Wu Ming 4's Blog, page 106

February 24, 2014

Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese

Simone Cristicchi


di Piero Purini (guest blogger),

con una postilla di Wu Ming e una breve linkografia ragionata.


[Abbiamo chiesto allo storico Piero Purini  - o Purich, cognome della famiglia prima che il fascismo lo italianizzasse - di guardare il discusso spettacolo di Simone Cristicchi e recensirlo per Giap.

Purini è autore del fondamentale Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975appena ristampato da KappaVu con una prefazione di Jože Pirjevec.

Consigliamo questo libro a chiunque voglia conoscere e capire la storia del confine orientale nel Novecento. L'autore ha scovato, consultato e confrontato non solo fonti "nostrane", come troppo spesso accade, ma anche fonti in lingua tedesca, slovena, croata e inglese.

Per potersi dedicare alla ricerca degli «esodi» e delle migrazioni forzate nella zona che va dal Friuli orientale al Quarnero, Purini è dovuto andare all'Università di Klagenfurt, visto che in Italia aveva trovato solo porte chiuse. Metamorfosi etniche è l'espansione della sua tesi di dottorato.

Piero è modesto e non lo dice in giro, ma un paio di settimane fa lui e Poljanka Dolhar hanno messo in fuga da Radio 3 Marcello Veneziani, e senza nemmeno fargli «Buh!» Cliccare e ascoltare per credere, ma solo dopo aver letto l'articolo qui sotto.

In calce, una nostra postilla su «memoria condivisa» e rimozione del conflitto.

Ricordiamo che sotto il post ci sono due comandi: uno permette di salvarlo in ePub, l'altro lo apre in versione ottimizzata per la stampa.]

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Magazzino 18 di Simone Cristicchi mi è sembrato un’operazione teatrale molto furba con uno scopo politico più che evidente: fornire uno strumento artistico efficace per propagandare la cosiddetta memoria condivisa, tanto cara al mondo politico «postideologico», secondo cui tutti gli italiani devono riconoscersi in una storia comune. Storia comune di cui, fin dal nefasto incontro Fini-Violante del 1998, le foibe e l’esodo sono pietre angolari.



Questa finalità prettamente politica è andata decisamente a scapito del valore artistico dello spettacolo: ne è risultata una pièce teatrale che mette insieme in maniera piuttosto bislacca generi disparati, richiami furbeschi all’immaginario collettivo italiano, imitazioni di spettacoli o film più o meno familiari allo spettatore medio. Un mix nazionalpopolare (a mio avviso piuttosto noioso e stucchevole) in cui troviamo un impiegato romano burino (che risulterà nostalgicamente simile ad alcune macchiette di Alberto Sordi); suggestioni musicali che si ispirano evidentemente a Schindler’s List (a suggerire per l’ennesima volta l’improprio paragone tra l’esodo giuliano-dalmata e la Shoah); imbarazzanti imitazioni di Marco Paolini, sia nella struttura dello spettacolo, sia nella recitazione; discutibili inserti tipo musical (alcuni brani non stonerebbero in film Disney come Pomi d’ottone e manici di scopa o Tutti insieme appassionatamente).


Secondo me, proprio l’ultima di queste canzoni – una via di mezzo tra Aladdin e Il re Leone – mostra l’ambiguità che permea l’intero spettacolo. La canzone si intitola Non dimenticare e recita: «Non è un’offesa che cede al rancore / non è ferita da rimarginare / è l’undicesimo comandamento: / non dimenticare».

E’ sottinteso, ciò che non si deve dimenticare è la tragedia delle foibe e dell’esodo, ma per ricordare questi eventi Cristicchi non esita a dimenticarne o trascurarne completamente altri che potrebbero risultare estremamente scomodi per lo scopo del suo spettacolo: appunto la creazione di una memoria collettiva esclusivamente italiana.


Cinque minuti e poi…

Innanzitutto Cristicchi dimentica di contestualizzare storicamente l’esodo. E’ vero che nello spettacolo è stata inserita una scena in cui vengono narrati i suoi antefatti storici, ma questa scena è del tutto assente nel cd allegato al libro e, se non sbaglio, ridotta nella lunghezza in alcune repliche, in quanto – almeno così mi sembra confrontando la trasmissione Rai, il cd e alcuni spezzoni tratti da YouTube – lo spettacolo viene modificato a seconda del luogo dov’è rappresentato.


Tale spiegazione storica è comunque troppo breve (cinque minuti scarsi su uno spettacolo di un’ora e tre quarti), superficiale, inesatta e abbonda di luoghi comuni. Talmente sbrigativa che sembra essere stata inserita al solo scopo di prevenire eventuali accuse di scarsa obiettività e dare un’apparenza bipartisan allo spettacolo.


Locandina Magazzino 18


La complessità etnico-linguistico-nazionale del territorio è liquidata dicendo che «per questo fazzoletto di terra ci sono passati tutti: italiani, austriaci, francesi, ungheresi, slavi». Già con questa descrizione Cristicchi può creare confusione nel pubblico: lo spettatore inconsapevole non sa che in questo territorio c’erano popolazioni autoctone (italiani, sloveni e croati) presenti da secoli, spesso fuse e mescolate tra loro, mentre Austria-Ungheria e Francia furono le entità statali che lo amministrarono.


Anche sul termine «italiani» ci sarebbe da ridire, in quanto, più che di «italiani» si trattava di popolazioni che parlavano il dialetto istroveneto della zona. Probabilmente la maggior parte degli italofoni residenti a Trieste o a Gorizia avevano la percezione di sé come fedeli sudditi asburgici, mentre l’irredentismo era appannaggio di una limitata ma rumorosa minoranza di altoborghesi (che proprio per la loro posizione sociale riusciva ad amplificare a dismisura le tesi favorevoli all’Italia) e di un’altrettanta sparuta minoranza di giovani contestatori che vedevano nel mito dell’Italia la contrapposizione ad un’Austria percepita come vecchia, bigotta ed opprimente. Esisteva anche una comunità di diverse decine di migliaia di persone di lingua tedesca, che risiedeva sul territorio da almeno 120 anni, e una miriade di piccole ma culturalmente vivacissime comunità non italiane: ebrei, serbi, cechi, greci, armeni, svizzeri, rumeni, turchi.


Gli altri esodi prima dell’esodo

Ciò che Cristicchi dimentica è che questo equilibrio e questa (fragile) convivenza non furono interrotte dal fascismo – come sostiene in Magazzino 18 -, ma già dalle autorità militari italiane subito dopo la conquista del territorio nel 1918.


Cristicchi dimentica che con la vittoria nella Grande Guerra l’Italia si annesse un territorio che comprendeva circa 500.000 non italiani.


La grande Italia. Cartolina propagandistica su Trieste irredenta, 1915


Cristicchi, che ha voluto scrivere uno spettacolo sull’«Esodo», dimentica che quello giuliano-dalmata non fu il primo spostamento forzato di popolazione di questo territorio: già a partire dal novembre ’18 si verificò una diaspora degli abitanti della zona, che se ne andavano perchè temevano l’arrivo delle truppe italiane o perché la nuova sistemazione politica del territorio impediva loro di poter restare.


Cristicchi dimentica che le autorità militari italiane già nel novembre 1918 chiusero tutte le scuole della comunità tedesca della Venezia Giulia trasformandole in buona parte in caserme;

dimentica che insegnanti tedeschi, sloveni e croati persero il lavoro, furono espulsi o addirittura internati perchè continuavano ad insegnare clandestinamente nelle loro lingue;

dimentica che migliaia di reduci dell’esercito austroungarico non poterono tornare alle proprie case perchè le autorità militari permettevano il rientro ai soli reduci di lingua italiana;

dimentica che già nel primo anno di occupazione (1918-’19) l’intellighenzia culturale slovena e croata (850 persone tra sacerdoti ed insegnanti) venne internata nel Meridione perché rappresentava il veicolo di sopravvivenza della lingua e della cultura delle due minoranze;

dimentica che vi fu una campagna di delazione nei confronti di chi in casa parlava ancora tedesco, o che molti di coloro che erano definiti “austriacanti” (anche di lingua italiana) vennero fatti salire senza troppe cerimonie sui treni e spediti a Vienna o a Graz.

Dal 1918 al 1920 la vox populi locale parlò di oltre 40.000 partenze dalla sola Trieste verso Austria e Jugoslavia.


Cristicchi dimentica (o non sa) che l’esodo da Pola di cui parla nel suo spettacolo fu preceduto da un altro che nel 1918-’19 vide la partenza di oltre un terzo degli abitanti, e che fu questo esodo a rendere la popolazione così compattamente italiana, dal momento che se ne andarono la stragrande maggioranza dei tedeschi e una parte consistente dei croati e degli sloveni.


Cristicchi ignora che nel periodo tra le due guerre oltre 100.000 abitanti della Venezia Giulia partirono per Jugoslavia, Austria o Argentina perché le condizioni del territorio sotto l’Italia erano per loro invivibili;

dimentica – o più probabilmente non sa, perchè la storiografia italiana non ne ha quasi mai parlato – che nel 1919 più di mille ferrovieri tedeschi e sloveni del compartimento di Trieste vennero pretestuosamente licenziati in tronco durante uno sciopero e spediti in Austria e in Jugoslavia per poterli sostituire con personale ferroviario italiano;

dimentica che lo Stato italiano portò avanti una campagna di insediamento di italiani provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Puglia per sostituire i non italiani che erano partiti e che dal ’18 al ’31 furono quasi 130.000 gli immigrati nella Venezia Giulia, un numero tale che le autorità dovettero addirittura proibire l’immigrazione nelle nuove province, perché la situazione economica del territorio non permetteva di fornire occupazione a tutti.


I primi immigrati ad arrivare furono 47.000 tra militari, carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie, che dovevano imporre un controllo di stampo quasi coloniale alle nuove terre. La militarizzazione del territorio è particolarmente evidente se viene confrontata con la situazione prebellica: prima del conflitto l’Austria manteneva di stanza nel Litorale solamente 25.000 tra soldati e gendarmi, di cui ben 17.000 concentrati a Pola, dove si trovava la più grande base militare della marina austroungarica.

Cristicchi, poi, dimentica (ma più probabilmente ignora) che nel settembre del 1920, per piegare un sciopero, l’esercito cannoneggiò le case del rione “rosso” di San Giacomo, caso unico nella storia d’Italia di uso dell’artiglieria pesante contro un centro abitato in tempo di pace.


L’incendio del Narodni Dom

Nella sua scena di «introduzione storica» Cristicchi parla delle violenze contro i non-italiani (attribuendole tutte al fascismo, ancor prima che il partito fascista esistesse) e cita – giustamente – l’incendio del Narodni Dom, l’enorme casa del popolo, centro culturale e simbolo degli sloveni, dei croati e dei cechi nel centro di Trieste. Cristicchi sostiene che la sua distruzione fu «la prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia e la popolazione slovena e croata». Affermazione discutibile, visto che tensioni e violenze ce n’erano già state prima, e che – ad esempio – già in epoca asburgica il principale partito italiano, quello liberalnazionale, aveva ottenuto che a Trieste venisse impedita la costruzione di un liceo sloveno.


L'incendio del Narodni Dom, 13 luglio 1920

L’incendio del Narodni Dom di Trieste, 13 luglio 1920


Per giunta Cristicchi presenta l’incendio del Narodni Dom come una reazione all’uccisione di due militari italiani a Spalato. La stampa nazionalista dell’epoca aveva però omesso di dire che quei due militari avevano appena mitragliato i partecipanti ad una manifestazione, uccidendone uno, e pure Cristicchi omette questo particolare. Invece, rispetto all’incendio, in un’intervista a Repubblica ha sostenuto che ci sono «dubbi e chiaroscuri» (aggiungendo tra l’altro «Lì è morta una persona soltanto»!), insinuando forse l’interpretazione in voga durante il fascismo secondo cui dal palazzo si sparò e vennero gettate bombe contro gli assedianti, versione già ampiamente smentita dalla stampa non fascista e dalla stampa straniera dell’epoca, nonché da storici titolati e decisamente non sospettabili di simpatie filoslave come Carlo Schiffrer.


