Wu Ming 4's Blog, page 109

November 27, 2013

«Difendere la Terra di Mezzo» in libreria. Calendario presentazioni 2013

gandalf


Da oggi Difendere la Terra di Mezzo è in libreria. E’ facile che non lo si trovi impilato in colonnine & piramidi all’ingresso dei bookstore… Quindi è meglio tenere presente che il libro è acquistabile direttamente anche dal sito dell’editore Odoya (a prezzo scontato).

Qui si può ascoltare un’intervista a Wu Ming 4 su Radio Città del Capo (divisa in due file audio).


Ecco il calendario delle presentazioni nel 2013:


28 novembre: Bologna, Libreria Feltrinelli, Piazza di Porta Ravegnana 1, h. 18:00


6 dicembre: Roma, Festival “Più Libri Più Liberi”, Eur Palacongressi, sala turchese, h. 15:00


7 dicembre: Roma, Vigamus (Videogames Museum),

via Sabotino 4, h. 12:30


12 dicembre: Pisa, Circolo Agorà, via Bovio 48/50, h. 17:45. In collaborazione con Radio Roarr. A seguire: cena di finanziamento per Radio Roarr.


19 dicembre: Niscemi (CL), Sede del Comitato No Muos, via XX Settembre 36, h. 19:00 (a seguire cena sociale).


20 dicembre: Catania, C.S.A. Officina Rebelde, via Coppola 6, h. 19:30


Per il 2014 ci sono già due date fissate, piuttosto distanti tra loro:


24 gennaio: Teramo, Laboratorio Politico Gagarin Sessantuno,  via Mario Capuani 61, h. 21:00


15 giugno: Ara, frazione di Grignasco (NO), Casa delle Grotte di Ara, h. 14:00 (a seguire altri eventi a tema).


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Published on November 27, 2013 15:30

November 20, 2013

Speciale #Timira e #PointLenana: quattro autori, due libri, molte voci, la storia

Point Timira


Perché uno speciale congiunto Timira / Point Lenana? Perché è tempo. Perché, come spiegato nei «Titoli di coda» di Point Lenana:



«Timira e Point Lenana vanno considerati libri “cugini di primo grado”. Sono entrambi “oggetti narrativi non-identificati”, creature anfibie tra narrativa e saggistica; entrambi parlano di Africa, fascismo e colonialismo italiano; entrambi sono stati scritti da un membro del collettivo Wu Ming e da un coautore; in ambedue i casi, la “scintilla” iniziale è partita dal coautore.

Point Lenana deve molto ad alcune scelte stilistiche e narrative compiute dai due autori di Timira, e di questo non possiamo che ringraziarli.»



Più volte nel corso del Point Lenana Tour de force sono emerse comunanze e risonanze tra i due libri. Forse sono più che “cugini di primo grado”: forse sono fratelli, anzi, gemelli. Gemelli eterozigoti: di primo acchito non si somigliano, ma si sono formati e sono nati insieme. Figli della stessa fase nella vita del collettivo Wu Ming, perché scritti nello stesso pugno di anni, e dopo il fatidico 2008. Figli della stessa esigenza di allargare, di estendere le collaborazioni, ibridare le scritture e creolizzare Wu Ming.


Gli sviluppi più recenti vengono da lì. La Wu Ming Foundation non coincide più con il solo collettivo Wu Ming ma raccoglie più insiemi che si intersecano: Wu Ming Contingent, Wu Ming Lab etc. Stiamo cambiando, andiamo oltre l’essere-scrittori. Soggetti narratori non-classificabili che producono oggetti narrativi non-identificati.


Il dittico Timira / Point Lenana può essere considerato la prima multi-opera della nuova epoca, proprio come il romanzo L’armata dei sonnambuli (uscita prevista per marzo) sarà il nostro congedo dall’epoca che abbiamo ormai alle spalle. E speriamo sia un congedo in grande stile.

Intanto «camminiamo domandando», scarpiniamo, per raggiungere il cuore che gettammo oltre l’ostacolo.

Che il Grande Altro ce la mandi buona.




La mia guida Duncan Njoroge con #pointlenana Il libro in vetta lo ha emozionato, “because I love creative people!” pic.twitter.com/Ubht2NxhkQ— Gabriele Diamanti (@GabDiamanti) November 8, 2013


Prima o poi doveva succedere: Point Lenana è arrivato lassù, sulla vetta da cui ha preso il titolo.

Point Lenana su Point Lenana. Il primo a realizzare tale mise en abyme - che speriamo di vedere ancora – è stato il designer Gabriele Diamanti.

Gabriele ha approfittato di un viaggio di lavoro in Kenya per farsi la scarpinata decisamente fuori stagione, sfidando tormente di neve. Di quest’atto d’amore per il libro, che ha commosso entrambi gli autori, lo ringraziamo.

Gabriele ha scattato diverse foto e girato un breve video. Trovate tutto, insieme ad alcune riflessioni sul significato simbolico del gesto, in uno speciale sull’eccellente fan blog – «fan» come lo intende Henry Jenkins, naturalmente! – dedicato a Point Lenana. Insomma, trovate tutto qui.

[E già che ci andate, fateci un giro, nel blog. E' pieno di materiali interessanti, grazie all'impegno dei giapster Mr. Mill, Lo.Fi e Vecio Baeordo. Segnaliamo, in particolare, la rubrica "Lost in Anobii".]




L'eredità scomoda


Fin dall’uscita di Razza Partigiana, le vicende dei fratelli Marincola hanno suscitato l’interesse di studenti, presidi e professori di scuola. Una storia di famiglia che permette di attraversare la storia d’Italia e indagarne i luoghi oscuri. Per questo siamo felici di annunciare l’uscita del nuovo numero di Educazione Interculturale (Edizioni Erickson), interamente dedicato all’eredità scomoda del colonialismo italiano.


L’indice della rivista è davvero ricco: nella sezione “Approfondimenti”, Gianluca Gabrielli analizza il ruolo del razzismo nell’impresa coloniale, mentre Isabella Pescamona riflette sulla rappresentazione del colonialismo nel discorso pubblico europeo, con particolare riferimento ai casi di Francia e Gran Bretagna. Nelle pagine dedicate ai “Progetti”, gli autori si interrogano su come studiare meglio questo periodo della nostra storia e propongono diversi percorsi didattici attraverso testi letterari, vignette satiriche d’antan, un’analisi diacronica delle politiche interraziali in colonia, e infine una bibliografia ragionata dove il nostro “progetto transmediale multiautore” sulla famiglia Marincola diventa una proposta di lettura dai 16 anni in su. Completano il volume due lunghe interviste ad Antar Mohamed e a Nicola Labanca.


Presenteremo il numero della rivista alla Biblioteca Cabral di Bologna, via San Mamolo 24, il 26 novembre alle 17:30.



Proponiamo all’ascolto un estratto dalla presentazione di Point Lenana alla Casetta Rossa, Garbatella, Roma. Le voci sono quelle di WM1 e Giuliano Santoro, la data il 30 ottobre 2013. L’estratto dura un’ora spaccata. Si parte parlando di cielo stellato, poi ci si inoltra in una discussione approfondita sulla natura ibrida di Point Lenana, con diversi insight sulla direzione presa da Wu Ming.

En passant, WM1 dice un paio di cosette su costui.

Ricordiamo che, se volete scaricare l’mp3, dovete cliccare sulla freccia rivolta verso il basso. Per lo streaming, invece, basta cliccare su →


POINT LENANA ALLA CASETTA ROSSA – 30 OTTOBRE 2013


Il giorno dopo, Giuliano pubblicava sul suo blog gli appunti che aveva usato per la serata, ripartendo dalle stelle, che permettono di collegare una pisciata a una lezione di astronomia.


Carta del cielo su Nairobi, Kenya, la notte del 23 gennaio 2010. Clicca per visitarla su Sky Map Online

Le costellazioni sopra Nairobi, la notte prima della partenza per il Monte Kenya (23 gennaio 2010). Clicca per visitare la mappa su Sky Map Online.


(RI)LEGGENDO POINT LENANA: NOTE A MARGINE


di Giuliano Santoro


Giuliano Santoro

Giuliano Santoro


Come inizia Point Lenana? Siamo nel gennaio del 2010, quando uno dei due autori guarda le stelle mentre svuota la vescica, nella notte africana della scalata al Monte Kenya, alla volta di Punta Lenana. L’altro giorno sulla torre dell’Istituto Svizzero di Roma Franco Piperno ha tenuto una delle sue lezioni di astronomia. Lo “spettacolo cosmico” del Pip. è un viaggio multidisciplinare nei miti, nella filosofia e nella storia della scienza. Ci ha spiegato che guardare le stelle e disegnare costellazioni significa affrontare la radice della conoscenza. La cultura è in fondo il modo in cui diamo un ordine alle cose che ci stanno intorno. Guardare le stelle, dunque, è il modo principale di stare con i piedi per terra. Come nel caso di chi unisce i puntini e traccia i disegni che compongono le costellazioni, le storie che inanella l’oggetto narrativo non identificato prescindono dalle distanze, spaziali e temporali, reali. Lo sguardo dei narratori si prende l’onere di disegnare costellazioni, tracciare connessioni e riannodare fili.


>>>Prosegue qui>>>



Una scuola italiana


…ma Giuliano, a Roma, aveva già presentato Timira insieme ad Antar e WM2. Era il 15 marzo 2013.


Roma? Di più: Tor Pignattara. E ancora di più: la scuola elementare Carlo Pisacane, la più creola della capitale (otto bimbi su dieci sono figli di stranieri), detestata dai fascisti, sempre al centro di controversie.

[Sulla Pisacane, qualche anno fa, è stato anche realizzato un documentario, Una scuola italiana. Puoi cliccare sull'immagine qui sopra per visitare il sito.]


Portarci Timira, “romanzo meticcio”, era sensato e importante. Per di più con due appuntamenti: il primo di mattina, con i bimbi e le bimbe di alcune classi, in un’aula strapiena di curiosità e di domande, grazie soprattutto al lavoro “preparatorio” delle maestre. Il secondo al pomeriggio, con gli adulti della scuola e del quartiere.

Ecco la registrazione della seconda chiacchierata. Dura un’ora e 24 minuti.


TIMIRA ALLA PISACANE, 15 MARZO 2013



Quella che segue è una bella recensione di Point Lenana apparsa sulla rivista on line Magmazone:


POINT LENANA: NELL’ARMADIO DELLA STORIA


di Mario Francesco Simeone


Logo MagmazoneIl corridoio è silenzioso. Le pareti sono strette e formano alcune zone di umidità. In fondo, superato un cancelletto solitamente chiuso a chiave, lo spazio è occupato da un armadio di ferro smaltato. Le cose non sono state disposte casualmente e, in effetti, ci sono tutti gli elementi per una dimenticabile scena anonima. L’errore è stato non seguire fino in fondo questa scelta, perché le ante sono rivolte alla parete e si percepisce immediatamente che c’è qualcosa di insolito. Nel 1994, i cardini cigolarono, quando il procuratore militare Antonino Intelisano aprì quello che sarebbe diventato “l’armadio della vergogna”.


Non è mai facile rintracciare la genesi di un romanzo ma Point Lenana potrebbe iniziare da qui. Non direttamente dai fascicoli sulle stragi naziste, nascosti o dimenticati per anni in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi-Gaddi ma dalla pratica di rimozione che, quotidianamente, altera la memoria storica. L’ultima opera di Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, e Roberto Santachiara, nasce dall’incontro non fortuito tra una vicenda individuale, quella di Felice Benuzzi, e una vetta da scalare, la Punta Lenana, sul caotico tavolo della prima metà del Secolo Breve.


