Notes for a Musical Intifada

Oday al Khatib

Oday al Khatib


di Dimitri Chimenti (guest blogger)


[Chimenti, oltre che un acuto studioso di cinema e letteratura e uno dei più curiosi indagatori di "oggetti narrativi non-identificati", è autore del documentario Just Play (2012).

Just Play racconta la storia di Al Kamandjâti (Il Violinista), un'associazione culturale che da 10 anni porta le sue scuole di musica in un territorio che dai campi profughi del Libano arriva sino alla Striscia di Gaza. La musica come mezzo di liberazione. "Che senso ha suonare Bizet tra le sbarre di un checkpoint? Perché un’orchestra sfida un esercito? Qual è la posta in gioco?" In questo articolo/racconto per Giap, Dimitri racconta cos'è accaduto a uno dei protagonisti del film.]

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19 marzo 2013


Sono le 21.51 quando ricevo il messaggio di Jibril su Skype: hanno arrestato Oday. Il capo d’accusa non si conosce e nessuno sa dove è rinchiuso; l’unica notizia certa è che tre giorni fa è partito da Ramallah per fare visita ai genitori nel campo profughi di Al Fawwar, pochi chilometri a sud di Hebron. Da allora più niente.


La prima volta che l’ho sentito cantare, Oday Al Khatib aveva 15 anni ma ne dimostrava non più di 10; oggi è un famoso interprete dei canti di resistenza palestinesi e quando torna al campo viene accolto come una celebrità. Stavolta però è diverso, da qualche giorno tira una brutta aria ad Al Fawwar: i soldati hanno ammazzato un ragazzo durante un raid e ci sono manifestazioni, scontri e arresti in tutto il campo profughi. Oday deve esserci finito in mezzo. Se le cose si mettono bene lo tengono qualche notte per cercare di estorcergli chissà quali informazioni. Se si mettono male sta dentro mesi. Prima o poi i genitori riceveranno una comunicazione, magari tramite un difensore d’ufficio, e a quel punto sapremo dove è tenuto prigioniero.


Oday at Qalandia Checkpoint

Oday al Qalandia Checkpoint


21 giugno 2011


Se il soldato dietro il vetro si accorge che il lasciapassare appartiene a un altro, va a finire male. Oday lo sa e canticchia per farsi coraggio. Da piccolo esibirsi a Gerusalemme non era un problema, ma da quando è maggiorenne gli serve un permesso e non c’è verso di ottenerlo. Tutte le sue richieste vengono respinte con le stesse tre parole di motivazione: questioni di sicurezza. Oday non ha precedenti penali, ma è nato e cresciuto in un campo profughi e tanto basta a farne un individuo potenzialmente pericoloso. Se a ciò si somma che i fratelli sono stati tutti in prigione, le sue possibilità di cantare al di là del muro scendono a un quarto di zero. Un divieto inaccettabile per chi gira gli auditori di mezza Europa; e Oday non accetta, a costo di farsi tre mesi di cella. Ci sono molti modi per entrare senza lasciapassare, il più comune dei quali è seguire la rotta dei lavoratori irregolari che ogni giorno raggiungono Gerusalemme attraversando le colline circostanti. Un percorso a piedi lungo chilometri sul quale è facile perdersi, finire in bocca a una pattuglia israeliana o prendersi una pallottola. Negli ultimi tempi poi l’esercito utilizza cani da attacco lungo le frontiere, bestie talmente feroci che per fargli lasciare la presa devi stordirle con una pistola Taser. Ecco perché c’è chi preferisce giocarsela al checkpoint. Il trucco consiste nell’attraversare in gruppo, accucciarsi dietro ai compagni e al momento giusto, quando il soldato nel gabbiotto ha la visuale coperta, sgattaiolare oltre il checkpoint senza farsi vedere. Sembra una barzelletta, invece è proprio così che Oday è passato l’ultima volta. Quest’anno proverà con un permesso rilasciato a un ragazzo di 15 anni. Lui di anni ne ha 20 ma senza barba sembra un ragazzino e soprattutto ai minori di 16 anni non chiedono un documento di identità. Ha imparato a memoria data di nascita e nome del ragazzo e adesso canticchia con le braccia appoggiate al tornello d’acciaio, in attesa che si sblocchi.