Chi ha detto «Italiano = fascista»?

Magazzino 18 descrive le prevaricazioni che il fascismo adottò per legge contro le minoranze: il divieto di utilizzare lingue straniere nei tribunali e negli uffici pubblici (ma dimentica che gli sloveni riottennero questo diritto solo nel 2001!); la totale chiusura delle scuole slovene e croate; la rimozione delle tabelle in slavo (ma dimentica che ancor oggi nel centro di Trieste non si sono le tabelle bilingui per non urtare la sensibilità di qualcuno…); l’italianizzazione di «molti» cognomi (si parla di 100.000 persone solo a Trieste, mezzo milione in tutta la Venezia Giulia… Solo «molti»?) e quella dei toponimi (con paesi che ancor oggi, nonostante gli esiti di referendum locali, non possono tornare ufficialmente al nome originario perché è necessaria una votazione in parlamento)… «Gradualmente,» dice Cristicchi, «gli spazi culturali, economici e sociali degli slavi vengono soppressi». Corretto. Ma non sarebbe stato male aggiungere che accanto alle chiusure per legge avvenivano veri e propri pogrom antislavi, con distruzione di tipografie, circoli, case private, negozi. Chi parlava sloveno o croato in pubblico rischiava bastonate, sputi (alcuni zelanti maestri erano usi sputare in bocca agli alunni che non parlavano in italiano), olio di ricino e addirittura olio da motore, come quello che venne somministrato al dirigente di coro Lojze Bratuž, che morì un mese dopo.


Bratuz

Lojze Bratuž, italianizzato in Luigi Bertossi. Morto a Gorizia nel 1937 a soli trentaquattro anni. Una squadra fascista lo sequestrò e gli fece bere a forza olio da motore. Il giorno della sua morte, gli amici si radunarono di fronte all’ospedale e cantarono una canzone slovena (gesto proibito dal fascismo), poi fuggirono per non subire violenze a loro volta.


Cristicchi scrive che il risentimento produsse tra sloveni e croati l’equazione «italiano = fascista». E anche qui c’è una bella dimenticanza. In realtà questa uguaglianza non fu un’invenzione di sloveni e croati, ma per un ventennio fu portata avanti dalla propaganda fascista: proclamando l’entrata in guerra contro l’Etiopia, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce aveva enfaticamente affermato: «L’identità tra Italia e fascismo è perfetta, assoluta, inalterabile». Dunque anche qui si attribuisce agli slavi come errore di valutazione una parola d’ordine che invece era ben radicata nell’ideologia fascista e probabilmente gradita a non pochi italiani.


Cartello contro l'uso della lingua croata affisso dai fascisti a Dignano/Vodnjan


Occupazione fascista e Resistenza

Cristicchi passa poi all’analisi del periodo bellico: cita l’invasione della Jugoslavia, gli incendi di villaggi, i massacri di civili, i crimini di guerra per cui nessuno ha mai pagato, gli ordini delittuosi di Roatta, le migliaia di morti nei campi di internamento, in primis quello di Arbe (anche se attribuisce tutto ciò a Mussolini, quando invece dietro di lui c’era tutto un apparato militare e amministrativo-burocratico che sosteneva le sue avventure belliche al di là dell’appartenenza al fascismo).


Tutto corretto storicamente, ma troppo sbrigativo: quelle che sono le cause principali di foibe e deportazioni sono liquidate in poche frasi. Forse Cristicchi avrebbe potuto ricordare la città di Lubiana, circondata da filo spinato e trasformata essa stessa in un enorme campo di concentramento; avrebbe potuto spiegare come i militari italiani a Podhum uccisero 91 abitanti, ne deportarono 900 e rasero al suolo l’intero paese, non diversamente da quanto i tedeschi fecero a Sant’Anna di Stazzema o a Marzabotto. Avrebbe potuto dire che la Slovenia ebbe un numero di vittime pari al 6,3% della popolazione, addirittura la città di Lubiana raggiunse il 9% di vittime; avrebbe potuto dire che la Jugoslavia contò un milione e centomila vittime su una popolazione di 15 milioni (solo a titolo di paragone l’Italia su 43 milioni ebbe circa 450.000 vittime).


Soprattutto, Cristicchi dimentica (o non sa) che molti di quelli che sfuggirono ai massacri italiani e tedeschi andarono ad ingrossare le fila della resistenza antifascista di Tito.


Partigiani della divisione italiana Garibaldi, II° Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

Partigiani della divisione italiana Garibaldi, inquadrata nel II° Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.


I partigiani, nel racconto di Cristicchi, ad un certo punto «scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati» ed iniziano a girare casa per casa alla ricerca delle loro vittime su cui sfogare la propria vendetta.


Cristicchi omette di dire che i partigiani non fecero campeggio in montagna per poi andare ad ammazzare gli italiani: sostennero una lotta durissima contro le forze dell’Asse, contro i nazifascisti e dopo l’8 settembre 1943 contro i tedeschi e contro i collaborazionisti italiani che continuarono a combattere a fianco dei nazisti. Perché anche questo Cristicchi dimentica: che con l’armistizio e la dissoluzione dell’esercito italiano, una parte dei soldati italiani riuscì a tornare a casa, mentre altri si unirono proprio a quelle forze di Tito che sarebbero «scese dalle montagne» per «colpire gli italiani che sono un ostacolo» alla grande Jugoslavia (termine inventato: non è mai esistita una «grande Jugoslavia», a significarne l’espansionismo, a differenza di «grande Serbia», o «grande Germania»).

Altri soldati italiani continuarono a combattere assieme ai tedeschi. Cristicchi dimentica di dire che spesso questi collaborazionisti italiani si incaricarono del «lavoro sporco» (rastrellamenti, torture, esecuzioni), forse facendo – questi sì – odiare gli italiani in quanto fascisti.


Inoltre, quando parla dei partigiani Cristicchi li descrive sempre come «bande», «titini», «ribelli» rimuovendo il fatto che i soldati di Tito non furono bande feroci e selvagge, bensì un esercito che combatteva contro l’Asse e considerato parte integrante delle forze alleate.


Infoibare la storia

L’argomento foibe, poi, è un condensato di luoghi comuni e dimenticanze.


Innanzitutto Cristicchi omette la distinzione tra le cosiddette «foibe istriane» (1943) e le «foibe triestine» (1945). Le prime furono una sorta di jacquerie, di rivolta contadina contro chi aveva detenuto il potere fino ad allora, in cui la rappresaglia politica potè mescolarsi in alcuni casi a vendette personali. Cristicchi esclama: «Sta gente è stata ammazzata in tempo de pace!», ma dimentica che nel settembre ’43 c’era ancora la guerra.


Simone Cristicchi


Sulle foibe triestine, Cristicchi sfrutta il solito luogo comune secondo cui tutte le vittime sarebbero state infoibate. Come sa chiunque si occupi anche lontanamente dell’argomento, gli scomparsi del maggio ’45 finiti effettivamente nelle voragini carsiche sono stati una minoranza: qualche decina di persone. Gli altri furono deportati in quanto appartenenti a forze armate che avevano combattuto contro l’esercito jugoslavo, al pari di quanto accadde agli italiani catturati da inglesi, francesi, americani e russi. Le condizioni della prigionia non erano certamente delle più facili (ma i soldati catturati in Russia o in Africa non ebbero condizioni migliori); va detto però che buona parte di chi non aveva responsabilità personali riuscì a tornare.


Per fascisti e collaborazionisti vennero allestiti processi che si conclusero anche con condanne a morte. Il fatto però che le persone venissero liquidate «in quanto italiane» è smentito sia dal fatto che alcuni fascisti colpevoli di crimini vennero liberati dagli jugoslavi che non li riconobbero (il che la dice lunga sulla «terribile efficienza» della polizia segreta jugoslava), sia dai numeri. Cristicchi dà cifre vaghe (500, 5.000, 10.000, 14.000), mentre quasi tutti quelli che sono andati a spulciarsi uno per uno le liste dei “desaparecidos” concordano su un numero tra 1.000 e 2.000 persone. Cifre analoghe a quelle dei morti negli ultimi giorni di guerra a Genova, a Torino o in Emilia. Dove però mai nessuno è stato ucciso «in quanto italiano». Mi sembra dunque che questi numeri siano la riprova numerica del fatto che in queste terre le esecuzioni del maggio ’45 non hanno risposto ad una logica di pulizia etnica, bensì siano state la – purtroppo – fisiologica resa dei conti di un conflitto che era stato atroce e fortemente ideologico.


Se poi si vanno a confrontare le cifre delle vittime a guerra finita in Jugoslavia, si nota come altrove – dove Tito non doveva temere di rendere conto agli alleati – la mano della giustizia partigiana fu estremamente più pesante rispetto alla Venezia Giulia dove sarebbe avvenuta la «pulizia etnica».


Sorvolo sul caso Norma Cossetto, sulla descrizione della foiba (che sembra tratta pari pari dal racconto del sedicente sopravvissuto Graziano Udovisi) e sulla strage di Vergarolla, in quanto Cristicchi le interpreta come avvenimenti sicuri, ma dimentica di segnalare che si tratta invece di singoli episodi sui quali sono cresciuti a dismisura racconti mai corroborati da prove, o al massimo si sono fatte ipotesi investigative.


Davvero «non si può vivere senza essere italiani»?

Rispetto all’esodo è interessante come Cristicchi generalizzi l’esodo da Pola, facendo credere che anche l’esodo dalle altre parti dell’Istria, da Fiume, da Zara, dalla Zona B, dal Muggesano si sia svolto nello stesso modo. La questione è che l’esodo da Pola risponde a tutti i clichés di cui lo spettacolo ha bisogno: la partenza in tempi brevi, le navi, il trasporto delle masserizie, la neve, la bora.


Cristicchi dimentica che l’esodo fu un fenomeno estremamente complesso, che avvenne con modalità e tempi diversi: Zara fu addirittura sfollata ancora durante la guerra a causa dei bombardamenti angloamericani, l’esodo di Fiume si risolse in pochi mesi, l’esodo dalla Zona B si prolungò per anni, dando il tempo agli abitanti di fare una lunga analisi sul se, sul come e sul quando partire; quello del Muggesano coinvolse una popolazione in larghissima parte comunista cominformista che in maggioranza rifiutò l’aiuto delle associazioni dei profughi per non essere strumentalizzata dalla destra o dalla DC.


Soprattutto, Cristicchi dimentica le mille cause di questa complessità. Banalizza affermando che ci fu una causa sola: la gente partì «perché non si può vivere senza essere italiani».


In nome di questa tesi, Cristicchi rimuove il fatto che la Jugoslavia stava realizzando riforme di stampo socialista nell’economia: aveva appena approvato pesanti restrizioni nel commercio privato, imposto la distribuzione delle derrate alimentari attraverso cooperative, pesantemente tassato le rendite finanziarie, attuato una riforma agraria in base alla quale venne proclamata l’abolizione della mezzadria, del colonato e del lavoro agricolo su appalto, assegnato le terre ai contadini che dimostrassero di lavorarle da almeno quindici anni, e infine stabilito il sequestro dei latifondi e la distribuzione delle terre, nonché l’uso collettivo delle macchine agricole, tassando pesantemente le terre incolte ed i terreni oltre determinate superfici.


In un contesto del genere, che qui mi sono limitato a riassumere, è chiaro che tutta una serie di categorie (proprietari immobiliari, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, imprenditori, locatori, addetti alla distribuzione ecc.) videro la partenza come l’unica soluzione dei loro problemi, a prescindere da quale paese vi fosse oltre frontiera. Credo che sull’esodo abbia giocato molto di più la paura di un sistema economico-politico demonizzato dal fascismo, dalla chiesa e dall’influente DC che di là dal confine spingeva per la partenza del maggior numero di persone. Non si dimentichi inoltre che per la piccola e media borghesia (quella che oggi viene chiamata middle class) la questione si semplificava in un’equazione molto banale: Jugoslavia = comunismo = miseria, Italia = Stati Uniti = ricchezza.