>>>Prosegue qui>>>



Antar e WM2 hanno portato la storia di Giorgio e Isabella Marincola in molti licei della penisola, da Spezia a Verona, da Bolzano a Catanzaro Lido.


Di seguito potete ascoltare un esempio di questo genere di incontri, registrato il primo marzo 2013 nella palestra del Liceo Antonelli di Novara, di fronte a circa duecento studenti delle classi quarte e quinte. Dura un’ora e 30 minuti.


STORIA DELLA FAMIGLIA MARINCOLA – NOVARA, 1 MARZO 2013



Una mini-selezione di ricadute transmediali di Point Lenana:



@Wu_Ming_Foundt un qrcode che porta al ‘corollario’ su pinterest di point lenana. magari si può usare nelle presentaz pic.twitter.com/TZhTPVdzzK


— figuredisfondo (@figuredisfondo) October 30, 2013



N.B. Il realizzatore del QRcode mostrato quissopra è lo stesso personaggio che, più di dieci anni fa, scaricò il file di Q, ridusse il font a dimensione minuscola, eliminò gli a capo, e così facendo riuscì a stamparsi l’intero romanzo su una T-Shirt, davanti e didietro. Tutto intero, dal prologo all’epilogo. Per gli scettici: il pdf si trova qui. Nel 2007 fece la stessa cosa con Manituana.


N.B.2 Per chi non lo sapesse, il “corollario su Pinterest” a cui fa riferimento l’eroico compagno è questo qui. E non c’è solo quello di Point Lenana, c’è anche quello di Timira.


Point Lenana sul Monte Circeo

Point Lenana e Fuga sul Kenya sul Monte Circeo (541 mt), clicca per ingrandire. Grazie a Livia Castelli.



@Wu_Ming_Foundt #PointLenana sul Monte Vettore con una dimostrazione pratica dei suoi poteri… – 20/07/2013 pic.twitter.com/jP2FwKFl2j


— In punta di sella (@inpuntadisella) November 9, 2013




Da una scuola elementare di Tor Pignattara, a un liceo scientifico di Novara, all’università di Warwick…


Sempre a marzo 2013, WM2 è volato in Inghilterra su invito di Simone Brioni e Fabio Camilletti, per tenere due interventi distinti.


Il primo – The Historical Novel as a means of investigation – rivisto e ampliato in occasione delle Lectures on Memory dell’Università di San Marino, verrà pubblicato in e-book dall’editore Guaraldi, a gennaio 2014, con il titolo: L’utile per iscopo. La funzione del romanzo storico in una società di retromaniaci.


Il secondo – Somalia in Italians’ eyes. Questions of space in Timira - lo potete scaricare qui in formato pdf. Si parla delle diverse rappresentazioni di Mogadiscio nelle pagine del romanzo e del tentativo di ri/costruire la storia della città a partire da uno sguardo meticcio.


Il passaporto di Isabella

Il passaporto di Isabella.


La versione inglese del testo è opera di Kate Willman, una ricercatrice che si sta occupando di Timira e più in generale di New Italian Epic.


Entrambi gli interventi – e non solo – si possono ascoltare sul sito dell’Istitute of Advanced Studies dell’Università di Warwick:


Nella fase di Domande & Risposte, nonché nella tavola rotonda finale, allo scopo di non torturare gli intervenuti con un orrido inglese, WM2 si è aggrappato alle doti da interprete di Serena Bassi.



Alte Feuerwache

Alte Feuerwache, Mannheim.


Sette mesi dopo Warwick, Timira ha visitato anche la Germania, nell’ambito del tour che abbiamo presentato qui.


Tra le tante serate, vi proponiamo quella che si è tenuta all’Alte Feuerwache di Mannheim – un’antica caserma dei pompieri, oggi centro culturale – organizzata da Stephanie Neu ed Eva-Tabea Maineke, docenti di letteratura italiana all’università cittadina.


Durante l’incontro, Daniela Kopf ha letto alcune pagine del romanzo, tradotte in tedesco da Sabine Çorlu. Dura due ore e due minuti.


TIMIRA A MANNHEIM, 29 OTTOBRE 2013



Nel prossimo speciale Timira / Point Lenana:


§ Estratto/rielaborazione della prima tesi di laurea su Point Lenana, scritta da Linda Bonacini. Corso di laurea in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali, Università di Bologna. Relatore: Giuliana Benvenuti. Titolo: «La letteratura italiana contemporanea oltre i confini. Regina di fiori e di perle e Point Lenana: riflettere sul colonialismo di ieri per rispondere al razzismo di oggi».

L’estratto riguarderà le tecniche utilizzate in Point Lenana.


§ Download della tesi di Luigi Franchi su Timira. Corso di laurea in Italianistica, culture letterarie europee, scienze linguistiche, Università di Bologna. Relatore: Fulvio Pezzarossa. Titolo: «”Cosa vogliamo fare della nostra amicizia?”. Timira, un romanzo in friendchise».

Un’esplorazione molto acuta del romanzo, in compagnia di Agamben, Foucault, De Certeau, Westphal, Negri/Hardt e del nuovo concetto di friendchise – un franchise amicale, dal basso, che integra e rilancia, con un nome più figo,  la nostra idea di “progetto transmediale multiautore”.


§ RedReading #6 – Come Fratelli e Sorelle di e con Tamara Bartolini e Michele Baronio. Con la partecipazione di WM2, Antar Mohamed, Lorenzo Teodonio, Cristina Ali Farah, Eva Gilmore, PierPaolo Di Mino, Lorenzo Iervolino, Fiora Blasi, Fabrizio Spera, Luca Venitucci.

Nato il 31 maggio 2012, come lettura per voce e chitarra, per accompagnare la presentazione di Timira al Centro Sociale Strike di Roma, in seguito riproposto con alcune modifiche alla già citata Casetta Rossa (Roma) e in formato di radiodramma musicale sulle frequenze di Radio Onda Rossa (sempre de Roma), Come Fratelli e Sorelle – Vite profughe esistenze partigiane è andato in scena il 27 maggio 2013 al Teatro Argot Studio (sempre Roma): uno spettacolo meticcio, attraversato dalle testimonianze di molti ospiti e da un racconto di TerraNullius, scritto a sei mani e letto a due voci.


§ Una conversazione tra WM1 e Lello Voce sul mito degli Alpini, a partire da Point Lenana.


Lello Voce

Lello Voce


E tante altre cose stanno per uscire su entrambi i libri.


Ricordiamo che le date del tour di Point Lenana novembre 2013 – gennaio 2014 si trovano qui.

Tutte le aggiunte, modifiche etc. verranno fatte in quel post.


Buone prassi a tutte e tutti, ci si risente presto.


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Published on November 20, 2013 00:54

November 14, 2013

«Come si dice “partigiano” in tedesco?» (Tanti auguri a Mario Fiorentini)

diario_1912[Il 7 novembre scorso ha compiuto 95 anni Mario Fiorentini , partigiano comunista, comandante del Gap centrale "Gramsci", "assessore alla Cultura della Roma occupata", secondo la definizione di Rosario Bentivegna.

Anni fa, Mario Fiorentini mise Lorenzo Teodonio e Carlo Costa sulle tracce di un partigiano molto particolare, Giorgio Marincola, contribuendo così a quel "progetto transmediale multiautore" che ha visto nascere Razza Partigiana, Quale Razza, Basta uno sparo e Timira.

Per fargli gli auguri di compleanno, Lorenzo Teodonio ci ha mandato il testo che segue, inizio di un lungo saggio (ancora in fieri) che il collettivo "Razza Partigiana" dedica al rapporto fra politica e città. Si analizza la formazione politica di tre scrittori/filosofi come Gramsci, Slataper (cfr. Point Lenana) e Michelstaetder nell'Italietta giolittiana. Quasi coetanei e provenienti da zone periferiche, i tre si sono formati in città (Firenze per i due giuliani, Torino per il sardo) sviluppando fra loro risonanze carsiche.]

-

Ma come si dice partigiano, in tedesco?


di Lorenzo Teodonio



«L e innefabili “terze pagine” del conservatorismo considerarono perfino il pensiero molle troppo osé: lì ha dominato e domina la necrosofia mitteleuropea della Magris Company. Per un lungo periodo, scorrendo “Il Corriere”, sembrò di leggere, nelle sue “terze pagine”, il malessere di un club di zitelle della Bassa Sassonia o, ancor peggio, l’infelicità di una piccola comunità di ebrei rumeni.»



E davvero la Magris Company rimanda a un’idea di Mitteleuropa infelice, mediocre, lagnosa, ben lontana dall’idea di resistenza che l’autore del precedente brano (Antonio Negri, La differenza italiana , Nottetempo, 2005) vuole invece esaltare in quegli scrittori/filosofi nati da qualche parte fra Trieste e il Baltico.


La lettura di Point Lenana (Einaudi, 2013) ha, fra i non pochi pregi, quello di ricostruire i primi anni del Novecento a Trieste e rievocare personaggi, come Scipio Slataper, ridotti a reminescenze scolastiche, a nomi di caserme o, peggio, a toponomastica (a Roma la strada è ai Parioli, vicino il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri). Un libro, insomma, che ci fa concordare con Negri: la Mitteleuropa è anche resistenza!


Nel 1912 un piccolo e glorioso editore di Lanciano, Rocco Carabba, pubblica il Diario di Friedrich Hebbel, tradotto e curato proprio da Slataper.


Hebbel è un drammaturgo tedesco dell’Ottocento (1813-1863), il cui Diario (una raccolta di aforismi, brani autobiografici, piccoli racconti) ha influenzato molto autori, da Kafka a Lukács, e che tutt’oggi ha una certa fama. Tanto da essere pubblicato in varie forme: Carabba ha fatto uscire la copia anastatica dell’edizione del 1912; Adelphi ha pubblicato, quest’anno, un’antologia ( Giudizio Universale con pause ) a cura di Alfred Brendel; Diabasis, nel 2009, ha fatto uscire un’altra antologia a cura di Lorenza Rega (con prefazione del fantomatico Magris).


L’aforisma, numero 2613 nell’edizione tedesca B. Behr’s Verlag, Berlino 1905, scritto il 24 ottobre 1842 ad Amburgo, recita “ Leben heißt parteiisch sein”.


In italiano Slataper traduce “Vivere significa esser partigiani”.


indifferentiQuesta frase sarà utilizzata nel 1917, da un piccolo, grande sardo, Antonio Gramsci. Quando, infatti, si trova a scrivere, in perfetta solitudine, la rivista La città futura, cita proprio nell’incipt dell’articolo (Indifferenti): Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. La citazione, non proprio letteraria, è importante per la presenza della parola “partigiano”. Una parola che tanta importanza avrà in Italia e che Gramsci stesso utilizza più volte nel resto dell’articolo. La conclusione è infatti:



«Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.»



Quel ” virili” suona machista, ma a Gramsci lo perdoniamo. Come perdoniamo la citazione vagamente critica alla Ginestra leopardiana (la catena sociale […] non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini).


