Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 75
May 25, 2022
Nuovi “mostri” che diventano “ex-mostri”

May 21, 2022
Tromboni & Trombati

Qui di seguito il testo della lettera che ripropongo in maniera integrale alla quale Mario Giordano ha risposto dopo di averla editata.
Gentile Giordano,
sono arrivati i “Tromboni” a distanza di due anni. Quando lessi gli “Sciacalli”, (avevo letto anche “Profugopoli”) rimasi sconvolto e le scrissi augurandomi che Lei avesse inviato anche ai Magistrati una copia del libro perché, dopo le Sue denunce, procedessero, per quanto di loro competenza. Lei, gentilmente, mi rispose nella pagina delle lettere scrivendo che i libri possono passare “dai cataloghi degli editori ai casellari giudiziari”, aiutando i giudici nel loro lavoro. Aggiunse anche, nel Suo commento, che “ogni cambiamento nasce dalla conoscenza”.
Io, il Suo libro, glielo confesso, l’ho sto gustando in versione Kindle, conoscenza digitale, pura informazione. Quello sugli “Sciacalli” lo lessi e lo conservo in versione a stampa. Speravo che l’informazione cartacea portasse gli uomini, se non alla Verità almeno alla conoscenza. Con il passare degli anni e del tempo, mi sono reso conto che il mondo vive solo di informazione, per giunta tanto liquida quanto digitale.
Belle le sue “isole” sulle quali suona la “tromba”: democrazia, scienza, ambiente, bontà, giustizia, politica (corretta) giornalismo. Tutte “isole” che non esistono, se non in forma liquida, pura informazione, zero conoscenza. Meno male che esiste l’isola del quotidiano che si chiama “La Verità” — fuori dal coro. Cordialmente e sempre con stima Antonio Gallo[image error]
Un “matto al giorno” nella Valle dei Sarrasti

Qualcuno ha scritto che “il tempo si muove in una direzione, i ricordi in un’altra”. E’ vero. E’ il tempo stesso a confermarlo ogni giorno, man mano che scrivo per capire quello che penso.
Questo articolo nasce dalla lettura di uno dei “365 tipi strani che hanno cambiato il mondo”, brevi biografie giornaliere in un libro pubblicato da poco, intitolato: Almamatto.
I matti ci incuriosiscono, ci costringono a riflettere, ci cambiano lo sguardo, ci mettono davanti ai nostri fantasmi, non ci lasciano mai indifferenti.
La storia dell’uomo è costellata di individui eccentrici, bizzarri, anticonformisti, visionari, in molti casi con disturbi psichici gravi, ma spesso creativi in campo letterario, artistico, scientifico.
Partendo da queste considerazioni, è nata l’idea di una sorta di calendario che racconti, al posto del santo del giorno, il matto del giorno.
Io, però, ogni giorno che passo davanti a questo edificio, che nasconde gran parte della mia memoria, non solo la mia, ma di gran parte dei cittadini di Sarno, e vedo le condizioni in cui versa, mi si stringe il cuore. Perciò decido di scrivere questa denuncia.
Mi pare di vedere affacciare dalle sue finestre i volti dei tanti “matti” che l’hanno frequentato ma sopratutto, di quelli che l’hanno ridotto così.
Un almanacco originale è questo libro, piacevole e utile per riconoscere quel pizzico, o quel tanto di follia che c’è in ognuno di noi e che dà sale alla vita.
Il libro è di un illustre psicoterapeuta, scritto in collaborazione con un gruppo di colleghi e professionisti della comunicazione.
Ci fa capire come i diversi gradi di sofferenza psichica abbiano per comune denominatore l’amore variamente declinato: come mancanza di amore, insufficienza di amore, richiesta di amore, eccesso di amore, desiderio di amore.
A tutto questo va aggiunto la mia esperienza vissuta in quella che io considero la mia prima “Università della Vita” che ho avuto il piacere e la fortuna, si fa per dire, di frequentare da giovane studente, sia di lingua che di infermeria mentale, in quel grande ospedale a nord di Londra: Harperbury Hospital.
Questo prova il mio antico interesse per tutto ciò che è fuori norma, anormale ed irregolare. Roba da matti, appunto.
Il terzo piano di questo edificio a cui mi riferisco era intestato ad uno di questi matti. In quella che fu la Valle dei Sarrasti.
Un popolo di antenati, che poi tanto normali non dovevano essere, se questi moderni sono i loro successori. Riguarda lo scrittore latino Tito Lucrezio Caro, poeta e filosofo (98/94 a.C. — 55/54 a.C.) al quale è intitolato.
Lui non avrebbe mai pensato di finire in questo libro di matti. Sono sicuro, a dire il vero, che se vedesse come hanno ridotto la sua “casa”, si metterebbe subito alla ricerca di questi matti.
Tito Lucrezio Caro e questo libro ripropongono alcuni miei personali ricordi man mano che il tempo, con il passare degli anni si, dilata.
L’autore del libro, Giampietro Savuto, un illustre psicoterapeuta, avanza l’ipotesi che l’epicureista Caro sia stato “vittima di diffamazione”. Propone seri dubbi sulla sua sanità mentale, concludendo che forse si tratta di una moderna “fake news”. Così scrive di lui:
“Vittima di diffamazione «Impazzì per aver bevuto un filtro d’amore, dopo aver scritto negli intervalli di lucidità alcuni libri… si suicidò nel quarantaquattresimo anno di età». Questo scrive San Gerolamo di Lucrezio, grande poeta latino dalla vita misteriosa, che nel suo poema, “De rerum natura”, mette in versi la filosofia di Epicuro, esaltandone la figura quale «benefattore dell’umanità», poiché aveva liberato l’uomo dalle paure — degli dèi, del dolore, della morte — che ne affliggono la vita. Della presunta follia, filtro d’amore a parte, molti studiosi hanno cercato le tracce nelle pieghe del poema, che mostrerebbe alternanza di stati di esaltazione e momenti di cupo pessimismo, senza, peraltro, arrivare a conclusioni certe. Altri parlano di una leggenda diffusa in ambiente cristiano per screditare il poema: l’Epicureismo era l’unica filosofia dell’antichità incompatibile, per il suo materialismo che negava ogni forma di sopravvivenza oltre la morte, con il Cristianesimo, il quale aveva invece largamente assimilato tutto il sapere della tradizione filosofica anteriore. Il dubbio non è stato sciolto. Così uno dei più grandi poeti latini, la cui opera rivela eccezionale lucidità e straordinaria potenza creativa, è stato consegnato ai libri di storia letteraria e a generazioni di studenti accompagnato dall’ombra della follia. Vero? Una colossale fake news?”
Nelle tre immagini che corredano questo articolo posso racchiudere graficamente i miei pensieri. Mi riferisco all’edificio nel quale, nella città di Sarno, feci i miei studi giovanili. Un edificio dalle linee chiaramente dettate dallo stile del tempo (fascista).
Ogni tempo, si sa, ha il suo. Sia detto senza ipocrisia, questo stile dimostra ancora oggi, la sua forza espressiva e la sua voluta “pesantezza” dell’essere.
Metteteci dentro tutto quello che può contenere una parola che allora si poteva chiamare “cultura” e che, oggi, chiameremmo “conoscenza”.