Un’altra paura che spingeva alla partenza era il sovvertimento di quello che fino ad allora era stato l’ordine sociale: le classi che avevano detenuto il potere venivano ad essere spazzate via da una sorta di tsunami sociale. Operai e braccianti diventavano arbitri dell’esistenza di chi fino ad allora aveva tenuto le redini del sistema sociale e ora non intendeva diventare subalterno agli ex servi. Non dunque fuga per l’italianità, quanto fuga dal socialismo, dal ridimensionamento sociale e dalla (probabile) miseria.


Lui ricorda, solo che ricorda male.

Lui ricorda! Ma solo quello che gli fa comodo. Per giunta, lo ricorda male.


Cristicchi dimentica che le autorità italiane spinsero sotterraneamente all’esodo: attraverso le organizzazioni degli esuli, in Istria si pubblicavano appelli per la partenza e si reclamizzavano i veri e finti vantaggi che i profughi avrebbero avuto in Italia (non si dimentichi che comunque, da un punto di vista economico, l’Istria era una delle zone più depresse del Regno d’Italia e perciò l’esodo poteva essere addirittura allettante). La DC, riuscita ad accreditarsi come la forza politica che maggiormente tutelava i profughi, doveva rendere solida la propria base nelle terre di confine e dopo il 1954 la massa di profughi fu fatta fermare a Trieste, nell’intento da parte del governo di rendere più sicura una città che in realtà molto fedele all’Italia non era mai stata (i due quinti dell’elettorato triestino si esprimevano per partiti favorevoli all’indipendenza). A Trieste i profughi ebbero precedenza nell’impiego pubblico e privato e graduatorie privilegiate nell’assegnazione di case popolari. In Magazzino 18 si dimentica che, con la saturazione del mercato del lavoro e l’impossibilità di accedere ad alloggi, circa 25.000 triestini dovettero optare per l’emigrazione in Australia.


Anche i numeri confutano la tesi che gli esuli siano partiti per mantenere la propria italianità. Cristicchi, prendendo come oro colato il numero canonico di 350.000 profughi (in realtà inventato da Flaminio Rocchi), dimentica che in base al censimento del 1936 il numero di italiani residenti nelle terre perse era di 264.799. Se si dà credito alla cifra di Rocchi, si afferma automaticamente che 85.000 non italiani partirono… per restare italiani!


Non ho grandi considerazioni da fare sul pessimo accoglimento dei profughi a Bologna, salvo ricordare che purtroppo accoglienze di questo genere sono piuttosto frequenti: anche i profughi sloveni dopo la prima guerra mondiale, quando giunsero nei loro luoghi di destinazione in Jugoslavia, vennero spesso accolti con epiteti come lahi – spregiativo di «italiani» – e fašisti, proprio coloro dai quali stavano scappando.


Sulle condizioni dei campi profughi, è indubbio che esse furono terribili, ma solo una minoranza assoluta dei profughi ci visse per dieci anni (come si dice in Magazzino 18): per la maggior parte fu un periodo di transizione relativamente breve: in genere, dopo qualche anno, a volte solo qualche mese, i profughi ottenevano alloggi popolari di buona qualità. A Trieste vennero edificati interi rioni esclusivamente per profughi, come il complesso di Chiarbola con 112 edifici per un totale di 868 appartamenti.


Visita a Goli Otok

Infine due accenni: il «controesodo» e i «rimasti».

Cristicchi dimentica che, tra i cantierini monfalconesi andati in Jugoslavia per «costruire il socialismo», quelli che non abbracciarono la causa del Cominform poterono tranquillamente restare in Jugoslavia. Degli altri solo una minoranza venne arrestata ed internata. La maggior parte potè tranquillamente (e mestamente) tornarsene in Bisiacheria. I monfalconesi che finirono nei gulag della costa adriatica furono una quarantina, a dimostrazione che non ci fu alcun accanimento contro di essi «in quanto italiani», ma solo in quanto irriducibili stalinisti.


«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell' isoletta.» Clicca sull'immagine se vuoi visitare Goli Otok.

«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell’ isoletta.» Clicca sull’immagine se vuoi visitare Goli Otok.


«Non esiste un monumento, una targa. Niente. Goli Otok non c’è nemmeno sui dépliant», dice Cristicchi. Gli segnalo che i dépliant su Goli Otok ci sono eccome e ci si possono anche fare delle visite di diverse ore. Resterà un po’ deluso, perché quella che lui definisce «per quasi 40 anni la prigione della Jugoslavia» fu un carcere per prigionieri politici per non più di dieci anni. Divenne poi un penitenziario per criminali comuni e negli anni ’70 fu trasformato in riformatorio, in cui i giovani detenuti venivano indirizzati all’attività turistica. Alcuni abitanti della costa mi hanno raccontato che in estate i turisti potevano raggiungere l’isola in barca e mangiare al ristorante del riformatorio, dove i reclusi lavoravano come cuochi e camerieri. Raccontano ancor oggi di piatti di pesce ottimi e prezzi bassissimi. Dal 1988 l’intero complesso è stato chiuso ed è ora fatiscente.


I «rimasti»

Cristicchi parla della triste sorte dei rimasti, ma dimentica che le comunità italiane di Fiume, Rovigno, Capodistria, Pola, Cittanova (anzi, come piace dire a lui storpiando: Rigeca, Rovini, Coper, Pula, Novigrad…) ebbero scuole italiane, bilinguismo, la possibilità di relazionarsi con gli uffici pubblici nella propria madrelingua, circoli culturali, cori, giornali, case editrici, rappresentanti nelle istituzioni politiche ecc.


In conclusione credo che Cristicchi sia il primo a dover rispettare quel suo «undicesimo comandamento»: all’inizio di Magazzino 18 parla di un’ «enorme amnesia», ma mi pare che questo spettacolo continui a perpetuare un’amnesia altrettanto enorme su altri aspetti che è assolutamente necessario conoscere per capire la storia.

Non dimenticare, caro Simone.


Anzi, magari la prossima volta, per non dimenticare, cerca di informarti meglio.



Una postilla sulla «memoria condivisa»
Piero Purini

Piero Purini


Anche noi, finalmente, abbiamo trovato il tempo e lo stomaco di vedere Magazzino 18.


Siamo pienamente d’accordo con il nostro guest blogger quando dice che l’intento dello show è chiaramente politico e tutta l’operazione si inserisce nella costruzione della solita «memoria condivisa» pseudo-pacificatrice.


E’ su quest’ultima che vogliamo aggiungere qualcosa.


La «memoria condivisa» è in realtà smemoria collettiva, una ri-narrazione della storia italiana che finge di voler mettere d’accordo tutti, siano essi oppressori od oppressi; sfruttatori eredi di sfruttatori o sfruttati eredi di sfruttati; nipoti di italiani che combatterono agli ordini di Graziani (cioè di Hitler) o nipoti di italiani trucidati dai nazifascisti.

Non devono più esserci destra e sinistra, ragioni buone e cattive, scelte giuste e sbagliate. Soprattutto, non deve più esserci lotta. A sostituire tutto questo, una marmellata di «opinioni» preventivamente rese innocue, neutralizzate. Tutti abbiamo avuto le nostre vittime, e le vittime sono vittime, i morti sono tutti uguali ecc.


Frasi come «i morti sono tutti uguali» significano in realtà: tutte le storie si equivalgono, una scelta è valsa l’altra, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, e chi cazzo siete voi per dirci cosa dobbiamo fare, non ci rompete i coglioni.

I morti saranno forse «tutti uguali» (qualunque cosa significhi), ma sono diverse – a volte opposte e inconciliabili – le cause per cui si muore. Se non si riconosce questo, l’uguaglianza tra i morti è solo una supercazzola per difendere un sistema basato sulla disuguaglianza tra i vivi.


Giorgio Napolitano


Dopo il riconoscimento delle «buone ragioni» dei «ragazzi di Salò» (ma «italiani di Hitler» sarebbe più preciso), è stata tutta una valanga.

In questo processo il «centrosinistra» ha molte più responsabilità del «centrodestra», che è solo passato dalle porte che gentilmente gli venivano aperte. Non a caso quell’apertura ai repubblichini la fece Luciano Violante.


Per capirci: se a fini retorici dovessimo dare a questo revisionismo storico omologante un nome di persona, sarebbe quello di Giorgio Napolitano, che ne è il massimo propugnatore istituzionale. Che dire di quest’estratto da un suo famoso discorso del 2007, dove ogni frase contiene un falso storico?



«[...] già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.»



In realtà comincia tutto molto prima degli anni Novanta, con la creazione del mito degli «Italiani brava gente». Un mito che agisce tutti i giorni e ci fa chiudere gli occhi su troppe cose, in primis sul nostro razzismo.


Ma c’è anche più di questo: chi controlla il passato controlla il presente. Imporre un orizzonte fintamente pacificato serve a rendere inaccettabile l’idea del conflitto sociale, e quindi a criminalizzare quest’ultimo quando inevitabilmente si manifesta.

C’è un collegamento diretto tra la «memoria condivisa», le «larghe intese» – che hanno una storia ben più lunga dell’ultimo anno, e prima che parlamentari sono intese economiche e culturali – e l’accusa di «terrorismo» scagliata contro chiunque sia interprete di conflitto, o semplicemente non rimuova l’esistenza del conflitto.

Conflitto che è interno alla società, prodotto dalle sue contraddizioni, dall’incessante attrito degli interessi e bisogni contrapposti. Conflitto intrinseco, endogeno, e quindi endemico.


Con buona pace delle dichiarazioni sul «né destra né sinistra», la rappresentazione di una società senza conflitto interno, dove ogni contraddizione viene sfogata contro presunti nemici esterni (volta per volta i mestatori eredi dello «slavocomunismo», i perfidi indiani che sequestrano i «nostri» marò, «l’Europa» ecc.) è una rappresentazione eminentemente di destra.


La storia non è una fiction, noi ricordiamo tutto

Contestazione a Magazzino 18. «La storia non è una fiction, noi ricordiamo tutto». Striscione aperto al Teatro Aurora di Scandicci (FI) la sera del 30 gennaio 2014.


Contributi e analisi critiche su Magazzino 18 (lo spettacolo e l’operazione mediatica)

Lo.Fi.

Magazzino 18: la storia cucinata alla maniera delle Basse Intese

L’autore ha una storia di famiglia direttamente legata all’esodo istriano, ma non accetta la versione di quella storia propagandata da certe associazioni e lobby di profughi. Le stesse lobby che, per il tramite di Jan Bernas, hanno «imbeccato» Cristicchi e le cui posizioni il cantautore romano ripropone acriticamente nel suo show.


Claudia Cernigoi

Recensione di Magazzino 18

Oltre a questa dettagliata disamina, sul sito diecifebbraio.info c’è una pletora di altri materiali in tema.


Linkiamo anche un articolo di Fulvio Rogantin apparso sul sito triestino bora.la:

Esodo, le parole pesano: Cristicchi e dintorni

L’impostazione dell’articolo è molto discutibile: l’autore è troppo teso in uno sforzo bipartisan, di condanna degli «opposti estremismi», e ogni volta che critica Cristicchi deve mettere sull’altro piatto un’equipollente critica a chi critica Cristicchi, and the other way around. Nondimeno, sullo showman, sulla sua superficialità e inadeguatezza, scrive cose che in linea di massima condividiamo:


«E’ forse troppo offensiva la definizione data dalla Cernigoi [...] di Cristicchi “testa di legno”, certo la sensazione è quella di un autore che si è innamorato del raccontare una tragedia, un Nabucco contemporaneo, si è innamorato dell’impatto emotivo del magazzino 18, ma che non ha capito dall’inizio che chi lo accompagnava nel suo percorso di conoscenza non aveva una visione neutrale degli episodi. Cristicchi appare non capace di poter affrontare il tema, si difende dicendo che ha dato priorità alle storie delle persone, che ad esempio non parla di numeri. Difende il suo diritto a raccontare le storie della gente e d’altra parte a non fare lo storico. Non tiene conto, o forse lo ha scoperto tardi quando la macchina era già in moto, che queste storie sono ancora per molti, a maggior ragione da queste parti, scontro politico, ideologico. Cristicchi anche nelle poche parole che dice mostra di aver colto poco gli equilibri/squilibri sottili del pantano in cui si è ficcato.»


