Wu Ming 4's Blog, page 104

March 20, 2014

Peter Kolosimo, 30 anni «across the universe» (1984 – 2014)

Peter Kolosimo

Peter Kolosimo (al secolo Pier Domenico Colosimo) nel 1977. Clicca per ingrandire.


Speciale a cura di Wu Ming e Mariano Tomatis



Cos’è la tua più grande paura?

Il fascismo.

E cosa fai, concretamente, per eliminarlo?

Poco, troppo poco.

(Kolosimo intervistato da Playboy, novembre 1974)



Chi ha dai quarant’anni in su ricorda senz’altro Peter Kolosimo, «fantarcheologo», ufologo, sessuologo (!), esploratore del meraviglioso e divulgatore scientifico che negli anni ’60 e ’70, coi suoi libri visionari, fece sognare le moltitudini. Morì il 23 marzo 1984, a sessantadue anni, ma a noi piace pensare che abbia solo lasciato il pianeta, e sia tuttora in viaggio per l’universo.



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Ecco una cosa che molti hanno dimenticato: Peter Kolosimo era un comunista di quelli duri. E chissà che l’anno scelto per abbandonare la Terra – il simbolico, fatidico 1984, quello di Orwell e della Thatcher che reprimeva lo sciopero dei minatori – non sia già una dichiarazione, un messaggio da decifrare: il movimento operaio ha perso, riprende il dominio incontrastato dei padroni, si impone il totalitarismo del mercato e io vado, vado in avanscoperta, vado in cerca di altri mondi.


Lo diciamo da anni: Kolosimo è una figura da riscoprire, su cui interrogarsi, che può ancora dire e dare molto. Lo abbiamo scritto, lo abbiamo addirittura cantato.






Peter Kolosimo sul palco con il Wu Ming Contingent, centro sociale Strike, Roma, 13 febbraio 2014. Foto: D. De Gregorio.

Peter Kolosimo sul palco con il Wu Ming Contingent, centro sociale Strike, Roma, 13 febbraio 2014. Foto: D. De Gregorio.


Italia Mistero Kosmiko – 3’59″

Wu Ming Contingent – Italia Mistero Kosmiko (Peter Kolosimo)

Live in Correggio, 22/09/2013 – 3’59″



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Kolosimo fa parte di un mondo tipicamente Seventies, vivente nell’intersezione tra marxismo e scienze “altre”, tra UFO e rivoluzione.

Pur nelle diversità d’approccio, il suo percorso è parallelo a quello del leggendario trotskista italo-argentino Juan Posadas (1912 – 1981). Kolosimo indagava il passato, le origini extraterrestri delle civiltà umane; Posadas vaticinava l’avvenire, gli UFO ci parlavano di una società futura comunista. Entrambi dicevano, ciascuno a suo modo: gli alieni vivono in noi, siamo noi quegli «spaziali» di cui tutti parlano.



Terra senza tempo
, Non è terrestre, Astronavi sulla preistoria, Odissea stellare, Italia mistero cosmico… Titoli che non smettono di accendere fantasie. E quegli elenchi in copertina, a metà tra sottotitolo e “catenaccio” di giornale? «Ulisse vagabondo del tempo. Gli dei e lo spazio. Ciclopi in America? Mitologia d’altri mondi. Atomiche e robot nell’epopea omerica». Oppure: «Veicoli spaziali graffiti nella roccia. Marziani in Vietnam, elefanti in America. Razze sconosciute nelle giungle amazzoniche. Atomiche e laser prima del diluvio. Gilgamesh vive ancora?». Per non dire di “strilli” come: «La prima completa documentazione fotografica di archeologia spaziale – 300 illustrazioni». Copertine geniali, che ti spingevano a prendere subito posizione: rigetto veemente o febbrile voglia di acquisto, non c’era via di mezzo.


Peter Kolosimo, Odissea stellare, 1979


Quei libri, editi da SugarCo, erano grande narrativa popolare travestita da saggistica, li vedevi in tutte le case, vendevano centinaia di migliaia di copie. Peter Kolosimo è uno degli autori italiani più tradotti nel mondo, pubblicato in 60 paesi.


Attenzione, però, a non confonderlo coi vari Voyager e Kazzenger odierni, coi pataccari che ce la smenazzano a colpi di piramidi magiche e Priorati di Sion, con le vagonate di ricostruzioni paranoidi e complottiste disponibili in rete. Kolosimo odiava Dan Brown ante litteram (anzi, ante nominem). E odiava anche Giacobbo. Preventivamente, senza averne mai sentito parlare. Lo avrebbe mandato in Siberia, lui e il suo chupacabra. Kolosimo era un marxista-leninista visionario, un comunista duro e impuro. Credeva nella rivoluzione, e pensava che le scoperte sulle origini extraterrestri delle civiltà umane avrebbero contribuito alla nostra consapevolezza. Voleva collegare passato remoto e futuro utopico, e così liberare il mondo. Il suo interesse per i dischi volanti – solo uno dei tanti argomenti di cui si occupò – era nutrito da questa passione politica. Senza di essa, cosa sarebbe rimasto? Una messe di poveri, sconnessi aneddoti raccolti da cialtroni e dementi. Persone che già all’epoca Kolosimo teneva a distanza:



«Quando avvistano dei dischi volanti, alla radio qualche volta mi hanno chiamato, mi son trovato ad aver a che fare con dei pazzoidi, che credono in queste cose ciecamente, vedono i venusiani belli biondi e alti, vedono i marziani preoccupati delle esplosioni atomiche e vedono i saturniani che si avventano sulla terra per conquistarla, insomma tutte queste panzane, mi sono trovato un paio di volte ad aver a che fare con questi tipi, completamente pazzi, come quel siciliano che sulle pendici dell’Etna aveva una villa e raccoglieva attorno a sé i suoi fedeli…» (1974, cit.)



In Odissea stellare (1978), Kolosimo riporta le credenze di alcuni occultisti, secondo i quali il regime di Hitler cadde perché aveva attirato su di sé la sventura, orientando la svastica a destra anziché a sinistra come nelle antiche tradizioni orientali. Il commento è una staffilata: «Noi siamo assai lontani da tali concetti ed attribuiamo a ben altre ragioni la caduta dell’impero dei criminali tedeschi.» Poteva ben dirlo, lui che il nazifascismo lo aveva combattuto mitra alla mano.


Nulla dell’approccio politico che correva “sottopelle” nei suoi libri, nulla di quella radicalità sopravvive nei suoi epigoni odierni, quelli che vedi intervistati su Focus TV: von Däniken, Hancock… Ogni spigolo è stato smussato, l’eresia si è fatta telegenica, ma si sa che the revolution will not be televised.



«L’educazione politica me la son fatta in gran parte in Jugoslavia, quando la Jugoslavia era ancora comunista, ho fatto scuola di partito per due anni [...] Sono simpatizzante di Lotta continua, perché penso che anche la sinistra debba avere le sue punte avanzate, voto ovviamente PCI, ma non sono militante perché non me la sento né di partecipare alla vita politica del PCI, almeno com’è adesso, non me la sento assolutamente, e purtroppo d’altra parte non ho neanche il tempo di seguire la vita politica di Lotta continua perché esige lavoro. Io ho fatto un po’ di lavoro politico a Torino, con Soccorso rosso, ero nella commissione delle case, e nell’ambulatorio, però per finire in niente, perché per queste cose bisogna avere molto tempo.» (1974, cit.)



Kolosimo era poliglotta e cittadino del mondo. Madre statunitense, padre italiano e ufficiale di carriera nei Carabinieri, entrambi detestati:



«Mia madre [era] come un generale delle SS [...] Un iceberg [...] Io non ho mai avuto un padre. No, non l’ho mai avuto. L’ho conosciuto così, dicevano che era mio padre» (Ivi).



Cresciuto a Bolzano, si laurea a Lipsia in filologia moderna (ma più tardi approfondirà gli studi di psicologia e sessuologia e praticherà l’ipnosi medica). Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, lo ritroviamo carrista nella Wermacht, ma diserta e si unisce alla resistenza in Boemia. E’ «uno dei primi partigiani che, fra Pilsen e Pisek, incontrò l’Armata Rossa» (dalla scheda biografica di Civiltà del silenzio).


Una lettera di Peter Kolosimo a «L'Unità», 21 settembre 1975. Perché non andrà a presentare i suoi libri nella Spagna franchista.

Una lettera di Kolosimo a «L’Unità», 21 settembre 1975. Perché non andrà a presentare i suoi libri nella Spagna franchista. «Mi è impossibile accettare l’invito. Sono comunista e non posso parlare in un Paese il cui governo imprigiona e condanna a morte i miei compagni con tutti coloro che lottano per i diritti dell’uomo.»


In quella temperie diventa comunista e, com’è normale, dopo la guerra il suo sguardo si sposta verso est. E’ l’unico giornalista italiano presente alla cerimonia di proclamazione della DDR. Per un po’ dirige Radio Capodistria, ma dopo la rottura con l’URSS è licenziato perché «cominformista», ovvero filosovietico. E’ corrispondente estero per L’Unità, annuncia il lancio del primo Sputnik «un mese prima di quella memorabile impresa» e dà per primo la notizia del volo spaziale di Valentina Tereskova. I suoi articoli escono senza firma, precauzione da fase glaciale della guerra fredda. Intanto scrive romanzi di fantascienza con lo pseudonimo di Omega Jim, finché, negli anni ’60, non passa armi e bagagli alla divulgazione scientifica, con quella torsione fantastica che lo renderà celebre.


I libri di Kolosimo sono pieni di pezze d’appoggio di scienziati russi, bulgari, tedesco-orientali: «Il professor Alexei Kasanzev» [probabilmente si tratta dello scrittore e ufologo Alexander Kasantsev], «Kardasev scrive…», «Il biologo sovietico A. Oparin», «Il sovietico Nikolai Brunov scrisse già nel 1937», «Viaceslav Saitsev, il noto filologo dell’Accademia delle Scienze bielorussa» e via così. Oggi possono suonare grottesche, muovere al riso o a ipotesi estreme: Kolosimo agente del blocco orientale, incaricato di diffondere in occidente strane teorie, per loschi fini di guerra psicologica? Mah. Forse la questione è più semplice: leggeva quelle lingue, aveva accesso a quel materiale, e ai suoi lettori la cosa piaceva. Durante la guerra fredda, vista da qui, la scienza sovietica aveva un che di bizzarro, una vibrazione di esotica eterodossia, anche agli occhi di chi si batteva per l’altro modello, quello capitalista-americano. La curiosità per l’est fu un fenomeno trasversale, come lo sono oggi l’ostalgia e il modernariato del socialismo che fu.


A noi piace reputare Kolosimo un guerriero, uno che ha combattuto perché l’immaginario non si restringesse e, al contempo, la fantasia (anche quella più sbrigliata) tenesse le radici nella realtà, nel conflitto che senza pause muove la società. In fondo, nonostante il suo stalinismo, Kolosimo non era tanto distante da Radio Alice e dai giovani “mao-dadaisti” del ’77.


Kolosimo colmò un buco, una lacuna, una gigantesca nicchia di immaginario e mercato editoriale. In quell’epoca, gli intellettuali avevano decretato la “morte del romanzo”. Non per questo si era estinto il bisogno di romanzesco: in edicola, Urania, Segretissimo e Il Giallo Mondadori vendevano un numero di copie oggi impensabile. Tuttavia, erano pubblicazioni settoriali, rivolte a target di lettori specifici. C’era bisogno di un’operazione azzardata, che scavalcasse i recinti e andasse incontro ai bisogni di più lettori.


Kolosimo intercettò la voglia di viaggio e di mistero che pervadeva tutto l’occidente (gli UFO, il triangolo delle Bermude, Uri Geller che piegava i cucchiaini con la forza del pensiero) e la “dirottò” in una direzione inattesa. Camuffando da saggi divulgativi le sue narrazioni fantascientifiche, il vecchio Omega Jim creò un grande fenomeno di costume.

Particolare non secondario, scriveva in modo magnifico:


Peter Kolosimo, Ombre sulle stelle, 1966



«Io sono essenzialmente un tecnico, posso dire di aver rivestito di filologia la mia tecnica, e così i grossi argomenti riesco a prospettarli in modo accessibile al pubblico. E se non facciamo della divulgazione, per chi scriviamo i libri? Scriviamo i libri per Peter Kolosimo? Eh, no, un momento, troppo poco. Io i libri li scrivo per il mio pubblico, non voglio scrivere per me stesso.» (1974, cit.)



Nel 1969, Non è terrestre vinse il Premio Bancarella. Nel giro di pochi anni, lo avrebbero vinto Andreotti (1985), Sgarbi (1990), Zecchi (1996), Pansa (1997) e persino Bruno Vespa (2004). Compagno Kolosimo, ci manchi tanto. Torna dal pianeta su cui ti trovi ora, e scatena contro l’Italia un uragano di raggi cosmici.



RICORDANDO PETER KOLOSIMO
di Mariano Tomatis

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Il luogo migliore per incontrare Kolosimo a Torino è un vasto seminterrato in periferia. Un locale nascosto agli occhi dei passanti. Puoi abitarci sopra per vent’anni e non accorgerti di nulla. Superato un portone anonimo, ti trovi di fronte a una serie interminabile di scaffali. Qui, uno accanto all’altro, migliaia di dossier raccolgono segnalazioni di dischi volanti, luci insolite, entità misteriose e fenomeni paranormali. È la sede del Centro Italiano Studi Ufologici (CISU).