26 marzo 2013


C’è voluta una settimana per sapere che è rinchiuso nel Carcere di Ofer , appena fuori Ramallah. Lo hanno preso durante un rastrellamento quindi non si tratta di un arresto mirato e questo potrebbe essere un bene. L’accusa nei suoi confronti è di aver lanciato pietre a una pattuglia di soldati israeliani e questo è di sicuro un male. Se condannato, Oday rischia 10 anni di carcere. La buona notizia è che ha incontrato un avvocato.


Concert at Qalandia Checkpoint

Concerto al Qalandia Checkpoint.


22 giugno 2011


I musicisti scendono dal bus con il leggio in una mano e lo strumento nell’altra, si piazzano nell’angolo più lontano del checkpoint su uno sfondo regolare di barre blu. Neanche 5 minuti e l’orchestra è già nella Sesta Sinfonia di Mozart in Fa maggiore. Le regole da seguire sono semplici: non parlare ai soldati e ignorare i loro ordini. I musicisti suonano, le persone in fila ai tornelli si arrestano, c’è chi si avvicina per scattare una foto con il cellulare. Attorno all’orchestra si forma un semicerchio e loro continuano a suonare, riempiono lo spazio, lo trasformano. Anche l’acustica è buona, meglio di molti teatri. Non si è mai visto niente del genere nel checkpoint di Qalandia.


Una soldatessa si affaccia al pertugio del casotto in cemento dentro al quale è rinchiusa. La sua espressione è più di sorpresa che di allarme. Quando l’orchestra passa a Bizet, un primo soldato fa la sua comparsa. Ha la faccia da duro, mitra a tracolla e occhiali da sole. Alzo d’istinto la camera, ritaglio la scena nel display, regolo il fuoco: davanti al soldato, dall’altra parte delle sbarre, Majd Qadi spreme le guance nel trombone. Soffia come un dannato mentre il tizio se ne sta impalato dall’altra parte e osserva, talmente immobile che diventa difficile stabilire chi è dentro e chi è fuori da quelle sbarre.


Dentro e fuori

Dentro – fuori.


Arrivano un secondo e un terzo soldato. Una ragazza sulla ventina e un uomo tarchiato sui quaranta. E’ chiaro che quest’ultimo è il più alto in grado. Non sembra preoccupato, parlotta a mezza bocca con il duro mentre il duro parlotta nel microfono che tiene appeso a una spalla.


L’orchestra conclude, attacca il bis: la Farandole di Bizet. Un pezzo in Re minore che anziché insistere sulla tonica enfatizza le tonalità maggiori della scala e procede forte e aggressivo e si allontana dai languori dei toni minori. Stringo sul primo piano delle dita del comandante che tamburellano a tempo sulla cinghia del mitra mentre le note si spengono e l’uditorio si scatena nell’applauso finale. I ragazzi si guardano in faccia, non riescono a credere che sia successo davvero. Neppure io ci riesco. Ho assistito a una battaglia e pare che stavolta sia stato l’esercito a perderla.


1 aprile 2013


Altri 6 giorni per fissare la data dell’udienza. Oday andrà a processo mercoledì 3 aprile. L’avvocato ha raccolto le testimonianze dei genitori e dei conoscenti. Secondo la sua ricostruzione, Oday doveva incontrare un amico per cena. I due si erano dati appuntamento sulla collina di Al Fawwar. Oday arriva in leggero anticipo e aspetta all’ombra di un mandorlo. Vede corrergli incontro un gruppo di ragazzi, non capisce subito cosa sta succedendo e quando arrivano i soldati non tenta neppure di scappare. Lo accusano di aver tirato dei sassi e lo portano via.


Nel 2010, la percentuale di condanne in processi per lo stesso reato è stata del 99,74% . Su 400 imputati 399 sono stati riconosciuti colpevoli. Tradotto in termini spicci è pressoché impossibile essere assolti da una corte militare israeliana. La cosa peggiore è che a lanciare pietre contro gli occupanti sono soprattutto bambini e adolescenti, particolare che non impedisce all’esercito di metterli in galera. Secondo un recente rapporto dellUNICEF , la maggioranza dei minorenni processati nelle corti militari israeliane è accusata di aver lanciato pietre. Un crimine appositamente sanzionato nella sezione 212 dell’Ordinanza Militare 1651 , secondo la quale


(i) Lanciare un oggetto, compresa una pietra, contro una persona o una proprietà con l’intento di arrecare danno alla persona o alla proprietà comporta una pena massima di 10 anni di detenzione.