L’ottimo Slataper, dunque, traduce parteiisch con partigiano. Ma come è stato tradotto “parteiisch sein” nelle altre edizioni dei Diari di Hebbel? Nell’antologia Adelphi non c’è proprio il pensiero; in quella della Rega vi è la traduzione “essere di parte”. Grammaticalmente non fa un piega: sein è l’infinito di essere e parteiisch significa “di parte”. Ma certo, all’orecchio italiano, risulta un po’ triste: la parola partigiano, inevitabilmente, ha un’altra risonanza. E poi, nel tedesco attuale (non certo all’epoca di Hebbel!), “parte” si preferisce esprimere con Teil; Partei significa, più propriamente, “partito” nel senso politico del termine. Nella versione dei Diari della Magris Company, poi, non si cita l’uso gramsciano dell’aforisma e la data dell’edizione curata da Slataper è palesemente sbagliata. Viene infatti fissata al 1919, inducendo il povero Magris a scrivere che il libro uscirà […] dopo la sua morte (Slataper muore nel 1915, durante la guerra).


hebbel_originale


La parola Partigiano risale al medioevo (la usa anche Machiavelli: Qualunque volta quelli che sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quegli altri defendano tepidamente ). Già: ma come si dice in tedesco “partigiano”? Il problema ha molto appassionato Carl Schmitt. Nella Teoria del Partigiano (Adelphi, 2005) scrive esplicitamente che si dice Parteigänger, ossia, in italiano, “membro di partito”. La locuzione Partisan (scelta nel titolo del saggio, in tedesco, Theorie des Partisanen) è tratta dalle lingue romanze, in particolare spagnolo e francese, anche se in queste lingue è “una denominazione assolutamente generica, polisemica, diventata all’improvviso un termine eminentemente politico”. Dopo la Teoria (uscita nel 1963), in una conversazione con un maoista , Jaochim Schichel, - avvenuta il 25 aprile (ironie della storia!) 1969, trasmessa alla radio e trascritta (Carl Schmitt, Un giurista davanti a se stesso, Neri Pozza, 2005) – Schmitt torna sull’etimologia del termine confermando il significato di “membro di partito” (Parteigänger). Poiché, continua Schmitt: “qualsiasi pensiero politico comincia con un prender partito”. “Prender partito” è la traduzione di Parteinug: per quello la Teoria del Partigiano è, nell’idea di Schmitt, come evidenzia il sottotitolo, un’integrazione al concetto di politico. L’analisi schmittiana ha un afflato più filosofico-politico che storico in senso stretto. Ecco perché in questa Teoria la Resistenza europea ha un ruolo infimo: si passa direttamente dai primi partigiani delle guerre napoleoniche a Guevara, passando per l’esotico Mao. Per cui di partigiani non aderenti a partiti, o di altre vicende particolari della Resistenza europea, non vi è traccia. In attesa di un qualche prode che faccia la storia della parola partigiano e del suo uso, noi, comunque, continuiamo a odiare gli indifferenti perché, come finisce l’opera più bella di Slataper, vogliamo amare e lavorare.


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Published on November 14, 2013 12:40

November 11, 2013

Wu Ming Lab, la nostra officina di narrazioni

800px-Edison_and_Ford_Winter_Estates,_Edison's_laboratory


Chi ci segue su Twitter avrà visto che, da qualche settimana, almeno una volta al giorno, cinguettiamo a proposito di Wu Ming Lab.

Ma poiché Twitter è uno strumento dispersivo, e 140 caratteri son pochi per spiegare un progetto, è venuto il momento di dedicare alla questione qualche riga in più.

Fin dalla sua nascita, tra le ragioni sociali della Wu Ming Foundation, c’è il “raccontare storie con ogni mezzo necessario”, coinvolgendo nel processo una vasta comunità, poiché raccontare, per noi, è un verbo che si coniuga al plurale.

Per questo, la nostra attività di cantastorie non è mai stata soltanto quella di produrre racconti: li abbiamo sempre anche smontati e rimontati in pubblico, criticati, messi in discussione, trasformati e accresciuti con il contributo di chi desideravacommentare, scrivere, rielaborare. E l’abbiamo  fatto con tutte le storie che ci sembravano interessanti, non solo con quelle che sceglievamo di maneggiare per i nostri romanzi.

Questo blog è diventato così anche un laboratorio di analisi delle “tossine narrative”, nel tentativo di costruire racconti alternativi ai miti tecnicizzati del potere.

Col tempo, questa caratteristica è diventata sempre più evidente, e abbiamo cominciato a ricevere inviti e proposte per tradurre in conferenze, workshop, seminari e corsi questa nostra attività “collaterale” – che in realtà è il cuore stesso di tutto il nostro lavoro.

A chiamarci per questo genere di interventi, il più delle volte, non sono soggetti strettamente interessati alla letteratura o alla scrittura, quanto piuttosto agli aspetti narrativi che si incontrano nelle più diverse discipline – dal fumetto al pubblicità, dal cinema alla ricerca storica – con un occhio particolare per l’attivismo sociale e politico.


In altre parole: non abbiamo mai tenuto corsi di scrittura creativa e non intendiamo tenerne in futuro. Quel che vogliamo fare, invece, è creare un luogo di formazione e discussione, dove la nostra “didattica di strada” trovi anche una casa, un riparo per l’inverno e la pioggia, un posto da dove ripartire. Non per interrompere il girovagare di questi anni, ma per dargli un approdo e una rampa di lancio.

Wu Ming Lab vorrebbe essere questo: una stanza dove incontrarsi e confrontarsi, dove convogliare la nostra esperienza di narratori e docenti (alla NABA di Milano, alla Scuola Internazionale di Comics, all’Università di Urbino…), dove continuare il lavoro intorno alle narrazioni che già portiamo avanti su Giap – con la differenza che in una stanza ci si può vedere, ascoltare, respirare.

E per sottolineare da subito che il Wu Ming Lab  è un posto dove si impara insieme, abbiamo scelto di non metterlo in piedi da soli, ma di chiedere aiuto al Laboratorio 41 di Daniele Bergonzi (vi ricordate la Compagnia Fantasma?). Una collaborazione che nasce da una forte sintonia sugli intenti di entrambi i progetti, ben al di là del semplice affitto della suddetta stanza e di un insostituibile aiuto in segreteria.

Questo spirito conviviale, significa anche che le iniziative del Wu Ming Lab non si limiteranno a corsi e seminari tenuti dai membri della Foundation, ma – come si suol dire – si avvarranno anche di altre proposte.


Intanto, il 14 dicembre, dalle 14.30 alle 18.30, saremo al Laboratorio 41 (in via Castglione, 41 a Bologna) per presentare con una “lezione zero” i tre per/corsi che partiranno a febbraio: Cantarchivio (a cura di WM2), Futbologia (a cura di WM3) e Sentieri della Terra di Mezzo (a cura di WM4).


Tutte le informazioni dettagliate sui singoli corsi, le date, i costi, i contatti e le prenotazioni, li trovate qui.


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Published on November 11, 2013 14:27

November 9, 2013

«Morti di fama», un pamphlet di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini

Morti di famaQui su Giap non l’avevamo ancora segnalato, lo facciamo adesso. Sabato 2 novembre u.s., al Modo Infoshop di Bologna, Wu Ming 1 e Loredana Lipperini hanno presentato Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del web (Corbaccio, 2013, € 12,90), scritto da Loredana medesima insieme a Giovanni Arduino. Un pamphlet tanto agile quanto utile e  importante in questa fase, soprattutto ora che Twitter ha fatto il nido in borsa.

La presentazione è stata ricca di storie, di dati, di spunti. WM1 ne ha approfittato per togliersi qualche sassolino dagli anfibi su una vicenda molto amplificata dai media fancazzisti la settimana scorsa, roba che riguardava Lou Reed, i consuetamente impresentabili Savoia e il compagno Gaetano Bresci, sempre vivo nei nostri cuori.

Per l’audio completo della serata – durata: un’ora e ventiquattro minuti – linkiamo Lipperatura, che a sua volta linka Radio Giap Rebelde. Commenti di là, grazie.

Nel mentre, ricordiamo che Morti di fama è anche un blog su Tumblr. Buon ascolto, buona lettura.


Rissa con gli anarchici sulla tomba di Lou Reed

«Rissa con gli anarchici sulla salma di Lou Reed: “Non capite un c…”» Chapeau a Libero – no irony! – per il titolo più bello sul non-evento (lo scambio di tweet col “principe”).


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Published on November 09, 2013 05:19

November 7, 2013

Haecceitas 1913 – 2013. Siamo tutti cent’anni di «Recherche». Con musiche di Luca Casarotti

cabourg


A rigore, prima di leggere e durante l’ascolto di questo post, bisognerebbe (ri)leggere quest’altro dell’aprile 2011:


Siamo tutti il febbraio del 1917, ovvero: A che somiglia una rivoluzione?


1913, 2013, 1917, 2011… Un intrico di date, ma la questione è semplice: tra pochi giorni, e precisamente il 14 novembre, ricorre un centenario. Il 14 novembre 1913 usciva Du côté de chez Swann, primo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.


Due anni fa WM1 e WM2 tennero una doppia conferenza in due università del North Carolina

[Oggi entrambi i testi sono inclusi nel nostro ebook Giap. L'archivio e la strada (2013).]

WM1 e WM2 parlarono dei sommovimenti allora in corso (Tunisia, Egitto), ponendo due questioni: come si riconosce una rivoluzione? E come si racconta?


Nella sua relazione, WM1 parlò a lungo – con grande sorpresa dell’uditorio – di Proust. In particolare, si soffermò su una lunga, strabiliante sequenza - già analizzata da Jacques Rancière - di All’ombra delle fanciulle in fiore (secondo volume della Recherche).

Facendo leva sul concetto filosofico di «ecceità», solo in apparenza astruso ma in realtà piuttosto facile da comprendere, WM1 descrisse quelle pagine di Proust come un “super-tropo”, una super-figura retorica, gomitolo rotolante di fili multicolori corrispondenti a tutte le figure retoriche possibili, poi ne trasse svariate implicazioni, ci costruì sopra un’allegoria profonda (l’inizio di una Rivoluzione è la passeggiata delle ragazze sul lungomare di Balbec/Cabourg) e gettò un ponte tra il “super-tropo” di Proust e i “super-tropi” di Vladimir Majakovskij.


100 anni di Recherche 


Azzardato? Senz’altro. Eppure le descrizioni incasinate con “metafore miste” e giustapposizione di elementi eterogenei senza alcun rispetto per la gerarchia tra piccolo e grande, animato e inanimato, sono proprio ciò che Trotsky rimprovera al poeta georgiano nel suo testo – peraltro pregevolissimo – Letteratura e rivoluzione. E Majakovskij aveva un profondo rispetto per Proust. Tanto che, di passaggio a Parigi, volle andare al suo funerale.


Luca Casarotti al Moncalieri Jazz Festival, 2010

Luca Casarotti al Moncalieri Jazz Festival, 2010


Un giapster giovane ma di lungo corso, il pianista Luca Casarotti, lesse quel post e decise di… musicarlo. Ne nacque una composizione/improvvisazione in due parti, Haecceitas, ispirata alla descrizione della passeggiata sul lungomare. Luca la eseguì per la prima volta dal vivo alla Sala Greppi di Bergamo il 23 giugno 2011, col contributo fondamentale di Maurizio Lesmi al sax soprano. Oggi, in anticipo di qualche giorno sul centenario, vi offriamo queste pagine musicali proustiane. Live in Bergamo. Potete ascoltare in streaming gli mp3, ma è meglio ancora se scaricate in formato wav, per mantenere la migliore qualità del suono (Haecceitas.zip, 217 mega).


HAECCEITAS – PRIMA PARTE – 15’51″


HAECCEITAS – PRIMA PARTE – 15’51″


HAECCEITAS – SECONDA PARTE – 7’26″


HAECCEITAS – SECONDA PARTE – 7’26″


A seguire, le «Note per un’improvvisazione» spediteci da Luca più di due anni fa, e un testo scritto da WM1 durante l’ascolto, in un pomeriggio di primavera del 2012. Il tentativo era quello di rendere l’idea dell’ecceità, della singolarità e molteplicità di quell’esatto momento.



