempre de Roma), Come Fratelli e Sorelle – Vite profughe esistenze partigiane è andato in scena il 27 maggio 2013 al Teatro Argot Studio (sempre Roma): uno spettacolo meticcio, attraversato dalle testimonianze di molti ospiti e da un racconto di TerraNullius, scritto a sei mani e letto a due voci.
Dura due ore e undici minuti. Buon ascolto.
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Razza partigiana a Pesaro, 24 aprile 2013
Wu Ming 2 e il supergruppo di Razza partigiana – Egle Sommacal e Stefano Pilia (chitarre), Paul Pieretto (basso, tastiere, elettronica) e Federico Oppi (batteria e percussioni) – continuano a consumare ruote e suole su chilometri di asfalto – e a volte strade sterrate – per raccontare a un paese smemorato la storia del partigiano italo-somalo Giorgio Marincola. In questo speciale proponiamo la registrazione del concerto/reading svoltosi al circolo ARCI Villa Fastiggi di Pesaro il 24 aprile scorso. Dura un’ora e otto minuti.
Molti di voi lo ricorderanno: nel 2010 uscì Basta uno sparo. Storia di un partigiano italo-somalo nella Resistenza italiana, pubblicato dalla collana Inaudita delle edizioni Transeuropa. Si trattava di un libro + CD, contenente i testi del reading Razza Partigiana, completi di note, e la registrazione in studio dello spettacolo – che gira ormai da cinque anni, ha subito modifiche ed è stato avvolto da un «progetto transmediale multiautore» sulla famiglia Marincola, di cui fanno parte anche Timira e Come fratelli e sorelle. Va sempre ricordato che tutto partì dalla seminale biografia scritta da Carlo Costa e Lorenzo Teodonio, Razza Partigiana. Storia di Giorgio Marincola (1923 – 1944).
Basta uno sparo è sempre più difficile da trovare in libreria, ma da oggi chi se lo è perso può consolarsi: ecco il pdf.
Ne approfittiamo anche per segnalare che si parla della famiglia Marincola anche nella freschissima di stampa Guida alla Roma ribelle di Rosa e Viola Mordenti, Lorenzo Sansonetti e Giuliano Santoro (Voland, 2013). Qui la prefazione di Alessandro Portelli.
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Il n.6 della rivista on line S28Mag ospita uno speciale su Point Lenana, con un video girato da Wu Ming 1 nella sua consueta maniera «make it very grezz» e un’intervista. La curatrice, Virginia Fiume, ha raccontato sul suo blog come le è venuta l’idea:
La mia salita a Point Lenana
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Leggere Point Lenana, creatura uscita dalla penna e dalle ricerche di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara, è come percorrere un sentiero di montagna: occorre la consapevolezza della necessità di un ritmo lento e costante, serve saper prestare attenzione ai dettagli, come le sfumature delle nuvole in cielo, che se sai osservarli con cura ti serviranno a metterti al riparo da acquazzoni che sembrano improvvisi, ma non lo sono mai. E quando in certi momenti ti sembra di arrancare o di esserti perso, basta recuperare la concentrazione per procedere. E arrivare al punto più alto, quello in cui dalla vetta assapori la visione di insieme.
Point Lenana l’ho vissuto con straniamento. Salsedine, vento e rumore di onde hanno dato sapore alle pagine che leggevo durante le vacanze estive. E mentre davanti a me si stendeva l’arcipelago delle isole Eolie, nella mia testa si componeva il puzzle della storia dell’alpinismo italiano, si aggiungevano dettagli sulla storia del colonialismo italiano, troppo spesso liquidato con l’eufemismo colonialismo buono.
Quando ho finito il libro ho capito che mi trovavo davanti a un frammento prezioso della storia del paese in cui sono nata. Uno di quei libri che non sarebbe affatto male se venissero inseriti nelle letture facoltative di una classe dell’ultimo anno delle superiori. In sostituzione, magari, di una carrellata troppo frettolosa sulla politica estera del regime fascista.
E allora ho pensato: «Che potere ho io per aumentare la diffusione di questo libro?». Sul volo di ritorno dalle vacanze mi è venuto in mente che il sesto numero di S28Mag, la rivista online di cui sono caporedattrice, sarebbe stato dedicato alla parola “confini”. E il mio personale puzzle si è composto nella testa: Point Lenana parla di confini individuali (il desiderio umano di superare i propri limiti, che si incarna nel corpo e nelle azioni degli alpinisti di cui si raccontano le vicende), racconta arbitrari confini etnici (il concetto di “altro” e di rappresentazione dell’ “altro” viene reso attraverso esempi concreti che solo la narrativa può rendere umanamente palpabili); Point Lenana è un libro che supera i confini del mezzo “pagina di carta” e diventa un’opera transmediale nella sua fase di promozione.