Un edificio costruito per ospitare le “Scuole Elementari” che dovevano formare i cittadini di un “mondo” che sarebbe diventato “nuovo”. Come, infatti, è diventato.
Nessuno, però, avrebbe potuto immaginarlo come quello di oggi. Ospitava la scuola elementare e il titolare non poteva non essere che “Edmondo de Amicis”.

Non ricordo molto dei giorni trascorsi in questo edificio, quasi nulla. Dall’asilo delle suore di Ivrea in piazza Croce, venni trasferito qui per i successivi tre anni.
Ricordo vagamente una severa insegnante vestita di nero, la signora Tura. Poi, per i tre anni della Scuola Media, i ricordi cominciano a apparire molto più chiaramente.

Scendemmo, in mancanza di meglio, (eravamo in pieno dopoguerra), al di sotto del livello stradale, nelle famose “cantinelle”.
Quei buchi neri, che si intravedono nella foto a livello della strada, segnalano le finestrelle di quelle che furono le aule per le classi che frequentai nei tre anni.

Nel frattempo, quell’edificio aveva visto “nascere” sulle sue spalle “fasciste” un altro piano, il terzo, nel quale sarei poi salito per accedere alle vette del “Parnaso della conoscenza”.
Era nato quel “Liceo-Ginnasio T. L. Caro” che sarebbe stato la culla della cultura del luogo, non solo della città di Sarno, ma di gran parte del suo territorio, nella storica Valle dei Sarrasti.

Oggi, a distanza di tanti anni, quel terzo piano è scomparso. Lo hanno abbattuto, dicono, per motivi di sicurezza. I “ricostruttori”, non so per quali ragioni, hanno inteso riproporre il suo “rigore” architettonico originale bruciando nella sua infinita ricostruzione non so quanti milioni di lire-euro.
Non mi interesso di politica, non la pratico, non essendo capace di “farla”. Mi basta soltanto riflettere su quanto il tempo possa essere implacabile giustiziere delle tante indiscusse stupidità che gli uomini, si chiamino politici, amministratori, architetti o altro, sono capaci di praticare.
Il “Liceo T. L. Caro” della città continua a vivere la sua felice ed attiva vita nel “mondo nuovo”. Anche chi scrive, pur se in minima, piccola parte, non ha timore di dire, ha concorso a creare una scuola moderna nel territorio.
Con l’aiuto del tempo, l’unico vero amico, ripenso a quel “matto” di Tito Lucrezio Caro che avrà ben ragione di ridere. Ma non me la sento di ridere con lui. Penso a quella triste realtà dei “matti” che aumenta le sofferenze del vivere.
Verrà mai il tempo di far pagare a chi ha sbagliato pur non essendo “matto” ed essere “legato” per non più nuocere? Quando potrà T. L. Caro smettere di “vergognarsi” della sua “insanità”?[image error]
May 20, 2022
Phono Sapiens: quell’indice che impazza sul cellulare