1.


La prima delle due tracce è risultata in una forma quadripartita. Ciascuna sezione è contraddistinta da un parametro musicale predominante, come mi ero prefisso nel preparare il mio contributo alla rassegna d’improvvisazione cui ho partecipato. Il primo movimento è caratterizzato da una cellula melodica di cinque note ascendenti, che trasporto su tutta l’estensione dello strumento (ad eccezione dei registri sovracuti), che ne costituisce il tema principale, da un secondo elemento tematico, pure melodico, ma questa volta improntato su due singole note discendenti poste a distanza di decima e da un terzo elemento di sviluppo, ricavato dall’armonizzazione politonale del tema pentatonico principale. Il secondo tema compare come prima idea, in apertura della traccia: dopo averlo esposto, passo all’introduzione del tema principale ponendolo in dialogo con quello precedente per poi aumentare il livello di tensione narrativa e dinamica con le armonizzazioni cui ho fatto cenno.

L’ispirazione per questo modus procedendi mi deriva dalla tecnica di scrittura impiegata da Arnold Schönberg nei 6 Klavierstücker, opus 19. Le armonizzazioni sono patrimonio comune di molti improvvisatori, Cecil Taylor tra gli altri, ciascuno con la propria voce peculiare: si parva licet, spero sia così anche per me.

Nella seconda sezione ho operato un contrasto dinamico rispetto alla prima, sostituendo un andamento essenzialmente frammentato al continuum che avevo mantenuto fino a quel momento utilizzando il pedale di risonanza. Qui è il parametro timbrico ad assumere carattere dominante. Mi sono infatti mantenuto costantemente nella porzione della tastiera corrispondente alle frequenze superiori i 500 hz ed ho impiegato un procedimento esecutivo a clusters, accentuando le dissonanze con il sollevamento degli smorzatori corrispondenti alle note che non ho suonato per far risuonare simpateticamente le corde corrispondenti. I precedenti di Kage, Berg e Nono sono quelli cui ho fatto riferimento per questa tecnica.

Nella terza sezione ho introdotto una pulsazione metronomica definita, che risultava invece assente in quelle precedenti, in cui la musica era essenzialmente libera nello spazio e priva di una connotazione ritmica stricto sensu. In questo movimento l’attenzione compositiva è infatti stata esclusivamente rivolta a questo parametro. Ho impiegato una serie di disegni ritmici asimmetrici che, cioè, non andassero a comporre cicli definiti (4/4 o 3/4 ad esempio), ma che fossero ciascuno dotato di una lunghezza variabile pur rimanendo tutti all’interno dello stesso tempo metronomico (all’incirca 160 battute per minuto). Si tratta di quel tipo di poliritmi che impiegava Elvin Jones nel costruire i suoi tappeti di batteria. In conclusione di sezione compare, quasi per inerzia, una certa connotazione armonica che ho sfruttato come ponte per procedere verso la fase conclusiva della suite. Questo quarto movimento risolve la tensione espressiva che ho cercato di creare sino a quel momento. Ho qui impiegato un’armonia più schiettamente tradizionale con una serie di modulazioni su diverse tonalità. Il risultato richiama alla mente cose jarrettiane e metheniane. Chiusura pop, certo. Niente da dire.


2.


Il secondo brano, improvvisato in duo con Maurizio Lesmi al sax soprano, è invece diviso in due parti. La prima è introdotta dal soprano che compie un lavoro melodico e suona un tema con note poste ad intervalli di quarta ascendente. Sul tessuto melodico intervengo con un ritmo su pulsazione, simile nella costruzione a quello adottato nella terza sezione del primo brano, ma questa volta con un piglio più “funk”: intendo nel tipo di intenzione, non nelle note scelte, che nulla hanno a che fare con quel tipo di idioma. Sono Ornette Coleman e ancora Cecil Taylor a fare capolino nelle pieghe della musica. La sezione che conclude l’intervento è giocata sul parametro timbrico. Il pianoforte mette in dialogo suoni del registro basso e di quello sovracuto con diverse intensità dinamiche (da piano a fortissimo). Ho accentuato il valore timbrico pizzicando talvolta con il polpastrello direttamente le corde. Il crescendo finale è condotto dal soprano in una sorta di reminiscenza delle esplorazioni sulla respirazione circolare fatte da Evan Parker.



Haecceitas di Luca Casarotti è una riflessione in musica su questo momento. Aghi di pino. Di cosa è fatto un momento?  Un mazzetto di lavanda per confondere, far perdere la traccia agli insetti. Cosa rende il momento questo, quando stacchi il pilota automatico della giornata da-mane-a-sera e ti fermi a pensare che ci sei? Cinque formiche nello spazio compreso tra due ciuffi d’erba, le loro traiettorie sembrano casuali ma c’è un confine non visibile oltre il quale non si spingono. L’ecceità è l’unicità molteplice del momento, l’interazione di tutti gli elementi percepiti nel loro gioco. Grani di pepe, minuscole pozzanghere d’aceto, un monticello di polvere di caffè, un manto di foglie di pomodoro triturate: sono i residui di un tentativo ecologicamente non troppo scorretto di allontanare le formiche dal giardino. A volte la musica ci fa avvertire l’ecceità dell’istante, ed è un paradosso, perché la condizione per avvertire l’ecceità è scordarsi che la musica è musica, ovvero scansione, divisione del tempo in misure, organizzazione di un avvicendarsi di suoni, compromesso tra movimento lineare e movimento ciclico. Le cinque formiche fanno lo slalom tra gli odori che detestano. L’ecceità stessa è un paradosso, perché il linguaggio è inadeguato a descriverla: un singolo, irripetibile momento avvertito nella sua pluralità, nel suo brulicare di differenze. Tutto ciò è inquadrato con lo sguardo rasoterra, ad altezza di gatto mezzo appisolato ai piedi del pino, tra gli aghi. C’è singolarità del momento, ma il momento è nel divenire, nella progressione che altera gli equilibri. Il gatto non è del mondo delle formiche, e nemmeno del mondo dell’umano che tenta di scacciarle. I vari elementi che giocano insieme per rendere il momento questo (haec) e non altri – non quello prima, né quello dopo, né quello percepito dalla persona accanto a me – giocano insieme adesso, in questo preciso battito di ciglia, e all’istante cambia tutto, arrivano nuove immagini, nuovi suoni e profumi (o puzze), il pensiero corre lungo altre vie di sinapsi. Il gatto è in un terzo mondo, non comprende né si cura della lotta in corso in questo preciso attimo, questo attimo uguale a nessun altro. Forse la musica improvvisata si presta maggiormente a «fotografare» l’istante, ma se ascoltiamo una registrazione, allora non si tratta più dell’istante in cui viene improvvisata, ma di quello in cui viene ascoltata. Il gatto se lo gode, vive nella singolarità, interessandosi dei suoni e odori tutt’intorno. Noi sappiamo che la musica che ci entra nelle orecchie è stata improvvisata, e questo momento si concatena a quel momento. Il gatto ama in particolare le frequenze sopra i cinquecento hertz, anche se nel suo mondo non esiste il cinquecento (il concetto di «cinquecentità») e non c’è alcuna misura in hertz. Io sono qui, Haecceitas è la colonna sonora dell’istante, ma l’istante è fatto anche di pensiero che corre al 23 giugno 2011, una sala di Bergamo, un pianoforte, un sassofono. A poca distanza dal giardino, una specie di ticchettio zoppo: sarebbero centosessanta battute nell’ultimo minuto, se nei mondi del gatto e delle formiche nervose esistessero la divisione in minuti e la centosessantità. Il sole è alto ma velato dalla cappa di umidità che veleggia sul paesino. Che cos’è quel ticchettio? E’ la lamella allentata di una veneziana mossa dal vento.

Più tardi, nel pomeriggio, il gatto non è più al suo posto, le formiche non si vedono, la miscela di odori a esse sgradite, pepe aceto caffè pomodoro e lavanda, non dispiace alle narici dell’umano, si avverte un equilibrio nelle essenze (e dunque nell’offensiva contro il formicaio), non vi è stata esagerazione. Adesso una radio è accesa, ma dalla veranda si sente appena. Tappeti orientali di voci. [WM1]


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Published on November 07, 2013 06:20

November 5, 2013

Wu Ming + TerraProject = 4. Un viaggio di fotografie e racconti.

Sulla strada per Calitri, Irpinia, Gennaio 2007.

Sulla strada per Calitri, Irpinia, Gennaio 2007.


Questa è la breve storia del nostro primo libro fotografico (se mai vedrà la luce).

Ed è la breve storia di un nuovo “progetto transmediale multiautore” che ci vede coinvolti.


All’inizio – ormai sette anni fa – 4 era un reportage, un progetto di fotografia documentaria immaginato da TerraProject.


Michele Borzoni, Simone Donati, Pietro Paolini e Rocco Rorandelli hanno percorso l’Italia in cerca dei quattro elementi primordiali: Aria, Acqua, Terra, Fuoco.

Hanno immortalato l’inquinamento industriale, la cementificazione delle coste, le crepe di vecchi e nuovi terremoti, l’attività dei vulcani.

Hanno trovato un linguaggio comune, un’unità stilistica e di costruzione dell’immagine che va ben oltre la scelta del formato quadrato.


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Ricordo alcuni loro scatti su un vecchio numero di Internazionale, ma allora non sapevo ancora chi fossero.

Poi, nel maggio 2010, ci arriva la mail di un “collettivo di fotografi fiorentini”, con oggetto: “fotografia collettiva – prova contatto”.  La proposta di collaborazione è ancora vaga, si parla di “legare forme di scrittura a narrazioni visive”, di una mostra da tenersi a Firenze, di un catalogo da stampare in proprio.

Da lì, dopo varie prove e rimuginazioni, nasce l’idea di usare le immagini del reportage come tarocchi narrativi: selezionarne alcune, metterle in fila, ricavarne racconti. Non le storie immortalate dalle inquadrature – ché per quelle parlano già le foto – ma intrecci nuovi, monologhi dove i singoli elementi narrano in prima persona e gli uomini non sono mai protagonisti. Quattro favole patafisiche che mescolano miti e geologia, cronaca e invenzione, immagini e parole. Quattro racconti scritti da Wu Ming 2, cercando di tradurre il senso dei singoli reportage in una trama inedita e in una lingua d’aria, d’acqua, di terra e di fuoco.

Renata Ferri ci ha aiutato a scegliere le immagini, a calibrare i testi, a unire i due ingredienti in un ibrido fecondo.

Ramon Pez ha concepito il design e la grafica del libro illustrato – che poi sono diventati 4 libri in una confezione unica.

Daria Filardo si è presa cura della mostra, dove le 4 storie generano 4 audioracconti e un reading di 40 minuti.

Anna Iuzzolini ha coordinato l’intero progetto e ci ha impedito di perdere pezzi per strada.


Ma al termine di tutto questo lavoro, sette anni dopo l’idea iniziale, 4 non è ancora finito.

La stampa del libro, infatti, è legata a una campagna di crowdfunding, e le 1000 copie di carta e colla si potranno toccare solo grazie alla raccolta di 520 quote da 25 euro, entro il 23 dicembre 2013.


La mostra, invece, sarà a Firenze dal 9 al 30 novembre, allo spazio espositivo delle Murate.

L’inaugurazione è per sabato 9, alle ore 18, con una lettura concerto di Wu Ming 2 accompagnato da Giovanni Azzoni e Michele Freguglia di Frida X.