Abbiamo precisato «in linea di massima» perché secondo noi questa descrizione calzava al personaggio fino a qualche mese fa, ma ora non calza più. Sì, probabilmente all’inizio si è mosso per ingenuità e ignoranza, ma dopo…


Beh, ecco, dopo...

Beh, ecco, dopo…


Noi abbiamo letto le difese di Cristicchi e le sue risposte alle critiche (con tanto di vittimismo arrogante alla Pansa); abbiamo constatato l’uso di miseri escamotages che a noi stessi è capitato di smontare; abbiamo assistito alle cagnare fasciste aizzate da Cristicchi su Facebook contro Claudia Cernigoi (e suo marito). E tutto questo è accaduto prima della contestazione di Scandicci.


Ecco il nostro ponderato parere: l’ignoranza c’è ancora tutta, ma adesso prevale la malafede.


[A proposito: sotto l'articolo di Rogantin c'è l'inferno.]


Molti materiali sulle polemiche intorno a Magazzino 18 si possono trovare sul blog di Marco Barone.


Sull’incendio al Narodni Dom, consigliamo la lettura di questo dossier:

Al Balkan con furore. Ardua la verità sul tenente Luigi Casciana

Casciana è il presunto «martire fascista» di quei giorni. La vicenda è degna del Camilleri di Privo di titolo.



Un’ultimissima cosa, e riguarda i nostri gustibus: noi preferiamo Purini a Cristicchi non solo come fonte su cos’è accaduto al confine orientale, ma anche come musicista. Però, appunto, son gusti nostri.



N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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Published on February 24, 2014 11:40

February 21, 2014

Il cattivo tedesco e il bravo italiano. Intervista allo storico Filippo Focardi

Copertina del libro di Filippo Focardi


Premessa – di Wu Ming 1


Ecco un’occasione da cogliere al volo.


Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…

Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere - l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.


Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.


[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.

Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l'elargizione non si sono costituite parte civile.]


Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.


Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:

- la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;

- l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;

- la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);

- i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;

- l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;

- la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.

E l’elenco sarebbe ancora lungo.


Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:



[A un'analisi di Magazzino 18 nel contesto della narrazione «Italiani brava gente» dedicheremo presto un post. Senza inutile fretta, niente corse di topi. Lo sta scrivendo uno dei partecipanti a questa puntata di Fahrenheit, il cui ascolto suggerisco vivamente.]



Consigliamo il suo libro a chi vuole capire la storia del confine orientale, “Esodo”, foibe, fino al caso Cristicchi http://t.co/ao0eQhQ04I


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) 20 Febbraio 2014


Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).



A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:



«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»



Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.

Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.


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Published on February 21, 2014 02:56

February 19, 2014

Noi, «piantagrane d’Europa». La BBC parla di Wu Ming e dei #notav

Europe's Troublemakers

Clicca sull’immagine per ascoltare la trasmissione.


Poco più di un mese fa abbiamo accompagnato in Val di Susa una troupe della BBC. Di Radio 4, per la precisione. Lucy e Mark stavano preparando una puntata della trasmissione Europe’s Troublemakers, che va alla scoperta di «controversial characters from different corners of the continent». Abbiamo mostrato loro i luoghi della lotta No Tav, a partire dal cantiere del «cunicolo geognostico» in Val Clarea. Ecco, in un breve flash, cos’è accaduto:



@SpintaDalBass @Wu_Ming_Foundt thanks for showing me your campaign against high speed train under Alps – police were not too happy to see us


— Lucy Ash (@bbclucyash) January 10, 2014


E questo è il resoconto scritto la sera stessa dal comitato No Tav Spinta dal Bass:



Oggi siamo saliti in Clarea con due giornalisti della BBC, Mark Savage e Lucy Ash, e uno dei componenti del collettivo di scrittori Wu Ming. Come ogni volta il pugno nello stomaco che arriva dopo aver girato l’ultima curva prima del cantiere ci ha tolto l’aria dai polmoni. Non ci stancheremo di denunciare questa devastazione e continueremo a far di tutto per fermarla.


Arrivati all’altezza della baita un drappello di cacciatori (i reparti speciali dei carabinieri) compare dietro di noi. Forse perplessi per via dei microfoni e dalle attrezzature non si avvicinano subito. Ci lasciano il tempo di arrivare in uno dei nostri terreni e dopo pochi minuti ci circondano. La solita trafila: «Documenti», «Questa è una zona vietata», «Voi non potreste stare qui». I nostri ospiti anglosassoni paiono stupiti, ma il bello deve ancora arrivare. Mark scatta qualche foto con il suo telefono; al cantiere, ai no tav lì presenti, alle montagne intorno. Una cosa normale, quotidiana; ma non in Clarea. Subito viene avvicinato dalla dirigente di polizia che gli intima di non fotografare e gli ordina di cancellare gli scatti fatti al cantiere. Mark è stupito, non è normale impedire a un giornalista di fotografare. Fa notare alla poliziotta che quel cantiere è finanziato con fondi europei e che è quanto meno un diritto, se non un dovere, di chi fa informazione testimoniare come vengano spesi i soldi dei cittadini. Niente da fare, il cantiere non può essere immortalato.


Vivendo in Valle ci siamo abituati ai posti di blocco, al filo spinato, alle zone rosse e alle identificazioni. Ma non è normale, e per chi non sta qui questa situazione appare stupefacente.


Torniamo indietro, non prima di aver fatto un giro a Venaus e al presidio di Vaie che hanno bruciato ma che già è rinato.


Mark ci saluta con una domanda: «Come finirà questa storia?». Noi gli rispondiamo: «il punto non è come finirà, ma quando».



La sera prima, 9 gennaio, Lucy e Mark erano venuti alla «Notte degli Scrittori» al Teatro Carignano di Torino, dove Wu Ming 1 aveva letto in anteprima un brano de L’Armata dei Sonnambuli. Dopo il reading, mentre intervistavano spettatori a casaccio, si sono imbattuti nel collega Mariano Tomatis. [Doppiamente collega: anche lui è scrittore, anche noi siamo maghi.]


Abbiamo trascorso molte ore insieme ai due giornalisti. Loro sono stati  molto bravi a sintetizzarle in un quarto d’ora di trasmissione, e noi siamo contenti che in quel quarto d’ora si senta la voce di Gabriella Tittonel, forza motrice dei Cattolici per la vita della Valle. Insomma, bando alle ciance: buon ascolto!




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Published on February 19, 2014 14:51

February 18, 2014

Appello dei familiari dei 4 #notav arrestati per terrorismo

Obelix e Asterix dicono: la valle non si arresta
[Avremmo voluto introdurre quest'appello con "parole nostre", perché abbiamo molto da dire sugli accadimenti recenti (ma anche sui meno recenti!) in Val di Susa, e torneremo presto a esprimerci al riguardo, e a esserci, ci saremo eccome, solo che in queste settimane il collettivo attraversa una fase emergenziale, da "comunismo di guerra", e il tempo è poco,  e il fiato anche,  e così pubblichiamo senza preamboli, perché l'importante è diffonderlo, e diffonderlo adesso. Buona lettura, buone prassi. WM]

-

In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni ’70 e ’80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese?


Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata.


Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti.


Questa lettera si rivolge:


Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trobino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.


Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista.


Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi.


Grazie.


I familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò



Per seguire quel che sta succedendo:


NoTav.Info - Spinta dal Bass - No Tav Torino - NoTav.eu


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Published on February 18, 2014 14:55

February 17, 2014

#Tolkien in Love – di Wu Ming 4

Aragorn e Arwen

Il prossimo 19 marzo la casa d’aste inglese Bonhams batterà, per una base tra le 6000 e le 8000 sterline, una lettera che J.R.R.Tolkien indirizzò al proprio editore nel 1955, poco prima di vedere pubblicato il terzo volume del Signore degli Anelli. Nel testo Tolkien riferisce la critica che il poeta W.H. Auden gli mosse riguardo alle nozze tra Aragorn e Arwen alla fine della guerra dell’Anello. Secondo Auden quei fiori d’arancio risulterebbero “superflui e frettolosi”, ovvero ben poco significativi nel quadro dell’happy ending. Dal suo punto di vista Tolkien avrebbe tranquillamente potuto eliminare la scena.


Wystan Hugh Auden fu uno dei primi e più ferventi ammiratori del Signore degli Anelli. In una celebre trasmissione radiofonica alla BBC, nel 1956, disse che non si sarebbe più fidato del parere letterario di chi non avesse apprezzato il romanzo di Tolkien. Per lui, intellettuale di sinistra, reduce della guerra di Spagna, non era scontato e tanto meno gratuito prendere le difese di un autore così demodé come Tolkien, per di più cristiano, lontano mille miglia dai temi e dagli stilemi cari all’intellighenzia di sinistra inglese. Auden ci si mise d’impegno, al punto che Tolkien arrivò a considerarlo uno dei suoi più cari amici di penna. Viene dunque da pensare che la critica di Auden avesse piuttosto a che fare con lo scarso peso che ha la scena delle nozze nell’economia generale del racconto. Auden infatti non aveva ancora potuto leggere le Appendici del Signore degli Anelli, nelle quali viene narrata tutta la storia d’amore tra l’uomo Aragorn e l’elfa Arwen. Dunque ai suoi occhi quel matrimonio risolto in pochi capoversi appariva scarsamente significativo. Il punto è che non lo è affatto, e anzi, implica una delle più complesse e amare riflessioni sull’amore prodotte dal grande autore inglese.


Aragorn e Arwen

Le storie d’amore nella narrativa tolkieniana sono tante, e vanno a comporre una sorta di meta-racconto, sfaccettato e complesso.


La vicenda di Aragorn e Arwen allude a quella più antica di Beren e Lúthien, i cui nomi campeggiano sulle lapidi dei coniugi Tolkien, sotto quelli di battesimo, al Wolvercote Cemetery di Oxford. Anche in questo caso si tratta di un uomo mortale e un’elfa immortale, ostacolati dal destino, ma determinati a cambiarlo pur di restare assieme. Il sentimento che li unisce è talmente forte da commuovere i Valar, i quali, alla morte di Beren, offrono a Lúthien la possibilità di far rivivere il proprio innamorato, a condizione che lei accetti di condividerne poi il destino mortale. E’ la scelta di Lúthien, appunto, che riecheggerà in quella più drammatica di Arwen, come vedremo.


Non tutte le storie sentimentali sono così romantiche. Una delle più singolari è quella tra il gondoriano Faramir e la guerriera Éowyn, che matura mentre sono entrambi convalescenti, dopo essere stati feriti in battaglia. Un amore dolente, crepuscolare, nato mentre i destini del mondo sono incerti e l’orizzonte è tetro. Éowyn aveva amato non corrisposta Aragorn, come si ama un capitano, sognando una fine gloriosa al suo fianco, con le armi in pugno. Ciò nonostante il sentimento di Faramir non è paternalistico, è quello di un uomo che ammira la prodezza e il coraggio di una donna fiera, che rifiuta la pietà di chiunque. E lei non gli dirà un banale “Ti amo”, ma accetterà il suo amore come parte di una scelta di vita opposta a quella perseguita fino ad allora. Alla dichiarazione di Faramir, Éowyn risponde che diventerà una guaritrice, dedicandosi non già all’uccisione e alla gloria che può derivarne, bensì «a tutto ciò che cresce e non è arido» , cioè alla vita. E di quella vita fa parte anche l’amore.


Questa storia dimostra quanto Tolkien considerasse ambiguo quell’amore cortese che «tende a fare della donna un faro-guida» e che pure lui stesso riconosceva come uno dei più alti ideali della poesia e della cultura medievale, riproposto dal romanticismo. L’idealizzazione della donna distoglie gli occhi dell’uomo «dalle donne così come sono veramente, compagne nelle avversità della vita, e non stelle-guida. […] Fa dimenticare i desideri, i bisogni, le tentazioni delle donne. Inculca la tesi esagerata dell’“amore vero” come un fuoco che viene dal di fuori, un’esaltazione permanente, che non prende in considerazione gli anni che passano, i figli che arrivano, la vita di tutti i giorni ed è svincolata dalla volontà e dagli obiettivi.» (Lettera 43).