Oggi rincorriamo le informazioni senza approdare ad un sapere. Prendiamo nota di tutto senza fare esperienza. Salviamo quantità immani di dati senza far risuonare ricordi. Accumuliamo amici senza mai incontrare l’Altro. È a partire da queste considerazioni che si sviluppa l’ultima fatica di uno dei più originali e acuti filosofi viventi, Byung-Chul Han.
L’Autore sottopone a severa critica un reale in cui l’ordine terreno è stato superato da quello digitale. L’informatizzazione del mondo trasforma le cose in infomi: ovvero in agenti che elaborano informazioni. Il telos dell’ordine digitale è il superamento del «cruccio» che, secondo Heidegger, è il tratto fondamentale dell’esperienza umana. L’essere-nel-mondo non si compie più nella forma di un «commercio manipolante» dove le cose hanno il loro in-vista-di-cui finale nell’esserci. La nuova massima è: «L’essere è informazione».
Viviamo in un’era defatticizzata e post-fattuale ove gli infomi ci assediano. Fintamente ci assecondano e coltivando il nostro desiderio ci tendono la trappola illudendoci di soddisfare i nostri bisogni. Se in passato valeva la massima di Anassagora secondo la quale: «l’uomo è intelligente perché ha le mani», oggi vale la regola del phono sapiens dove il touch-screen elimina la negatività dell’indisponibile, generalizza l’impulso aptico riducendolo all’indice che impazza sul cellulare.
Rendendo consumabile ogni cosa. Trasformando tutto ciò che tocca in merce. Degradando della propria alterità persino l’Altro. Questi scompare in forma di voce — si preferisce scrivergli un messaggio per sentirsi meno esposti — così come ci si sente più protetti comunicando attraverso uno schermo che ne annulla lo sguardo. Ormai, sostiene l’Autore, ci spiazza l’affermazione di Derrida secondo la quale la cosa è «il completamente Altro» se è vero, come è vero che, gli oggetti, dal verbo latino obicere: contrapporre, non oppongono più resistenza a chi sta loro di fronte.
Lo smartphone è linfoma per eccellenza. Non è solo il telefono che squilla, ma un medium iconico e informativo. Assurto a una sorta di «devozionale», è un dispositivo di sottomissione. Di più, è una non-cosa narcisistica e autistica che vieta l’empatia rendendo invisibile il proprio dominio e illudendo subdolamente il Phono Sapiens di essere libero e investito di un potere che non ha. La comunità diventa community, l’iperconnessione logora e impedisce la relazione. La stessa novità del selfie riguarda il suo statuto ontologico.
Il selfie, a differenza della fotografia analogica che, dice Barthes, «è un certificato di presenza», «attesta il noema: “È stato”» è iperreale, è un’istantanea da pubblicare subito sulla piattaforma. Di contro ai ritratti analogici carichi di mistero, i selfie sono votati all’esibizione e alla riproduzione di espressioni standard come la duckface.
Di qui l’annuncio della scomparsa dell’essere umano munito di un destino e di una storia, il culto di un fast-food sincronico ove un’informazione scaccia l’altra e non c’è più tempo per la verità. L’indugiare contemplativo presso le cose, che potrebbe essere una ricetta della felicità, cede il passo all’infosfera abitata dall’intelligenza artificiale che sa far di conto, ma non può pensare.
Ora, che cosa resta, oggi, delle cose se solo si pensa all’insidia degli oggetti che potevano trasformarsi in pericolose trappole per Topolino, alla cui mercé non si sottraeva neppure Charlie Chaplin, e che riuscivano, addirittura, a commuovere il protagonista de La nausea di Sartre «proprio come se fossero bestie vive»? Un mondo completamente derealizzato, privo di «vincolatezza» e disincarnato.
Heidegger, ricorda Han, si riconosce enfaticamente nel lavoro e nella mano, come se avesse presagito che l’uomo del futuro sarebbe stato senza mani. «Forse, scrive il grande filosofo di Friburgo, pensare è semplicemente la stessa cosa che costruire un armadio. È comunque un mestiere (Hand-Werk)». Heidegger difende l’ordine terreno da quello digitale: da digitus, dito in latino. Noi contiamo con le dita, che sono numeriche, cioè digitali.
Heidegger distingue la mano dalle dita, mostrando come la macchina da scrivere «sottrae all’uomo la dignità essenziale della mano». Distrugge la «parola» degradandola a «veicolo di trasporto», a «informazione». Come dire: la mano che afferra esperisce la cosa in maniera più originaria rispetto all’osservazione. La «servibilità» dello strumento indagata in Essere e tempo viene fatta precedere, Nell’origine dell’opera d’arte, dalla sua «affidabilità».
Come il martello mi appare per quello che è, un arnese, nel momento in cui, invece di fissarlo, lo prendo in mano e martello, così le scarpe di cuoio, raffigurate nel dipinto di Van Gogh, funzionano sul serio «solo quando la contadina le infila e va». Ma l’essenza della cosa-scarpa non sta nella sua mera utilità, bensì rimanda ad un livello esperienziale precedente: «nello strumento-scarpa vibra il tacito e segreto appello della terra (..) la muta gioia del sopravvivere al bisogno»: «L’affidabilità della cosa, spiega Han, consiste nel fatto che essa immerge la persona in quelle relazioni col mondo capaci di offrire un appiglio: (…) mediante la propria affidabilità, la cosa consente all’essere umano di mettere piede sulla terra».
Da tempo, ormai, l’uomo non abita la terra: «la digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum», avverte Han. Eppure basterebbe una «rianimazione dell’Altro per liberarsi da questa povertà di mondo». Basterebbe ricordare il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Capire «cos’è una cosa che sta a cuore». Sono i legami. Ma, per crearli, sono necessari il Tempo e l’Altro.
Francesca Nodari
Il Sole 24 Ore — 15 maggio 2022
[image error]May 18, 2022
Tromboni, trombati e trombette …