Poche righe che da sole spiegano l’alto numero di condanne poiché, interpretando alla lettera il testo, è sufficiente lanciare un sasso a un cartello stradale per finire in carcere. Non ce lo vedo Oday a tirare pietre, l’occupazione ha sempre voluto combatterla con la musica, ma è ingenuo ridurre la questione a formule del tipo pietre/non pietre o violenza/non violenza. Poco importa se procedi con le mani alzate o se invece stringi una pietra, se sei un bambino o un adulto, se scappi o resti fermo. There is a system in place dicono quelli che la sanno lunga, un sistema di controllo politico-giudiziario che sanziona come terroristico qualsiasi atto di opposizione, anche se di carattere meramente simbolico come cantare, scrivere o fare un film ; un sistema che e a ogni atto di resistenza risponde con una forza smisurata, infliggendo punizioni la cui entità varia secondo parametri misteriosi o forse solo casuali ma che in ogni caso portano dei corpi dietro a delle sbarre.


Luglio 2003


Ramzi non si è ancora diplomato al conservatorio di Angers, quando insieme ad alcuni compagni fonda Al Kamandjati (Il Violinista), un’associazione culturale il cui scopo è portare corsi di musica e concerti nelle zone più isolate della Palestina. Quell’estate parte con alcuni giovani musicisti francesi. Al Kamandjati non ha neppure una sede e alloggiano tutti a casa di Ramzi. Attraversano in lungo e in largo la Cisgiordania, raggiungono i luoghi più sperduti suscitando lo stupore degli abitanti che si chiedono cosa ci fa un’orchestra da quelle parti. Arrivano nel campo profughi di Al Fawwar, alle porte di Hebron; ma siamo nel bel mezzo della Seconda Intifada e i soldati chiudono ogni uscita del campo e impongono il coprifuoco. Ramzi e i suoi non hanno scelta: devono fermarsi per la notte e provare a ripartire il giorno dopo. Intanto si fa buon viso a cattivo gioco e il workshop per i bambini del campo viene allungato di un giorno. E’ qui che i destini si incrociano e imboccano traiettorie imprevedibili. Mentre cammina per strada, una banda di ragazzini avvicina Ramzi, lo chiamano zio, gli dicono che un loro amico canta molto bene. Dietro ai ragazzi più grandi se ne nasconde uno minuto con indosso una maglietta arancione che gli sta troppo larga. Il suo nome è Oday e Ramzi lo invita al workshop per cantare una canzone .


- A scuola capitava che organizzassimo dei concorsi di musica o di canto, io vincevo sempre. Il preside era molto soddisfatto e un giorno mi comprò un vestito elegante e andammo a fare un concorso in una scuola dell’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione, NdR). E vinsi anche quella volta.


A Oday piace l’idea che ci siano degli stranieri ad ascoltarlo e canta un Mawwal (un pezzo per sola voce che si esegue come introduzione a una canzone) che si intitola Rharib (straniero). Ramzi è conquistato dalla sua voce e prima di ripartire gli promette che registreranno un cd insieme.


- Io ero ragazzino, non ero mai uscito dal campo, non ci potevo credere, pensavo che mi prendesse in giro. Per me era come un sogno. Ramzi parlò con i miei genitori, era il gennaio del 2003 e andammo in Francia per un Festival. Per la prima volta ho cantato davanti a un pubblico, ed era un grande pubblico, qualcosa come 1000 persone. Io non sapevo nulla di musica. Da quella volta sono tornato in Francia ogni anno, sempre allo stesso festival. Quest’anno è la dodicesima volta che vado in Francia.


Commemorazione di Maysara Abu Hamdiyeh

Commemorazione di Maysara Abu Hamdiyeh.


4 aprile 2013


L’udienza è rimandata all’8 aprile. Gli avvocati palestinesi sono in sciopero da ieri, protestano per la morte di Maysara Abu Hamdiyeh , un prigioniero malato di cancro a cui le carceri israeliane passavano solo aspirine e antidolorifici. Oday resta in cella e, a parte l’avvocato, nessuno è riuscito a incontrarlo. Oday è finito nel buco nero delle percentuali statistiche, in quel il 40% di maschi palestinesi, circa il 20% della popolazione totale, che sono o sono stati imprigionati sotto gli ordini militari israeliani. Non c’è famiglia in tutta la Palestina che non abbia almeno un membro in carcere: ragazzi, vecchi, donne, invalidi, malati, contadini, accademici, sindacalisti, fumettari, leader politici, medici e poi fotografi, attivisti, giornalisti, studenti, elettricisti, videomaker, fruttivendoli, tassisti, muratori e cantanti. Non c’è parte politica né categoria sociale che sia risparmiata e nonostante sia vietato dalle convenzioni internazionali, i prigionieri vengono trasferiti e processati fuori dai territori occupati da Israele. Tra le molte possibili, la forma di arresto più odiosa e arbitraria è la «detenzione amministrativa». Vale a dire una detenzione senza imputazione, giustificata sulla base di prove segrete che neppure il tuo avvocato può vedere. Resti in carcere per periodi rinnovabili di sei mesi in sei mesi e poi alla fine un processo oppure nulla e sei libero. Fino alla prossima volta. Si aspetta l’8, in attesa di nuovi risvolti.