Sapevo che Wu Ming 1 non avrebbe mai messo la faccia per il video della rubrica BookMe, pensata per far leggere a un autore alcuni estratti del suo libro. Ma il video che ha creato per accompagnare la sua intervista è ancora più efficace di qualunque montaggio: è la storia che si fonde con la Storia.
Così è nato lo speciale Point Lenana di S28Mag, Wu Ming 1: patrie, montagne e colonizzatori
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Come promesso, ecco in download la tesi di Luigi Franchi su Timira. Corso di laurea magistrale in Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche. Relatore: Fulvio Pezzarossa. Titolo: «”Cosa vogliamo fare della nostra amicizia?”. Timira, un romanzo in friendchise».
Un’esplorazione molto acuta del romanzo, in compagnia di Agamben, Foucault, De Certeau, Westphal, Negri/Hardt e del nuovo concetto di friendchise – un franchise amicale, dal basso, che integra e rilancia, con un nome più figo, la nostra idea di «progetto transmediale multiautore».
Ed eccovi anche la tesi di Severino Antonelli, «Dinamiche autoriali e postcoloniali in Timira (2012) di Wu Ming 2 e Antar Mohamed». Discussa a marzo 2013 con la professoressa Franca Sinopoli, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, per una laurea triennale in lettere. In appendice, contiene una lunga “intervista-performance” agli autori di Timira, realizzata a Bologna il 5 dicembre 2012.
Ci sarà modo di discutere di entrambe queste ricognizioni.
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Daniela Pulvirenti dell’agenzia Trekking International (Milano) è calorosamente ringraziata nei «Titoli di coda» di Point Lenana, e il motivo è semplice: è stata lei a organizzare il viaggio al Monte Kenya degli autori, sulle tracce di Felice Benuzzi, nel gennaio 2010. Nell’ottobre scorso Daniela si è portata il libro fino in Nepal. Questa foto è stata scattata nella Tsum Valley, 4500 metri d’altezza, terzo record di altitudine per una copia del libro, dopo l’Uhuru Peak del Kilimanjaro e la Point Lenana itself.
Concludiamo questo speciale di fine anno con una recensione di Point Lenana apparsa sul sito Filosofi precari:
Point Lenana di Wu Ming 1 e R. Santachiara, una Recensione
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Avvertenza. Ci sono molti modi di leggere un libro. Soprattutto alcuni libri. Questo punto di vista è solo uno dei tanti possibili.
C’è un rimosso fin troppo latente e violento nella travagliata Storia italiana (dall’impresa garibaldina a questi giorni di decadenza berlusconiana) che ritorna sempre con prepotenza maggiore nell’immaginario collettivo. Sono gli anni Venti e dintorni del nostro Novecento. Ce ne sarebbe un altro strettamente connesso, il Rimosso dell’unificazione dello stivale nel 1861 e della resistenza del Mezzogiorno alla colonizzazione piemontese, ma per il momento rimaniamo al materiale storico e narrativo presentato da Point Lenana. Per quanto riguarda il genere si può certamente dire che non sia più una questione di New Italian Epic di cui, proprio i creatori della cornice, hanno decretato il tramonto. C’è ben altro nella necessità collettiva di indagare e mostrare, utilizzando scenari differenti e punti di vista particolari, un periodo costituente di questo nostro vivere insieme che qualcuno chiama Stato, altri Costituzione e qualche stolto, addirittura, azzarda definire Repubblica.
Gli anni Venti e dintorni del Novecento sono un tema che ci impegna direttamente, quindi. Non solo per mimesis di un’ondata cinematografica che si diverte a mettere in scena film dal grande successo di botteghino come Il Grande Gatsby, Midnight in Paris, Hugo Cabret o fortunate SerieTV come Boardwalk Empire, Downton Abbey ed altre amenità di questo genere. Evidentemente questo accade perchè il pubblico mostra una certa curiosità e la curiosità diventa presto consumo nei “salotti buoni” del mercato e, di conseguenza, profitto per qualche fortunato. Come detto la sensazione è che ci sia ben altro e che questo “ben altro” possa divenire una tavola bandita attorno a cui sedersi e gozzovigliare allegramente. Per provare a tessere quel senso della Storia che abbiamo perso o che dovremmo ancora pienamente ritrovare. La Rimozione è un meccanismo. Un dispositivo che mettiamo in campo per allontanare dalla nostra intima Coscienza residui celati dalla Memoria che riteniamo più o meno intollerabili. Spiacevoli. Non desiderabili. Quando questo dispositivo dall’ambito individuale deborda in quello pubblico, parliamo di Politica. Così la Politica diventa la costruzione difensiva del Rimosso che giustifica il Governo. Un po’ come la retorica del “catenaccio” all’italiana nel giuoco del Calcio che nascondeva solo una notevole incapacità a vedere la porta avversaria. In questo caso il Rimosso era il senso del goal.