Il nuovo libro di Mario Giordano è un invito, per chi sa leggere, a non farsi rovinare la vita dai “Tromboni”. Sono molti i “trombati”. Nelle pagine del libro, davvero non si contano le innumerevoli situazioni nelle quali, noi poveri “trombati”, continuiamo ad essere vittime di ogni forma di falsità.
Questo libro nasce, come del resto tutti i suoi precedenti, “fuori dal coro”. Lui, Mario Giordano, padre di quattro figli, sposato per giunta da ben trenta anni sempre con la stessa moglie, come lui stesso scrive, continua a navigare tra sanguisughe, avvoltoi, pescecani, vampiri e sciacalli. Questa volta ci parla dei “tromboni”.
Chi sono mai questi? Basta ricordare quello che diceva, in una scenetta, il grande Totò, al cavalier Trombetta riferendosi a suo padre, proprio con questa parola: «Chi è che non conosce quel trombone di suo padre?», cioè un “colui” che si sente sempre pieno di sè e che sproloquia a tutto spiano su tutto.
Giordano sembra proprio che li conosca tutti. Li ha catturati nella sua rete informativa, osservando rigorosamente le regole del classico canone su cui dovrebbe poggiare la comunicazione umana: chi sono, cosa pensano, quando trombano, dove sproloquiano, perchè lo fanno.
Democrazia, Economia, Scienza, Ambiente, Bontà, Giustizia, Giornalismo sono le “isole” sulle quali Giordano ha catturato i suoi “tromboni”, pescandoli dal mare magnum della moderna comunicazione. Tutte “isole” che non esistono, se non in forma liquida, pura informazione, ma zero conoscenza.
Ho letto in anteprima la versione Kindle del libro e mi sono reso reso conto che questo libro va letto in versione cartacea. E’ in gioco il perenne conflitto tra informazione e conoscenza, interpretati in chiave moderna dal digitale e dal cartaceo.
Uno dei miei poeti preferiti si pose in anteprima, quasi un secolo fa, il tema del conflitto. Lo fece a suo modo in maniera poetica. Il poeta e scrittore anglo-americano T. S. Eliot si fece queste domande:
“Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nelle informazioni?“
Correva l’anno 1934 ed era una voce in anticipo sui tempi di oggi. Il libro di Giordano va letto, studiato e conservato come una testimonianza scritta e documentata per farla diventare conoscenza, salvandola dalla volatilità liquida del digitale.
Informazione è tutto ciò che è riconducibile, riportabile e trasformabile in dati, dal latino datum-data. Essa concorre a formare la conoscenza che, a sua volta, diventa qualcosa-altro che si sviluppa nella mente e nel corpo di chi riceve e conosce questi dati.
In estrema sintesi, l’informazione tecnologica gestisce in maniera digitale tutto ciò che vive ed esiste e lo trasforma in digits. Un digit è una cifra, un elemento di un insieme che, preso nel suo insieme, comprende un sistema di numerazione.
Pertanto, una cifra è un numero, in un contesto specifico. Nel sistema di numerazione araba decimale (base 10), le cifre sono gli elementi dell’insieme {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9}.
La scrittura, (all’origine fatta di segni che indicavano lettere, le quali, messe insieme, formano le parole), in questo modo diventa numeri trasformati in impulsi elettrici. Questi formano il testo che leggiamo sullo schermo del pc o del cellulare.
La tecnologia della informazione (IT) fa scorrere questo infinito fiume della comunicazione sugli strumenti che ci mette a disposizione. Un fiume che non ha mai la stessa acqua, nella quale noi ci immergiamo ogni giorno.
«Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va”.
Eraclito lo sapeva bene, anche se non aveva il cellulare. Io, ogni mattina, leggo il giornale sul cellulare, mi illudo di ricevere conoscenza, ma resto però sempre all’asciutto. Se voglio bagnarmi, devo conoscere quello che ho letto e che mi è soltanto scivolato addosso. Sono stato soltanto informato. Se voglio conoscere veramente, mi compro il testo cartaceo.
Dante la chiamava “canoscenza”. Se voglio veramente conoscere, devo fare mio ciò che leggo, sviluppando nella mente, nel corpo e nel comportamento ciò che conta e mi interessa. Questo, il figlio dinosauro di un genitore tipografo post-gutemberghiano, quale mi ritengo di essere, lo sa bene.
Il digitale fa informazione, il cartaceo fa conoscenza. Entrambi fanno nascere un nuovo tipo di lettore in cerca, ovviamente, della Verità. I libri denunzia come questo di Giordano possono passare dal catalogo dell’editore al casellario giudiziario. Ogni vero cambiamento può avvenire soltanto con la conoscenza. Che può essere anche un giornale o un libro sul cellulare, meglio se in cartaceo.
In una delle recensioni del libro fatte sul sito di Amazon ho letto la breve nota di un lettore il quale definisce il libro “senza senso … come sempre una distorsione della realtà” e gli assegna una sola stella. Ecco come i tromboni allevano i trombati e li fanno diventare trombette…

May 12, 2022
L’altra “materia grigia”. Ovvero, il potere della merda

Molto intelligenti la copertina e il titolo di questo libro: “L’altra materia grigia. La scienza, il business e la capacità di trasformare i rifiuti in ricchezza e salute”. Una immagine che parla sè: un rotolo di carta igienica in uso, con il sottotitolo che chiarisce le intenzioni di chi ha deciso di parlare di un argomento la cui materia è “dark”, oscura come quella, anch’essa definita “oscura”, ma che si riferisce a quella del cervello. Un abbinamento solo in apparenza ardito.
Un libro ambizioso e documentato da studi scientifici, “The Other Dark Matter” (L’Altra Materia Grigia) dimostra come gli escrementi umani possano essere una risorsa salvavita e redditizia, se ne facciamo un uso migliore. La persona media produce circa duecento kg di escrementi all’anno. Quasi otto miliardi di persone vivono su questo pianeta. Lascio a voi immaginare la quantità di materia grigia che producono.
A causa delle malattie che questi escrementi possono diffondere, abbiamo imparato a prendere le distanze dai nostri rifiuti. La lunga serie di meraviglie ingegneristiche che abbiamo creato per farlo, dalle fognature romane, alle latrine medievali sino agli immensi impianti di trattamento computerizzati che utilizziamo oggi, però, ha anche arrecato danni considerevoli all’ecologia terrestre.
Ora gli scienziati ci dicono: stiamo sprecando i nostri rifiuti. Se riciclata correttamente, questa risorsa economica, costantemente disponibile, può essere convertita in una fonte di energia sostenibile, può fungere da fertilizzante organico, fornire una terapia medicinale efficace per l’infezione batterica resistente agli antibiotici e molto altro ancora.