Il conto sulle dita è cominciato: 1..2..3…



4 – UN LIBRO DI FOTOGRAFIE E RACCONTI from TerraProject Photographers on Vimeo.


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Published on November 05, 2013 12:43

November 4, 2013

Difendere la Terra di Mezzo. Data di uscita e prime presentazioni

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Difendere la Terra di Mezzo (Odoya 2013), il libro che raccoglie e amplia gli scritti e gli interventi pubblici di Wu Ming 4 su J.R.R. Tolkien, sarà in libreria il 28 novembre.


Entro quella data ci sarà una seconda tappa di avvicinamento (dopo quella di Lucca Comics & Games di domenica 3 novembre), dove Wu Ming 4 affronterà alcuni dei temi trattati nel libro:

- Trento, mercoledì 13 novembre, Università degli Studi, Dipartimento di Lettere e Filosofia, aula 1, nell’ambito del seminario permanente intorno al mito:

09:00, Fulvio Ferrari, Eroismo/Antieroismo: la riproposta del mito germanico.

10:00, Alessandro Fambrini, Science Fiction, Fantasy e mito.

11:00, Wu Ming 4, Tolkien, l’immaginario nordico e il lavorio dei simbolisti.


La prima presentazione del libro si terrà il giorno stesso dell’uscita:

- Bologna, giovedì 28 novembre, libreria Feltrinelli, Piazza di Porta Ravegnana 1, ore 18:00.


Si replicherà poi al Festival della piccola e media editoria, insieme a Roberto Arduini:

- Roma, venerdì 6 dicembre, Più Libri Più Liberi, sala turchese, ore 15:00.


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Published on November 04, 2013 04:53

October 27, 2013

#PointLenana: calendario novembre-gennaio, «Speciale di speciali», recensioni, interviste, video

SULLO SFONDO IN SECONDO PIANO AL SOLE, FORCELLA MARMOLADA DALLA VAL CONTRIN! A DESTRA IN PRIMO PIANO IN OMBRA LA CIMA OMBRETTA SEMPRE DALLA VAL CONTRIN!”

Point Lenana è tornato in Val di Fassa grazie ad Andrea Camilli e Sara Bonfili. Veduta dalla Val Contrin. Sullo sfondo, la Forcella Marmolada (2896 mt); in primo piano, la Cima Ombretta (3011 mt).


[Sono passati sei mesi dall'uscita di Point Lenana, sei mesi passati on the road.  La fatica si fa sentire, il tour rallenta, ma prosegue e durerà fino a febbraio. Arriveremo a una settantina di presentazioni.

Il libro è alla seconda edizione in Italia e stiamo negoziando per un'edizione britannica. Un libraio ci ha detto: «Se il passaparola continua così, Point Lenana sarà uno dei rari casi di libro "natalizio" uscito ad aprile.» Forse esagerato, ma è vero che tante persone lo stanno scoprendo solo adesso, come molti articoli e recensioni escono solo adesso. «Point Lenana è un diesel», ha detto Paolo Repetti.

Non era scontata questa buona accoglienza, non lo era per niente. Si è dovuta perforare una sottile membrana di stupore e diffidenza. Si trattava di un'uscita molto spiazzante, anche perturbante. Bisognava accompagnare il libro in giro per l'Italia, far vedere e far sentire che ci credevamo e ci crediamo. Ora si è creato un circolo virtuoso tra sentieri di montagna e librerie, nonché tra carta e rete. Di questo circolo virtuoso beneficia anche la riedizione di Fuga sul Kenya di Felice Benuzzi, "classico sconosciuto" che sta finalmente uscendo dalla nicchia editoriale in cui era confinato da decenni.

Grazie a tutte e tutti, per averci creduto anche voi. Si va avanti. Ecco il nuovo speciale. C'è un sacco di roba. Buona lettura, buone visioni, buone scarpinate.]-

-

Da Il Manifesto, 05/10/2013:


ASSALTO ALLE TRINCEE STORIOGRAFICHE


di Alberto Prunetti



Alberto Prunetti

Alberto Prunetti


Il collettivo di narratori Wu Ming ci ha abituati a salti improvvisi di paradigma. Spiazzano tutti anche stavolta, a parte forse i lettori più attenti che sul blog-comunità Giap li accompagnano nell’evoluzione delle loro scelte narrative. Nell’ultima fatica, Point Lenana (Einaudi, euro 20), frutto della collaborazione di Wu Ming 1 con Roberto Santachiara, ci sono almeno due elementi di discontinuità con il passato. Innanzitutto, la scelta della prima persona, a tratti autobiografica (una soluzione adottata di rado dal collettivo); in secondo luogo, il fatto di aver scelto come principale attore di questa nuova storia non un’icona della sinistra o un eroe – magari dimenticato – della memoria popolare ma un personaggio sfaccettato e a prima vista tutt’altro che attraente. Il protagonista di Point Lenana è infatti Felice Benuzzi, prigioniero di guerra italiano che evade nel gennaio 1943 da un campo di prigionia inglese in Kenia e compie con due sodali un’impresa memorabile: scalare una punta del Monte Kenia (che dà il nome al libro) per poi ritornare, con un gesto di fair play , al campo di detenzione. Una scalata che rappresenta un superamento del fascismo e il recupero della propria dignità, costretta in un contesto carcerario. Ma Point Lenana non è solo la storia di un’evasione né la biografia di un alpinista. Il libro, come ha dichiarato in un’intervista Wu Ming 1, diventa l’occasione «di una scorribanda nel Novecento italiano».

Gli autori di Point Lenana camminano sulla pista di Benuzzi («scrivendo con i piedi») e attivano varianti su quel cammino che li conducono a Trieste, con la persecuzione fascista delle minoranze slovene, poi nei Balcani, in Libia e in Etiopia, riportando alla luce le vergogne e i crimini del ventennio fascista e del colonialismo italiano, come l’uso di armi chimiche quali l’iprite per lo sterminio delle popolazioni civili praticato, prima che in Siria, dagli italiani in Libia: un crimine di guerra negato per anni da tanti storici e giornalisti, a cominciare da Indro Montanelli. Itinerari così poco lineari che si possono cartografare solo con un mezzo molto più duttile e versatile del saggio accademico o del romanzo di finzione. Stiamo parlando di un «meta-genere narrativo», un ibrido letterario tra fiction e no fiction, tra saggio, memoria di viaggio, inchiesta storica o giornalistica, che i Wu Ming chiamano «oggetto narrativo non identificato». Difficile da collocare nelle collane e negli scaffali delle librerie, Point Lenana vive infatti in un regno di mezzo tra saggio e narrativa, con l’esposizione nel racconto delle fonti della ricerca documentale, la citazione di materiali iconografici, il dialogo con le scritture testimoniali e la bibliografia che espande l’opera e compie connessioni e agganci.

La scelta di Wu Ming 1 e Santachiara non è comoda. Ci vuole coraggio per prendere come «eroe» un personaggio difficile, con un piede nello scetticismo verso il regime – che non è ancora antifascismo ma che gli basta a sposare un’ebrea berlinese a pochi giorni dall’approvazione delle leggi razziali – e un altro in una carriera diplomatica. Qualcosa di diverso da quel «disseppellire le asce di guerra» che già il collettivo di storyteller avevano messo in cantiere con la storia di Vitaliano Ravagli. Il nuovo progetto solista ha forse più debiti con un’altra scrittura «meticcia», Timira di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, che ricostruisce magistralmente la vita di Isabella Marincola. Una scelta che all’inizio risulta spiazzante e che poi, per i miracoli delle macchine narrative dei Wu Ming, funziona alla perfeziona e rischia di aprire falle devastanti nelle trincee storiografiche degli «italiani brava gente».






N.B. A proposito di Prunetti, del suo libro Amianto e degli “oggetti narrativi non-identificati”, si veda questa conversazione a tre con Prunetti, WM1 e De Michele .





-


POINT LENANA, UN LIBRO DI INCHIOSTRO E ROCCIA



La rivista on line Q Code Mag ha dedicato uno speciale non tanto e non solo al libro, ma a quella che un giapster ha scherzosamente definito la Point Lenana experience, formula che allude all’insieme di pratiche, viaggi, gesti, camminate, arrampicate, pellegrinaggi e performances fiorito intorno al tour di presentazioni – tour divenuto a sua volta, come abbiamo già scritto, un’opera transmediale. Tiziano “Occhiopesto” Colombi conclude così la sua riflessione (sottolineatura nostra:


«Quello che è successo a Point Lenana segna, forse, una via che va oltre la sperimentazione: nell’epoca digitale è l’oggetto libro, fatto di carta e inchiostro ad aver permesso un’integrazione innovativa tra il web e la polvere della strada.

Sono in molti ad aver camminato con una copia di Point Lenana nello zaino, gli scarponi nei piedi e in testa un mare di storie, e sembra che la scalata sia destinata a continuare.»


Occhiopesto è anche l’intervistatore di WM1 nel video di Umberto Diecinove incorporato sopra, girato durante un’escursione in Val Gravio (Val di Susa).






N.B. Se qualcuno, dopo avere visto il video, vuole approfondire gli spunti sulla “montagna ribelle”, come prima lettura consigliamo il libro di Marco Armiero Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX .




-


[Una delle presentazioni più belle - tanto da essere definita su Twitter "la madre di tutte le presentazioni"! :-D - si è svolta a Pavia l'1 ottobre scorso, con la presenza di entrambi gli autori presentati da Mauro Vanetti e Girolamo De Michele, con la collaborazione musicale di Luca Casarotti. Poco prima della serata, lo scrittore e blogger Angelo Ricci ha intervistato WM1. Ricci non usa il registratore ed è interessante il suo modo di prendere appunti: ciascuna domanda è scritta su un foglio A4, per il resto assolutamente bianco. Mentre l'intervistato risponde, Ricci riempie lo spazio vuoto, poi passa al foglio successivo. L'intervista è apparsa sul suo blog Notte di nebbia in pianura. La riportiamo anche qui.]

Point Lenana. Come nasce questa collaborazione narrativa tra Wu Ming 1 e Roberto Santachiara?


Nasce da un’intuizione folle di Roberto Santachiara che mi fece leggere Fuga sul Kenya, di Felice Benuzzi e mi disse che, a questo proposito, mi doveva proporre una cosa. Ho letto quel libro e mi è piaciuto subito. Fuga sul Kenya era una sorta di ossessione che da tempo accompagnava Roberto. C’erano da scoprire e ricostruire accenni, punti di contatto, momenti nascosti e a volte criptici del passato di Benuzzi. Fuga sul Kenya rappresentava una specie di “evento matrice”, un evento che poteva aprirsi su altre storie, altre narrazioni. Roberto aveva bisogno quindi di un narratore che sapesse muoversi tra gli archivi, le storie, i documenti. E poi mi ha proposto di andare con lui sul monte Kenya. Da questi fatti nasce la collaborazione che ha portato alla stesura di Point Lenana.


Come avete collaborato, in senso propriamente tecnico, tu e Roberto Santachiara?


Roberto è stato il creatore, il portatore di questo “evento matrice”. Ha animato la volontà di giungere a questa narrazione. È stato sempre presente e sempre molto vicino a questa creazione. Ci siamo continuamente confrontati. Io mi sono fatto carico dell’onere dell’organizzazione e della stesura in senso narrativo.


Il collettivo Wu Ming, penso a quello che teorizzate da sempre, come per esempio nel vostro saggio New Italian Epic, interpreta il divenire storico trasfigurandolo in quello che definisce “sguardo obliquo”. Come si incardina Point Lenana in questa definizione?