CISU - Torino


Su una scrivania, un ritaglio di giornale del 1978. Il titolo è curioso: «Un “umanoide” a spasso nelle strade di Collegno.» Paolo previene la mia domanda. «Il caso della mummia. Ha chiamato da poco un ragazzo. Sta facendo una tesi sulla psicologia della testimonianza e gli serve come documentazione.» Scorro velocemente l’articolo: una ragazza perde i sensi per lo choc, e per affrontare il mostro si scomoda l’arma dei Carabinieri. Paolo mi mostra i disegni dell’epoca: «Mi recai sul posto e stilai un rapporto dettagliato. Eccolo.» Ci sono identikit, foto del luogo. Perfino il dispaccio dattiloscritto dell’Ansa.


Ma io sono qui per Kolosimo. È Edoardo ad accompagnarmi agli scaffali giusti. Il tavolo per la lettura si riempie di materiale, mentre lui mi racconta dello scrittore modenese. «Sono almeno sei le edizioni del suo primo libro, Il pianeta sconosciuto. E vuoi sapere una cosa curiosa? Ognuna è diversa dalla precedente.» Ex-presidente e memoria storica del Centro, Edoardo ricorda bene la stagione torinese di Kolosimo, i suoi rapporti con il vecchio Centro Studi Clipeologici e i saltuari scazzi con i colleghi. «Per chi ha frequentato la combriccola di ufologi dell’epoca, il confronto filologico tra le edizioni porta alla luce dinamiche affascinanti: tic personali, scontri tra caratteri, piccoli screzi.» Scorci intimistici tra omini verdi e piramidi maya.


Inutilmente si cercherebbero reperti alieni o pezzi di astronavi negli archivi del CISU: presso il centro sono ben consapevoli – con Allan Hendry – che «si analizzano soltanto i rapporti UFO e non gli UFO.» Solo un modo diverso di esprimere quello che Muriel Rukeyser affidava alla poesia: «Il mondo è fatto di storie, non di atomi.» Ecco perché, tra queste pareti, la filologia è più importante dell’analisi chimica, la psicologia più preziosa della fisica quantistica. Ed ecco perché, quando varco la soglia di questo seminterrato, mi coglie un senso di vertigine: non basterebbe una vita per raccontare tutte le storie che traboccano da dossier, schedari, questionari, fotografie, filmati e ritagli di giornale qui raccolti. Ognuna è il resoconto di un incontro con l’ignoto, e testimonia esperienze che hanno provocato curiosità, sgomento, stupore o incredulità.


Questo era il regno di Peter Kolosimo, questo il serbatoio di meraviglia a cui attingeva per scrivere, questo il lascito più prezioso di una carriera letteraria dall’enorme successo popolare. Secondo Piero Bianucci, lo scrittore aveva colto una «inafferrabile sintonia con lo spirito del tempo: quegli anni 60-70 che videro lo sbarco sulla Luna, la ribellione studentesca, la caduta dell’Accademia.» Nell’agitato contesto di quel periodo, Kolosimo diede vita a «un genere così nuovo che non si trovava una categoria dove collocarlo. Non era saggistica scientifica, non era fantascienza, non era narrativa, non era inchiesta giornalistica, non era pura e semplice divulgazione. Ma di tutti questi generi c’era qualcosa.» Più letterato che astronomo (si era laureato in filologia), lo scrittore modenese era un maestro nel confondere i piani, sovvertire gli schemi e giocare con le percezioni del lettore.


Sfoglio le pagine di Non è terrestre (1968). Il libro si apre come una fiaba: «C’era una volta…» Il seguito, però, ha il tono del saggio archeologico. Riferisce di un tumulo indiano ritrovato nelle campagne dell’Illinois. E di uno scheletro del 1565, sepolto insieme a un pugno di monete del 1965. L’anacronismo disorienta, ma Kolosimo getta acqua sul fuoco, attribuendolo a uno scherzo: «Autori di questa e d’altre burle erano bimbi di un’evolutissima razza extraterrestre […] impadronitisi d’un apparecchio capace di viaggiare attraverso lo spazio e il tempo.» Qualche pagina dopo, l’autore mi strizza l’occhio: «Questa, naturalmente, è narrativa utopica.» Il ritrovamento? Finzione fantascientifica. Kolosimo sta citando un racconto pubblicato su Urania.


Chi lo legge con attenzione, impara a non prenderlo alla lettera. Tra le righe, è lui il primo a suggerire un approccio obliquo ai suoi scritti. Dal dossier giallo che Edoardo mi ha affidato emergono ritagli preziosi. A una giornalista di Panorama Kolosimo confessa: «Se un pizzico di fantastico serve come esca, io non ho scrupoli a usarlo». Quando la psicologa di Playboy gli chiede se l’archeologia sia per lui una fuga dal presente, l’autore nega recisamente; egli parla del qui e ora, i dischi volanti sono solo un espediente narrativo: «Ci sono delle cose sulla terra che non si possono spiegare se non tirando in ballo gli spaziali, gli extraterrestri.»


Pi Kappa, rivista fondata e diretta da Peter KolosimoColgo l’invito a leggerlo in quest’ottica, sparpagliando di fronte a me una pila di riviste da lui curate. Pi Kappa uscì in edicola dal novembre 1972 all’ottobre 1973. Senza falsa modestia, lo scrittore spiegava: «Pi Kappa è la sigla del mio nome. Punto e basta.»


L’editoriale del primo numero è una lettera d’intenti: «Cercheremo di far pensare, non d’imporre. E se per far pensare c’è bisogno di un sogno, ben venga il sogno. […] Un pizzico di fantascienza invita a riflettere.»


Cerco di collocarmi nella twilight zone dove un uomo del 1565 può stringere tra le mani una moneta del 1965. Scrivendo nel 1972, cosa rivela Peter Kolosimo del mio presente?


Mi è sufficiente girare pagina. «Spaziali in Italia» è un lungo articolo dedicato ai misteri archeologici del Musiné, il monte che sorge all’imbocco della Val di Susa, in Piemonte. Secondo una leggenda locale, un dragone protegge la montagna dagli intrusi. Intorno alla vetta, re Erode volteggia senza sosta su un carro infuocato; sta espiando i suoi crimini. Il cuore del massiccio custodisce «incomparabili tesori» ma anche un mago. Costui si occupa di mettere in pratica il principio primo della magia: “come in alto, cosi in basso”. Eccolo, dunque, scavare piccoli buchi sulle rocce, riempirli di combustibile vegetale e accenderli di notte. Dall’alto dei cieli, le costellazioni hanno l’impressione di specchiarsi sulla terra. L’archeologo Mario Salomone cita «resine e grassi animali nelle coppelle (incisioni appunto a forma di piccole coppe) che abbondano sul monte, fra i 400 e i 900 metri di quota.» «Perché – si chiede Kolosimo – genti primitive, assillate da problemi pratici da cui dipendeva la loro sopravvivenza, si sarebbero prese la briga di accendere fuocherelli in buche scavate faticosamente nella roccia? Per imitare le stelle.» Confrontando lo schema delle coppelle con le carte astronomiche, il Musiné rivela «qualcosa di unico al mondo: un’intera mappa celeste incisa nella roccia!»


Nella zona del crepuscolo in cui mi trovo, le immagini che emergono dalla pagina diventano stranamente familiari. A quale folle intrusione nella montagna si riferisce Kolosimo? Quella di chi – nella Val di Susa – vede un tesoro da depredare? Chi è il potente dragone che ne difende l’integrità, a ogni costo, consapevole di quanto düra sarà la resistenza? Chi è il feroce governante, colpevole di nefandezze e costretto a sorvolare la zona – perché attraverso la montagna non si passa?


Poi penso a quei maghi che, in valle, ancora oggi si ispirano al “come in alto, cosi in basso”. Avendo abbandonato l’astrologia per ideali più concreti. Sulle pendici del Musiné, l’Orsa Maggiore ha lasciato spazio a iscrizioni visibili dall’alto dei cieli (o più comodamente dall’autostrada).


A sinistra: il Musiné ieri, con le coppelle a formare l’Orsa Maggiore. A destra: il Musiné oggi, a denunciare infiltrazioni mafiose nei cantieri TAV. Clicca per ingrandire.


 Chiudo la rivista, ma l’epica dell’immagine ha forti riverberi. Me ne accorgo avviandomi verso l’uscita, quando torno con lo sguardo all’umanoide di Collegno. Per un istante, in quegli occhi dietro le bende scorgo quelli di Marco Bruno – il militante No TAV che i giornali dipinsero come un mostro nella primavera del 2012.


Mostri su cui i media concordano. A sinistra: il mostro di Collegno (1978) da un identikit dell’epoca. A destra: il mostro di Giaveno (2012).


Paolo sorride, ignorando l’immagine che mi passa per la testa.


«Era un bambino di 14 anni» mi spiega. «Reduce dalla visione del film La mummia, si era coperto di carta igienica rosa ed era uscito in strada. Si beccò una bella ramanzina, poi di corsa a casa.»


Kolosimo diceva di credere «in tutte le battaglie fatte in nome della libertà». Esco col sorriso sulle labbra e un pensiero. Archivi del genere bisogna farli cantare.


L’autore ringrazia Edoardo Russo, Paolo Fiorino, Gian Paolo Grassino e Roberto Labanti.


NOTE



Allan Hendry, Guida all’ufologia, Armenia, Milano 1980, p. 21.




Muriel Rukeyser, The Speed of Darkness, Random House, New York 1968, p. 111.




Piero Bianucci, «Kolosimo, esploratore tra scienza e mistero», Il nostro tempo, 26.4.1992.




Ibidem.




Peter Kolosimo, Non è terrestre, Sugar, Milano 1968.




Wilson Tucker, «Z come zebra», Urania, N. 452, Mondadori, Milano 1967.




Myriam De Cesco, «Un colpo da Pi Kappa», Panorama, 1972.




Erika Kaufmann, «P.K. chiama terra. Terra in ascolto di Peter Kolosimo», Playboy, N. 11, novembre 1974 (anno III).




De Cesco 1972.




Peter Kolosimo, «Presentazione», Pi Kappa, Anno I, N. 1, novembre 1972, p. 3.




Peter Kolosimo, «Spaziali in Italia», Pi Kappa, Anno I, N. 1, novembre 1972, p. 4.




Peter Kolosimo, «Spaziali in Italia», Pi Kappa, Anno I, N. 1, novembre 1972, p. 6.




Ibidem.




Ibidem.




De Cesco 1972.


L'Unità riporta la notizia della morte, pardon, del decollo di Peter Kolosimo


LINK


Juan Posadas, I dischi volanti… e il futuro socialista dell’umanità (pamphlet del 1968, traduzione inglese)


Massimo Pietroselli, PK: Peter Kolosimo, sognatore patafisico



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Published on March 20, 2014 12:45

March 17, 2014

#Tolkien a #Genova

xFede-Elvish-500


di Wu Ming 4


Il tour di presentazioni di Difendere la Terra di Mezzo è agli sgoccioli. Mancano un paio di date a marzo, dopodiché ne avanzeranno forse altre due molto distanziate una dall’altra, a giugno e a settembre. Considerando che ad aprile inizierà il “grand tour” collettivo per L’Armata dei Sonnambuli, sarà giusto evitare le sovrapposizioni e reindirizzare le energie sul nuovo romanzo.

Colgo dunque l’occasione dell’annuncio della presentazione genovese per tirare un paio di somme.


La prima considerazione da fare riguarda l’idea che mi ha spinto a scrivere e pubblicare un libro su J.R.R. Tolkien. Ritenevo che ce ne fosse bisogno, ovvero che servisse un saggio divulgativo in grado di restituire un’immagine più seria e veritiera di un autore troppo spesso snobbato e frettolosamente liquidato. Da fine novembre a oggi ho ricevuto ripetutamente conferma che l’intuizione avuta era giusta. La partecipazione e la qualità delle domande che mi sono state rivolte ad ogni presentazione parlano chiaro. L’interesse è sempre stato alto e in più occasioni mi è stato esplicitamente detto che il libro era necessario.


Non solo. A margine di ogni presentazione c’è sempre stato almeno uno dei partecipanti che è venuto a stringermi la mano e a ringraziarmi personalmente per averlo sgravato dal marchio d’infamia di essere un estimatore di Tolkien. Evidentemente l’etichettatura di Tolkien come autore per nerd irriducibili, o addirittura come autore fascista, è ancora forte, o per lo meno lo è stata negli anni passati, al punto che molti preferivano leggerlo un po’ di nascosto, senza sbandierare il proprio apprezzamento, quasi vergognandosi. Qualcuno, tra il serio e il faceto, mi ha detto che il mio libro è una specie di “sanatoria” che libera la coscienza di non pochi lettori. Se fosse anche solo parzialmente vero, ce ne sarebbe di che essere lusingato.


Anche l’estrema varietà di luoghi dove si sono organizzate le presentazioni fa capire che l’interesse per questo autore, tutto da riscoprire, è assolutamente trasversale. Da Catania ad Aosta; dalle librerie indipendenti ai circoli culturali; dalle fiere librarie alle sedi dei comitati di attivisti sul territorio; dai caffè letterari ai centri sociali.


Ed è proprio in un centro sociale che si terrà la presentazione del 20 marzo a Genova: lo “storico” C.S.O.A. Emiliano Zapata, in via San Pier D’Arena 36. Dalle 19:00 sarà possibile cenare in loco e a seguire, alle 20:30, ci sarà la presentazione. Come si suol dire: la cittadinanza è invitata… e senza bisogno di sapere parlare elfico o di conoscere l’albero genealogico della famiglia Baggins. Io non faccio fuochi d’artificio come Gandalf, ma di certi argomenti non mi stanco facilmente di parlare.


Wu Ming 4 Tolkien


A suggello di queste considerazioni segnalo la più bella recensione di Difendere la Terra di Mezzo che mi sia capitato di leggere: è stata pubblicata su una webzine che si chiama “Atlantide” e non so chi l’abbia scritta, ma spacca.