Con una prosa chiara e coinvolgente che attinge alle sue ricerche e interviste approfondite, l’autrice del libro, Lina Zeldovich, documenta la massiccia ridistribuzione dei nutrienti e delle disuguaglianze igienico-sanitarie in tutto il mondo. Descrive i pionieri del riciclaggio della cacca, dalle startup nei villaggi africani, agli innovatori nelle città americane che convertono le acque reflue in fertilizzanti, biogas, petrolio greggio e persino medicine salvavita.
Lo studio rompe i tabù sullo smaltimento delle acque reflue e mostra come il riutilizzo igienico dei rifiuti può aiutare a combattere il cambiamento climatico, ridurre le piogge acide ed eliminare le fioriture algali tossiche. Alla fine, ci implora di usare il nostro potere organico innato per un bene superiore.
Ci invita a non limitarci a sedere sul vaso per farla e lasciare il tutto sprecato. La materia di cui si parla ha un vero e proprio “potere”: Il potere della merda. I nostri escrementi sono una risorsa naturale, rinnovabile e sostenibile, se solo potessimo superare il nostro disgusto viscerale nei suoi confronti. Ho letto un estratto del libro e diverse recensioni del libro in inglese.
Mi sono ricordato di quando ero un ragazzino, da una decina di anni in poi, trascorrevo le estati con mia Nonna, in un minuscolo villaggio in Costa d’Amalfi. Più di settanta anni fa, un tempo relativamente breve, ma molto denso di mutamenti imprevisti ed imprevedibili. Questo libro mi ha offerto l’occasione per un sentimentale amarcord.
Un villaggio di poche case. La nostra era su due piani. Tipica casa di campagna con stanze a volte con tele e dipinti, tetto dammuso. Al piano terra c’erano la stalla con la capra, la cantinola e uno stanzone sempre pieno di qualcosa. A poca distanza, in un ampio spiazzo di terreno isolato, un piccolo porcile con maialino solitario. In quello stanzone poteva esserci di tutto, a seconda della stagione. Mele o patate, pannocchie di granturco o verdure, fagioli o cavoli. I terreni circostanti, le cosi dette “piazze”, si distendevano tutt’intorno ed erano quanto mai fertili.
Da aprile in poi, fino all’autunno, i raccolti si susseguivano senza interruzioni. L’aia era sempre piena di fasci di granturco da “scugnare” a colpi di una mazza pieghevole battuta sulle pannocchie per sgusciare il granone. Uva bianca e nera, pesche, albicocche, prugne, mele, limoni, amarene e ciliege, gli indimenticabili fichi, bianchi e neri. Da seccare durante l’estate, sul tetto a palla. Mille delizie, con tanto lavoro.
Bisognava tenere la fonte sotto l’aia sempre piena per alimentare i canali che portavano acqua alle “piazze” coltivate. Quando non veniva giù dal cielo, l’acqua la dovevamo tirare su dal pozzo. Acqua fresca, limpida, pulita, potabilissima. Il secchio che la portava su si chiamava il “cato”, grande e pesante, da riempire i “copelloni”, far scorrere l’acqua dalla fonte, nei canali ed irrigare.
Ma non sarebbe stato sufficiente a creare quelle delizie naturali che Madre Natura regalava con le fatiche che si facevano sin dalle prime luci dell’alba. C’era bisogno di qualcosa altro che avrebbe dato senso, sapore e gusto ai raccolti. Qualcosa che segnalava in maniera ciclica il processo creativo dal quale tutto nasce e si trasforma, ma nulla si distrugge.
Sul retro della casa, nella stanza di ingresso, di fianco al grande focolare, c’era una porta che conduceva in una stanzetta: il bagno, anzi il “cesso”. Era soltanto un gradino sul quale c’era un buco sul quale si saliva e, alla maniera “turca”, ci si piegava sulle gambe a fare i propri bisogni. Il grosso buco raccoglieva quello che depositavi in un’ampia vasca che raccoglieva i liquidi.
Sul retro la vasca era protetta da una specie di porta che veniva chiusa per bloccare la fuoriuscita dei cattivi odori. Quando avveniva lo svuotamento sentivi il suono della ricaduta della materia grigia che producevi impattare sul fondo della vasca ripiena di liquidi. La materia grigia, era materia che fermentava. Periodicamente la vasca veniva svuotata a colpi di secchi.
La materia grigia di natura umana veniva attentamente selezionata da quella del maiale e della capra che la Nonna accudiva come se fossero esseri umani. Con il colono differenziava la materia, all’occorrenza decideva come usarla, per quale coltivazione, diluendola o mescolandola opportunamente, a seconda dell’esperienza fatta in precedenza. Nè più nè meno quello che anche l’autrice dei libro descrive nel suo libro.
Quando ritorno con il pensiero a questo mio tempo passato in quello che resta oggi di quella casa e di quel piccolo villaggio, non ritrovo nulla di tutto ciò che ho cercato di descrivere così come lo vissi nelle stagioni della mia infanzia. Mi ritrovo in un deserto, un luogo dal quale tutti sembrano essere scappati, verso un altrove che non so se lo hanno trovato. Le ragioni di questo deserto non rientrano in questo discorso che riguarda la “materia grigia”.
O forse sì, se penso che con così tanta moderna tecnologia intelligente abbiamo creato una sorta di spaccatura metabolica non solo materiale ma anche mentale. Dobbiamo riparare questa enorme frattura nella quale c’entra anche l’ideologia escrementale. A differenza delle persone nelle società antiche, pensiamo ancora ai nostri escrementi come all’ultimo prodotto di scarto che deve essere affrontato. Continuiamo a non vederlo come un bene estremamente prezioso e versatile.
Spendiamo i nostri sforzi e denaro per rimuovere la sporcizia pericolosa piuttosto che per acquisire e utilizzare un prodotto eccellente dei nostri corpi metabolici. E questo è il salto di pensiero che dobbiamo realizzare, come società del 21° secolo, per risolvere completamente il problema. Dobbiamo destigmatizzare la nostra materia oscura.
Dobbiamo considerarla una risorsa naturale, completamente rinnovabile e sostenibile, e lodarci come suoi potenti produttori, proprio come facevano le società più parsimoniose prima di noi. Dobbiamo renderci conto che la cacca fa buoni affari e che ci sono soldi da fare di merda.
Le feci sono l’ultima frontiera che si frappone tra noi e l’agricoltura circolare, l’economia sostenibile e il corretto reintegro dei nutrienti. Quando uomini d’affari e imprenditori litigheranno ancora una volta su chi può mettere le mani sul prodotto interno lordo più antico dell’umanità, sapremo per certo di aver chiuso la nostra spaccatura metabolica.
Originally published at https://aeon.co .
[image error]May 10, 2022
Malacqua, un libro che è un “amarcord” …