Point Lenana è l’apoteosi dell’obliquità. È l’opera che inizialmente ha lasciato più perplessi diversi lettori “storici”, poteva sembrare una bizzarria. Una serie di storie incastonate le une nelle altre e che ha dovuto in qualche modo perforare la membrana, il feedback che c’è tra noi e la comunità dei nostri lettori. Point Lenana è il frutto di quattro anni di lavoro fitto. C’era la necessità di risolvere problemi di montaggio, di coordinamento tra le storie, tra i piani narrativi. Point Lenana rappresenta appunto quel nostro “sguardo obliquo” sul Novecento. Attraverso la storia di Felice Benuzzi raccontiamo l’irredentismo, il fascismo, il ruolo dell’Italia nella seconda guerra mondiale, la guerra fredda, il colonialismo.


Quanto per i Wu Ming è importante la ricerca dei punti sconosciuti, delle interzone, di quelle che si possono quasi definire fratture spaziotemporali del divenire storico?


Per noi sono luoghi e momenti fondamentali ai fini di quello che definiamo lo “sguardo obliquo”. Raccontare la grande storia attraverso le piccole storie. A differenza dei romanzi ucronici, che presentano una realtà storica completamente alternativa, noi scriviamo romanzi ucronici potenziali. Raccontiamo vicende che si sviluppano in quei momenti storici nei quali tutto può ancora accadere, biforcazioni temporali in atto, dove potenzialità in divenire possono ancora evolversi verso differenti direzioni.


Nelle vostre opere trovano spazio contaminazioni e ibridazioni letterarie, storiche, narrative. È questo il traguardo a cui doveva arrivare il romanzo dal suo punto di partenza, quello cioè del romanzo dell’Otto e Novecento?


È difficile dirlo perché la definizione stessa di romanzo è diventata sempre più inclusiva. Nel Novecento, per esempio, vengono definiti romanzi opere che invece non sarebbero state definite tali nell’Ottocento. Il canone romanzo si è ampliato e oggi la definizione della sua struttura è molto sfuggente. La definizione di questa categoria è ancora aperta e in continua mutazione anche spaziotemporale. Pensiamo a un romanzo del Settecento come il Tristram Shandy di Sterne, che ha caratteristiche simili a certe avanguardie che sono apparse solo due secoli dopo. Io stesso non saprei come definire Point Lenana, non mi sentirei di etichettarlo, di inserirlo in una categoria. L’importante è comunque raccontare storie. Con qualunque mezzo.


Mi pare di ricordare che i Wu Ming lavorassero a un nuovo romanzo, un romanzo che prendeva le mosse da un’altra interzona storica, gravida di sviluppi e di sguardi obliqui: la rivoluzione francese. A che punto è questo progetto?


Lo consegneremo a dicembre e, se tutto va bene, uscirà ai primi di marzo del 2014. E’ un romanzo su ipnosi e Terrore (il Terrore robespierriano). Uscirà sempre per i tipi di Einaudi Stile Libero e si intitolerà L’armata dei sonnambuli.



Graziani..........

Chiappe al vento. Una delle fotografie che Rodolfo Graziani spedì da Addis Abeba a Roma nel 1937 per far vedere che era in perfetta forma fisica. Mossa che seminò tra i gerarchi del regime  seri dubbi sulla sua salute mentale. Poco dopo, fu rimosso dall’incarico di Vicerè d’Etiopia e sostituito da Amedeo di Savoia, duca d’Aosta. L’episodio è narrato in Point Lenana. Questa e altre immagini si trovano sulla bacheca Pinterest dedicata al libro, clicca per visitarla.


[L'ultimo numero della rivista bimestrale Pagina Uno contiene un bello speciale Point Lenana dal titolo bislacco e arguto. Recensione e intervista a cura dello scrittore (e alpinista) Massimo Vaggi. Buona lettura.]


DALLE ALPI (QUELLE VERE) ALLE PIRAMIDI (METAFORA)

Conversazione con Wu Ming 1 a proposito di Point Lenana


di Massimo Vaggi


Massimo Vaggi

Massimo Vaggi


Felice Benuzzi fu scalatore, scrittore e funzionario diplomatico. Nell’ordine. Fu anche prigioniero di guerra: nel 1943 evase con due compagni di avventura dal campo Pow di Nanyuki per scalare il Monte Kenya, 4.985 metri sul livello del mare, respirare per qualche ora l’aria rarefatta di un quasi cinquemila e tornarsene dopo 17 giorni al campo di prigionia, dove si presentò a un ufficiale inglese che non fatichiamo a immaginare stupefatto, forse più di quanto non fosse imbestialito. Probabilmente, dunque, il nostro fu anche un visionario scriteriato.


Benuzzi avrebbe narrato l’impresa in Fuga sul Kenya , e nella sua versione inglese, No picnic on Mount Kenya, non del tutto identica a quella italiana, che ha conosciuto un grande successo internazionale


Non è difficile immaginare che ciò che di questa vicenda Roberto Santachiara e Wu Ming hanno ritenuto straordinario non è la storia, per quanto affascinante ma troppo densa di fascismo e nazionalismo, di un prigioniero di guerra che si fa beffe con un solo gesto degli inglesi e della montagna. Non vi riconoscono la truculenza della peggiore iconografia alpinistica, quella dell’uomo fotografato nell’atto di vincere la montagna dopo averla ingannata, per aver saputo scegliere quelle strade che il dio delle rocce ha dimenticato di disseminare di difficoltà insormontabili, per aver evitato valanghe e slavine, per aver affrontato i pericoli sino al limite, e a volte un poco oltre, delle sue possibilità. Non vi leggono la retorica dell’italianità e del riscatto, né l’esaltazione della forza fisica. Ciò che è sorprendente, nella vicenda di Benuzzi e dei sue due strampalati amici, è l’assenza di tutto questo, o forse, e meglio, l’indifferenza nei confronti di ciò che rappresenta.


Ma come? Non è l’orgoglio smisurato e la consapevolezza di aver vinto, vinto, vinto, che gonfia il petto di un alpinista e fa proporre il “saluto alla vetta” anche quando la vetta è poco più di una collina?


Nella lettura della vicenda di Benuzzi non c’è il senso della vittoria, pare ci sia invece una proposta di armonia e quasi dissoluzione nella perfetta potenza della montagna. Sensazione non nuova, per chi frequenta a diverso titolo l’alpinismo, e sensazione comune a tutti coloro hanno sperimentato l’assoluta nullità di qualunque io di fronte ai paesaggi infiniti di una savana al termine della quale possono alzarsi montagne o catene dai nomi evocativi come Kilimanjaro, Ruwenzori, Kenya…


A me piace immaginarlo così, Felice Benuzzi, e così lo lasciano immaginare Roberto Santachiara e Wu Ming 1: seduto sulla cima, felice di nome e di fatto, ma non certo pronto a urlare al mondo della sua vittoriosa impresa, ma invece a ridere della sua impresa (senza aggettivi), nella quale l’elemento umano e quello sportivo si dissolvono nella consapevolezza che è finita, siamo arrivati, torniamo. Senza sfida, con ironia e amore.


Una vicenda affascinante, tanto più se contestualizzata negli anni in cui l’alpinismo andava impregnandosi, anche per volontà feroce del CAI e del suo presidente Manaresi, delle parole e delle icone del fascismo. Erano fascisti gli scalatori dell’ambiente triestino dove Benuzzi si formò, anche i più famosi e controversi come Emilio Comici, ma – questa sembra essere la domanda – era necessariamente fascista anche il loro modo di intendere e proporre l’alpinismo, e cioè il rapporto con la montagna?


Molti anni più tardi Benuzzi avrebbe condiviso quest’affermazione:



«Per wilderness montana intendiamo quegli ambienti incontaminati di quota dove chiunque ne senta veramente il bisogno interiore può ancora sperimentare un incontro diretto con i grandi spazi e viverne in libertà la solitudine, i silenzi, i ritmi, le dimensioni, le leggi naturali, i pericoli.»



E dunque eccolo lì, il Felice felice, a sperimentare la solitudine di vetta.


Ma, una volta immaginatolo sulla cima del Monte Kenya, si comprende la decisione degli autori, che rifiutano di raccontare la storia di quella scalata cogliendo a piene mani dal libro del protagonista (di cui peraltro si parla ampiamente, ma del suo successo editoriale, delle sue due versioni, delle sue riduzioni cinematografiche…), e invece decidono di riviverla in prima persona. Come se nessuna scrittura fosse possibile se non dopo aver ripercorso gli stessi sentieri, e calpestato gli stessi sassi.


Un alpinista come Roberto Santachiara e un figlio della pianura totale, per dirla alla Piovene, come Wu Ming 1, arrancano (più il secondo che il primo) ad altezze desuete sino a raggiungere Point Lenana (e siamo solo all’inizio del libro). Perché lo fanno? Wu Ming 1 ha dichiarato a un intervistatore [Lorenzo Filipaz, N.d.R.] che



«Uno scrittore dovrebbe mettere alla prova la propria scrittura, favorirne l’evoluzione o addirittura forzarla, mettendola a contatto con esperienze che facciano da reagenti. Uso esperienze nel senso più pieno della parola, esperienze-limite che muovano il corpo come non si era mai mosso prima. Non ci si pensa mai, ma scrivere è un atto fisico, è un’azione del corpo. Quello che scrivi dipende dalla postura che assumi, da come il tuo corpo interagisce con lo spazio intorno. …. Per me è stato così: gli appunti che ho preso sul massiccio del Kenya, marciando a corto d’ossigeno, o in uno dei rifugi dove abbiamo dormito, o seduto su un lastrone di basalto, circondato da iraci che saltellavano sulle rocce, contengono concatenamenti di immagini che, riletti a mente fredda, hanno sorpreso anche me. Da quegli appunti ho sviluppato lo stile di scrittura della prima parte di Point Lenana, una lingua e un modo di passare da un tema all’altro, da un episodio all’altro, che non ritrovo in nessun altro libro uscito dalla fucina Wu Ming .»



Con questa precisazione, Wu Ming 1 risponde in modo implicito alla lettura più semplice di Point Lenana, secondo la quale sarebbe la traduzione narrativa delle tesi sviluppare in New Italian Epic. In quel saggio, che continua a rappresentare, per chi lo voglia e anche per chi non lo vuole assolutamente, un punto di vista e una lettura delle vicende della narrativa italiana recente da cui è difficile prescindere, il collettivo Wu Ming disegna e definisce le caratteristiche più feconde della migliore produzione nostrana: il mix di narrativa e saggistica, uno sguardo “obliquo”, la dimensione epica, che fanno di un romanzo un UNO (Unidentified Narrative Object).


Facile dunque ritenere che Point Lenana volesse costituire la logica conseguenza di una scelta teorica. Wu Ming 1 rifiuta però questa visione un poco meccanica, valorizzando al contrario il rapporto di consequenzialità con l’esperienza fisica (come se le tesi sviluppate in NIP fossero state da un lato “digerite” e ormai parte di una propria consapevolezza di scrittore e dall’altro fosse stata ribadita l’inesistenza di ogni velleità di costruire intorno a quelle tesi, così fortemente criticate e combattute, una corrente letteraria). Il collettivo Wu Ming d’altronde non ha mai fatto mistero di questa regola aurea: chi se ne frega dei critici e delle tesi. Ciò che importa è la prassi.


Prassi, sassi, piedi, fatica e appunti.


Eppure, se Point Lenana non è la rappresentazione narrativa delle tesi di NIP, ne costituisce in qualche modo una fotografia.