C’è di più. Non tutte le storie sentimentali possono essere felici. Nei Racconti Incompiuti è narrato l’amore impossibile tra i numenoreani Aldarion ed Erendis. Impossibile perché i due protagonisti sono nati sotto stelle contrapposte, vincolati a caratteri incompatibili, tragicamente destinati ad attrarsi fino alla fine. Aldarion è un principe marinaio, costruttore di flotte, esploratore, innamorato del mare più che di qualsiasi donna. Erendis desidera invece la terraferma, i pascoli, gli alberi, che non vorrebbe mai vedere abbattuti per farne navi. Eppure si amano: combattuto tra il richiamo delle avventure per mare e la pace della vita a terra, lui; risoluta nel pretendere dall’amore «tutto o niente» , lei. Il matrimonio non può che naufragare, come qualunque relazione amorosa che non trova l’equilibrio della compatibilità tra diversi, ma, al contrario, il conflitto tra pulsioni opposte. Due personaggi in bilico fino all’ultimo, quando l’amore si trasforma in odio, volontà di rivalsa, e contesa sull’unica figlia, che Erendis cerca di crescere estranea a qualunque contatto con il genere maschile, e che le viene invece sottratta dal marito.


Sam e Rosie


Nell’opera tolkieniana c’è spazio anche per un amore più domestico che cortese, come quello tra gli hobbit Samvise Gamgee e Rosa Cotton, che avranno ben tredici figli e figlie. Eppure anche il giardiniere Sam, il vero eroe del Signore degli Anelli, per resistere alla disperazione nei momenti più bui e solitari sa nutrirsi del ricordo della sua innamorata nella luce del sole estivo, insieme a quello del cibo e di tutti i momenti felici. Il suo è un amore forse meno cavalleresco di quello dei nobili personaggi della Terra di Mezzo, ma proprio per questo più realistico e prossimo a noi, e che risponde alla domanda: a chi pensiamo quando vogliamo farci coraggio per affrontare un grande passo?


Aragorn e Arwen dunque non sono che il punto d’arrivo, se mai può essercene uno, di un’articolata riflessione narrativa sull’amore. Nella loro storia l’amore romantico non viene né avvilito né sublimato, ma proposto sotto una nuova luce. Il sentimento che Arwen prova per un mortale, ancorché longevo, causa il conflitto con il padre Elrond, che non vorrebbe mai vedere la propria figlia rinunciare a seguirlo nelle Terre Immortali per restare accanto a un uomo che presto o tardi la lascerà vedova e sola. Arwen invece sceglie con coraggio l’amore terreno in cambio dell’immortalità. Meglio un amore vero e appassionato, benché a termine, piuttosto che un’eternità priva di esso. Costi quello che costi.


Le parole che Aragorn pronuncerà in punto di morte non riusciranno infatti a esserle di grande conforto: «In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!» . Ad Arwen resteranno invece soltanto i ricordi, ma non i rimpianti, poiché ha scelto liberamente il proprio destino. Anche se questo comporterà il lutto nella solitudine dei boschi di Lorien, fino a distendersi in una «verde tomba finché il mondo cambierà, e i giorni della sua vita saranno del tutto obliati dagli uomini che nasceranno e l’ elanor e il niphredil non fioriranno più a est del Mare» .


Ecco il vero finale della storia di Aragorn e Arwen. Non proprio quel che si dice un happy ending “superfluo e frettoloso” – con buona pace di Auden -, bensì il suggello di una riflessione sulle scelte, sull’eterna finitezza dell’amore terreno e su ciò che quel sentimento mette in gioco nell’esistenza umana.


[da: "La Repubblica" del 15/02/2014]


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Published on February 17, 2014 14:04

February 13, 2014

Pensi che Bono sia buono? Apriti la mente, leggi «The Frontman»

frontman_cover


Grazie alle Edizioni Alegre e agli sforzi di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti, dal 26 febbraio sarà in libreria The Frontman. Bono (Nel nome del potere).



Il libro di Harry Browne è un’approfondita e spietata inchiesta sui progetti filantropici di Bono Vox, sulle sue connection nella politica e nella finanza mondiale, sull’impero affaristico degli U2.

Bono è un caso emblematico, è l’esempio perfetto. Descrivere la sua parabola serve a smontare e analizzare il mito dei nababbi buoni, di quei milionari che ci mostrano il proprio cuore palpitante per i derelitti e i bambini che muoiono di fame, e al contempo promuovono e difendono le politiche di sfruttamento e depredazione che producono derelitti e affamano quei bambini.

Più in generale, il bersaglio è l’ipocrisia fatta sistema che permette a certi riccastri di presentarsi come difensori della “gente”, dei vessati, degli impoveriti.


Uscito in Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti nel 2013, The Frontman ha fatto incazzare un sacco di gente, a partire dallo stesso Paul Hewson in arte Bono.

Harry Browne è esperto di storia e politica irlandese e insegna al Dublin Institute of Technology. Presto, qui su Giap, potrete leggere un’intervista/conversazione tra lui, WM1, Prunetti e altr*.


Clicca sull’immagine sopra per aprire il pdf della copertina completa (coi testi di presentazione in quarta e sulle bandelle).


Dall’Introduzione:


«[...] L’immagine che Bono dà di sé come persona al di fuori, al di sopra e al di là della politica ha spesso reso difficile esprimere opinioni politiche semplicemente diverse dalle sue. Perciò, che siate o meno d’accordo sul fatto che Bono Makes It Worse, il senso di questo libro consiste nel posizionare saldamente il personaggio e, per estensione, l’umanitarismo delle celebrità nel campo della politica e quindi delle differenze in politica. Fare questo significa sottolineare alcuni fatti incontestabili, e cioè: Bono rappresenta un particolare tipo di discorsi, valori e forze materiali all’interno di un esteso dibattito sulla povertà globale, sullo sviluppo e sulla giustizia;  questi discorsi, valori e forze, sebbene spesso espressi in modo vago e fuorviante, possono essere complessivamente caratterizzati come conservatori, occidente-centrici e filo-capitalisti;  sono ritenuti sostanzialmente innocui dalle élites che hanno mandato in rovina il mondo; possono essere contestati e criticati fortemente in linea di principio e in termini di efficacia [...]

Si pensi che Bono abbia o meno ragione, spero che dopo la lettura di questo libro risulti difficile a chiunque considerarlo “di sinistra”. Anzi, a partire dal 2005 lui e le sue organizzazioni hanno spesso deriso posizioni che consideravano di sinistra [...]

Naturalmente, nell’improbabile caso gli venisse chiesto, direbbe che non è nemmeno di destra. È proprio l’idea che l’approccio da “problem-solving” tecnocratico difeso da Bono sia in qualche modo apolitico quella da contestare [Vi ricorda qualcosa o qualcuno?, N.d.R.]

L’ascesa di Bono come attivista politico sin dai tardi anni Novanta è legata ai più grandi e inquietanti sviluppi nella governance transnazionale, mediante i quali gli Stati più grandi, le multinazionali, le fondazioni e le istituzioni multilaterali hanno minato la responsabilità democratica e la sovranità ovunque nel mondo, spesso in nome dell’umanitarismo.»


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Published on February 13, 2014 01:12

February 10, 2014

La gonfia, tumefatta vicenda dei #marò: due anni di fascisteria, patacche e bombe al panzanio

guerraallIndia

«La guerra è già scoppiata, marcondirondero / la guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà… / La bomba è già caduta, marcondirondero / la bomba è già caduta, chi la prenderà? / La prenderanno tutti, marcondirondero / sian belli o siano brutti, marcondirondà / Sian grandi o sian piccini li distruggerà / sian furbi o sian cretini li fulminerà.»


di Matteo Miavaldi (guest blogger)


Il caso Enrica Lexie, dopo due anni, si sta avvicinando alle fasi finali, dopo una serie di rinvii e complicazioni diplomatiche, mistificazioni e propaganda elettorale tanto in India quanto in Italia: elementi che hanno aperto la strada alla “narrazione tossica” della vicenda dei due marò, strapazzata da un’informazione generalmente superficiale e, in alcune circostanze, platealmente nociva.


Poco più di un anno fa, qui su Giap, pubblicammo due lunghi(ssimi) articoli, molto densi di dati e fonti, che smontavano punto per punto la ricostruzione offerta da Il Giornale, Libero e Il Sole 24 Ore: una storia che si basa sulle teorie raffazzonate del sedicente “ingegnere” Luigi Di Stefano, dirigente nazionale di Casapound.


Quei due post si sono presto trasformati in un’inchiesta collettiva, e hanno avuto un numero esorbitante di visite e condivisioni sui social media. Il primo dei due è stato visitato da oltre mezzo milione di IP unici, e ogni giorno continua ad attirare lettori.

Da quei post è nato anche un libro, presentato in giro per l’Italia e recensito su importanti testate nazionali.


Il libro di Miavaldi sui due marò


Eppure, a distanza di un anno, la quasi totalità dei media nazionali finge che quello smontaggio non abbia mai avuto luogo, e continua a raccontare falsità e mezze verità, stravolgendo completamente l’intera vicenda. L’impianto complottista e sciovinista della “ricostruzione Di Stefano” si è anzi arricchito di nuovi collaboratori, nuovi protagonisti e nuove bufale, abbracciate con entusiasmo da diverse testate giornalistiche, programmi televisivi, opinionisti e parlamentari.


Abbiamo individuato le principali criticità e incomprensioni di massa e qui sotto, per punti, proveremo a sciogliere la matassa spacciata per verità a una fetta considerevole dell’opinione pubblica italiana. Per tutte le altre questioni, rimandiamo ai due post precedenti e, soprattutto, al libro.


1. Il peccato originale, ovvero: che ci facevano i marò sull’Enrica Lexie?

Inserendo l’incidente tra il peschereccio St. Antony e la petroliera Enrica Lexie all’interno della lotta alla pirateria internazionale, l’impressione data in Italia è che l’India – cercando di perseguire per legge l’operato dei due fucilieri – stia intralciando gli sforzi internazionali della Nato e dell’Onu a contrasto della pirateria, mettendo automaticamente a repentaglio l’immunità di tutti i nostri soldati impegnati in missioni internazionali.


L’Italia, con la Marina Militare, partecipa attivamente – da anni – a due operazioni internazionali di contrasto alla pirateria: Atalanta, dell’Unione Europea, e Ocean Shield, della Nato. Entrambe le operazioni si concentrano in un’attività dissuasiva e di monitoraggio del Mar Rosso e del golfo di Aden, al largo della Somalia, dove il rischio pirateria è maggiore. I militari, a bordo di navi da guerra, scortano i cargo di passaggio e pattugliano le acque limitrofe.


Come si legge sul portale della Marina Militare:



«Il suo [dell'operazione Atalanta, ndr] mandato consiste nel proteggere le navi mercantili che transitano da e per il Mar Rosso ed inoltre svolge attività di scorta alle navi mercantili del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, incaricate di consegnare aiuti alimentari in Somalia [...] La Marina Militare partecipa all’Operazione Ocean Shield con unità navali inserite nella forza navale SNMG1 o SNMG2.»



Quindi l’Italia, quando partecipa come nazione alle operazioni internazionali di contrasto alla pirateria, lo fa con e su navi da guerra.


I marò a bordo dell’Enrica Lexie, invece, tecnicamente non partecipavano a nessuna missione internazionale.

Nel 2011 il Ministero della Difesa e Confitarma, la Confederazione Italiana Armatori, hanno firmato un’intesa, seguita da una convenzione, che permetteva, agli armatori che ne facessero richiesta, di imbarcare dei Nuclei Militari di Protezione (Npm) formati da fucilieri di Marina, impiegati in servizio anti pirateria a difesa, quindi, di navi commerciali italiane, ma private (nel caso specifico della Lexie, di proprietà dell’armatore Fratelli D’Amico).


Ignazio La Russa


Una legge votata a larghissima maggioranza (493 voti favorevoli, 22 contrari, 15 astenuti) che l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa oggi rinnega a mezzo stampa, citando le perplessità espresse già nel febbraio 2011.


La protezione delle attività commerciali su navi cargo italiane veniva quindi “appaltata” a personale militare pagato, secondo quanto sancito dall’addendum alla convenzione, 467 euro a testa per giorno di navigazione.