Per scrivere di questo libro userò le etichette che gli ho assegnato su GoodReads per esprimere il mio giudizio: autore, bibliomania, in-italiano, luoghi, microstoria, narrativa, natura, passato, ricordi, scrittura, stampa, tempo, vita.
L’autore, il cognome. Ho letto per anni gli articoli ed i corsivi che il padre di Nicola, Antonio Pugliese, scriveva sul quotidiano di Napoli ROMA. Quando in Rete mi sono imbattuto nella notizia della ri-pubblicazione , si sono riaccesi i ricordi, i miei, quelli di quando, anni cinquanta, invece di studiare, leggevo i giornali e sognavo di diventare giornalista. Meno male che sono stato altro.
Ricordo di avere letto qualcosa anche di Nicola Pugliese ma non ebbi modo di approfondire quando venne fuori il suo libro. Ho reperito in rete un articolo scritto da Mimmo Carratelli per la edizione napoletana di Repubblica e così ho potuto ricostruire la memoria, sia quella perduta che quella ritrovata. Il libro l’ho letto in versione Kindle e mi è piaciuto, da tre stelle.
Flusso della coscienza, monologhi interiori e esteriori, taglio giornalistico, fatalistico, deterministico. Mi ha molto affascinato la narrazione che è stata fatta dell’autore, anzi Pugliese Nicola. Tutti i personaggi del suo libro sono segnati dal loro Cognome e Nome, come un marchio che li qualifica e li determina inesorabilmente. Molto interessante la introduzione di Francesco Palmieri.
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NICOLA PUGLIESE
Il “marinaio” che finì sugli scaffali accanto a Borges
DI MIMMO CARRATELLI
Crediamo sia appropriato cominciare questa storia con “Perzechella”, che tanti anni fa era una bambina, e, a quei tempi, diciamo la metà degli anni Settanta, ci sembrò la cosa migliore fatta da suo padre. Lui ebbe due anni favolosi, l´anno in cui nacque “Perzechella” e l´anno dopo quando pubblicò “Malacqua”, letto da Italo Calvino ed edito da Einaudi, e fanno trent´anni esatti che sbocciò questo libro magnifico di «quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un Accadimento straordinario».
Oggi tutto sembra lontano, anche perché quelli furono gli ultimi anni magici di una città, e poi la droga e il terrorismo cambiarono molte cose, e il padre di “Perzechella” ha superato i sessant´anni e ci ritroviamo in una piazza di paese, che è il paese di Avella, due piazze e otto bar, poco lontano dall´uscita dell´autostrada a Baiano, e che cosa ci faccia qui Nicola Pugliese, di lui stiamo scrivendo, è difficile da capire visto che abitava a Napoli in via Petrarca col panorama più bello del mondo davanti agli occhi.
In quella casa abbiamo consumato notti di poker e di whisky, fino a certe struggenti albe sul golfo, dopo il lavoro al giornale che era il vecchio “Roma” diretto da Alberto Giovannini, un asso e un uomo affascinante. Avevamo la fissa del giornalismo e stavamo al terzo piano del palazzo della Flotta Lauro, in via Marina, un edificio di acciaio, vetri e cartone compresso. Allora i giornali erano tutto un ticchettìo, quello nervoso, pesante e insistito delle macchine per scrivere e il ticchettìo più leggero, quasi un fruscio, delle linotypes che dal piombo fuso traevano le righe di stampa. I vecchi tipografi ce ne lasciavano sempre una rovente in mano perché, buggerati, gli pagassimo il caffè.
Nicola era un giovane alto, dinoccolato, con gli occhiali e i capelli neri fluenti, prima di diventare un adulto, stempiandosi e facendosi crescere un pesante baffo, e lavorava senza esibire la passione per il mestiere di giornalista, ma mostrando una accertata pigrizia, accentuata dal modo di camminare lento e ondeggiante, e un disincanto velato di malinconia. Il fatto è che Nicola era stato incastrato in redazione dal padre, che voleva tenerlo sottomano e trasmettergli il suo stesso mestiere. Così facendo, lo sottrasse a due diversi destini. Uno era il teatro che aveva fulminato Nicola, giovanissimo, dopo avere assistito, al Mercadante, a una commedia di Ionesco interpretata da Carmelo Bene. L´altro era un destino di mare e di marinaio in ogni porto per girare il mondo. Pur mostrando presto un naturale talento per il giornalismo, Nicola si portò dentro un broncio romantico per non avere potuto scegliere la sua vita su un palcoscenico o su una nave.
Gli faceva ombra il padre, Antonio Pugliese, uno degli anziani più suggestivi del giornale, scrittore incisivo e polemico, con un passato di guerra in Spagna, dalla parte di Franco, e una scheggia in una gamba che trascinava con grande eleganza e fierezza. Scriveva anche canzoni e con una, “Vurrìa”, vinse il Festival di Napoli come non riuscì a Giuseppe Marotta. E un fratello di Nicola, Armando, lui sì intraprese liberamente la strada dei palcoscenici, diventando un regista affermato. In un certo senso, il padre e il fratello prosciugarono in famiglia le strade del successo, e forse Nicola ebbe difficoltà o addirittura rifiutò di essere il terzo popolare Pugliese. Poi, in una stanzetta della redazione spettacoli, dov´era finito dopo avere abbandonato l´aspra cronaca nera, Nicola andò scrivendo il suo capolavoro, “Malacqua”, che è uno dei libri più belli su Napoli, forse il più bello con “Ferito a morte” di La Capria.
Fu così che, una sera, ce ne portò il dattiloscritto mentre picchiavamo sulla Olivetti le ultime frivolezze sul Napoli di Vinicio. E non avemmo alcun dubbio che quel libro fosse un capolavoro, a parte l´inizio un po´ lento che, poi, fu contestato da Calvino col quale Nicola ebbe un vivace scambio di lettere concludendolo con una frase secca: «Con tutto il rispetto, o pubblicate il libro così com´è o niente». Ed Einaudi lo pubblicò. Sicuramente il terzo dei Pugliese sarebbe divenuto il primo, come meritava, se per “Malacqua” ci fosse stato, come sembrava scontato, l´eco più ampia. Ma Nicola pagò il ruolo periferico di Napoli, in tutti i sensi, e l´estraneità a ogni “giro” opportuno che, col carattere che aveva, non avrebbe mai frequentato inserendovisi al solo scopo di lanciare il libro.
Fu una nuova ferita dopo il palcoscenico e la nave perduti? Ne parliamo oggi, dopo trent´anni, attorno a un tavolino del Bar Pasquino, nella piazza di Avella, sullo sfondo il palazzo ducale, mentre Carmine Guerriero, il proprietario, ci offre una birra e un tramezzino. Nicola Pugliese vive ad Avella da quasi quattro anni, emigrante fisico, lasciando Varcaturo, territorio di reumatismi e trambusti esagerati, dov´era andato lasciando la casa di via Petrarca dopo essersi incasinato nell´acquisto di una rotativa (!), e pellegrino d´amore per essere vicino a sua figlia, “Perzechella”, oggi una superba donna alta e mora, sposata e madre di due adorabili bambine, che abita col marito a Mugnano del Cardinale, il centro praticamente attaccato ad Avella.