18 giugno 2011.


- Hanno voluto educarci alla farina. Ci hanno convinti che le cose importanti sono la farina, l’olio e lo zucchero. Ma come puoi proteggere la tua esistenza con la farina? Preferisco che si tengano i soldi della farina e li spendano in educazione. Abbiamo bisogno di cultura. Pensa se avessimo 3 o 4 Mahmoud Darwish; immagina 3 o 4 Edward Said.


Ramzi non ha freni e sembra non averne neppure la sua macchina che zigzagando a velocità mortale nel traffico di Ramallah ci porta alla sede di Al Kamandjati, nella parte vecchia della città. In 10 anni di attività, l’associazione ha fondato 8 scuole e porta i suoi corsi di musica su un territorio che dalla Striscia di Gaza arriva fino ai campi profughi del Libano. Io sono qui assieme a Jibril, Francesco e Vincenzo per girare un documentario sull’associazione. La storia di Ramzi Aburedwan, sembra saltata fuori da un romanzo (e infatti qualcuno lo sta scrivendo). Allo scoppio della Prima Intifada nel 1987, Ramzi ha 8 anni e vive nel campo profughi di Al Amari, alle porte di Ramallah. All’inizio non capisce di preciso cosa succede poi inizia a vedere i soldati che arrestano i suoi vicini, i feriti, la gente ammazzata per strada. Un giorno Ramzi è assieme al suo migliore amico; stanno tornando da scuola quando incappano in un’operazione militare israeliana. L’amico di Ramzi si accascia a terra, centrato da un colpo in fronte. Ramzi raccoglie un sasso e lo lancia contro un blindato israeliano. Di quel periodo rimane una foto che lo ritrae mentre carica il braccio destro per scagliare una pietra, nell’altra mano ne tiene un’altra che è grossa la metà della sua testa. Bambino e sassi assieme non arrivano a 30 chili. La foto fa il giro del mondo e Ramzi diviene il simbolo dei “ragazzi delle pietre”, un termine che in arabo indica i bambini che stavano in prima linea durante le battaglie di resistenza della Prima Intifada.


Ramzi ieri e oggi

Ramzi ieri e oggi.


Ramzi adotta la tecnica del mordi e fuggi che lo renderà famoso nel campo. Colpisce i soldati e poi si getta nei vicoli di Al Amari, una ragnatela inestricabile che però lui conosce a perfezione. Passa dai tetti, dai buchi nei muri, dalle sale da pranzo dei conoscenti; si lancia da una casa all’altra per sorprendere i soldati alle spalle e centrarli con un’altra pietra. Li sfida, li deride, dice loro di farsi avanti senza armi se sono degli uomini. Corre veloce Ramzi, ma le pallottole lo raggiungono lo stesso; la prima volta a 8 anni, quando si becca un proiettile di gomma in piena testa e finisce all’ospedale; la seconda a 11, ma stavolta il proiettile è vero e gli trapassa il braccio destro da parte a parte. Cresce veloce Ramzi e la sua corsa sembra destinata a finire in una prigione israeliana o a fargli guadagnare l’onore di un manifesto da martire. Ha 17 anni quando un’amica gli chiede se vuole imparare a suonare uno strumento. A Ramzi l’idea piace e ottiene un invito per partecipare a un corso di musica. Impara le prime note sul violino, ma il suo vero amore diventerà la viola. Ramzi suona tutto il giorno e quando non suona è per strada a battersi. Va avanti così finché non arrivano gli anni brevi dell’ottimismo, quelli che seguono gli accordi di Oslo del 1993, quando Rabin e Arafat posavano davanti alla Casa Bianca stringendosi la mano. Oggi sono morti tutti e due: il primo freddato a colpi di pistola; il secondo consumato da un male oscuro e improvviso che lo porterà alla tomba nell’arco di un paio di mesi. Durerà poco e già nel 2000 scoppia la Seconda Intifada, ma gli anni novanta offrono aperture e opportunità a un sacco di gente, incluso Ramzi che studia prima per un anno all’Edward Said National Conservatory of Music, poi nel 1997 vola in New Hampshire, USA, per partecipare a un campo estivo di perfezionamento musicale. La svolta decisiva arriva nel 1998, quando Ramzi ottiene una borsa di studio per il conservatorio di Angers, in Francia.