Questo, legalmente parlando, è il “peccato originale” commesso dall’Italia: aver esposto i propri militari in attività private che non rientrano in operazioni internazionali, non vengono condotte su mezzi militari e ricadono in una zona grigia del diritto in cui l’India ha potuto, a rigor di legge, non applicare l’immunità funzionale garantita al personale militare all’estero poiché difendere la merce e gli interessi di privati non dovrebbe essere il lavoro dei soldati, ma quello dei contractor.


Un unicum a livello internazionale molto pericoloso, come ha spiegato il security advisor Antonio De Felice, in un’intervista contenuta nel saggio I due marò – Tutto quello che non vi hanno detto.



«Ad oggi [marzo 2013, ndr] nessun Paese occidentale consente a privati armati di salire a bordo. Le uniche bandiere che hanno varato una legge in tal senso sono Panama, Marshall Islands e Liberia, che da sole coprono però quasi il 75 per cento del tonnellaggio mondiale. In Europa, oltre all’Italia, gli unici Paesi che hanno accordato la presenza a bordo di Nuclei militari di protezione sono il Belgio e la Francia, ma imponendo condizioni di utilizzo molto ristrette. La Francia, ad esempio, utilizza soldati del proprio esercito solo per difendere pescherecci che operano nelle acque vicino Mahé, ex colonia francese nei pressi di Pondicherry, in India sud orientale. In tal senso anche il peschereccio italiano Torre Giulia, di proprietà Iat di Bari (Industria Alimentare Tonniera) e associato a Federpesc, ha ammainato la bandiera italiana a favore di quella Francese.


Un discorso a parte deve essere fatto per la Spagna che ha modificato con un Regio Decreto il proprio Testo di Pubblica Sicurezza introducendo la possibilità per i privati autorizzati dal Governo spagnolo di imbarcarsi con armi e materiali; tuttavia la norma studiata anch’essa per la flotta (due imbarcazioni…) di pescherecci che incrociano nell’oceano Indiano non è mai stata presa in considerazione da alcun armatore rendendo di fatto la norma inutile.


Ricapitolando: i contractor possono salire su navi battenti bandiera panamense, liberiana e delle Isole Marshall; l’Italia è l’unico Paese ad aver legalizzato un uso così esteso delle proprie Forze Armate a bordo di mercantili privati, esponendosi a rischi e conseguenze legali che il caso Enrica Lexie esemplifica in tutta la sua gravità.»



Resisi probabilmente conto dell’errore, a seguito del groviglio Enrica Lexie, Confitarma è riuscita a modificare la precedente convenzione col Ministero della Difesa, inserendo tra le opzioni di ingaggio anche le guardie giurate; i contractor, che sono dei privati e in caso di errori ne rispondono penalmente in quanto privati, non in quanto organi dello Stato.


Nonostante l’apertura, la Marina Militare gode comunque di una sorta di diritto di prelazione: l’armatore, secondo la convenzione, è obbligato a chiedere in prima istanza la disponibilità di Npm della Marina; se la Marina non potesse garantirne la disponibilità, allora il servizio potrebbe essere richiesto ai contractor.


Per questi motivi, equiparare lo status militare di fucilieri di Marina in servizio su navi private a quello di soldati in missione internazionale – siano essi uomini Nato o contingenti indiani in Congo, come piace ricordare a Fernando Termentini denunciando una diversità di trattamento strumentale – è un errore di fondo, un eccesso di semplificazione utile a rimarcare la presunzione di ingiustizia subìta. Creando questi presupposti, l’India diventa un paese arrogante che agisce disprezzando il diritto internazionale, si muove per sotterfugi e manipolazioni delle prove, approfittandosi della buona volontà di un’Italia che in questa vicenda non ha nulla da nascondere.


Il corrispondente tedesco di RTL Udo Gümpel, in una lunga discussione sulla sua pagina Facebook, ha rilevato che nel caso navi cargo ospitino a bordo del personale armato, l’armatore è tenuto a comunicarlo alle autorità indiane prima di entrare nelle acque pertinenti della Zona economica esclusiva (200 miglia nautiche), secondo la legge indiana SR-13020/6/2009, “Pre-Arrival Notification for Security”, entrata in vigore il 29 agosto del 2011 (quindi prima dell’intesa tra Ministero della Difesa italiano e Confitarma). Cosa che l’Enrica Lexie non ha fatto.


I marò, quindi, si trovavano ben all’interno delle acque di competenza indiana senza che le autorità locali ne fossero a conoscenza: circostanza quantomeno bizzarra se si pretende un riconoscimento internazionale di un accordo stipulato tra governo e armatori italiani.


2. Pirati, questi sconosciuti

Le coste del Kerala, stato dell’India meridionale, nell’immaginario collettivo italiano sono diventate una specie di Far West galleggiante dove, secondo varie versioni, spararsi addosso durante la navigazione è pratica comune: un mare “infestato” di pirati affrontati con la forza da fucilieri italiani, vedette cingalesi, contractor greci e guardia costiera indiana.


I pirati del Kerala


È necessario fissare una volta per tutte un punto centrale: al largo del Kerala i pirati non ci sono.


Lo dicono da anni gli indiani, abbastanza risentiti del fatto che le proprie coste occidentali rientrino nella cosiddetta zona ad alto rischio pirateria individuata dagli assicuratori del trasporto cargo internazionale, aumentando esponenzialmente il premio assicurativo per chi naviga in quelle acque. Ma lo dicono soprattutto i dati oggettivi dell’International Chamber of Commerce, sezione Crime services, che ogni anno raccoglie tutte le denunce di pirateria mondiali in un rapporto globale.


In tutto il 2013 lungo le coste occidentali indiane si è registrato un solo episodio di pirateria. O meglio, seguendo la dicitura ufficiale adottata a livello internazionale, di “piracy and robbery”. Il caso specifico, verificatosi il 14 febbraio, ha interessato un cargo ancorato nei pressi di Kochi, che è stato abbordato da tre ladri intorno all’una di notte. Svegliato dal rumore in coperta, un membro dell’equipaggio ha dato l’allarme e i tre sono scappati, dopo aver arraffato quel che potevano dalla cambusa.


Nel 2012, l’anno dell’incidente, nella stessa zona si sono verificati solo due episodi: un tentativo di rapina sventato il 15 febbraio – ed è il caso della petroliera greca Olympic Flair – e una rapina riuscita il 30 novembre, quando tre ladri incappucciati sono saliti su una petroliera rubando i beni contenuti nella cabina di comando e scappando non appena l’equipaggio, che stava dormendo, si è svegliato lanciando l’allarme.


3. I topolini di Capuozzo
Toni Capuozzo

Toni Capuozzo


Il giornalista Toni Capuozzo è tra i volti più noti del panorama televisivo italiano ad aver fatto proprie le teorie di Di Stefano, ripresentandole come Verità in una serie di servizi trasmessi dal Tg5 e in numerose puntate speciali del suo programma di approfondimento Mezzi Toni, affiancato ora da Luigi Di Stefano, ora da Stefano Tronconi, un “privato cittadino ex dirigente d’azienda che, nel tempo libero, si occupa del caso dei due marò”.


Capuozzo si rifà alle accuse irrealistiche mosse, l’anno scorso, contro la petroliera greca Olympic Flair, che secondo Di Stefano sarebbe la vera responsabile della morte dei pescatori Binki e Jelastine. Un’ipotesi abbondantemente sconfessata nel secondo articolo sulla vicenda pubblicato qui su Giap che, segnalato a suo tempo a Capuozzo, è stato da lui giudicato inattendibile.


A confermare la tesi dell’innocenza Capuozzo aggiunge un nuovo tassello, riportando la traduzione di un’intervista rilasciata a caldo dal comandante del St. Anthony, Freddy, che sostiene gli spari abbiano colpito la sua imbarcazione alle 21:30 del 15 febbraio 2012: diverse ore dopo lo scontro a fuoco che interesserebbe l’Enrica Lexie (16:30) e poco prima della denuncia di attacco pirata sporta dalla Olympic Flair. In sostanza, i greci avrebbero sparato e gli italiani, che non c’entravano nulla, sarebbero stati incastrati (secondo una teoria del complotto che smonteremo in seguito).


Dalle pagine online dell’Espresso ho provato a far emergere l’inconsistenza della teoria ricorrendo al buon senso:



«Il video utilizzato da Capuozzo è un estratto di un servizio andato in onda su Venad News , un canale d’informazione del Kerala, ed effettivamente pare proprio che Freddy dica “21:30″, la traduzione è stata confermata da amici fluenti in malayalam. Ma la stampa indiana non ha mai riportato questa versione, così ci è venuto il dubbio che si trattasse di un abbaglio, di una tara messa alle dichiarazioni di una persona in completo stato di shock (Freddy arriva in porto alle 23, balbetta, mischia malayalam e tamil, ripete più volte le stesse frasi).»



Perché non riportare per intero le dichiarazioni di Freddy? Probabilmente perché a tutti era noto che in quel momento il capitano stava straparlando, considerando il fatto che la stampa indiana era al corrente degli spari contro il St. Anthony almeno dalle 20, ora in cui il Times of India pubblica la breaking news sul peschereccio indiano, senza ancora essere in grado di indicare l’Enrica Lexie come sospettata numero uno. Le indagini erano ancora in corso e, a beneficio dei complottisti, ricordiamo che l’Olympic Flair avrebbe denunciato il tentato abbordaggio solo alle 22:20, due ore e venti più tardi. Quindi o la stampa indiana ha il dono della preveggenza, oppure le parole in stato di shock di Freddy sono da prendere con le pinze.


Ma in tutta risposta Capuozzo bolla il tutto come “una montagna che partorisce un topolino”, sostenendo nella sua lettera pubblicata dall’Espresso che:



«a giustificare lo “sbaglio” del comandante del peschereccio che parla di “21.30″, Miavaldi esibisce come un asso nella manica le breaking news del ‘Times of India’, che informa dell’incidente mortale attorno alle 20, e dunque molto prima dell’ora indicata dal capitano, e molto prima che il capitano parlasse alle telecamere.


Dal pezzo di Miavaldi  si può risalire a quella notizia, così datata: 15 febbraio ore 8.04. Ma se guardate i commenti, che alle otto di sera dovrebbero essere una valanga, vedete che il primo è di un certo Alwyn alle 11.36. Guarda caso, pochi minuti dopo le dichiarazioni del capitano del peschereccio alla televisione. Siccome non è difficile cambiare l’ora di una breaking news, forse è questo quello che è stato fatto al Times of India. Dimenticandosi, purtroppo per loro, di cambiare l’ora dei commenti, e lasciando così cadere nel vuoto una tragica notizia, senza nessuno che la raccolga.»



Siamo sempre immersi nella teoria del complotto, pronti a difendere tesi traballanti ricorrendo ad accuse – gravi – di manipolazione di dati. Come se un incidente avvenuto nella serata indiana fosse in grado, nel giro di pochi minuti, di mobilitare immediatamente con efficacia svizzera le più alte sfere della politica indiana, le forze dell’ordine e i gestori del principale quotidiano indiano: tutti uniti per ordire trame oscure anti italiane.


L’Espresso ha avuto la gentilezza di ospitare una mia controreplica:



«Il vicedirettore del Tg5 sostiene che gli spari contro il peschereccio St. Anthony siano arrivati dalla petroliera greca intorno alle 21:30. L’Olympic Flair, sappiamo dalla denuncia che lei stessa avanza alle autorità intorno alle 22:20, si trovava a poche miglia nautiche dal porto di Kochi: la posizione è confermata dall’International Chamber of Commerce – International Maritime Bureau e dall’International Maritime Organization, che inseriscono l’evento nei propri database (pubblici).


Il peschereccio doveva quindi trovarsi da quelle parti, per entrare nell’ipotetica traiettoria di tiro dei greci, e ci si troverebbe alle 21:30. Quindi, con due membri dell’equipaggio feriti a bordo, Freddy deciderebbe inspiegabilmente di dirigersi non verso il porto più vicino, Kochi, ma di fare rotta verso sud e tornare a Neendakara, nei pressi di Kollam, dove attracca alle 22:40, pronto a pronunciare la dichiarazione che Capuozzo utilizza come base della sua tesi, alle 23.