Per finire, mi è stato chiesto se dopo questo libro continuerò a occuparmi di Tolkien e in che modo. Non ho ancora le idee chiarissime in merito. Per alcuni anni mi sono dedicato ad approfondire soprattutto il lavoro narrativo e saggistico di Tolkien sugli stili eroici. In futuro, se mi sarà possibile, vorrei spostarmi su un altro tema, che ho anticipato in un articolo di qualche settimana fa. Chi vivrà vedrà. E che i Valar ci proteggano…


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Published on March 17, 2014 16:03

March 11, 2014

L’Armata dei Sonnambuli. In libreria dall’8 aprile 2014

L’Armata dei Sonnambuli.

…o meglio, dal 19 germile dell’anno CCXXII.


L'Armata dei Sonnambuli - copertina

Clicca sull’immagine per aprire la copertina completa, quarta e bandelle comprese (PDF)


Sappiamo di averci messo tanto tempo.

Germile è il mese più crudele.

Ci scusiamo per la lunga attesa.


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Published on March 11, 2014 02:45

March 8, 2014

Di una locomotiva come una cosa viva: Wu Ming Contingent a #Bologna, 13 marzo

Cover Bioscop


[WM5:] Chi cerca i segni li trova. Al tramonto, prima del concerto allo Strike per la presentazione della Guida alla Roma ribelle, io e i compagni del Wu Ming Contingent guardavamo il cielo e seguivamo le evoluzioni degli stormi, la sincronia medianica tra centinaia di uccelli che si impennano, virano, cambiano configurazione come un cuore, un organo contrattile, mutevole, come un solo animale celeste. La musica che avevamo captato nei mesi precedenti, nell’aria, quella che sentivamo ci appartenesse, doveva negli auspici rispondere a dinamiche simili. La musica che avevamo captato era antica, apparteneva tutta a un altro secolo, eppure pensavamo che fosse doverosa, che ci rappresentasse appieno, che dicesse in modo inattuale qualcosa di focalizzato, parziale, fazioso, non pacificato sull’oggi, e che quello – suggestioni post punk, no-disco, kraut rock, garage – potesse essere il tappeto volante per portare in giro una parte delle storie di Wu Ming.


Poiché si è in cerca di segni, i segni compaiono.


Raf Punk, Bologna 1981

Raf Punk, Bologna 1981


Helena Velena non dimentica i vecchi compagni della Bologna Punk e arriva. È un fiume in piena, parliamo per due ore buone, come accadeva davanti al circolo anarchico Berneri, in un tempo trascorso. È come se avessimo interrotto il confronto il giorno prima. La sua intelligenza e la sua capacità di analizzare la musica e i significati politici, stilistici e culturali che la musica veicola è  inarrivabile, come allora. So che il parere che esprimerà dopo il concerto non sarà edulcorato, non ci farà sconti. Apparteniamo a una generazione che saliva e sale sul palco spinta da un’urgenza, questione di vita e morte.


Quindi, salgo sul palco teso.

Non è la quantità di persone che vedo oltre le luci. È la presenza della caposcuola, della capostipite, è una strana faccenda tra il fraterno, il politico, l’artistico e l’edipico. Ok, non deludere il pubblico, ma soprattutto non deludere chi materialmente, idealmente e artisticamente è all’origine di tutto quello che, in senso musicale e stilistico, è stato importante nella mia vita. Insieme al Vèz, è chiaro. Pochi sanno che la prima formazione dei Raf Punk vedeva Steno al basso, insieme a Helena, a Laura e agli altri.

Il gig è buono, non privo di sbavature. La band è all’inizio della strada, ma la reazione del pubblico è confortante. Penso che sì, c’è un potenziale.


Steno

Al Vèz


Il responso di Helena arriva. Snocciola una dopo l’altra le influenze che ha sentito nel suono del Contingent, e sono le stesse che sentiamo ci appartengano. I Sonics, i Neu!. I primi Joy Division, quelli di Warszaw. Ma anche il rock n’ roll più classico, la second line dei funerali e del R&B di New Orleans. E, quel che conta davvero, Helena vede una continuità, una coerenza tra le esperienze di ribellione che ci hanno formato a fine anni ’70 e quello che ha visto sul palco, allo Strike, il 7 febbraio del 2014.


Ci presentiamo al pubblico della nostra-loro città, la Laida Bologna, la capitale del pensiero Unipol con il nostro set ispirato dai personaggi che ci sono costati il rinnovo del contratto per una nota rivista maschile italiana. Temi come ghigliottina, culto del cargo eccetera non dovevano essere così digeribili per il pubblico dei glutei ben torniti, del six pack addominale e dei gadget che ti rendono un uomo interessante. Il materiale era perfetto, però, per un album concept, concetto anch’esso del secolo scorso.

Il disco, Bioscop, uscirà il 18 aprile per i solchi della Woodworm Label, dieci giorni dopo L’Armata dei Sonnambuli. In entrambi la rivoluzione è un tema portante. Ma anche la suggestione, la ribellione stilistica, l’ipnosi e l’irretimento di massa, il teatro e i teatri del mondo, la necessità di cambiare nome, come lo zio Ho, e di mutare configurazione, come l’organismo collettivo alato che si muove all’ora del tramonto nei cieli romani.


Stampe di Claudio Madella di Officina Novepunti

Stampe di Claudio Madella di Officina Novepunti


Il Wu Ming Contingent salirà sul palco del Locomotiv Club con un seguito di fantasmi alle spalle, come facevano gli Irochesi prima della battaglia. Ci sarà Guglielmo Pagnozzi, qualcosa di più di un valore aggiunto, a portare la critica immediata dell’improvvisazione dentro le nostre strutture punkose .

La cittadinanza è invitata. Non rimarrà delusa. Come si dice nella scena: essici.




Visualizza mappa ingrandita


Alcuni dettagli sul concerto…


Data: 13 marzo 2014 (esattamente 37 anni dopo l’arrivo dei carrarmati in Piazza Verdi a Bologna)

Luogo: Locomotiv Club, via Serlio 25/2, Bologna

Orari: Doors, h. 21.30 – On stage, h. 22.30

Ingresso: 8€ (con tessera ACSI)


… sul disco…


Al concerto, Bioscop sarà disponibile in anteprima solo in formato CD con booklet di 24 pagine. Dal 18 aprile, data ufficiale di uscita, il disco sarà nei negozi (e ai concerti) anche in formato vinile + CD + booklet 8 pagine. Inoltre, ci sarà un’edizione limitata (100 copie) con vinile colorato rosa shocking.

Dato che la prima (e speriamo non ultima) tiratura non sarà certo quella di un disco degli U2, dal 10 aprile sarà possibile anche ordinare Cd e vinili sul sito dell’etichetta.


…e sui poster.


Il 13 marzo ci saranno anche i poster dedicati a Socrates (uno dei personaggi raccontati in Bioscop), stampati con vecchi macchinari tipografici in 100 copie numerate da Claudio Madella di Officina Novepunti.


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Published on March 08, 2014 00:21

March 5, 2014

Desert Blues. Armi e chitarre dei Tuareg

Tinariwen

Tinariwen


di Wu Ming 5


[Il reggae e la musica afrocubana in Havana Glam, il free jazz e la cultura afroamericana in New Thing, la Somalia nel "romanzo meticcio" Timira, l'Africa orientale in Point Lenana... Ormai non sono pochi i libri - e molti sono gli articoli - dove abbiamo parlato di Africa (l'Africa che è in noi), di cultura afroatlantica, del rimosso coloniale, della condizione postcoloniale, delle musiche nate dalla diaspora africana e poi tornate a influenzare quelle del continente... In questo pezzo-con-colonna-sonora, Wu Ming 5 racconta la nuova musica elettrificata dei Tuareg e il suo rapporto con i conflitti nel Niger e in Mali.]

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Se si dovessero riassumere in una timeline, la cronaca e la storia recente della rivolta in nord Mali restituirebbero già, senza bisogno di analisi approfondite, le dolorose contraddizioni di un processo postcoloniale che sembra aver riconsegnato intere aree del continente agli antichi padroni. La siccità e le carestie che hanno colpito il Sahel dalla fine degli anni ’60 in poi hanno radicalizzato la distanza tra Tuareg e arabi del deserto e popolazioni “nere” del sud. I Tuareg, che hanno una storia di resistenza accanita contro i colonialisti francesi, vedono nello stato del Mali e nei governi che si sono succeduti nei decenni nient’altro che la continuazione di quella dominazione. Riassumiamo un po’ di punti, che servono a riflettere sull’intreccio tra conflitto dispiegato, dimensione simbolica, arte e ideologia planetaria dominante.


I Tuareg del Mali, e i Tuareg in generale (il territorio ancestrale si estende si porzioni di cinque entità statuali: Algeria, Libia, Niger, Mali e Burkina Faso) sono tra le popolazioni più povere del pianeta, con un tasso di analfabetismo altissimo. Tradizionalmente allevatori, le carestie ne hanno decimato gli armenti e ridotto alla fame e alla sete interi clan, intere regioni. A partire dal 1984 (la carestia di Feed The world) Tuareg del Mali e del Niger sono emigrati in gran numero per arruolarsi nell’esercito libico. Per le giovani generazioni, l’unico mestiere è la vita militare e la guerra. Molti Tuareg hanno combattuto fino all’ultimo per il dittatore libico: pare che Gheddafi avesse una visione ideologica e romantica dei nomadi del deserto.


Ribelli Tuareg


Alla fine della guerra in Libia migliaia di Tuareg sono fuggiti, armi in mano, rientrando nelle aree d’origine, e hanno vissuto sulla loro pelle – per la prima volta – l’incredibile povertà e arretratezza dei propri vecchi, nonni e parenti. Una povertà che appare sempre più inaccettabile, dato che il sottosuolo è tra i più ricchi del pianeta. Petrolio, gas naturale, oro. Ma specialmente uranio.


Sembra una storia già raccontata, quasi un cliché. L’uranio nel sottosuolo del Niger è estratto da una compagnia francese, Areva, multinazionale leader nel nucleare civile. L’area sfruttata è quella abitata dai Tuareg, quelli che erano rimasti a stentare su un territorio dove si muore di fame e quelli che sono tornati dopo le vicende libiche. In Niger, la popolazione accusa Areva di aver seminato polluzione radioattiva e reso definitivamente invivibili le aeree destinate alla magra economia di sussistenza dei Tuareg. Qui nascono bambini segnati da orribili malformazioni, il che aggrava al di là del sopportabile pene che già appaiono di portata biblica.


Per sfuggire alla miseria, alla malattia e alla morte molti capifamiglia sono disposti a ritentare l’avventura libica. Qualsiasi cosa pur di non crepare di fame, in trappola, e di vedere greggi e armenti, anziani, donne e bambini andarsene prima di te.



In Mali i Tuareg del MLNA hanno scatenato una nuova rivolta (ne hanno tentata una per decennio) contro il governo di Bamako e nell’Aprile 2012 hanno proclamato l’indipendenza. Il nuovo stato, che nessun membro della comunità internazionale ha riconosciuto, si chiama Azawad. Anche Al Qaeda, qualsiasi cosa sia, è insorta, e si è impadronita di Timbuktu. Le ragioni del successo stanno nell’estrema povertà delle tribù e dei gruppi sociali che costituiscono la base dei fondamentalisti. La base dei militanti è araba, ma ci sono anche tuareg, specie quelli costretti a vivere in poverissime baraccopoli attorno ai centri abitati. Il governo del Mali è caduto, e i militari si sono impadroniti del potere. Il premier francese Hollande ha dichiarato che l’invio di truppe nell’area non risponde a interessi economici o egemonici della Francia. Si tratta invece di aiuto e sostegno a un paese alleato.



La terra produce anche altre cose, oltre le risorse per le quali le società francesi indagano e sventrano il sottosuolo. Produce generazioni spossessate, destinate a un modo di vita arcaico e durissimo, preistorico, e queste generazioni producono azioni e parole, pensiero e musica. Una soluzione simbolica del conflitto, che si intreccia inevitabilmente con il conflitto reale, dispiegato. Musica di chitarre e amplificatori, il che suona paradossale in luoghi privi di energia elettrica. L’approccio e lo stile di artisti come Tinariwen (una band di tuareg del Mali) o Bombino (chitarrista del Niger) è radicato nella tradizione ma si muove in avanti, ambisce a una dimensione planetaria. Di cose da raccontare, attraverso il loro blues, i Tuareg ne hanno. (Il documentario di Martin Scorsese, Dal Mississippi al Mali, aveva esplorato la filiazione diretta che lega il blues del Delta alle musiche del Sahel già nel 2001).


Ma la musica di questi artisti, scale, modi e stilemi a parte, ha più a che fare con il rock ‘n roll che con le dodici battute del blues, perché esprime una tensione generazionale, disagio, lontananza, distacco. La musica è ipnotica ma attraversa mood diversi, raga-surf psichedelico nato in una delle terre più dure, povere e sfruttate del pianeta.



In tempi privi, in senso proprio, di un mainstream, non ci si può aspettare che il cosiddetto desert blues diventi una forza culturale tale da attrarre l’attenzione del grande pubblico mondiale, anche se i musicisti si stanno facendo conoscere all’estero e il tour di Bombino ha toccato pure l’Italia. Ma guardandolo esibirsi con la sua band alimentatata da generatori, sotto la moschea di Agadez, ci si accorge della forza che la musica può esprimere in tempo di conflitto.