8 aprile 2013


Spostato di nuovo. Prima al 10, poi al 17 aprile. Stanno giocando al posticipo. Il 13 esce di prigione Issa Amro, coordinatore di Youth Against Settlements. Lo hanno arrestato pochi giorni fa dalle parti di Hebron mentre dimostrava davanti alla colonia di Qiryat Araba. Issa è per le autorità israeliane quel che si dice un pain in the ass. Uno che va in giro per i villaggi a insegnare agli abitanti come usare una videocamera per documentare gli abusi dell’esercito e dei coloni. Nonostante che tutte le sue azioni abbiano un carattere non violento, Issa è stato imprigionato troppe volte per tenere il conto. L’accusa nei suoi confronti è più o meno sempre la solita, “incitamento al terrorismo”. Jibril scopre che Issa era rinchiuso nel carcere di Ofer e gli chiede notizie di Oday. Questi gli stralci della loro conversazione su Skype :


J- Bentornato a casa.


I- Grazie, davvero. Oday era con me in prigione, eravamo nella stessa cella. Ci hanno trasferiti insieme al tribunale militare di Ofer.


J- Davvero? E come sta?


I- Sta bene, ma i soldati l’hanno picchiato di brutto e la polizia si è rifiutata di fotografare i segni lasciati sulle gambe.


J- Che ti ha detto?


I- Ha respinto ogni accusa ed è sicuro che lo rilasceranno. Mentre ci portavano in aula per il processo, cantava. Ha cantato canzoni per tutti noi. Ha dato ispirazione a tutti i prigionieri, anche a me.


25 giugno 2011


Dopo 10 giorni di lavoro ininterrotto ci prendiamo una giornata libera. Si va al mare, ad Haifa. I nostri passaporti italiani ci consentono di passare da una parte all’altra del muro senza troppe formalità: non serve un permesso e possiamo percorrere le strade più veloci, quelle dei coloni, senza preoccuparci di evitare i checkpoint. Questo muro di 8 metri che ci accompagna dall’inizio del viaggio ha solidità diverse e diversi gradi di permeabilità, dipende da chi sei, da cosa c’è scritto sui tuoi documenti, da dove sei nato, dalla targa dell’auto che guidi. Secondo i dati raccolti da B’Tselem, il noto gruppo israeliano per i diritti umani, sono 312 i chilometri di strada in territorio palestinese proibiti alle macchine con targa palestinese.


Forse apartheid non è la parola giusta, ma è la prima che viene in mente.


Il muro si fa improvvisamente più solido quando un’amica decide di venire con noi. Lei è palestinese ed è un pezzo che non va al mare. Lo ha già fatto altre volte e se lascia i capelli scoperti è convinta che nessuno controllerà i documenti. Se invece controllano è un casino, lei lo sa ma è disposta a pagare il prezzo. Vuole vedere il mare. Alla fine vince il buon senso e andiamo tutti in piscina.


18 aprile 2013


Durante l’udienza, i soldati che hanno arrestato Oday si sono contraddetti a vicenda, così riferisce l’avvocato, e il giudice vuole ascoltare i testimoni uno per uno, sentire di nuovo l’accusato infine mandare i periti a fare un sopralluogo sulla collina di Al Fawwar e a scattare un paio di fotografie. Secondo l’avvocato la corte mira a patteggiare una condanna lieve, di qualche mese, ma finché Oday continua a dichiararsi innocente resta in carcere. Statistica dopo statistica, udienza per udienza ho capito una cosa sola: la posta in gioco non è mai stata colpevolezza/innocenza, ma pena lunga/pena breve.