Nicola dice che l´esito ingiusto di “Malacqua” non gli ha lasciato nessuna ferita, ed è sincero, «perché così dovevano andare le cose, e il tempo magico è corso via», e poi «l´affermazione dei libri è quasi sempre inversamente proporzionale al loro valore, non si spiegherebbe altrimenti il successo di autentici polpettoni».
Quello che temevamo era di trovare un amico malinconico, confinatosi lontano dal mare, ma Nicola, invece, scherza mostrandoci tutt´intorno le montagne che circondano Avella, e neanche il problema agli occhi che lo affligge ne ha ridotto la vitalità e il gioco dei discorsi sul filo dello humour che sono diventati l´attrazione del paese, risultando lui già autorevole per l´etichetta di intellettuale giunto da Napoli, però non un intellettuale noioso e supponente, ma un autentico sfottitore di tutto e di tutti fino a inventare, su pochi dati raccolti, una sensazionale storia di Avella che racconta agli avellani, più avvincente di quella vera. Ne ha fatto anche un lavoro teatrale, dal titolo “Rainaldo II”, che la compagnia di attori del paese “La Mela” porterà sulle scene del teatro locale, l´ex Sala Azzurra che una volta proiettava film porno.
La moglie, che ha un nome lungo quanto un´autostrada, Marie Barthelemy Conçalves Pinto do Sacramento Gotti (insieme dal 1966, sposati nel 1970), «un po´ francese, un po´ italiana, un po´ brasiliana», è il suo straordinario alleato in questa scelta di vita, lontano da Napoli, che pure è vicinissima.
Marie è una donna magnifica, forte di un ottimismo sincero, ironica da essere una compagna sempre vivace e con un viso che esprime la calda bellezza delle donne dei tropici. Ha smesso di essere gelosa di Nicola, che oggi chiama «il cucciolone», gelosia che è rimasta alla loro figlia Alessandra, “Perzechella”, che si turba ancora se una donna guarda suo padre, come le succedeva da bambina quando, una volta, in compagnia dei genitori, di fronte a una ragazza che guardava insistentemente Nicola andò a chiederle minacciosamente se avesse intenzione di fidanzarsi col padre. Della mancanza del mare ha sofferto di più Marie, il primo anno ad Avella, tanto da allungarsi con la macchina verso Nola dove poteva vedere il Vesuvio e immaginare il golfo.
Avella è il più tranquillo e appartato paese di un comprensorio di 15 comuni, molti dei quali sfacciatamente all´americana con snack e supermercati, altri cresciuti a dismisura e altri ancora che sono solo file di case lungo la via Nazionale delle Puglie. Ad Avella, Nicola Pugliese vive tra i suoi nuovi amici che sono come una compagnia di giro, personaggi genuini e simpatici, professionisti e operai, un po´ appartato solo don Franco, il parroco della chiesa di San Giovanni, che passa per il Bar Pasquino solo per consumare gelati di cui va ghiotto. Al tavolino del tressette, sulla piazza, si alternano Nico Salvi, il sindaco, che ha deciso di assegnare una stanza a Nicola nel palazzo ducale; Sabatino Guerriero che fa di mestiere ‘o funtaniere solo quando sta di genio e se il cliente è simpatico; Pellegrino Napolitano, anarchico e rivoluzionario, che ha scritto 700 poesie; Lucio Belloise, chitarrista e cantante, che esplode d´estate quando va a esibirsi nei locali del Cilento; Gennaro Noviello, vigile urbano, attore e patito delle slot-machines; Mimmo D´Avanzo, scapolo impenitente; Nicola Bizzarro, vigoroso a 77 anni, che ha ancora la grande passione di lavorare la terra e dispensa scarola, nocelle e funghi; Antonio Tulino, anima critica del paese, che compone, stampa e affigge i manifesti dei suoi rimbrotti pubblici firmandoli “La sfida”; Riccardo D´Avanzo che Nicola ha soprannominato Lucariello dopo la magnifica interpretazione in “Natale in casa Cupiello” della Compagnia La Mela, regista Maria Grazia di Palo, coreografia di Alessia Surriento.
Il problema, dice Nicola, è quello di avere trovato pochi giocatori di scacchi ad Avella con cui misurarsi, per esempio Antonio “Topolone”, detto anche il norvegese per via di un giubbotto comprato in Norvegia, e Alfonso Cessari, e di essersi dovuto adattare al gioco della dama che raccoglie un maggior numero di appassionati. «La cosa bella — dice ancora Nicola — è che qui ci sono ancora le vecchie sedi dei partiti, solo che hanno cambiato insegna e, finite le ideologie supreme, è rimasto lo scopone». A pallone non gioca più, nostalgica rinuncia dopo avere fatto la mezz´ala nella “Salvator Rosa”, la squadra di Materdei nella quale giocava fianco a fianco con Ciccio Cordova (fantasista del pallone che ha giocato in serie A) quand´erano ragazzi e abitavano in quello stesso quartiere.
Al Bar Pasquino conservano gelosamente una copia di “Malacqua” della seconda edizione, quando il romanzo di Nicola passò nella collana einaudiana “I Nuovi Coralli”. «Pensa un po´ — lui dice — fianco a fianco a Borges». Sogni e racconti ne ha ancora nel cassetto, che è un baule pieno di carte. Dipinge sempre con passione, fedele ai suoi modelli, Chagall, Kandinskj, Gauguin. Canzoni non ne scrive più. La più bella, “Tu credevi”, la cantava Carlo Missaglia, l´asso della chitarra, col quale progettò un sodalizio artistico a Procida, ma non ne fecero nulla.
Allora, nessuna ferita per “Malacqua”? «Sono in una collana con Borges, che cosa vuoi di più?», ripete, e ricorda d´essere stato definito il Salinger napoletano. Jerome David Salinger di New York scrisse un solo romanzo, “Il giovane Holden”, e poi più nulla di memorabile. «Modestamente — dice Nicola ironico — come ho fatto io, un solo romanzo. Ma ricordati che dovevo fare il marinaio, o l´attore e il regista di teatro, e ho fatto solo il giornalista, e questo sono stato, non ho mai pensato di essere un romanziere. “Malacqua” mi venne giù proprio come la pioggia fitta e interminabile su Napoli che ho raccontato». La Napoli sublunare, misteriosa, tragica e grottesca, allucinata e sospesa di Nicola Pugliese. «Luigi Compagnone mi guardava con affetto, segno del suo apprezzamento, per il resto un bel silenzio. C´erano tanti scrittori napoletani, ma molti erano via e quelli rimasti erano dei solitari, simpaticamente folli, o tristi, un po´ egoisti, individualisti sicuramente, e forse un po´ invidiosi, chissà…». Nessuna ferita. Il mare non bagna Avella, ma Nicola avrà una stanza nel palazzo ducale. «Una nobile conclusione», dice sorridendo.
La Repubblica 13 marzo 2007[image error]
May 6, 2022
Un “gallo” eccentrico e matematico