È una prospettiva eurocentrica, biancocentrica, a vedere nelle popolazioni – le così dette etnie - segnate da crisi profonde e conflitti solo vittime di un male astorico che avrebbe a che fare con un’essenza dell’uomo, invece che come attori in campo, o portatori di un possibile bene futuro. È questa concezione drammatica, patetica dell’uomo a giustificare le “missioni di pace”, cioè l’invio di truppe, a nascondere la realtà quotidiana della rapina e dello sfruttamento e a fornire il sostrato ideale a politiche mondiali che negano la possibilità del riscatto. La musica dei Tuareg di oggi, il desert blues, è parte consapevole e attiva di un processo di affrancamento, è il presentimento di una liberazione possibile.



C’è una vicinanza tra una chitarra e un arma. La chitarra elettrica è uno strumento che conferisce potenza: attraverso l’amplificazione porta la tua energia molto lontano, e a volume molto alto. È un potenziale che può essere volto al riscatto o all’oppressione, al risveglio o all’inebetimento. Già il punk aveva presentito questa vicinanza, il “combat rock” dei Clash ne è un esempio così come lo stile, l’attitudine e i testi di molti altri gruppi punk politicizzati degli anni ’80. È interessante vedere come, decenni dopo quella fase “classica” della civiltà del consumo, quella vicinanza tra chitarra, armi e parole di riscatto si ripresenti in un’area del Africa vitale per gli interessi di antichi padroni europei e di nuovi potenziali padroni. Il governo del Niger ha infatti aperto negli ultimi anni a compagnie di estrazione cinesi, canadesi, sudafricane.


Ogni conflitto, evidentemente, è lo stesso conflitto. È ricchi, e clienti dei ricchi, contro poveri. E ancora una volta le chitarre ne sono la colonna sonora.



Leggi anche:


Rasta Notes. Rivelazione, rivoluzione e reggae (dal cazzo-di-posto-in-cui-stiamo)

di Wu Ming 5 (2013)


Supremazia del rumore nero. Note e digressioni sulla presunta “bianchitudine” del punk e le origini afro del corpo rock

di Wu Ming 1 (2006)


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Published on March 05, 2014 13:00

March 3, 2014

Intervista a Harry Browne, autore di «The Frontman. Bono (Nel nome del potere)»

Harry Browne

Harry Browne


[E' uscita da pochi giorni in italia l'inchiesta di Harry Browne su filantropia, affari, fandonie e potere di Bono Vox. Quella che segue è la prima intervista italiana all'autore, in esclusiva per Giap. Le domande sono di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti (curatori dell'edizione italiana) e dello scrittore Max Mauro. Quest'ultimo conosce bene Dublino, dove ha vissuto e fatto ricerca sulla cultura popular e le questioni di razza e classe nelle realtà urbane irlandesi. Un suo saggio su "razzializzazione" e calcio giovanile in Irlanda è incluso in questo libro. La traduzione di domande e risposte è di WM1.]


AP. Il tuo libro dà un contributo importante a un genere che ha valore anche dal punto di vista narrativo. The Frontman è una biografia, un saggio, un pamphlet politico, una miscela di tutti questi generi. Come mai hai deciso di impostare la tua scrittura su quest’ibridazione? Stavi seguendo qualche esempio, forse nella tradizione della pamphlettistica radicale?


HB. Sono lieto che lo riteniate un contributo importante! La cornice concettuale e di genere di The Frontman si deve a Verso, la casa editrice britannica, che pubblica la collana “Counterblasts”. L’idea di fondo della collana è rivitalizzare la tradizione del pamphlet tipica del diciassettesimo e diciottesimo secolo, con libri dedicati a singoli personaggi, che sono saggi biografici duri e polemici in forma di pamphlet estesi. O, per usare un’espressione vernacolare del XXI secolo, sono dei “takedown“. Io ero già abituato ai takedown di un migliaio di parole, ne avevo scritti a dozzine su varie pubblicazioni, e alcuni riguardavano già Bono, ma sono rimasto sorpreso quando da Verso mi hanno fatto sapere che dovevo scrivere un “pamphlet” di settantamila parole! Mentre lo scrivevo, comunque, non avevo consapevolezza di quali generi stessi usando o di come li stessi miscelando. Per gran parte del tempo, ero più concentrato sullo scrivere un “libro di fatti” più che una polemica, un serbatoio di fatti veri che anche gente di opinioni diverse avrebbe trovato difficile confutare.


Bono, Briatore e l'altro non sappiamo chi sia

In guerra contro la povertà.


WM1. Ci sembra che da diversi mesi Bono stia rispondendo a The Frontman senza mai nominare il libro. Le sue prediche e interviste più recenti sono piene zeppe di excusationes non petitae. Le sue spiegazioni su quanto bene ha fatto suonano come risposte a domande che i giornalisti gli fanno di rado ma che sono state il punto di partenza per il tuo libro. E’ corretto?


HB. Penso di sì. Va detto che io non sono il primo autore ad aver scritto certe cose su Bono, ma probabilmente è vero che il libro e la visibilità che ha avuto gli hanno fatto capire che doveva pur rispondere, o almeno provarci, o almeno dare l’idea di farlo. L’esempio più vistoso è un’intervista su The Observer del settembre scorso, dove, senza esplicitare il prestito, già nella titolazione si riprendeva la parola “potere” direttamente dal sottotitolo del mio libro. «Bono: c’è differenza tra ingraziarsi il potere ed essere vicini al potere». Nei commenti sotto il post, l’autore dell’intervista (che ci era andato molto leggero), ha ammesso – in tono spregiativo – di aver letto The Frontman. Ma Bono è andato più vicino a menzionare il libro di quanto abbia fatto il giornalista! Nessuno dei due, comunque, ha affrontato o risposto davvero alle critiche principali.


Uomini di pace. George W. Bush e Bono

Uomini di pace.


WM1. Nel tuo libro fai un ritratto molto duro dei media mainstream irlandesi, li descrivi più o meno come una servizievole schiera di leccaculi, sempre pronti a guardare Bono e gli U2 attraverso lenti rosa. Qual è stata la loro reazione al libro?


HB. Ci sono state reazioni diverse. Intanto, nessun importante organo di stampa irlandese mi ha intervistato. Io non ci avevo fatto caso, poi sono andato in Spagna e in Messico a promuovere l’edizione in spagnolo, e tutti i giornali e periodici più importanti mi hanno intervistato! I due giornali più influenti d’Irlanda hanno stroncato il libro (senza far presente che dentro li avevo criticati), ma nemmeno gli autori di quelle stroncature hanno difeso in toto Bono: hanno dovuto riconoscere (vista la diffusa antipatia popolare nei suoi confronti) che criticare Bono è giusto, ma hanno aggiunto che il mio particolare modo di criticarlo non andava bene, per via delle mie opinioni politiche o del mio presunto “fanatismo” [Tutto il mondo è Belpaese, N.d.T.]. Resta il fatto che quei giornali, e anche altri, Bono lo criticano di rado.


Uomini di pace. Bono e Tony Blair nel 2008.

Uomini di pace. Bono e Tony Blair nel 2008.


WM1. Puoi spiegare ai nostri lettori che non hanno ancora letto The Frontman come mai la stampa irlandese è così reverente nei confronti di Bono, mentre nella società è spesso bersaglio di derisione e satira? E’ solo perché è un pilastro dell’establishment, o c’è una ragione culturale più profonda? 


HB. In generale, bisogna che una persona ricca e influente venga condannata per un crimine prima che i media irlandesi decidano di parlarne con un po’ di spina dorsale. E’ probabilmente così in molti paesi, ma in un posto piccolo come Dublino l’effetto è ingrandito. Alcuni esponenti dell’alta società irlandese mi hanno detto, in privato, che hanno adorato il libro ma non possono dichiararlo in pubblico. Una qualsiasi conversazione da pub a qualunque livello della società irlandese è molto, molto più corrosiva di The Frontman, ma l’Irlanda ha un’antica tradizione di gossip che prospera sulla (e si crogiola nella) differenza tra quel che si dice in privato e quel che si pubblica. Per quanto riguarda Bono, va aggiunto che lui e gli U2 sono il più famoso prodotto da esportazione del paese dopo la Guinness. Quindi, c’è un certo perverso orgoglio nel tenere per noi i nostri peccati. Detto questo, molto del materiale che ho usato in The Frontman è tratto da fonti pubblicate, e alcune erano irlandesi!


I Pitstop Ploughshares

I Pitstop Ploughshares. Processati per aver sabotato la guerra di Bush e Blair.


MM. Quello che hai detto sul criticare Bono in privato ma non in pubblico risolleva un’annosa questione: la mancanza di pubblico dissenso nell’Irlanda contemporanea e postcoloniale. Mi sembra che, sotto questo aspetto, tu sia uno dei pochi ad andare controcorrente. Nel tuo libro precedente, Hammered by the Irish, hai raccontato la storia dei Pitstop Ploughshares, cinque pacifisti irlandesi che nel 2003 hanno causato un danno da due milioni e mezzo di dollari alle forze militari USA. Si dice che, per via del tuo esplicito appoggio al movimento contro la guerra, tu abbia perso la tua rubrica sull’Irish Times. Adesso prendi un’icona nazionale e ne fai a pezzi l’immagine. Mi chiedo se la tua libertà intellettuale e la tua audacia abbiano qualcosa a che fare con la tua biografia: sei nato in Italia da un prete cattolico [padre Harry J. Browne] e una femminista e docente universitaria [Flavia Alaya], sei cresciuto negli USA e sei “emigrato” in Irlanda quand’eri già adulto. Ti senti mai un outsider?


HB. Comincio dalla parte finale della domanda: di certo non mi sento mai un insider! La storia della mia vita contiene molti elementi che influenzano questa condizione, e naturalmente c’entrano anche gli spostamenti geografici. Per esempio, io ero uno dei pochissimi ragazzini bianchi in un quartiere tutto nero e latino di Paterson, New Jersey, poi sono andato all’università in un college d’élite dove ero il primo a provenire dalla mia scuola. Detto ciò, non sono eccezionalmente audace, né mi sento solo. Sono una voce tra tante in Irlanda che, sebbene trascurate dal mainstream, fanno sentire forte il loro dissenso. Non credo che qui in Irlanda siamo più messi a tacere che in altri paesi: raramente passa un mese senza una mia intervista in TV o alla radio. Certo, il mio percorso l’ho scelto, ma è dipeso anche molto dal caso. Per esempio, i due libri sono nati da inviti che sentivo di non poter – o dover – rifiutare. L’esempio dell’attivismo dei miei genitori ce l’ho sicuramente in testa, da qualche parte, a ricordarmi cos’è importante. Sono abbastanza fortunato da avere un buon lavoro e la libertà che ne deriva. Uno dei Pitstop Ploughshares diceva spesso che il vero significato della parola «respons-abilità» è «capacità di rispondere». La mia posizione privilegiata mi dà un po’ di questa capacità, più di quanta possano averne molte persone in questo mondo di crudeltà e precarietà. Disprezzerei me stesso (ed è dir poco!) se non ne facessi uso.


Stephan Schmidheiny

Stephan Schmidheiny


AP. Il tuo libro non è solo su Bono, ma su tutto lo spettacolo della filantropia. Di recente, uno degli uomini più ricchi d’Europa, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, è stato condannato in Italia per la morte di 3000 lavoratori e cittadini esposti alle fibre di amianto dentro e intorno alle sue fabbriche. In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo: un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia lo hanno giudicato colpevole di disastro ambientale. Cos’è che spinge questi ricchi bast… ehm, individui? La loro filantropia serve solo a lavarsi la coscienza? Oppure, difendendo questa o quella causa, diventano ancora più ricchi? Pensi che il capitalismo abbia un bisogno sistemico di filantropia?


HB. E’ un’ottima e difficile domanda, alla quale sarei tentato di rispondere, semplicemente, «Sì». Ma cercherò di dire qualcosa di più! Ovviamente, la filantropia ha una lunga storia, è più vecchia del capitalismo, e penso che vi sia un elemento di quello che Peter Buffett, figlio del “grande filantropo” Warren, chiama «riciclaggio di coscienza sporca». Ma il fenomeno neoliberista del «filantro-capitalismo» va ben oltre: i i filantro-capitalisti sostengono che i processi di accumulazione di ricchezza, da un lato,  e la beneficenza dall’altro, in realtà siano intrinsecamente collegati, non solo in sequenza (diventa ricco, poi dona qualcosa), ma in modo organico: prosperare facendo del bene. Buffett ha scritto di come gli enti di beneficenza vengano incoraggiati a parlare del loro «ritorno sugli investimenti». Questo progetto ideologico, naturalmente, va oltre l’auto-giustificazione dei ricchi bast… ehm, individui. E’ un discorso egemonico, un insistere sul fatto che non c’è alternativa a questo mondo che è non-proprio-il-migliore-ma-in-rapido-miglioramento dei mondi possibili. Bono, quando proprio vuole sembrare radicale, al massimo dice qualcosa tipo:  «A volte mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa al capitalismo». Il che equivale a negare ogni possibilità di vero cambiamento. E anche in quel caso, tornerà subito al suo argomento centrale: che non c’è motivo di attaccare, o anche solo ridimensionare, il potere dei ricchi autocrati, perché saranno proprio loro a salvare i poveri.


Bono, Trimble e Hume

Per via di quest’unica foto dove stringe la mano a due politici destinati all’irrilevanza, da tre lustri Bono racconta di essere stato uno dei protagonisti del processo di pace in Irlanda del Nord. The Frontman racconta anche la storia di questa foto e il suo vero significato.


MM. “Politicamente” parlando, Bono è stato più attivo a livello globale che in Irlanda. Una delle poche eccezioni, mi sembra, fu quando si occupò delle tensioni in Irlanda del Nord. Tu, però, critichi Bono per le sue posizioni di condanna della sola IRA. Puoi spiegarci perché pensi che sbagliò a muoversi come fece? Avrebbe potuto fare diversamente, visto cos’erano e sono gli U2 (per la “pace”, per il papa ecc.)?