Kochi e Kollam distano, in linea d’aria, più o meno 125 km . Un volo di linea sulla tratta Kochi-Kollam impiega 48 minuti ad arrivare a destinazione, mentre lo stesso tragitto viene coperto, via terra, in almeno quattro ore.


La velocità massima di un peschereccio come il St. Anthony, mi dicono, si aggira intorno agli 8 nodi; approssimando per eccesso, equivalenti a 15 km/h. Per raggiungere Kollam partendo dai pressi del porto di Kochi sarebbero state necessarie – approssimiamo – almeno 8 ore, mentre Capuozzo posiziona il St. Anthony nei pressi di Kochi alle 21:30 e, magicamente, ricompare a Kollam un’ora e un quarto dopo.


Se sull’attendibilità del Times of India possiamo avere delle divergenze d’opinione, forse sulla fisica e sulla geografia ci potremmo trovare d’accordo. A fugare ogni accusa al Times of India, ecco qui l’istantanea dell’articolo scattata da WebArchive – archivio delle cache – proprio il 15 febbraio 2012. Il primo commento è di Kalyug (Usa) alle 8:55 pm. (guarda).»



Al momento della redazione di questo pezzo non è ancora pervenuta alcuna replica né da Capuozzo né dai suoi collaboratori, più impegnati a fantasticare sulla “vera” ragione che avrebbe spinto le autorità del Kerala a manipolare i fatti del 15 febbraio.


4. Complotto in Kerala

La narrazione della verità alternativa di Capuozzo, Di Stefano e Tronconi si sviluppa a ritroso: partendo da dati oggettivi impossibili da confutare dalle poltrone di casa propria, ci si inventa degli espedienti narrativi in grado di minare la veridicità dei documenti, uno su tutti il rapporto interno della Marina stilato dall’ammiraglio Alessandro Piroli, che Repubblica in esclusiva ha pubblicato parzialmente la scorsa primavera.


Nel rapporto si specifica che gli esami balistici condotti dalla scientifica indiana alla presenza “silenziosa” di specialisti italiani appartenenti all’Arma dei Carabinieri – i maggiori Luca Flebus e Paolo Fratini – indicano la compatibilità dei proiettili ritrovati sullo scafo e nei corpi dei due pescatori con i fucili in dotazione al nucleo di marò in servizio sulla petroliera: le armi che avrebbero sparato sono contrassegnate con le matricole di altri due fucilieri, Voglino e Andronico.


Limitare l'assunzione a casi di stitichezza occasionale.


Si tratta di un calibro 5,56mm, ma la teoria Di Stefano (basandosi su un’approssimazione di indiscrezioni non confermate) sostiene invece che gli indiani abbiano per le mani un calibro 7,62mm e che i documenti finali della perizia indiana – trasmessi anche sui nostri telegiornali nazionali – sono stati contraffatti, lanciandosi in una suggestiva indagine, sviscerata nel saggio I due marò – Tutto quello che non vi hanno detto, in particolare in questo passaggio illuminante per apprezzare la viralità della versione di Di Stefano:



«La svolta dell’esame balistico viene annunciata su tutti i Tg italiani il 14 aprile 2012. Il Tg1 e il Tg2 mandano in onda anche alcuni stralci della perizia indiana.


Si tratta di un documento ufficiale, una prova definitiva che sarà presa in considerazione dalla Corte chiamata a pronunciarsi sulla colpevolezza o meno dei due sottufficiali italiani. Gli indiani sostengono che i proiettili calibro 5,56 mm ritrovati sul St. Antony e nei corpi dei due pescatori siano stati sparati dalle armi in dotazione al Nucleo di Protezione Marina sequestrate a bordo dell’Enrica Lexie: 6 fucili SC 70/90 e 2 mitragliatrici Minimi, entrambi calibro 5,56 mm. Hanno fatto degli esami in laboratorio, dei test di tiro, sotto gli occhi dei due specialisti dei Carabinieri mandati dall’Italia, e hanno raggiunto conclusioni che negano quelle di Di Stefano.»



Allora il nostro ingegnere che fa? Si collega al sito della Rai, rivede le puntate del telegiornale, fa degli screenshot delle parti in cui vengono trasmessi i documenti della perizia, li analizza e sentenzia: la perizia è contraffatta.



«Nel documento presentato da Tg1 e Tg2 come uno stralcio della “Perizia Balistica” eseguita dalle autorità indiane appaiono evidenti segni di falsificazione dei risultati.


Dette falsificazioni consistono nell’aver modificato, in tempi successivi alla prima stesura, gli elementi che indicano la responsabilità italiana negli omicidi.


Elementi che evidentemente nella prima stesura erano diversi, altrimenti non sarebbe stato necessario modificarli.»



Siamo al delirio di onnipotenza di un’analisi scientifica fatta dal fermo immagine del Tg2 da un tizio che scova indizi e prove ingrandendo i pixel di una fotocopia dal proprio pc di casa, per accusare di falsificazione le autorità di un altro Stato.


Accuse di questo genere, che in un Paese normale sarebbero state ignorate o coperte dalle risate, in Italia diventano invece uno scoop, ripreso da Lorenzo Bianchi sul Quotidiano Nazionale e da Gian Micalessin sul Giornale del 19 aprile.



«Gli indiani la spacciano per la prova regina, la vendono come la pistola fumante capace d’inchiodare i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. In verità le risultanze della perizia balistica passate ai giornali indiani e documentate il 4 aprile dai servizi del Tg1 e del Tg2 sono un banalissimo falso. Un falso confezionato alterando i risultati di una perizia capace forse di scagionare i nostri due militari. Una bufala data in pasto a giornali e televisioni per minare le certezze dei nostri diplomatici e convincere l’opinione pubblica indiana e italiana della colpevolezza dei nostri militari. A dimostrarlo è l’ingegner Luigi Di Stefano, un perito giudiziario 60enne famoso per aver cercato di far luce sui misteri dell’aereo dell’Itavia abbattuto nei cieli di Ustica.»


«Guardando il documento messo in onda il 4 aprile dal Tg1 e dal Tg2 – spiega a Il Giornale il perito giudiziario – balza immediatamente agli occhi che si tratta di un documento chiaramente contraffatto, realizzato con due macchine da scrivere diverse. In quel documento notiamo delle alterazioni evidenti. Ci sono delle cancellazioni, dei testi sottotraccia e dei timbri che non quadrano. Abbiamo davanti una perizia passata da più mani dopo la sua stesura originale e alterata per dimostrare conclusioni diverse e più favorevoli alla versione sostenuta dalla parte indiana”.»



La versione del proiettile 7,62 viene sbandierata anche nella puntata dello scorso due febbraio di Matrix, programma condotto da Luca Telese, dove si sostiene che il calibro sia in dotazione alla guardia costiera dello Sri Lanka, «impegnata in una lotta a tutto campo contro i pescatori di frodo indiani che spesso sconfinano nelle loro acque». Una panzana grottesca, considerando che le coste del Kerala affacciano ad Ovest mentre lo Sri Lanka si trova a Sud-Est rispetto ad un altro stato indiano, il Tamil Nadu! Gli scontri per le acque di pesca si verificano da anni tra il golfo di Mannar e la baia di Palk, le acque che dividono lo Sri Lanka dal Tamil Nadu. Il Kerala non c’entra nulla.


 Carta geografica politica dell'India


Pochi secondi dopo lo stesso servizio denuncia la “conclusione unilaterale” degli esami balistici indiani, che indicano invece un calibro 5,56, “contestata dall’Italia visto che agli esami non sono stati ammessi gli esperti italiani”. Come visto sopra, si tratta di un falso: gli esperti italiani c’erano e l’Italia non ha mai contestato ufficialmente l’esito della perizia balistica.


C’è spazio anche per la teoria della colpevolezza della petroliera greca dell’Olympic Flair. Insomma, il servizio ricalca tutta la tesi di Di Stefano, e nel resto della puntata, durante il faccia a faccia tra Ignazio La Russa e Nicola Latorre, nessuno contesta alcun punto della ricostruzione.

La mistificazione di Di Stefano, a Matrix è la realtà: gli indiani hanno manipolato il caso.


Luca Telese

Luca Telese


Una manipolazione delle prove di questa portata operata ad ogni livello dalle autorità indiane doveva essere giustificata da un movente eccezionale. Un movente politico, tratteggiato nei dettagli da Stefano Tronconi e ripreso acriticamente da Toni Capuozzo, senza il minimo fact-checking.


5. «Lo hanno fatto perché c’era la campagna elettorale!»

Tronconi collega il chief minister del Kerala Chandy, in quota Indian National Congress (partito di governo presieduto dall’ “italiana” Sonia Gandhi), al ministro nazionale della Difesa A.K. Antony, il predecessore di Chandy nello stato dell’India meridionale.


Chandy, a causa di elezioni imminenti in Kerala, avrebbe chiesto ad Antony di pilotare contro i marò le indagini della polizia del Kerala, così da poter strumentalizzare la vicenda in campagna elettorale. Si profila quindi la tesi del rapimento di Latorre e Girone a fini politici e Antony – parafrasando le parole di Tronconi pronunciate durante la puntata di Mezzi Toni dello scorso 2 febbraio – sarebbe «la vera mente dietro il sequestro».

Anche Capuozzo, nel gioco delle parti di Mezzi Toni, ribadisce che la manipolazione era avvenuta «alla vigilia di elezioni che [Chandy] rischiava di perdere».

Peccato che non abbiano mai detto di quali elezioni si trattasse.


16 settembre 2012. Il sindaco di Cervesina (PV) Daniele Fuso inaugura la nuova sede della Croce Misericordia.

16 settembre 2012. Il sindaco di Cervesina (PV) Daniele Fuso inaugura la nuova sede della Croce Misericordia.


Come ricordato qualche tempo fa sul blog Elefanti a parte ospitato da East:



«Trattasi in realtà di elezioni supplettive della circoscrizione di Piravom, previste per il 17 marzo 2012. In Italia, attraverso il prisma lisergico della nostra stampa, le elezioni locali di una delle 140 circoscrizioni locali che compongono il Kerala si sono trasformate nelle elezioni locali del Kerala, condizione di incertezza politica che ha giustificato, agli occhi del pubblico italiano, il sospetto di manipolazioni della faccenda dei marò a fini elettorali.


Il partito dell’Indian National Congress (Inc), guidato nello Stato meridionale indiano da Oommen Chandy, governa il Kerala dal 2011 e con la storia dei marò italiani non ha mancato di mostrarsi un esecutivo a parole duro e risoluto, capace di fare la voce grossa contro le potenze occidentali per difendere i diritti del popolo. Tema centrale in India, ex colonia britannica dove il revanchismo post-indipendentista è ancora molto forte, specie negli strati sociali disagiati, e in particolare nel Kerala, roccaforte comunista per decenni dove nel 1957, per la prima volta al mondo, fu eletto democraticamente un governo comunista.


Oommen Chandy, a colloquio con De Mistura, il 23 febbraio, si mostra inamovibile. Chandy esclude ogni spazio per eventuali trattative, dopo che nei giorni precedenti ha descritto le azioni dei marò come un “omicidio a sangue freddo”, promettendo al proprio elettorato duri provvedimenti legali.


Le elezioni della circoscrizione le vince l’esponente dell’Inc, che porta a casa 82.756 voti contro i 70.686 dell’avversario del Left Front (l’unione dei partiti comunisti indiani), ma più che per tirare la volata al candidato a Piravom [...] le parole di Chandy sono rivolte all’opposizione comunista e,  più in generale, alle opposizioni di governo, pronte a strumentalizzare ogni minimo favoritismo accordato agli italiani dal partito dell’Inc seguendo una strategia, in India, consolidata da anni.»



Secondo Tronconi e Capuozzo, quindi, l’India si sarebbe infilata in una gigantesca diatriba diplomatica… per un seggio vacante nella circoscrizione di Piravom dello stato del Kerala, stato abitato da 33 milioni di persone. L’India ne conta un miliardo e duecentodieci milioni, quindi il Kerala conta poco più del 2% della popolazione. A sua volta, Piravom ha 28.000 abitanti, quindi lo 0,002% della popolazione.