Point Lenana, un altro oggetto narrativo non identificato per Wu Ming 1 in collaborazione con Roberto Santachiara, si inserisce in questa genesi degli anni Venti e dintorni del Novecento. Attraverso filosofiprecari.it abbiamo già parlato di Roma combattente e Bastardi senza Storia di Valerio Gentili. Un percorso nell’arditismo rivoluzionario (e di “sinistra”) che incrocia in maniera problematica interventismo nella Prima Guerra mondiale e antifascismo resistente nei primi anni del Ventennio. Molto prima abbiamo discusso il libro L’Uniforme e l’Anima del collettivo Action30 che descrive in maniera organica un ritorno agli anni Trenta come ipotesi di ricerca sull’attualità. Pensando, a memoria, ad altre letture, sono interessanti anche i contributi di Paolo Buchignani La rivoluzione in camicia nera o Roberto Carocci Roma Sovversiva. Motivazioni e intenti differenti alla base di ogni progetto editoriale, naturalmente. Eppure di letteratura “militante” ce n’è diversa e non è il caso di prenderla tutta in considerazione qui ed ora. Basta abbozzarla per dimostrare come questa cornice risulti decisamente stimolante in termini di Genesi di immaginario necessario per ricostruire non solo una Storia ma anche un modus essendi dell’antagonismo nel nuovo millennio.
La narrazione di Wu Ming 1 e R. Santachiara ruota attorno ad una Esistenza, umana troppo umana. L’Esistenza è quella di Felice Benuzzi. Alpinista, scrittore e funzionario dello Stato, in ordine di “costituzione ontologica”. Almeno questo sembra venire fuori dalla strana biografia di Point Lenana. La narrazione di Wu Ming 1 ruota tutta intorno ad un altro racconto: Fuga sul Kenya dove F. Benuzzi ha raccontato la sua avventurosa scalata di Punta Lenana (appunto sul Monte Kenya) fuggendo, con altri due compagni di viaggio, da un Campo di Prigionia per italiani in africa (Campo POW) durante la seconda Guerra mondiale per poi ritornare dopo circa diciassette giorni (tra stupore ed ammirazione dei comandanti del Campo). Esperienza decisamente eroica, se di eroismo si può parlare, ma libera dalla vuota e stucchevole retorica della Patria con la P enorme che da circa vent’anni governava ogni “azione” dell’Essere italiano. Iniziativa molto poco fascista, non c’è nulla da dire. Finalmente l’azione, l’agire, si presentava nella sua dimensione singolare come scelta personale e non comando pubblico imposto da qualche autorità civile e morale.
La particolarità della costruzione narrativa di Wu Ming 1 e R. Santachiara è la capacità di intrecciare campi differenti, ma la cornice resta sempre quella dell’Essere umano F. Benuzzi come alpinista, scrittore e funzionario dello Stato nel contesto storico degli anni Venti e dintorni del Novecento. Della creazione del consenso al fascismo e del consolidamento del Regime burocratico. L’alpinismo, in modo particolare quello triestino, è utilizzato come cartina di tornasole per spiegare le solide basi “razziali” del Fascismo, in quello spazio particolare ed “irredento” contro l’umanità slava. Il “confine” generava violenza. Ed il fascismo, per tutti i suoi lunghi anni, non ha fatto altro che creare confini, per difendere una parte e rimuovere l’altra. Creando e governando Rimossi. Le Leggi Razziali del 1938, quindi, non sono una sorpresa. Non devono esserlo. Per nessuno. Non sono nate per imitazione del Nazismo ma erano (e lo sono ancora, purtroppo) alla base del fascismo e della stessa retorica italiana. La Civilità è un vallo. Il vallo della Ragione. Anche i riferimenti al nostro brutale colonialismo (che a definire colonialismo ci sarebbe da ridere), alle stragi al limite (forse spesso superato) del genocidio etnico raccontano una fenomenologia non imposta ma tragica conseguenza di un’indole ritenuta, con il Fascismo, “naturale”. L’Essere italiano quasi non aspettava altro che ostentare, ogni giorno o di tanto in tanto, la propria brutale paura di ogni cosa. Altro elemento molto interessante raccontato da Point Lenana sono le dinamiche di creazione del consenso al Regime. Un consenso