30 Giugno 2011


Mentre il taxi ci accompagna all’areoporto Ben Gurion di Tel Aviv, il conducente riceve una chiamata. E’ il direttore della compagnia di taxi che però non vuole parlare con il suo autista, vuole parlare con me. Si raccomanda di non dire al controllo passaporti che siamo stati nei Territori Occupati o avremo delle noie. Gli rispondo che non c’è da preoccuparsi, abbiamo una lettera d’invito del consolato francese e comunque arriveremo all’areoporto con 3 ore di anticipo. Non è convinto e ha ragione. Alla lettera danno si e no un’occhiata, appiccicano dei codici a barre sul retro dei nostri passaporti e ci dividono. Io ho il carico più scottante, le cassette con tutto il girato. Alcune delle cose filmate sono crimini secondo le leggi israeliane. La pallina finisce sul pari e passo senza problemi. Va peggio ai miei compagni. Mancano quaranta minuti al volo quando spunta Francesco. Gli hanno sequestrato il registratore audio digitale, ma per fortuna ha una copia di back-up nel computer. Per ultimo arriva Vincenzo, è provato e gli hanno sequestrato una delle luci che usavamo per le interviste. Dice che hanno voluto smontarla e quando hanno visto il trasformatore si sono insospettiti.


“ What is this?”


Vincenzo non sa dire in inglese “trasformatore di corrente da 220V a 12V”, neppure io so come si dice. Fa quel che può, ma la sua spiegazione non convince i funzionari. Gli dicono di lasciare i documenti sulla scrivania e di seguirli. Si ritrova in una stanzetta con altri due tizi che continuano l’interrogatorio. Il grado di gentilezza dei funzionari scende a ogni domanda e quando scoprono che un obiettivo monta un microchip si incazzano di brutto. Quel microchip serve per controllare la messa a fuoco attraverso i comandi della camera, Vincenzo glielo ripete mille volte. Va avanti per un pezzo e arriva al gate che è già iniziato l’imbarco. Mancano almeno 1.000 euro di attrezzatura rispetto all’andata, confiscata per non si sa quale motivo. Servirà un numero infinito di telefonate, mail, lettere, reclami per riottenere la nostra roba e della luce torneranno solo pezzi e frantumi.


9 maggio 2013


Ha resistito 2 mesi, ma alla fine Oday si è dichiarato colpevole. L’avvocato è soddisfatto, dice che è andata bene e che uscirà entro la metà di giugno. Sembra una buona notizia; rispetto ai 10 anni che rischiava, 3 mesi non sono gran cosa. Dovrei essere contento, ma non ci riesco. E poi c’è un altro aspetto della faccenda, con una condanna sulle spalle per Oday sarà molto più difficile uscire dal paese e le sue esibizioni all’estero potrebbero essere finite. Inoltre, se lo prendono mentre cerca di entrare a Gerusalemme senza permesso stavolta ha dei precedenti e gli fanno vedere i sorci verdi. Quando la porta della cella si aprirà, Oday troverà il mondo più piccolo o una prigione più grande.


Just Play


Epilogo


Oday è uscito il 4 giugno, ad aspettarlo fuori dalla prigione di Ofer ha trovato una folla di amici e parenti. I soldati l’hanno picchiato e ha l’aspetto un po’ malconcio, ma più delle botte a bruciare è la vergogna; per aver lasciato dentro i compagni, per l’esiguità della pena scontata, per aver ceduto a un ricatto infame.


In Palestina non ho sentito spari né esplosioni; in quelle settimane nessun evento eclatante ha occupato le prime pagine dei giornali. Non è successo niente ed è a quel niente che ho guardato, a ciò che sta sotto la linea del discorso, alla vita normale quando tutto è anomalia, e sul fondo della vita normale ho trovato una parola che torna come un brusio: tasrih, permesso in arabo. Serve un permesso delle forze occupanti per stare dove stai e uno per andare altrove, uno per vivere con la tua famiglia e uno per non viverci, uno per scavare un pozzo e uno per coltivare la tua stessa terra e uno per lavorare e uno per raggiungere l’ospedale e uno per cantare con la tua orchestra e uno per andare al mare. E c’è sempre un motivo per il quale il permesso non viene concesso o viene revocato all’ultimo momento oppure per averlo devi fare mille trafile e alla fine rinunci o ne hai abbastanza e ti ribelli e non chiedi il permesso a nessuno e se ti beccano carcere, multe, espropri, ordini di demolizione, ritorsioni, punizioni. E’ questo che succede quando non succede niente, un’occupazione di tipo burocratico le cui armi sono gli application form e un sistema capillare di leggi e regolamenti. Questo è il grado zero della violenza, punto di partenza perché una violenza più grande abbia luogo. E se normale è ciò che accade quando nessuno spara, è una normalità del cazzo.


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Published on July 06, 2013 00:04
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