In proporzione, è come se l’Italia si fosse impelagata in una spinosa querelle internazionale per influenzare le elezioni a Cervesina.

Insomma, se nessuno ha mai approfondito il dettaglio delle «elezioni del Kerala», beh, adesso sapete il motivo.


N.d.R. I commenti a questa inchiesta di Miavaldi – che ringraziamo – saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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Published on February 10, 2014 14:12

February 6, 2014

Wu Ming Contingent meets Roma Ribelle!

wmcontingent


- Che si fa domani? Andiamo al concerto del Wu Ming Contingent?

- Un concerto dei Wu Ming? Cazzo dici? Quelli so’ scrittori, mica suonano.

- Invece pare che adesso fanno pure un disco. Cioè, non tutti e quattro. Due di loro con altri due musicisti.

- Vabbe’, ho capito: robe come Cadillac, o Razza Pagana, o il blues di Reinhold Messner. C’è uno che legge e gli altri che ci suonano sotto. Sai che palle…

- Mio cuggino dice che li ha visti a Correggio e che di letture ne hanno fatte giusto un paio. Per il resto canzoni. Pezzi tipo ardcòr, gnu ueiv, crautrock…

- E il disco chi glielo fa? Einaudi?

- No, un’etichetta di Arezzo, la Woodworm Label.

- Quelli dei Julie’s Haircut, dei FASK, di Moltheni?

- Quelli. Io conosco Andrea Marmorini, che gli ha registrato l’album al Locomotiv di Bologna, un paio di settimane fa. Dice che sono 11 brani, ognuno dedicato a un personaggio. Tipo Vittorio Arrigoni, Robbespiere, il fu Cimin…

- Il fu Cimin?

-… poi un calciatore dell’Argentina che non ha giocato ai mondiali perché ci stava la dittatura, un tizio che scriveva libri assurdi sulle astronavi dei Maya…

- E come si intitola, ‘sto zuppone?

- Bioscop.

- Bioche?

- Bioscop.

- Cioè? Bio’s cop? O Bios Coop?

- Non lo so come si scrive, cércatelo su Internet.

[image error]- E quando esce?

- Non so manco quello. Però il 13 marzo c’è il rilisparty a Bologna, quindi il disco dovrebbe starci. E dovrebbe starci pure questo sassofonista tipo Fela Kuti che ha suonato con loro in tre pezzi. Pagnozzi, lo conosci?

- Mai coperto. Né lui, né Ferracuti. Ma domani sera c’è, ‘sto sassofonista?

- No, mi sa di no. Però guarda, qui c’è un intervista che hanno fatto su Dinamo Press e qui un’altra su Mola Mola. Se poi c’hai ancora domande, vieni domani allo Strike* e gliele fai a loro, okay?


*oppure dopodomani, sabato 8 febbraio, al Cinema Metropolis di Umbertide (NdR)



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Published on February 06, 2014 05:25

February 5, 2014

Oggi, settant’anni fa, i fascisti uccidevano Leone Ginzburg

Leone Ginzburg (Odessa 1909 - Roma 1944)

Leone Ginzburg (Odessa 1909 – Roma 1944)


Riproponiamo qui il testo che abbiamo scritto nel novembre scorso per gli ottant’anni della casa editrice Einaudi.


«Questa mia traduzione è nata nelle circostanze seguenti».


Il primo nome che ci è venuto in mente quando dalla casa editrice ci hanno chiesto un pugno di righe – un ricordo, uno spunto, qualcosa – sull’ottantennale della fondazione dell’Einaudi, è quello di Leone Ginzburg. A seguire, quello di Proust. Perché?

Perché nel giro di ventiquattr’ore si celebrano il centenario della pubblicazione di Du côté de chez Swann (14 novembre 1913) e l’ottantennale dell’Einaudi (il giorno dopo).

E perché c’è un collegamento forte tra Leone Ginzburg, la sua persecuzione da parte dei nazifascisti, la tragica fine a Regina Coeli… e la Recherche.


La traduzione «classica» del primo tomo della Recherche, quella che l’Einaudi continua a pubblicare (oggi nella Biblioteca ET) è di Natalia Ginzburg. Gran parte del lavoro fu svolto nel 1940 a Pizzoli, in Abruzzo, dove Natalia era al confino con il marito Leone. I volumi della Recherche, in un’edizione di gran lusso, li avevano ricevuti come regalo di nozze. Dopo l’Armistizio – del quale è appena ricorso il settantennale, quanti anniversari con la cifra tonda! – i Ginzburg lasciarono il confino, ma i fogli della traduzione rimasero a Pizzoli. Leone andò a Roma, incontro alla Resistenza e alla morte. Della quale è prossimo il settantennale.


Scrive Natalia:



«Per molto tempo, non pensai più a quei fogli protocollo. Se a tratti m’avveniva di ricordarli, ricordavo soprattutto il tempo felice trascorso. Leone era morto e la quiete di quei pomeriggi che passavo a tradurre apparteneva a un’età perduta».



Ma i fogli si erano salvati. Natalia poté recuperarli a guerra finita, e terminare la traduzione.


Quanto c’è di quell’età perduta nel lavorio di Natalia sul francese e sull’italiano? Quanto della quiete al confino, e poi della guerra, della morte, della perdita? Quali parole fanno da «spia» dell’esperienza vissuta?

Quanto c’è di Leone nella traduzione di Natalia?


Natalia scrive:



«Leone mi aveva detto che dovevo cercare tutte le parole sul vocabolario, anche quelle di cui sapevo il significato. Era sempre possibile trovare un termine più preciso e migliore. Questa frase la presi alla lettera e cercavo proprio ogni parola: anche maison».



Lezione più significativa e politica di quel che sembra. Il fascismo, con la sua retorica tronfia e tonitruante, delle parole e dei significati aveva fatto strame. E oggi non siamo messi molto meglio. Imperano «neolingue» eufemistiche, la cui unica funzione è ottundere. La lezione di Leone è più utile che mai.

Se, pensando alla fondazione dell’Einaudi, il primo ad apparirci è stato lui, vorrà pur dire qualcosa.

Leone Ginzburg, perseguitato e ucciso dai fascisti.

FascistiFascismo. Eccole, due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.


Storie dell’Einaudi, storie nel catalogo Einaudi. Un catalogo dove Proust, morto prima della Marcia su Roma, ha voce d’antifascista.

Del resto, lo scrisse un allora fascistissimo Bargellini su un numero del Frontespizio nel 1936:



«Chi ama Proust non può amare la serenità e la virilità italiana».



Dove «italiana», come ancora oggi spesso accade, sta in realtà per «fascista».

ItaliaItaliano. Ecco altre due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.


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Published on February 05, 2014 01:42

February 3, 2014

Lettera aperta a Carlo Lucarelli sulle violenze (quelle vere) alla #Granarolo

Quale dei due è Lucarelli?

Quale dei due è Lucarelli?


Caro Carlo,


una doverosa premessa: questa non è una “disputa tra intellettuali”, ma una storia dove lavoratori sono stati licenziati per un giorno di sciopero e poi denunciati, pestati e ripestati, gassati e calunniati dai media. Non sono in ballo le nostre reputazioni: sono in ballo le loro esistenze.


Chiarito questo: tu lo conosci quel «Carlo Lucarelli» che ha rilasciato dichiarazioni sui giornali di Bologna a proposito della vertenza che oppone i lavoratori della logistica alla Granarolo e della manifestazione di sabato scorso a Bologna? Quello che parla di «rabbia fine a se stessa che si traduce in minacce, violenze, liste di proscrizione»?


Te lo chiediamo, ricordando le molte occasioni di incontro e collaborazione che abbiamo avuto con te, perché i quotidiani sembrano voler contrapporre, con una furbesca titolazione, due generi di scrittori: quelli “buoni” e quelli “politicamente scorretti” che legittimerebbero la violenza. Una distinzione inaccettabile.



La «violenza»: ma quale violenza? Non c’è stato alcun atto di violenza da parte dei lavoratori in lotta, in massima parte migranti. C’è stato quell’uso della forza che è proprio di ogni sciopero e si esprime nei picchetti, nei blocchi, nell’intenzione di danneggiare gli interessi economici della controparte come forma di pressione sindacale.


Al contrario, la violenza fisica delle manganellate e degli spray urticanti, gli arresti ingiustificati dei delegati sindacali (in violazione delle norme), i licenziamenti, il mancato reintegro dei lavoratori in spregio agli accordi sottoscritti  (ed anche, a Milano, il pestaggio in stile mafioso del sindacalista del Si Cobas Fabio Zerbini) sono forme di violenza padronale. Una violenza fisica, reale, su cui avremmo voluto sentire da quel «Carlo Lucarelli» qualcosa di più che il semplice «sto dalla parte dei lavoratori». Perché se poi il dichiarante  «non entra nel merito», ma proprio nel merito ci sono la violenza e la negazione dei diritti, allora le parole non corrispondono alle cose, e questo tu e noi, come scrittori, giornalisti e lavoratori nella cultura, lo sappiamo bene.



In secondo luogo, nella dichiarazione di quello strano, non molto credibile «Carlo Lucarelli» si mescolano cose diverse in modo improprio: le «liste di proscrizione» di cui si parla sono in realtà una protesta avvenuta non alla Granarolo ma all’università. Una protesta a nostro avviso legittima, contro abusi e illegalità che avvengono ad opera di quelli che un tempo si sarebbero chiamati «baroni universitari», e che è giusto vengano denunciate da chi le subisce, se chi di dovere non se ne accorge, o non interviene. In ogni caso, è una battaglia combattuta con le armi della critica, come in democrazia dovrebbe essere pacifico.


Ma cosa c’entra questa vicenda universitaria con quella delle vertenze nella logistica? Nulla. Però l’accostamento tra le due cose, accompagnato dal nome di uno dei collettivi impegnati nello sciopero della logistica, crea l’impressione che esista un’organizzazione violenta che sovrintende a questo e quello. Abbiamo da tempo constatato che su alcuni giornali ogni volta che c’è un evento “politicamente scorretto” si corre a fare il nome di un centro sociale o un collettivo, per suggerire al lettore che non di movimenti sociali, ma di «cattivi maestri” (o “cattivi allievi”) si tratta. Lo stesso metodo poliziesco che troviamo nell’interrogazione parlamentare presentata da 10 senatori del PD e di Forza Italia, nella quale si nominano centri sociali e sindacati, esortando il Ministro degli Interni a visionare le pagine web dei loro siti. Questa sì ci sembra una lista di proscrizione.


Facchini in corteo a Bologna


I dipendenti comunali che hanno donato 300 buoni pasto ai lavoratori in sciopero, i lavoratori degli asili nido che hanno annunciato il boicottaggio dei prodotti Granarolo per non rendere i bambini «complici dello sfruttamento», o i partecipanti alla manifestazione di solidarietà che scendevano in piazza sabato scorso, contribuiscono forse a costituire «un clima preoccupante»? Forse preoccupano chi continua a raccontarci che i conflitti sociali, le lotte e i diritti dei lavoratori sono un retaggio del Novecento, epperò vuole il latte fresco in frigorifero ogni mattina, che è anch’esso un retaggio del Novecento.


A noi preoccupa invece il fatto che in questa vertenza – e non solo in questa – si stia perdendo il senso di parole come «padrone», «crumiro», «proletario», «diritti», «sindacato». Ci preoccupa che Granarolo e Legacoop possano comportarsi da padroni, e pretendere di essere considerate cooperative di sinistra, e avere la solidarietà congiunta dei senatori e delle senatrici PD e FI dell’Emilia-Romagna. E ci preoccupa, anche, l’uso della violenza contro i lavoratori in lotta – ma questa, tu ci insegni, è un’altra storia, o no?


Valerio Evangelisti -  Wu Ming -  Alberto Prunetti -  Girolamo De Michele


Bologna, 3 febbraio 2014


AGGIORNAMENTO 


Qui sotto c’è la risposta di Carlo.


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Published on February 03, 2014 11:10

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Wu Ming 4
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