quasi silenzioso. Il Fascismo non si è fatto massa ma si è disciolto in essa quasi come zucchero in un bicchiere di acqua. Diffondendosi velocemente e senza attendere troppo. Confondendosi con le strutture del Governo fino a comandarle. Si parla sempre di un consenso al limite della passività, ma è di fatto un consenso. Perchè quando non ci si oppone, si condivide. Nel bene o nel male. E così anche ipotizzare più o meno nobili condotte di “afascismo” o di “antifascismo esistenziale”, aprirebbe altre centinaia di pagine al confronto. Soprattutto in riferimento ai funzionari dello Stato ed ai professionisti nelle arti e nei mestieri. Esseri umani più o meno consapevoli di quanto stesse accadendo che hanno scelto di non fare grandi cose. Nella maggior parte dei casi si sono semplicemente organizzati, per adeguarsi e cercare di ingoiare qualche boccone più amaro. Allegoria di quella “continuità” degli apparati che dagli anni del Regime fascista, dell’esaltazione di Mussolini, si è innervata nella Costituzione antifascista dello Stato repubblicano. O, meglio, si è inverata nello Stato costituzionale un po’ dimenticandone la radice repubblicana ed antifascista. Come si suol dire, all’epoca dell’Armistizio bastava poco per passare da una parte o dall’altra. Bastava una parola, un gesto. Dibattito ancora aperto. Anche nel libro.
Questo è Point Lenana, nella lettura che ne abbiamo dato. Una narrazione aperta nella misura in cui riuscirà a creare un confronto realmente costituente sui Rimossi della nostra Repubblica.
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December 16, 2013
⁂ Wu Ming Lab | Cosa sono, perché li facciamo ⁂

Daniele Bergonzi all’opera nei locali del Laboratorio 41, Bologna.
Sabato 14 dicembre 2013, nella sede del Laboratorio 41 di Bologna, abbiamo presentato i primi tre Wu Ming Lab. C’erano Wu Ming 2, Wu Ming 3 e Wu Ming 4. Ecco le registrazioni dei loro interventi + i video che hanno mostrato.
Per scaricare gli mp3 anziché ascoltarli in streaming, cliccare sulla freccia rivolta verso il basso (a destra del miniplayer).
Secondo noi è meglio guardare i video prima di ascoltare l’audio. Sono tutti molto brevi.
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I video qui incorporati non sono i cortometraggi completi (non ancora disponibili in rete), ma i trailer reperibili su YouTube. Purtroppo, sono preceduti da spot pubblicitari.
La raccolta Formato ridotto - coi “corti” di WM2, Brizzi, Cornia, Cavazzoni e Clementi – costa un filo di ragnatela meno di dieci euro ed è ordinabile dal sito della Cineteca di Bologna.
Intro a più voci & Wu Ming 2 – Cos’è l’archivio e come farlo cantare
Audio | Intro a più voci + Wu Ming 2 – Cos’è l’archivio e come farlo cantare
Presentazione del Wu Ming Lab «Cantarchivio. I documenti raccontano». Durata: un’ora e ventuno minuti.
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Wu Ming 3 – Siamo tutti la finale di Champions del ’99
Audio | Wu Ming 3 – Siamo tutti la finale di Champions del ’99
Presentazione del Wu Ming Lab «Futbologia. Il racconto del racconto del calcio». Durata: cinquantuno minuti.
Luca ne approfitta per dire alcune cose su se stesso e su come ha vissuto il rapporto con il collettivo dopo la sua uscita nel 2008 (oggi “superata in avanti” dagli sviluppi dei vari progetti).
Ricordiamo che Futbologia è anche un blog (e non solo). Lo trovate qui.
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Wu Ming 4 – La mappa, la trama e il personaggio femminile de Lo Hobbit
Audio | Wu Ming 4 – La mappa, la trama e il personaggio femminile de Lo Hobbit
Presentazione del Wu Ming Lab «Sentieri della Terra di Mezzo. La subcreazione tolkieniana e il gioco dei mondi fantastici». Durata: un’ora e due minuti.
Ecco i link – in ordine di apparizione – alle mappe mostrate e commentate da WM4 nel corso dell’intervento:
Isola del Tesoro - Terra di Mezzo - Thròrin
(Le immagini si apriranno in una pagina a parte, per non interrompere lo streaming audio.)
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