HB. In The Frontman, le critiche alla posizione di Bono sull’Irlanda del Nord riguardano due periodi distinti: la metà degli anni Ottanta, quando erano in corso i Disordini, e la seconda metà degli anni Novanta, durante il processo di pace seguito al cessate-il-fuoco. Per prima cosa, gli anni Ottanta: anche se gli U2 erano “per la pace” (chi non lo è?), all’epoca non erano particolarmente “per il papa”, e non solo perché erano in gran parte protestanti! Influenzati dalla teologia della liberazione, simpatizzavano con movimenti rivoluzionari in America centrale e Sudafrica. Ma quando si trattava di esprimersi su quel che accadeva vicino a casa, avevano le stesse posizioni dell’establishment britannico e di quello irlandese, cioè: condanna solo per la violenza irlandese-repubblicana, silenzio sulle sue cause e sul ruolo stragista dello stato, persino quando, come nel caso di Sunday Bloody Sunday, usavano il nome di una strage di stato! Mi ha un po’ stupito che qualcuno se la sia presa con The Frontman per aver fatto notare questo. La storia degli anni seguenti ha provato, a detta di quasi tutti, che la strada da percorrere era il dialogo inclusivo, non certo la demonizzazione unilaterale. Anzi, oggi i politici e opinionisti irlandesi si vantano spesso di avere un modello da esportazione di processo di pace inclusivo. Io ho ricordato che una volta non la pensavano affatto così, e la cosa non gli fa piacere. Ci furono eccezioni, naturalmente, persone che aiutarono ad aprire la via per la pace, ma è del tutto normale che Bono non sia stato tra queste! Di fatto, come dico nel libro, in una cosa si è dimostrato leggermente migliore di altri personaggi dell’establishment: di recente, parlando di come ex-membri dell’IRA partecipavano con successo al governo dell’Irlanda del Nord, ha avuto la decenza di dirsi imbarazzato per il senso di superiorità morale che aveva da giovane. Ma questo non scusa i suoi vergognosi e fuorvianti proclami sul ruolo che ebbe nel processo di pace degli anni Novanta. Come spiego nel libro, la sua partecipazione si limitò a una banale photo-opportunity poco prima del referendum del 1998 sul cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo”. Negli anni a seguire, lui e The Edge hanno detto che quella foto risolse una delicata situazione di stallo e convinse la gente a votare Sì. Puro nonsense: tutti sapevano che il Sì avrebbe vinto, e il margine di vittoria nel Nord fu superiore al 40%. Questo è uno dei peggiori esempi di come Bono ingigantisca il proprio ruolo, e una delle cose che più mi ha fatto arrabbiare mentre facevo le ricerche per The Frontman.


Copertina di The Frontman


The Frontman è pubblicato da Alegre, edizione italiana a cura di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti.


Harry Browne presenterà The Frontman a Roma – sua città natale – durante la Festa di Letteraria (5-7 giugno).


[Già che ci siamo, anticipiamo che durante la stessa festa noi presenteremo L'Armata dei Sonnambuli. Dettagli a seguire.]


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Published on March 03, 2014 13:00

February 28, 2014

Scarica «Tifiamo 4». 34 fotoracconti scritti sull’Acqua.

Cover Tifiamo 4 definitiva


C’erano voluti due mesi per Tifiamo Asteroidel’antologia sorella di questa, e ce ne sono voluti altrettanti per Tifiamo 4 – Acqua (la scadenza per inviare le “giocate” era il 23 dicembre 2013).

Guidati da Mr Mill, il curandero, i 34 giocatori (uno dei quali bicefalo) hanno corretto, editato, migliorato e tagliato i loro fotoracconti. Poi lo stesso Mr Mill ha svezzato il pdf impaginando, prefazionando, sbozzando e disponendo. Troppo lavoro per un uomo solo: così, per la cover, ci siamo affidati a un ulteriore contest e Luigi Farrauto – copertinaro di Tifiamo Asteroide – ha scelto l’immagine qui sopra, realizzata da Davide Gastaldo.

Il link al pdf verrà stampato anche su 4 – il libro, in formato URL e QR-Code (chi lo ha prenotato tramite crowdfunding non tema: dopo qualche ritardo, la prossima settimana partono le spedizioni). Così, tutti coloro che leggeranno il racconto-giocata di WM2, a partire dalle foto acquatiche di TerraProject, saranno invitati a scaricare questa antologia, e magari pure a loro verrà voglia di giocare ai #tarocchinarrativi.


TIFIAMO 4 in PDF

 (Il formato e-Pub ancora non c’è. Troppo lavoro, eccetera. Se qualcuno ha voglia…)


Qui di seguito vi proponiamo la


NOTA DEL CURANDERO

di Mr Mill (aka Franco Berteni)


Questa antologia di racconti è nata come spin-off del progetto 4, il libro di fotoracconti con fotografie del collettivo TerraProject e parole di Wu Ming 2.

Un progetto ibrido di sperimentazione fra fotografia e scrittura, in cui queste due forme narrative, nelle intenzioni, non si riducono alla sola complementarità ma, in un rapporto riflessivo, vengono portate alla risonanza per produrre narrazioni coese la cui potenza è maggiore della somma delle singole parti. Per usare una definizione cara ai Wu Ming e farla breve, un “progetto transmediale multiautore”. Quattro sezioni fotografiche – Acqua, Terra, Fuoco, Aria – e quattro racconti di Wu Ming 2.

Quando, nel mese di novembre del 2013, il progetto è stato presentato su Giap non era dato sapere se la versione cartacea di 4 (che è stato anche una mostra e una lettura musicata) sarebbe arrivata alla stampa, in quanto legata a una campagna di crowdfunding. Oggi sappiamo che il traguardo è stato raggiunto; non era scontato e, personalmente, questa è stata la prima campagna di crowdfunding a cui abbia partecipato e che abbia poi raggiunto le quote necessarie alla realizzazione del progetto. Pur seguendo da molti anni Giap e Wu Ming, al momento della presentazione del progetto 4 ne rimasi sorpreso, sia perché di questo progetto dalla lunga gestazione (7 anni) nulla era mai trapelato – che ogni tanto ai Wu Ming piace buttar lì qualche indizio, qualche traccia, che prepari il terreno ai nuovi progetti in lavorazione –, sia per la selezione degli scatti fotografici di TerraProject proposti in anteprima. Commentai, scrissi che avevo immediatamente collegato quelle fotografie a Paesaggio italiano, un progetto fotografico a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati del 1984, un lavoro collettivo – fra i primi in Italia – sul paesaggio italiano. Al mio nominare Luigi Ghirri, di cui sono un estimatore, e nello scrivere di lui «come attento ai segni naturali e artificiali che contribuiscono alla definizione del paesaggio, nel cui lavoro personalmente ho sempre trovato anche un elemento “narrativo”», la risposta di Wu Ming 2 – e poi di Simone Donati di TerraProject – confermò che non avevo cannato il tiro: «Al nome di Ghirri, le fotocamere s’inchinano.»

Nello stesso commento Wu Ming 2 proponeva: «può essere divertente mettere su Giap la selezione di foto relativa a uno dei 4 elementi e poi invitare chi lo desidera a giocare la mia stessa partita, ovvero mettere in fila le immagini come “tarocchi narrativi” e provare a raccontare quel che le tiene insieme?». Un veloce giro di commenti di giapster che risposero con favorevole entusiasmo alla proposta e, il primo dicembre, pronti via, scatta l’operazione Tifiamo 4 – Acqua, il libero contest di racconti dedicato all’Acqua, ovvero al paesaggio delle coste italiane e alle sue trasformazioni, a partire dal “mazzo” di fotografie raccolte nell’omonima sezione di 4 IL LIBRO: «In breve, è come se si trattasse di un gioco di carte. Una partita di tarocchi narrativi» (WM2).

Così io, mi sono ritrovato designato come curatore/collettore. Non amando chi si prende troppo sul serio, ho accolto con sollievo la successiva mutazione della mia nomina da curatore a curandero per voce dei Wu Ming.

I 34 racconti che trovate nella presente antologia – tutti intitolati Acqua – corrispondono a quelli pervenuti. Se lo scrivere di contest, giocate, partita, poteva portare a fraintendere, ripetiamo qui che Tifiamo 4 non è stato e non ha mai voluto essere una competizione. Un gioco sì, una chiamata alla partecipazione giocosa, con delle regole così come ogni gioco prevede, un gioco serio ma senza seriosità. Il mio ruolo di curandero l’ho inteso e interpretato seguendo questo spirito, alla pari degli autori e delle autrici che hanno voluto mettere sulla carta la loro giocata. Le regole di Tifiamo 4 non definivano volutamente in modo rigido il rapporto fra le fotografie scelte e il testo costruitogli attorno, il legame fotografie-testo poteva essere anche evocativo e labile; per mantenere una sorta di unità di senso nell’antologia, nei casi in cui questo legame risultava evanescente, rischiando di perdersi, ho invitato i singoli autori a modificare – anche con delle semplici frasi-ponte – il loro racconto. A parte questo mio intervento, mi sono limitato all’editing e alla correzione delle bozze, dando sempre il primato alle intenzioni narrative degli autori. Per l’impaginazione delle fotografie all’interno dei racconti è stato scelto un layout lineare, volendo privilegiare chiarezza e semplicità, tranne nei casi in cui gli autori stessi esprimevano esigenze particolari.

La parte del mio lavoro che necessita di essere qui esposta con più dettagli è quella inerente alla scelta del criterio sulla base del quale è stata definita la successione dei racconti nell’antologia. Non è stato semplice, ho trovato aiuto in John Berger. Egli scriveva che «ciò che fa della fotografia una strana invenzione, con effetti imprevedibili, è che le materie prime con cui lavora sono la luce e il tempo».

Luce e tempo, due cardini che mi sono sembrati adatti a costruire un Scale in Acqua percorso in cui collocare i racconti: la luce come sguardo, il tempo come collocazione temporale della narrazione. Ogni racconto come cerniera fra queste due dimensioni, ma anche fra punti della medesima dimensione; così come la costa rappresenta la cerniera fra due mondi, quello marino e quello terrestre, sulla cui immagine antropizzata erano chiamati a scrivere i partecipanti al contest. O meglio ancora, come soglia, come ben rappresenta una delle immagini più “giocate” nei racconti e che vedete qui a fianco.L’esito non è una rigida sistematizzazione dei racconti, ma il risultato di un’esposizione del curandero agganciata ai due cardini guida.

Sulla base di questo criterio i racconti sono stati messi in successione, in un continuum di sezioni mute, cioè senza una suddivisione evidenziata all’interno dell’antologia. Tifiamo 4 – Acqua si apre con l’unico dei racconti scritto a quattro mani, una “strana coppia di autori” di cui una metà non può vedere le foto del reportage di Terraproject, l’unico fra i racconti in cui si gioca a “carte scoperte”: due voci che si muovono su registri paralleli e che raffigurano lo straniamento di questo stesso movimento, a mio avviso sottinteso in ognuno dei racconti presenti nell’antologia.

Se come scriveva Ghirri «la fotografia è sempre un escludere il resto del mondo per farne vedere un pezzettino», in Tifiamo 4 la costruzione di un testo attorno alle immagini fotografiche è pari ad allargare l’inquadratura, a includere, a offrire un significato raccontando una storia.

Concludendo, scriveva ancora Berger: «Ogni fotografia è un possibile contributo alla storia, e ciascuna di esse, in circostanze particolari, può essere usata per interrompere il monopolio che la storia ha oggi sul tempo». Mi piace immaginare che quest’antologia, ognuno dei racconti qui raccolti, rappresenti una di queste “circostanze particolari”, che nel suo piccolo rappresenti un sabót che rompa la continuità del tempo sotto il dominio della storia, in rappresentanza di chi, della storia, si sente oggetto.


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Published on February 28, 2014 03:47

February 24, 2014

Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese

Simone Cristicchi


di Piero Purini (guest blogger),

con una postilla di Wu Ming e una breve linkografia ragionata.


[Abbiamo chiesto allo storico Piero Purini  - o Purich, cognome della famiglia prima che il fascismo lo italianizzasse - di guardare il discusso spettacolo di Simone Cristicchi e recensirlo per Giap.

Purini è autore del fondamentale Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975appena ristampato da KappaVu con una prefazione di Jože Pirjevec.

Consigliamo questo libro a chiunque voglia conoscere e capire la storia del confine orientale nel Novecento. L'autore ha scovato, consultato e confrontato non solo fonti "nostrane", come troppo spesso accade, ma anche fonti in lingua tedesca, slovena, croata e inglese.

Per potersi dedicare alla ricerca degli «esodi» e delle migrazioni forzate nella zona che va dal Friuli orientale al Quarnero, Purini è dovuto andare all'Università di Klagenfurt, visto che in Italia aveva trovato solo porte chiuse. Metamorfosi etniche è l'espansione della sua tesi di dottorato.

Piero è modesto e non lo dice in giro, ma un paio di settimane fa lui e Poljanka Dolhar hanno messo in fuga da Radio 3 Marcello Veneziani, e senza nemmeno fargli «Buh!» Cliccare e ascoltare per credere, ma solo dopo aver letto l'articolo qui sotto.

In calce, una nostra postilla su «memoria condivisa» e rimozione del conflitto.

Ricordiamo che sotto il post ci sono due comandi: uno permette di salvarlo in ePub, l'altro lo apre in versione ottimizzata per la stampa.]