Come in ogni UNO che si rispetti, e forse al di là del prevedibile, gli autori approfittano della vicenda di Benuzzi per costruire una trama iperbolica di riflessioni storiche, di indagini, di giornalismo, connotate in modo quasi maniacale da quella che il romanzo definisce “acribia” della ricerca documentale. Una mole enorme di libri giornali riviste fotografie interviste film documentari. Tutto a bollire per restituire al lettore una visione piramidale dell’esistenza, dove la cuspide è costituita dalla vita del personaggio o dalla sua esperienza e la base da tutto il resto: in quale città nacque il nonno di Felice Benuzzi? E cosa accadeva in quella città e intorno a quella città? E alla Storia degli uomini e delle nazioni, in quei giorni? E alle società alpinistiche? E alla Libia e ai suoi guerriglieri, all’Etiopia e ai combattenti ustionati dall’iprite, al Negus Neghesti, agli inglesi, alla figlia di Benuzzi, a Emilio Comici, ai Gikuyu? E’ vero che per comprendere cosa fece Felice Benuzzi è indispensabile conoscere qualcosa dei Mau-Mau o di Omar Al-Mukthar?


Forse no, non è affatto indispensabile. Ma dalla vetta di un quasi cinquemila la prospettiva appare più ampia, e meno concentrata è la visione. Che sia per un’esperienza fisica o per una scelta consapevole, lo sguardo degli autori si propone come se venisse da lontano, sempre più da lontano, per questo motivo capace di abbracciare tutte le storie della Storia. La scommessa, in questi casi, è l’acutezza della visione.


Ebbene questa sì – direbbe Manaresi se fossimo nel ’40 e se gli autori fossero portati ad esempio di italico ingegno e fascistissima volontà – è scommessa vinta.


Perché le infinite trame che legano le vicende del duce a un’escursione nell’Antartide sono analizzate con la precisione dello storico: prova, questa, del fatto che la vita di chiunque può diventare un grimaldello per consentire la comprensione dei fatti della Storia, alla sola condizione che la lettura per quanto appassionata delle vicende non voglia prescindere dall’analisi rigorosa della documentazione. Eppure: se un elemento di collegamento deve essere immaginato, non lo vedo tanto nella vita di Benuzzi e nella possibilità che attraverso la sua cronologia possa essere rivista la storia italiana ed europea degli ultimi cento anni, quanto nel fatto che Benuzzi si è – per casualità – trovato ai confini di quella storia. Confini fisici, che accomunano Trieste, la Cirenaica e l’Africa Orientale Italiana nella cornice del delirio espansionistico del fascismo. Confini culturali, tracciati da un’idea di identità nazionale che nelle regioni che furono dell’Impero Asburgico vorrebbe contrapporre al multilinguismo e alla contaminazione l’imposizione di un’italianità fatta di cognomi storpiati e di repressioni durissime delle minoranze, e che in Libia e in Etiopia propone, senza peraltro ottenere successo plenario, il divieto della promiscuità razziale, la segregazione, l’apartheid. Figlie di un datato e profondissimo disprezzo: scriveva Ferdinando Martini, primo governatore civile dell’Eritrea (1897-1900) e Ministro delle Colonie (1915):



Ferdinando Martini«Chi dice che s’ha da incivilire l’Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza. Lo affermava il Munzinger trent’anni fa quando la schiettezza era lecita. All’opera nostra l’indigeno è un impiccio: ci toccherà dunque, volenti o nolenti, rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l’acquavite diurna… I colonizzatori sentimentali si facciano coraggio: fata trahunt, noi abbiamo cominciato, le generazioni a venire seguiteranno a spopolare l’Africa dei suoi abitanti antichi…»



Benuzzi, marito di un’ebrea, debitore della cultura austroungarica, amico di alpinisti sloveni, frequentatore di abissini, ha visto tutto questo. Non ha alzato la voce, non è diventato apologeta né brigante. Ha scalato il Monte Kenya, affermando nel modo a lui più congeniale un’idea di libertà.


Non è dunque la domanda che tutti sono tentati di fare e che gli stessi autori si pongono (“ che razza di libro è questo ?”) ma una diversa, alla quale vorrei una prima risposta:


Che razza di mondo ha visto, Benuzzi? Navi cariche di italiani brava gente che vanno a incivilire l’abissino?


Quando si attaccò l’Etiopia, c’era l’intenzione di fare tante cose all’abissino (e svariate cosette all’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina), ma «incivilire» non fu mai una di queste. Il regime strombazzò un sacco di cazzate ipocrite, perché nemmeno un regime fascista o nazista può dire apertamente che sta sferrando una guerra puramente offensiva, motivata soltanto da odio, interessi, desiderio di conquista e profitti. La guerra va sempre presentata come difensiva, come reazione a un attacco altrui, come azione preventiva contro un pericolo. La verità la trovi nel «verbale nascosto», in quello che i potenti si dicono in camera caritatis. Si capisce da questo l’odio per soggetti come Wikileaks, Julian Assange, Bradley Manning, Edward Snowden… Hanno reso noti i verbali nascosti. Le comunicazioni tra il duce e i gerarchi del regime sono macabre, ciniche, intrise di un razzismo esplicitamente rivendicato. E’ gentaglia che si compiace dei massacri, del numero di negri sterminati e anche delle balle che sta raccontando all’opinione pubblica. Ad Addis Abeba Benuzzi era un mezzemaniche, parte di un team che cercava di riconquistare la fiducia dei nativi dopo il sanguinoso viceregno di Graziani (un proposito assurdo, puro wishful thinking). Considerato il suo background, partecipò all’impresa coloniale senza fanatismi né eccessivi entusiasmi. Consideriamo che era cresciuto in una famiglia irredentista, seppure «mista» (mezza italiana e mezza austriaca). Era stato educato all’amor di patria e al culto di una «italianità» che a Trieste – per ipercompensazione rispetto a un’identità «bastarda» e di confine – è sempre enunciata in modo parossistico, estremo, caricaturale. Del resto, nemmeno nel resto d’Italia si è mai capito cosa sia, di preciso, questa «italianità». E’ una di quelle «idee senza parole», di quei concetti dati per non spiegabili, che secondo Furio Jesi sono alla base della cultura di destra (secondo lui ben rappresentata anche tra chi si crede di sinistra, e io sono d’accordissimo). In Etiopia, per l’Italia fu un disastro. Benuzzi ne fu consapevole più di altri, tant’è che non fu particolarmente nostalgico di quell’esperienza, non si confuse nel novero livoroso dei «reduci» organizzati, fu netto nel distacco dal fascismo. Detto ciò, non se la sentiva di buttare a mare quell’intera fase della sua vita. Anche perché, va detto, non tutti quelli che si trasferirono nell’Africa Orientale Italiana lo fecero perché fascistissimi credenti nel mito dell’Impero… Molti andarono nelle colonie perché nell’Italietta fascista si soffocava. In Africa c’era meno conformismo, perché il controllo sociale era meno stringente. La faccenda è complessa. Le (poche) pagine che Benuzzi scrisse in vecchiaia per ricordare quei giorni sono piene di amarezza. Rievocare era lacerante.


Che funzione – sociale, politica, storica, culturale – immagini per un’operazione di riflessione sul colonialismo italiano e sulle politiche di segregazione razziale? In altre parole, quanto ha pesato, sulla scelta dell’argomento, la possibilità di contribuire a restituire una più seria opportunità di fare i conti con il nostro passato?


Nell’introduzione a un suo libro del 2003, La nostra Africa, Angelo Del Boca faceva riferimento a due romanzi sul colonialismo italiano – Una pioggia bruciante di Franca Cavagnoli e Debrà Libanòs di Luciano Marrocu – e scriveva:



Angelo Del Boca«E’ confortante apprendere da questi due libri che crimini così gravi come quelli commessi a Debrà Libanòs e in cento località etiopiche con l’impiego dell’arma chimica abbiano trovato uno strumento di comunicazione così immediato ed efficace come quello del romanzo [...] L’opera narrativa può contenere un messaggio più facilmente assimilabile e svolgere un’azione propedeutica, colmare lacune e sanare ingiustizie. Anche questo modo di fare storia, attraverso il romanzo, può riconciliarci con ‘la nostra Africa’, che attende da noi non soltanto sospiri di nostalgia, ma anche l’ammissione, se pur tardiva, dei nostri torti».



Praticamente, era un passaggio di consegne e un’investitura. Del resto, sai meglio di me che Del Boca iniziò come scrittore. Dal 2003 a oggi, svariati altri romanzi si sono occupati del nostro rimosso coloniale. Secondo noi, ciò che vale per i romanzi, a maggior ragione vale per quelli che chiamiamo «oggetti narrativi non-identificati». La «narrativa di non-fiction», la non-fiction con tecniche letterarie, è uno strumento potentissimo.


Il libro fa vivere di storia, di Africa e di alpinismo. Ne esce l’immagine di un rapporto nato troppo tardi, quello tra la montagna e il suo bacillo dei sassi con chi per alzarsi dal livello del mare saliva la torre degli Asinelli. O è virtù di quella montagna, nel mezzo di tutto ciò che c’è intorno, e dunque il Kenya?


Dimentichi di precisare che la maggior parte degli studenti universitari non sale sulla torre degli Asinelli perché, secondo una radicata leggenda, chi ci sale prima della laurea non si laurea più. Detto questo, in Point Lenana riportiamo una sorta di sentenza sommaria del camerata Angelo Manaresi, che guardacaso era di Bologna – di più: era il podestà di Bologna! – ed è stato l’unico presidente nazionale del CAI di estrazione appenninica anziché alpina. Questa sentenza sommaria dice:



«Un giornalista che scriva di montagna senza esserci mai stato o che si sia accorto dell’esistenza di essa a quaranta o a cinquant’anni, dopo avere fatto nella sua vita tutt’altro mestiere, scriverà forse cose letterariamente egregie, storicamente giuste, scientificamente esatte, ma non porterà mai, nella sua prosa, ardore, serenità e convincimento.»



Io rientro nella categoria: mi sono accorto dell’esistenza della montagna a quarant’anni. A trentanove, per essere precisi. E ne ho scritto. Ho scritto cose letterariamente egregie? Storicamente giuste? Scientificamente esatte? Spero di sì! Quanto ai tre valori enunciati, non credo che la serenità sia utile per fare letteratura, ma ardore e convincimento mi sembra di averli dimostrati. Adesso un po’ di bacillo dei sassi ce l’ho anch’io, sto andando in montagna, sto facendo escursioni etc. Merito del Monte Kenya, certamente, ma ogni montagna è un Monte Kenya, ogni montagna è un deposito di storie. Io vado in montagna per cercarle.


Un aspetto che affrontate direttamente in alcune occasioni, ma che è ragione e senso di molte altre pagine (a partire da quelle su Emilio Comici), è quello di ciò che viene definito “ antifascismo esistenziale ”.


Emilio ComiciGirolamo De Michele ha scritto che la vicenda umana di Emilio Comici, a dispetto di tutta la propaganda di regime sul suo conto, dimostra «il fallimento dell’antropologia fascista». Comici si credeva e si professava fascista, ma il suo coltivare relazioni, il suo andare in montagna, persino la sua depressione bipolare lo allontanavano dall’idealtipo del maschio guerriero fascista. Forse sarebbe eccessivo, nel suo caso, parlare di «antifascismo esistenziale», forse è più giusto parlare di afascismo. «Antifascismo esistenziale» va bene per descrivere gli operai delle fabbriche del Nord e, più in generale, chi portasse avanti nella vita quotidiana microstrategia di resistenza al conformismo, alla pervasività della propaganda, alle intrusioni del regime nelle condotte degli italiani. Il Benuzzi che sposa un’ebrea tedesca pochi giorni prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali e la porta con sé in Etiopia, dove nessuno saprà che è ebrea, compie una scelta radicale, di consapevole sfida alla sorte e al regime. In questo caso, sì, penso si possa parlare di antifascismo esistenziale. Discorso che, attenzione, non ha nulla a che vedere col ciarpame caramelloso sul «fascista buono» di turno (Perlasca, Palatucci o chi altri), soggetto le cui buone azioni (a volte totalmente inventate, come si è appena scoperto di Palatucci) vengono strombazzate per redimere almeno in parte il regime. La categoria di «antifascismo esistenziale» serve a tutt’altro. Per esempio, a far capire l’inanità del luogo comune qualunquista: «Prima erano tutti fascisti, poi tutti antifascisti». E’ falso che gli italiani fossero tutti fascisti. Senza l’antifascismo esistenziale della classe operaia, coltivato sottotraccia per vent’anni, non sarebbero spiegabili i giganteschi scioperi contro la guerra del marzo ’43.



CALENDARIO DELLE PRESENTAZIONI DI POINT LENANA NOVEMBRE 2013 – GENNAIO 2014


4 novembre

BOLOGNA

h. 16:15 DAMS, via Barberia 4

Discussione sul libro nel corso di Storia e Media

tenuto dalla prof. Patrizia Dogliani


6 novembre

RAVENNA

h. 18.30, sala del Caffè Letterario

via Diaz 26

Nell’ambito della rassegna “Come gira il mondo”


29 novembre

GENOVA

h.19 Teatro dell’Archivolto

Sala Gustavo Modena

Reading da Point Lenana

e lettura in anteprima dell’ouverture del nuovo romanzo

L’armata dei sonnambuli

nell’ambito della “Notte degli scrittori”


12 dicembre

RONCHI DEI LEGIONARI (GO)

…anzi, RONCHI DEI PARTIGIANI

Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto

EMILIO COMICI BLUES

Dettagli a seguire.


14 dicembre

SCHIO

Funambolique & Wu Ming 1 nel reading/concerto

EMILIO COMICI BLUES

Dettagli a seguire.


9 gennaio

TORINO

Teatro Carignano

Reading da Point Lenana

e lettura in anteprima dell’ouverture del nuovo romanzo

L’armata dei sonnambuli

nell’ambito della “Notte degli scrittori”


16 gennaio

MORCIANO (RN)

Dettagli a seguire


25 gennaio

PADOVA

h. 16:30, luogo da definire

(comunque nel Quartiere 4)

Nell’ambito della rassegna “Un libro nel bicchiere”

Con WM1 ci sarà lo storico Santo Peli.


Seguirà un altro pugno di date – pochissime – nel febbraio 2014, infine il tour terminerà per lasciare spazio (e tempo) alle presentazioni del nuovo romanzo collettivo. Il reading/concerto Emilio Comici Blues, però, continuerà a girare senza scadenze. Per contatti, date etc. scrivere a Luca Demicheli dei Funambolique, bassluka@yahoo.it.

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Published on October 27, 2013 17:05

October 23, 2013

Il 19 Ottobre e la saggezza della Roma ribelle | #19O #OccupyPortaPia

Attenzione | In caso di lacrimogeni usare la maschera


di Giuliano Santoro (guest blogger)


«A giovano’,

sta mano po esse fero e po esse piuma.

Oggi è stata ‘na piuma…»


Come si smonta uno schema che sembra destinato a lasciarti annaspare nella palude del già visto? Il campo di forze che ha costituito la narrazione del 19 ottobre e la strana coalizione di soggetti che si è ritrovata in piazza e ha stracciato la sceneggiatura dell’annunciato remake del 15 ottobre 2011 fornisce una risposta interessante a questa domanda.

Siamo nell’Europa della fine della socialdemocrazia: trionfano le larghe intese e le grosse koalition. Ci troviamo nel paese sciagurato in cui la principale forza d’opposizione parlamentare lavora quotidianamente per svuotare le piazze e deviare l’attenzione dei cittadini su questioni marginali, quando non velenose. Girovagando in mezzo alle macerie della sinistra qualcuno spera ancora che dalla crisi si esca riaffermando le vecchie regole invece che imponendone di nuove. Dal canto mio, ho vissuto il clima e le riunioni di preparazione, le chiacchiere di attesa per strada e gli articoli allarmistici sui mass media, in una strana condizione di sospensione. Il caso ha voluto che nei giorni che hanno preceduto l’evento mi sia capitato di dover chiudere, assieme agli altri tre autori, le bozze della Guida alla Roma Ribelle cui stiamo lavorando ormai da più di un anno.


Attenzione | Riprese in corso, proteggere la privacy


Così sono sceso in strada inquietato dai fantasmi dell’allarmismo e sorretto dagli spiriti della rivolta romana, in preda a una specie di capogiro lisergico: Menenio Agrippa e i tribuni della plebe facevano capoccella dietro uno striscione sorretto da migranti, la maschera col pizzetto di Guy Fawkes mi appariva in mezzo ai baffoni dei militanti dei Volsci degli anni Settanta, le tende della acampada montate alla fine dello sciopero generale dei sindacati di base si mescolavano alle baracche dei calabresi venuti a Roma in fuga dalle fatiche contadine, i ritmi dei pink bloc della murga riecheggiavano le gesta del Tamburino che si lanciò contro le truppe di Napoleone III per difendere la Repubblica Romana del 1849.


Attenzione | In caso di cariche indossare il casco


Al netto di clamorosi casi di malafede, i giornalisti sono stati protagonisti di tragicomici numeri allarmistici prima e di assurde descrizioni guerrigliere e ci hanno messo qualche giorno a capire che il film che erano pronti a descrivere, che da qualcuno gli era stato promesso e che hanno continuato a girare sulle pagine dei loro taccuini, non è stato mai proiettato. Non era aria di rappresentazioni. Doveva essere la giornata dell’ «assedio» e della «sollevazione generale». Da mesi si annunciava il momento della Vendetta-con-la-V. In un certo senso tutto ciò è avvenuto, ma in forme felicemente inconsuete e probabilmente inattese per gli stessi protagonisti. Il 19 ottobre non è stato lo spazio d’inizio autunno dentro cui regolare questioni pendenti tra aree politiche. E non ci si è illusi di «fare giustizia» nello spazio di qualche chilometro di corteo. Al contrario, la saggezza della Roma ribelle sedimentatasi negli anni, quel misto di disincanto e senso di orgogliosa separatezza dalle beghe del potere che a volte viene scambiato per rassegnazione, ha trovato terreno fertile presso quelli che, nonostante il boicottaggio di Trenitalia e la crisi, hanno risposto alla chiamata dei movimenti di lotta per la casa di una città nella quale, come disse qualche anno fa a noi scolari diligenti un cattivo maestro, «si occupano le case fin dal tempo dei Gracchi».


Per costruire il frame si era parlato dell’arrivo dei No Tav a Roma, ma questa volta non c’erano fortini da accerchiare. Il potere, si sa, lavora più a fondo di una trivella dell’Alta Velocità, e i palazzi che ha ereditato come simbolo oggi sono vuoti, buoni giusto per archiviare faldoni e verbali compilati altrove. Così, in un gioco di inseguimenti semantici che ricorda i quadri di Escher più che le rappresentazioni statiche della guerra di trincea, man mano che il corteo avanzava e la città ribelle passava sotto i nostri occhi è diventato difficile capire davvero chi assediava cosa.


Ecco, vedi? Da lì si arriva su via Nazionale. È stato lì che i soldati nazisti nella Roma occupata spararono a Carlo Lizzani e ai suoi due compagni mentre facevano scritte in tedesco inneggianti alla Rivoluzione russa. A proposito, attento che adesso passiamo da CasaPound, pare che siano là davanti con caschi e bastoni a provocare i manifestanti. Lassù invece doveva esserci il parchetto dove il bambino Roberto Perciballi prese una sberla da un uomo in divisa e decise che qualche anno dopo avrebbe fatto il cantante punk nei coattissimi Bloody Riot. E poi, altro che petardi: la vera spina nel fianco del ministero delle finanze di via XX Settembre sono i rifugiati che occupano l’enorme stabile in piazza Indipendenza, alle spalle della sede governativa.


«Questi del Forte Prenestino tirano fuori l’autogestione anche nel giorno dell’assedio», dice il Duka commentando la coreografia con gli ombrelli degli attivisti del più antico centro sociale romano.



#19O video-tacco / #test from fratelli di TAV on Vimeo.


«Se prima eravamo tutti valsusini oggi siamo anche tutti romani», hanno detto gli organizzatori ai giornalisti. In effetti, i romani ribelli venuti da tutt’Italia sono gente abituata al fai-da-te: prima c’erano quelli che arrivavano alle porte della città e costruivano le loro baracche a ridosso delle mura storiche, assediando la città millenaria simbolo del potere eterno e sgretolando la severità di quell’Impero. Oggi ci sono gli occupanti di case, che riciclano il patrimonio edilizio dismesso e pretendono diritti di cittadinanza.


Attenzione | Zona bacio, max 1 minuto


Erano le migliaia di persone che a Roma vivono nelle occupazioni il cuore del corteo del 19 ottobre. Si trattava dei migranti che difendono le case assieme ai loro bambini e i precari che non possono permettersi un mutuo. Guido Lutrario, che per conto del sindacato di base Usb ha vissuto da vicino l’organizzazione del 19 ottobre, per descrivere questa composizione parla della «rabbia della parte più povera della società». Assieme a loro c’erano le facce viste in questi due anni di lavoro sotto traccia nelle nuove occupazioni e nei comitati di quartiere. Hanno disegnato un serpentone lungo e denso di storie, che ha letteralmente ribaltato il percorso tradizionale delle manifestazioni, scampando la coazione a ripetere della ritualità: dalla Porta che affaccia su Piazza San Giovanni si è risaliti oltre piazza della Repubblica per andare fino a Porta Pia, seguendo un tracciato che ha unito due punti delle diverse porte di accesso alla città. Quel percorso ha spalancato l’ingresso del centro di Roma e adesso dovrebbe andare dritta verso una sollevazione che ha bisogno di essere europea per superare i vincoli di bilancio che si sono materializzati nel corso dell’incontro tra i manifestanti e il ministro Lupi del 22 ottobre.


Anche il movimento spagnolo del #15M è arrivato a cogliere il nesso tra speculazione edilizia e bolla finanziaria occupando spazi fisici: almeno su questo siamo qualche passo in avanti. Per questo Roma, ormai da anni intesa quasi inconsapevolmente da molti come «territorio di conquista» dei cortei, «terra di nessuno» da attraversare per poi tornare alla propria città, con il #190 è tornata inattesa protagonista. Più di uno dei palazzi occupati si trova dalle parti della piazza dell’accampamento. Nessuno ha mai creduto davvero che la tendopoli precaria romana di Porta Pia potesse trasformarsi nella acampada madrilena di Puerta del Sol. Perché il tempo delle acampadas è passato da un paio d’anni e perché a Roma e in Italia, a differenza che a Madrid e nello stato spagnolo, i ribelli possono accomodarsi in quelle case vere da cui penzolano striscioni rossi. Dispongono di accampamenti di cemento e mattoni, di quelli che rimangono in piedi. Case sulle quali il lupo dei cattivi presagi ha soffiato invano il vento della diffidenza.


P.S. Restano da liberare gli arrestati durante il corteo. Anche per loro converrà imbracciare la bandiera dell’amnistia, checché ne dicano i tutori della legalità ad ogni costo di ogni parte politica.


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Published on October 23, 2013 06:50

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Wu Ming 4
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