-

Magazzino 18 di Simone Cristicchi mi è sembrato un’operazione teatrale molto furba con uno scopo politico più che evidente: fornire uno strumento artistico efficace per propagandare la cosiddetta memoria condivisa, tanto cara al mondo politico «postideologico», secondo cui tutti gli italiani devono riconoscersi in una storia comune. Storia comune di cui, fin dal nefasto incontro Fini-Violante del 1998, le foibe e l’esodo sono pietre angolari.



Questa finalità prettamente politica è andata decisamente a scapito del valore artistico dello spettacolo: ne è risultata una pièce teatrale che mette insieme in maniera piuttosto bislacca generi disparati, richiami furbeschi all’immaginario collettivo italiano, imitazioni di spettacoli o film più o meno familiari allo spettatore medio. Un mix nazionalpopolare (a mio avviso piuttosto noioso e stucchevole) in cui troviamo un impiegato romano burino (che risulterà nostalgicamente simile ad alcune macchiette di Alberto Sordi); suggestioni musicali che si ispirano evidentemente a Schindler’s List (a suggerire per l’ennesima volta l’improprio paragone tra l’esodo giuliano-dalmata e la Shoah); imbarazzanti imitazioni di Marco Paolini, sia nella struttura dello spettacolo, sia nella recitazione; discutibili inserti tipo musical (alcuni brani non stonerebbero in film Disney come Pomi d’ottone e manici di scopa o Tutti insieme appassionatamente).


Secondo me, proprio l’ultima di queste canzoni – una via di mezzo tra Aladdin e Il re Leone – mostra l’ambiguità che permea l’intero spettacolo. La canzone si intitola Non dimenticare e recita: «Non è un’offesa che cede al rancore / non è ferita da rimarginare / è l’undicesimo comandamento: / non dimenticare».

E’ sottinteso, ciò che non si deve dimenticare è la tragedia delle foibe e dell’esodo, ma per ricordare questi eventi Cristicchi non esita a dimenticarne o trascurarne completamente altri che potrebbero risultare estremamente scomodi per lo scopo del suo spettacolo: appunto la creazione di una memoria collettiva esclusivamente italiana.


Cinque minuti e poi…

Innanzitutto Cristicchi dimentica di contestualizzare storicamente l’esodo. E’ vero che nello spettacolo è stata inserita una scena in cui vengono narrati i suoi antefatti storici, ma questa scena è del tutto assente nel cd allegato al libro e, se non sbaglio, ridotta nella lunghezza in alcune repliche, in quanto – almeno così mi sembra confrontando la trasmissione Rai, il cd e alcuni spezzoni tratti da YouTube – lo spettacolo viene modificato a seconda del luogo dov’è rappresentato.


Tale spiegazione storica è comunque troppo breve (cinque minuti scarsi su uno spettacolo di un’ora e tre quarti), superficiale, inesatta e abbonda di luoghi comuni. Talmente sbrigativa che sembra essere stata inserita al solo scopo di prevenire eventuali accuse di scarsa obiettività e dare un’apparenza bipartisan allo spettacolo.


Locandina Magazzino 18


La complessità etnico-linguistico-nazionale del territorio è liquidata dicendo che «per questo fazzoletto di terra ci sono passati tutti: italiani, austriaci, francesi, ungheresi, slavi». Già con questa descrizione Cristicchi può creare confusione nel pubblico: lo spettatore inconsapevole non sa che in questo territorio c’erano popolazioni autoctone (italiani, sloveni e croati) presenti da secoli, spesso fuse e mescolate tra loro, mentre Austria-Ungheria e Francia furono le entità statali che lo amministrarono.


Anche sul termine «italiani» ci sarebbe da ridire, in quanto, più che di «italiani» si trattava di popolazioni che parlavano il dialetto istroveneto della zona. Probabilmente la maggior parte degli italofoni residenti a Trieste o a Gorizia avevano la percezione di sé come fedeli sudditi asburgici, mentre l’irredentismo era appannaggio di una limitata ma rumorosa minoranza di altoborghesi (che proprio per la loro posizione sociale riusciva ad amplificare a dismisura le tesi favorevoli all’Italia) e di un’altrettanta sparuta minoranza di giovani contestatori che vedevano nel mito dell’Italia la contrapposizione ad un’Austria percepita come vecchia, bigotta ed opprimente. Esisteva anche una comunità di diverse decine di migliaia di persone di lingua tedesca, che risiedeva sul territorio da almeno 120 anni, e una miriade di piccole ma culturalmente vivacissime comunità non italiane: ebrei, serbi, cechi, greci, armeni, svizzeri, rumeni, turchi.


Gli altri esodi prima dell’esodo

Ciò che Cristicchi dimentica è che questo equilibrio e questa (fragile) convivenza non furono interrotte dal fascismo – come sostiene in Magazzino 18 -, ma già dalle autorità militari italiane subito dopo la conquista del territorio nel 1918.


Cristicchi dimentica che con la vittoria nella Grande Guerra l’Italia si annesse un territorio che comprendeva circa 500.000 non italiani.


La grande Italia. Cartolina propagandistica su Trieste irredenta, 1915


Cristicchi, che ha voluto scrivere uno spettacolo sull’«Esodo», dimentica che quello giuliano-dalmata non fu il primo spostamento forzato di popolazione di questo territorio: già a partire dal novembre ’18 si verificò una diaspora degli abitanti della zona, che se ne andavano perchè temevano l’arrivo delle truppe italiane o perché la nuova sistemazione politica del territorio impediva loro di poter restare.


Cristicchi dimentica che le autorità militari italiane già nel novembre 1918 chiusero tutte le scuole della comunità tedesca della Venezia Giulia trasformandole in buona parte in caserme;

dimentica che insegnanti tedeschi, sloveni e croati persero il lavoro, furono espulsi o addirittura internati perchè continuavano ad insegnare clandestinamente nelle loro lingue;

dimentica che migliaia di reduci dell’esercito austroungarico non poterono tornare alle proprie case perchè le autorità militari permettevano il rientro ai soli reduci di lingua italiana;

dimentica che già nel primo anno di occupazione (1918-’19) l’intellighenzia culturale slovena e croata (850 persone tra sacerdoti ed insegnanti) venne internata nel Meridione perché rappresentava il veicolo di sopravvivenza della lingua e della cultura delle due minoranze;

dimentica che vi fu una campagna di delazione nei confronti di chi in casa parlava ancora tedesco, o che molti di coloro che erano definiti “austriacanti” (anche di lingua italiana) vennero fatti salire senza troppe cerimonie sui treni e spediti a Vienna o a Graz.

Dal 1918 al 1920 la vox populi locale parlò di oltre 40.000 partenze dalla sola Trieste verso Austria e Jugoslavia.


Cristicchi dimentica (o non sa) che l’esodo da Pola di cui parla nel suo spettacolo fu preceduto da un altro che nel 1918-’19 vide la partenza di oltre un terzo degli abitanti, e che fu questo esodo a rendere la popolazione così compattamente italiana, dal momento che se ne andarono la stragrande maggioranza dei tedeschi e una parte consistente dei croati e degli sloveni.


Cristicchi ignora che nel periodo tra le due guerre oltre 100.000 abitanti della Venezia Giulia partirono per Jugoslavia, Austria o Argentina perché le condizioni del territorio sotto l’Italia erano per loro invivibili;

dimentica – o più probabilmente non sa, perchè la storiografia italiana non ne ha quasi mai parlato – che nel 1919 più di mille ferrovieri tedeschi e sloveni del compartimento di Trieste vennero pretestuosamente licenziati in tronco durante uno sciopero e spediti in Austria e in Jugoslavia per poterli sostituire con personale ferroviario italiano;

dimentica che lo Stato italiano portò avanti una campagna di insediamento di italiani provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Puglia per sostituire i non italiani che erano partiti e che dal ’18 al ’31 furono quasi 130.000 gli immigrati nella Venezia Giulia, un numero tale che le autorità dovettero addirittura proibire l’immigrazione nelle nuove province, perché la situazione economica del territorio non permetteva di fornire occupazione a tutti.


I primi immigrati ad arrivare furono 47.000 tra militari, carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie, che dovevano imporre un controllo di stampo quasi coloniale alle nuove terre. La militarizzazione del territorio è particolarmente evidente se viene confrontata con la situazione prebellica: prima del conflitto l’Austria manteneva di stanza nel Litorale solamente 25.000 tra soldati e gendarmi, di cui ben 17.000 concentrati a Pola, dove si trovava la più grande base militare della marina austroungarica.

Cristicchi, poi, dimentica (ma più probabilmente ignora) che nel settembre del 1920, per piegare un sciopero, l’esercito cannoneggiò le case del rione “rosso” di San Giacomo, caso unico nella storia d’Italia di uso dell’artiglieria pesante contro un centro abitato in tempo di pace.


L’incendio del Narodni Dom

Nella sua scena di «introduzione storica» Cristicchi parla delle violenze contro i non-italiani (attribuendole tutte al fascismo, ancor prima che il partito fascista esistesse) e cita – giustamente – l’incendio del Narodni Dom, l’enorme casa del popolo, centro culturale e simbolo degli sloveni, dei croati e dei cechi nel centro di Trieste. Cristicchi sostiene che la sua distruzione fu «la prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia e la popolazione slovena e croata». Affermazione discutibile, visto che tensioni e violenze ce n’erano già state prima, e che – ad esempio – già in epoca asburgica il principale partito italiano, quello liberalnazionale, aveva ottenuto che a Trieste venisse impedita la costruzione di un liceo sloveno.


L'incendio del Narodni Dom, 13 luglio 1920

L’incendio del Narodni Dom di Trieste, 13 luglio 1920


Per giunta Cristicchi presenta l’incendio del Narodni Dom come una reazione all’uccisione di due militari italiani a Spalato. La stampa nazionalista dell’epoca aveva però omesso di dire che quei due militari avevano appena mitragliato i partecipanti ad una manifestazione, uccidendone uno, e pure Cristicchi omette questo particolare. Invece, rispetto all’incendio, in un’intervista a Repubblica ha sostenuto che ci sono «dubbi e chiaroscuri» (aggiungendo tra l’altro «Lì è morta una persona soltanto»!), insinuando forse l’interpretazione in voga durante il fascismo secondo cui dal palazzo si sparò e vennero gettate bombe contro gli assedianti, versione già ampiamente smentita dalla stampa non fascista e dalla stampa straniera dell’epoca, nonché da storici titolati e decisamente non sospettabili di simpatie filoslave come Carlo Schiffrer.


Chi ha detto «Italiano = fascista»?

Magazzino 18 descrive le prevaricazioni che il fascismo adottò per legge contro le minoranze: il divieto di utilizzare lingue straniere nei tribunali e negli uffici pubblici (ma dimentica che gli sloveni riottennero questo diritto solo nel 2001!); la totale chiusura delle scuole slovene e croate; la rimozione delle tabelle in slavo (ma dimentica che ancor oggi nel centro di Trieste non si sono le tabelle bilingui per non urtare la sensibilità di qualcuno…); l’italianizzazione di «molti» cognomi (si parla di 100.000 persone solo a Trieste, mezzo milione in tutta la Venezia Giulia… Solo «molti»?) e quella dei toponimi (con paesi che ancor oggi, nonostante gli esiti di referendum locali, non possono tornare ufficialmente al nome originario perché è necessaria una votazione in parlamento)… «Gradualmente,» dice Cristicchi, «gli spazi culturali, economici e sociali degli slavi vengono soppressi». Corretto. Ma non sarebbe stato male aggiungere che accanto alle chiusure per legge avvenivano veri e propri pogrom antislavi, con distruzione di tipografie, circoli, case private, negozi. Chi parlava sloveno o croato in pubblico rischiava bastonate, sputi (alcuni zelanti maestri erano usi sputare in bocca agli alunni che non parlavano in italiano), olio di ricino e addirittura olio da motore, come quello che venne somministrato al dirigente di coro Lojze Bratuž, che morì un mese dopo.


Bratuz

Lojze Bratuž, italianizzato in Luigi Bertossi. Morto a Gorizia nel 1937 a soli trentaquattro anni. Una squadra fascista lo sequestrò e gli fece bere a forza olio da motore. Il giorno della sua morte, gli amici si radunarono di fronte all’ospedale e cantarono una canzone slovena (gesto proibito dal fascismo), poi fuggirono per non subire violenze a loro volta.


Cristicchi scrive che il risentimento produsse tra sloveni e croati l’equazione «italiano = fascista». E anche qui c’è una bella dimenticanza. In realtà questa uguaglianza non fu un’invenzione di sloveni e croati, ma per un ventennio fu portata avanti dalla propaganda fascista: proclamando l’entrata in guerra contro l’Etiopia, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce aveva enfaticamente affermato: «L’identità tra Italia e fascismo è perfetta, assoluta, inalterabile». Dunque anche qui si attribuisce agli slavi come errore di valutazione una parola d’ordine che invece era ben radicata nell’ideologia fascista e probabilmente gradita a non pochi italiani.


Cartello contro l'uso della lingua croata affisso dai fascisti a Dignano/Vodnjan


Occupazione fascista e Resistenza

Cristicchi passa poi all’analisi del periodo bellico: cita l’invasione della Jugoslavia, gli incendi di villaggi, i massacri di civili, i crimini di guerra per cui nessuno ha mai pagato, gli ordini delittuosi di Roatta, le migliaia di morti nei campi di internamento, in primis quello di Arbe (anche se attribuisce tutto ciò a Mussolini, quando invece dietro di lui c’era tutto un apparato militare e amministrativo-burocratico che sosteneva le sue avventure belliche al di là dell’appartenenza al fascismo).


Tutto corretto storicamente, ma troppo sbrigativo: quelle che sono le cause principali di foibe e deportazioni sono liquidate in poche frasi. Forse Cristicchi avrebbe potuto ricordare la città di Lubiana, circondata da filo spinato e trasformata essa stessa in un enorme campo di concentramento; avrebbe potuto spiegare come i militari italiani a Podhum uccisero 91 abitanti, ne deportarono 900 e rasero al suolo l’intero paese, non diversamente da quanto i tedeschi fecero a Sant’Anna di Stazzema o a Marzabotto. Avrebbe potuto dire che la Slovenia ebbe un numero di vittime pari al 6,3% della popolazione, addirittura la città di Lubiana raggiunse il 9% di vittime; avrebbe potuto dire che la Jugoslavia contò un milione e centomila vittime su una popolazione di 15 milioni (solo a titolo di paragone l’Italia su 43 milioni ebbe circa 450.000 vittime).


Soprattutto, Cristicchi dimentica (o non sa) che molti di quelli che sfuggirono ai massacri italiani e tedeschi andarono ad ingrossare le fila della resistenza antifascista di Tito.


Partigiani della divisione italiana Garibaldi, II° Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

Partigiani della divisione italiana Garibaldi, inquadrata nel II° Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.


I partigiani, nel racconto di Cristicchi, ad un certo punto «scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati» ed iniziano a girare casa per casa alla ricerca delle loro vittime su cui sfogare la propria vendetta.


Cristicchi omette di dire che i partigiani non fecero campeggio in montagna per poi andare ad ammazzare gli italiani: sostennero una lotta durissima contro le forze dell’Asse, contro i nazifascisti e dopo l’8 settembre 1943 contro i tedeschi e contro i collaborazionisti italiani che continuarono a combattere a fianco dei nazisti. Perché anche questo Cristicchi dimentica: che con l’armistizio e la dissoluzione dell’esercito italiano, una parte dei soldati italiani riuscì a tornare a casa, mentre altri si unirono proprio a quelle forze di Tito che sarebbero «scese dalle montagne» per «colpire gli italiani che sono un ostacolo» alla grande Jugoslavia (termine inventato: non è mai esistita una «grande Jugoslavia», a significarne l’espansionismo, a differenza di «grande Serbia», o «grande Germania»).

Altri soldati italiani continuarono a combattere assieme ai tedeschi. Cristicchi dimentica di dire che spesso questi collaborazionisti italiani si incaricarono del «lavoro sporco» (rastrellamenti, torture, esecuzioni), forse facendo – questi sì – odiare gli italiani in quanto fascisti.


Inoltre, quando parla dei partigiani Cristicchi li descrive sempre come «bande», «titini», «ribelli» rimuovendo il fatto che i soldati di Tito non furono bande feroci e selvagge, bensì un esercito che combatteva contro l’Asse e considerato parte integrante delle forze alleate.


Infoibare la storia

L’argomento foibe, poi, è un condensato di luoghi comuni e dimenticanze.


Innanzitutto Cristicchi omette la distinzione tra le cosiddette «foibe istriane» (1943) e le «foibe triestine» (1945). Le prime furono una sorta di jacquerie, di rivolta contadina contro chi aveva detenuto il potere fino ad allora, in cui la rappresaglia politica potè mescolarsi in alcuni casi a vendette personali. Cristicchi esclama: «Sta gente è stata ammazzata in tempo de pace!», ma dimentica che nel settembre ’43 c’era ancora la guerra.


Simone Cristicchi


Sulle foibe triestine, Cristicchi sfrutta il solito luogo comune secondo cui tutte le vittime sarebbero state infoibate. Come sa chiunque si occupi anche lontanamente dell’argomento, gli scomparsi del maggio ’45 finiti effettivamente nelle voragini carsiche sono stati una minoranza: qualche decina di persone. Gli altri furono deportati in quanto appartenenti a forze armate che avevano combattuto contro l’esercito jugoslavo, al pari di quanto accadde agli italiani catturati da inglesi, francesi, americani e russi. Le condizioni della prigionia non erano certamente delle più facili (ma i soldati catturati in Russia o in Africa non ebbero condizioni migliori); va detto però che buona parte di chi non aveva responsabilità personali riuscì a tornare.


Per fascisti e collaborazionisti vennero allestiti processi che si conclusero anche con condanne a morte. Il fatto però che le persone venissero liquidate «in quanto italiane» è smentito sia dal fatto che alcuni fascisti colpevoli di crimini vennero liberati dagli jugoslavi che non li riconobbero (il che la dice lunga sulla «terribile efficienza» della polizia segreta jugoslava), sia dai numeri. Cristicchi dà cifre vaghe (500, 5.000, 10.000, 14.000), mentre quasi tutti quelli che sono andati a spulciarsi uno per uno le liste dei “desaparecidos” concordano su un numero tra 1.000 e 2.000 persone. Cifre analoghe a quelle dei morti negli ultimi giorni di guerra a Genova, a Torino o in Emilia. Dove però mai nessuno è stato ucciso «in quanto italiano». Mi sembra dunque che questi numeri siano la riprova numerica del fatto che in queste terre le esecuzioni del maggio ’45 non hanno risposto ad una logica di pulizia etnica, bensì siano state la – purtroppo – fisiologica resa dei conti di un conflitto che era stato atroce e fortemente ideologico.


Se poi si vanno a confrontare le cifre delle vittime a guerra finita in Jugoslavia, si nota come altrove – dove Tito non doveva temere di rendere conto agli alleati – la mano della giustizia partigiana fu estremamente più pesante rispetto alla Venezia Giulia dove sarebbe avvenuta la «pulizia etnica».


Sorvolo sul caso Norma Cossetto, sulla descrizione della foiba (che sembra tratta pari pari dal racconto del sedicente sopravvissuto Graziano Udovisi) e sulla strage di Vergarolla, in quanto Cristicchi le interpreta come avvenimenti sicuri, ma dimentica di segnalare che si tratta invece di singoli episodi sui quali sono cresciuti a dismisura racconti mai corroborati da prove, o al massimo si sono fatte ipotesi investigative.


Davvero «non si può vivere senza essere italiani»?

Rispetto all’esodo è interessante come Cristicchi generalizzi l’esodo da Pola, facendo credere che anche l’esodo dalle altre parti dell’Istria, da Fiume, da Zara, dalla Zona B, dal Muggesano si sia svolto nello stesso modo. La questione è che l’esodo da Pola risponde a tutti i clichés di cui lo spettacolo ha bisogno: la partenza in tempi brevi, le navi, il trasporto delle masserizie, la neve, la bora.


Cristicchi dimentica che l’esodo fu un fenomeno estremamente complesso, che avvenne con modalità e tempi diversi: Zara fu addirittura sfollata ancora durante la guerra a causa dei bombardamenti angloamericani, l’esodo di Fiume si risolse in pochi mesi, l’esodo dalla Zona B si prolungò per anni, dando il tempo agli abitanti di fare una lunga analisi sul se, sul come e sul quando partire; quello del Muggesano coinvolse una popolazione in larghissima parte comunista cominformista che in maggioranza rifiutò l’aiuto delle associazioni dei profughi per non essere strumentalizzata dalla destra o dalla DC.


Soprattutto, Cristicchi dimentica le mille cause di questa complessità. Banalizza affermando che ci fu una causa sola: la gente partì «perché non si può vivere senza essere italiani».


In nome di questa tesi, Cristicchi rimuove il fatto che la Jugoslavia stava realizzando riforme di stampo socialista nell’economia: aveva appena approvato pesanti restrizioni nel commercio privato, imposto la distribuzione delle derrate alimentari attraverso cooperative, pesantemente tassato le rendite finanziarie, attuato una riforma agraria in base alla quale venne proclamata l’abolizione della mezzadria, del colonato e del lavoro agricolo su appalto, assegnato le terre ai contadini che dimostrassero di lavorarle da almeno quindici anni, e infine stabilito il sequestro dei latifondi e la distribuzione delle terre, nonché l’uso collettivo delle macchine agricole, tassando pesantemente le terre incolte ed i terreni oltre determinate superfici.


In un contesto del genere, che qui mi sono limitato a riassumere, è chiaro che tutta una serie di categorie (proprietari immobiliari, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, imprenditori, locatori, addetti alla distribuzione ecc.) videro la partenza come l’unica soluzione dei loro problemi, a prescindere da quale paese vi fosse oltre frontiera. Credo che sull’esodo abbia giocato molto di più la paura di un sistema economico-politico demonizzato dal fascismo, dalla chiesa e dall’influente DC che di là dal confine spingeva per la partenza del maggior numero di persone. Non si dimentichi inoltre che per la piccola e media borghesia (quella che oggi viene chiamata middle class) la questione si semplificava in un’equazione molto banale: Jugoslavia = comunismo = miseria, Italia = Stati Uniti = ricchezza.


Un’altra paura che spingeva alla partenza era il sovvertimento di quello che fino ad allora era stato l’ordine sociale: le classi che avevano detenuto il potere venivano ad essere spazzate via da una sorta di tsunami sociale. Operai e braccianti diventavano arbitri dell’esistenza di chi fino ad allora aveva tenuto le redini del sistema sociale e ora non intendeva diventare subalterno agli ex servi. Non dunque fuga per l’italianità, quanto fuga dal socialismo, dal ridimensionamento sociale e dalla (probabile) miseria.


Lui ricorda, solo che ricorda male.

Lui ricorda! Ma solo quello che gli fa comodo. Per giunta, lo ricorda male.


Cristicchi dimentica che le autorità italiane spinsero sotterraneamente all’esodo: attraverso le organizzazioni degli esuli, in Istria si pubblicavano appelli per la partenza e si reclamizzavano i veri e finti vantaggi che i profughi avrebbero avuto in Italia (non si dimentichi che comunque, da un punto di vista economico, l’Istria era una delle zone più depresse del Regno d’Italia e perciò l’esodo poteva essere addirittura allettante). La DC, riuscita ad accreditarsi come la forza politica che maggiormente tutelava i profughi, doveva rendere solida la propria base nelle terre di confine e dopo il 1954 la massa di profughi fu fatta fermare a Trieste, nell’intento da parte del governo di rendere più sicura una città che in realtà molto fedele all’Italia non era mai stata (i due quinti dell’elettorato triestino si esprimevano per partiti favorevoli all’indipendenza). A Trieste i profughi ebbero precedenza nell’impiego pubblico e privato e graduatorie privilegiate nell’assegnazione di case popolari. In Magazzino 18 si dimentica che, con la saturazione del mercato del lavoro e l’impossibilità di accedere ad alloggi, circa 25.000 triestini dovettero optare per l’emigrazione in Australia.


Anche i numeri confutano la tesi che gli esuli siano partiti per mantenere la propria italianità. Cristicchi, prendendo come oro colato il numero canonico di 350.000 profughi (in realtà inventato da Flaminio Rocchi), dimentica che in base al censimento del 1936 il numero di italiani residenti nelle terre perse era di 264.799. Se si dà credito alla cifra di Rocchi, si afferma automaticamente che 85.000 non italiani partirono… per restare italiani!


Non ho grandi considerazioni da fare sul pessimo accoglimento dei profughi a Bologna, salvo ricordare che purtroppo accoglienze di questo genere sono piuttosto frequenti: anche i profughi sloveni dopo la prima guerra mondiale, quando giunsero nei loro luoghi di destinazione in Jugoslavia, vennero spesso accolti con epiteti come lahi – spregiativo di «italiani» – e fašisti, proprio coloro dai quali stavano scappando.


Sulle condizioni dei campi profughi, è indubbio che esse furono terribili, ma solo una minoranza assoluta dei profughi ci visse per dieci anni (come si dice in Magazzino 18): per la maggior parte fu un periodo di transizione relativamente breve: in genere, dopo qualche anno, a volte solo qualche mese, i profughi ottenevano alloggi popolari di buona qualità. A Trieste vennero edificati interi rioni esclusivamente per profughi, come il complesso di Chiarbola con 112 edifici per un totale di 868 appartamenti.


Visita a Goli Otok

Infine due accenni: il «controesodo» e i «rimasti».

Cristicchi dimentica che, tra i cantierini monfalconesi andati in Jugoslavia per «costruire il socialismo», quelli che non abbracciarono la causa del Cominform poterono tranquillamente restare in Jugoslavia. Degli altri solo una minoranza venne arrestata ed internata. La maggior parte potè tranquillamente (e mestamente) tornarsene in Bisiacheria. I monfalconesi che finirono nei gulag della costa adriatica furono una quarantina, a dimostrazione che non ci fu alcun accanimento contro di essi «in quanto italiani», ma solo in quanto irriducibili stalinisti.


«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell' isoletta.» Clicca sull'immagine se vuoi visitare Goli Otok.

«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell’ isoletta.» Clicca sull’immagine se vuoi visitare Goli Otok.


«Non esiste un monumento, una targa. Niente. Goli Otok non c’è nemmeno sui dépliant», dice Cristicchi. Gli segnalo che i dépliant su Goli Otok ci sono eccome e ci si possono anche fare delle visite di diverse ore. Resterà un po’ deluso, perché quella che lui definisce «per quasi 40 anni la prigione della Jugoslavia» fu un carcere per prigionieri politici per non più di dieci anni. Divenne poi un penitenziario per criminali comuni e negli anni ’70 fu trasformato in riformatorio, in cui i giovani detenuti venivano indirizzati all’attività turistica. Alcuni abitanti della costa mi hanno raccontato che in estate i turisti potevano raggiungere l’isola in barca e mangiare al ristorante del riformatorio, dove i reclusi lavoravano come cuochi e camerieri. Raccontano ancor oggi di piatti di pesce ottimi e prezzi bassissimi. Dal 1988 l’intero complesso è stato chiuso ed è ora fatiscente.


I «rimasti»

Cristicchi parla della triste sorte dei rimasti, ma dimentica che le comunità italiane di Fiume, Rovigno, Capodistria, Pola, Cittanova (anzi, come piace dire a lui storpiando: Rigeca, Rovini, Coper, Pula, Novigrad…) ebbero scuole italiane, bilinguismo, la possibilità di relazionarsi con gli uffici pubblici nella propria madrelingua, circoli culturali, cori, giornali, case editrici, rappresentanti nelle istituzioni politiche ecc.


In conclusione credo che Cristicchi sia il primo a dover rispettare quel suo «undicesimo comandamento»: all’inizio di Magazzino 18 parla di un’ «enorme amnesia», ma mi pare che questo spettacolo continui a perpetuare un’amnesia altrettanto enorme su altri aspetti che è assolutamente necessario conoscere per capire la storia.

Non dimenticare, caro Simone.


Anzi, magari la prossima volta, per non dimenticare, cerca di informarti meglio.



Una postilla sulla «memoria condivisa»
Piero Purini

Piero Purini


Anche noi, finalmente, abbiamo trovato il tempo e lo stomaco di vedere Magazzino 18.


Siamo pienamente d’accordo con il nostro guest blogger quando dice che l’intento dello show è chiaramente politico e tutta l’operazione si inserisce nella costruzione della solita «memoria condivisa» pseudo-pacificatrice.


E’ su quest’ultima che vogliamo aggiungere qualcosa.


La «memoria condivisa» è in realtà smemoria collettiva, una ri-narrazione della storia italiana che finge di voler mettere d’accordo tutti, siano essi oppressori od oppressi; sfruttatori eredi di sfruttatori o sfruttati eredi di sfruttati; nipoti di italiani che combatterono agli ordini di Graziani (cioè di Hitler) o nipoti di italiani trucidati dai nazifascisti.

Non devono più esserci destra e sinistra, ragioni buone e cattive, scelte giuste e sbagliate. Soprattutto, non deve più esserci lotta. A sostituire tutto questo, una marmellata di «opinioni» preventivamente rese innocue, neutralizzate. Tutti abbiamo avuto le nostre vittime, e le vittime sono vittime, i morti sono tutti uguali ecc.


Frasi come «i morti sono tutti uguali» significano in realtà: tutte le storie si equivalgono, una scelta è valsa l’altra, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, e chi cazzo siete voi per dirci cosa dobbiamo fare, non ci rompete i coglioni.

I morti saranno forse «tutti uguali» (qualunque cosa significhi), ma sono diverse – a volte opposte e inconciliabili – le cause per cui si muore. Se non si riconosce questo, l’uguaglianza tra i morti è solo una supercazzola per difendere un sistema basato sulla disuguaglianza tra i vivi.


Giorgio Napolitano


Dopo il riconoscimento delle «buone ragioni» dei «ragazzi di Salò» (ma «italiani di Hitler» sarebbe più preciso), è stata tutta una valanga.

In questo processo il «centrosinistra» ha molte più responsabilità del «centrodestra», che è solo passato dalle porte che gentilmente gli venivano aperte. Non a caso quell’apertura ai repubblichini la fece Luciano Violante.


Per capirci: se a fini retorici dovessimo dare a questo revisionismo storico omologante un nome di persona, sarebbe quello di Giorgio Napolitano, che ne è il massimo propugnatore istituzionale. Che dire di quest’estratto da un suo famoso discorso del 2007, dove ogni frase contiene un falso storico?



«[...] già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.»



In realtà comincia tutto molto prima degli anni Novanta, con la creazione del mito degli «Italiani brava gente». Un mito che agisce tutti i giorni e ci fa chiudere gli occhi su troppe cose, in primis sul nostro razzismo.


Ma c’è anche più di questo: chi controlla il passato controlla il presente. Imporre un orizzonte fintamente pacificato serve a rendere inaccettabile l’idea del conflitto sociale, e quindi a criminalizzare quest’ultimo quando inevitabilmente si manifesta.

C’è un collegamento diretto tra la «memoria condivisa», le «larghe intese» – che hanno una storia ben più lunga dell’ultimo anno, e prima che parlamentari sono intese economiche e culturali – e l’accusa di «terrorismo» scagliata contro chiunque sia interprete di conflitto, o semplicemente non rimuova l’esistenza del conflitto.

Conflitto che è interno alla società, prodotto dalle sue contraddizioni, dall’incessante attrito degli interessi e bisogni contrapposti. Conflitto intrinseco, endogeno, e quindi endemico.


Con buona pace delle dichiarazioni sul «né destra né sinistra», la rappresentazione di una società senza conflitto interno, dove ogni contraddizione viene sfogata contro presunti nemici esterni (volta per volta i mestatori eredi dello «slavocomunismo», i perfidi indiani che sequestrano i «nostri» marò, «l’Europa» ecc.) è una rappresentazione eminentemente di destra.


La storia non è una fiction, noi ricordiamo tutto

Contestazione a Magazzino 18. «La storia non è una fiction, noi ricordiamo tutto». Striscione aperto al Teatro Aurora di Scandicci (FI) la sera del 30 gennaio 2014.


Contributi e analisi critiche su Magazzino 18 (lo spettacolo e l’operazione mediatica)

Lo.Fi.

Magazzino 18: la storia cucinata alla maniera delle Basse Intese

L’autore ha una storia di famiglia direttamente legata all’esodo istriano, ma non accetta la versione di quella storia propagandata da certe associazioni e lobby di profughi. Le stesse lobby che, per il tramite di Jan Bernas, hanno «imbeccato» Cristicchi e le cui posizioni il cantautore romano ripropone acriticamente nel suo show.


Claudia Cernigoi

Recensione di Magazzino 18

Oltre a questa dettagliata disamina, sul sito diecifebbraio.info c’è una pletora di altri materiali in tema.


Linkiamo anche un articolo di Fulvio Rogantin apparso sul sito triestino bora.la:

Esodo, le parole pesano: Cristicchi e dintorni

L’impostazione dell’articolo è molto discutibile: l’autore è troppo teso in uno sforzo bipartisan, di condanna degli «opposti estremismi», e ogni volta che critica Cristicchi deve mettere sull’altro piatto un’equipollente critica a chi critica Cristicchi, and the other way around. Nondimeno, sullo showman, sulla sua superficialità e inadeguatezza, scrive cose che in linea di massima condividiamo:


«E’ forse troppo offensiva la definizione data dalla Cernigoi [...] di Cristicchi “testa di legno”, certo la sensazione è quella di un autore che si è innamorato del raccontare una tragedia, un Nabucco contemporaneo, si è innamorato dell’impatto emotivo del magazzino 18, ma che non ha capito dall’inizio che chi lo accompagnava nel suo percorso di conoscenza non aveva una visione neutrale degli episodi. Cristicchi appare non capace di poter affrontare il tema, si difende dicendo che ha dato priorità alle storie delle persone, che ad esempio non parla di numeri. Difende il suo diritto a raccontare le storie della gente e d’altra parte a non fare lo storico. Non tiene conto, o forse lo ha scoperto tardi quando la macchina era già in moto, che queste storie sono ancora per molti, a maggior ragione da queste parti, scontro politico, ideologico. Cristicchi anche nelle poche parole che dice mostra di aver colto poco gli equilibri/squilibri sottili del pantano in cui si è ficcato.»


Abbiamo precisato «in linea di massima» perché secondo noi questa descrizione calzava al personaggio fino a qualche mese fa, ma ora non calza più. Sì, probabilmente all’inizio si è mosso per ingenuità e ignoranza, ma dopo…


Beh, ecco, dopo...

Beh, ecco, dopo…


Noi abbiamo letto le difese di Cristicchi e le sue risposte alle critiche (con tanto di vittimismo arrogante alla Pansa); abbiamo constatato l’uso di miseri escamotages che a noi stessi è capitato di smontare; abbiamo assistito alle cagnare fasciste aizzate da Cristicchi su Facebook contro Claudia Cernigoi (e suo marito). E tutto questo è accaduto prima della contestazione di Scandicci.


Ecco il nostro ponderato parere: l’ignoranza c’è ancora tutta, ma adesso prevale la malafede.


[A proposito: sotto l'articolo di Rogantin c'è l'inferno.]


Molti materiali sulle polemiche intorno a Magazzino 18 si possono trovare sul blog di Marco Barone.


Sull’incendio al Narodni Dom, consigliamo la lettura di questo dossier:

Al Balkan con furore. Ardua la verità sul tenente Luigi Casciana

Casciana è il presunto «martire fascista» di quei giorni. La vicenda è degna del Camilleri di Privo di titolo.



Un’ultimissima cosa, e riguarda i nostri gustibus: noi preferiamo Purini a Cristicchi non solo come fonte su cos’è accaduto al confine orientale, ma anche come musicista. Però, appunto, son gusti nostri.



N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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Published on February 24, 2014 11:40

February 21, 2014

Il cattivo tedesco e il bravo italiano. Intervista allo storico Filippo Focardi

Copertina del libro di Filippo Focardi


Premessa – di Wu Ming 1


Ecco un’occasione da cogliere al volo.


Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…

Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere - l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.


Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.


[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.

Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l'elargizione non si sono costituite parte civile.]


Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.


Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:

- la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;

- l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;

- la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);

- i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;

- l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;

- la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.

E l’elenco sarebbe ancora lungo.


Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:



[A un'analisi di Magazzino 18 nel contesto della narrazione «Italiani brava gente» dedicheremo presto un post. Senza inutile fretta, niente corse di topi. Lo sta scrivendo uno dei partecipanti a questa puntata di Fahrenheit, il cui ascolto suggerisco vivamente.]



Consigliamo il suo libro a chi vuole capire la storia del confine orientale, “Esodo”, foibe, fino al caso Cristicchi http://t.co/ao0eQhQ04I


— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) 20 Febbraio 2014


Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).



A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:



«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»



Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.

Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.


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Published on February 21, 2014 02:56

February 19, 2014

Noi, «piantagrane d’Europa». La BBC parla di Wu Ming e dei #notav

Europe's Troublemakers

Clicca sull’immagine per ascoltare la trasmissione.


Poco più di un mese fa abbiamo accompagnato in Val di Susa una troupe della BBC. Di Radio 4, per la precisione. Lucy e Mark stavano preparando una puntata della trasmissione Europe’s Troublemakers, che va alla scoperta di «controversial characters from different corners of the continent». Abbiamo mostrato loro i luoghi della lotta No Tav, a partire dal cantiere del «cunicolo geognostico» in Val Clarea. Ecco, in un breve flash, cos’è accaduto:



@SpintaDalBass @Wu_Ming_Foundt thanks for showing me your campaign against high speed train under Alps – police were not too happy to see us


— Lucy Ash (@bbclucyash) January 10, 2014


E questo è il resoconto scritto la sera stessa dal comitato No Tav Spinta dal Bass:



Oggi siamo saliti in Clarea con due giornalisti della BBC, Mark Savage e Lucy Ash, e uno dei componenti del collettivo di scrittori Wu Ming. Come ogni volta il pugno nello stomaco che arriva dopo aver girato l’ultima curva prima del cantiere ci ha tolto l’aria dai polmoni. Non ci stancheremo di denunciare questa devastazione e continueremo a far di tutto per fermarla.


Arrivati all’altezza della baita un drappello di cacciatori (i reparti speciali dei carabinieri) compare dietro di noi. Forse perplessi per via dei microfoni e dalle attrezzature non si avvicinano subito. Ci lasciano il tempo di arrivare in uno dei nostri terreni e dopo pochi minuti ci circondano. La solita trafila: «Documenti», «Questa è una zona vietata», «Voi non potreste stare qui». I nostri ospiti anglosassoni paiono stupiti, ma il bello deve ancora arrivare. Mark scatta qualche foto con il suo telefono; al cantiere, ai no tav lì presenti, alle montagne intorno. Una cosa normale, quotidiana; ma non in Clarea. Subito viene avvicinato dalla dirigente di polizia che gli intima di non fotografare e gli ordina di cancellare gli scatti fatti al cantiere. Mark è stupito, non è normale impedire a un giornalista di fotografare. Fa notare alla poliziotta che quel cantiere è finanziato con fondi europei e che è quanto meno un diritto, se non un dovere, di chi fa informazione testimoniare come vengano spesi i soldi dei cittadini. Niente da fare, il cantiere non può essere immortalato.


Vivendo in Valle ci siamo abituati ai posti di blocco, al filo spinato, alle zone rosse e alle identificazioni. Ma non è normale, e per chi non sta qui questa situazione appare stupefacente.


Torniamo indietro, non prima di aver fatto un giro a Venaus e al presidio di Vaie che hanno bruciato ma che già è rinato.


Mark ci saluta con una domanda: «Come finirà questa storia?». Noi gli rispondiamo: «il punto non è come finirà, ma quando».



La sera prima, 9 gennaio, Lucy e Mark erano venuti alla «Notte degli Scrittori» al Teatro Carignano di Torino, dove Wu Ming 1 aveva letto in anteprima un brano de L’Armata dei Sonnambuli. Dopo il reading, mentre intervistavano spettatori a casaccio, si sono imbattuti nel collega Mariano Tomatis. [Doppiamente collega: anche lui è scrittore, anche noi siamo maghi.]


Abbiamo trascorso molte ore insieme ai due giornalisti. Loro sono stati  molto bravi a sintetizzarle in un quarto d’ora di trasmissione, e noi siamo contenti che in quel quarto d’ora si senta la voce di Gabriella Tittonel, forza motrice dei Cattolici per la vita della Valle. Insomma, bando alle ciance: buon ascolto!




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Published on February 19, 2014 14:51

Wu Ming 4's Blog

Wu Ming 4
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