Renato Caccioppoli fu un eccentrico genio matematico napoletano. L’otto maggio del 1959 si tirò un colpo di pistola alla testa. Avevo dieci anni e ricordo i titoli dei giornali napoletani quando accadde questo fatto che alcuni amici, più grandi di me, studenti universitari, raccontavano con grande enfasi.
La sua esistenza fu caratterizzata da anticonformismo, ironia, da un suo ostinato procedere controcorrente e una vitalità prepotente. Forse tutto fu una reazione a una tendenza depressiva di fondo che cercava di acquietare bevendo e che, negli ultimi anni della sua vita, sembrò prendere il sopravvento.
La sua insofferenza si manifestò soprattutto con gesti eclatanti di protesta contro il regime fascista. Una sera pagò l’orchestrina di un locale per suonare la Marsigliese e poi tenne un discorso antifascista, alla presenza di gerarchi. Finì in manicomio. Solo l’intervento della zia, Maria Bakunin, chimica biologa, russa e napoletana, gli evitò il confino.
Nel 1938, quando il nipote Renato Caccioppoli, giovane matematico, figlio di sua sorella Sofia, fu arrestato per propaganda antifascista, riuscì a salvarlo dal carcere facendo credere che fosse incapace di intendere e di volere. Una donna con gli attributi.
Il 12 settembre 1943, durante l’incendio dell’Università di Napoli da parte dei soldati tedeschi, si sedette sui gradini della biblioteca e rimase immobile finché le truppe si ritirarono. Una vera Bakunin in difesa di un vero nipote che divenne celebre quando fece una passeggiata per le strade di Napoli con un gallo al guinzaglio.
L’intenzione era quella di irridere una delibera del partito fascista che proibiva agli uomini di passeggiare con cani di piccola taglia, per salvaguardare la virilità del maschio italico. La sua vita si spense in questa maniera drammatica dopo una serie di eventi che lo spinsero a una solitudine sempre più estrema, nel suo appartamento di Palazzo Cellamare. Gli ultimi contatti con il mondo esterno furono con barboni ed emarginati, con i quali si intratteneva e beveva.[image error]
May 5, 2022
Informazione vs Conoscenza. Digitale vs Cartaceo

In questo ritaglio dal quotidiano La Verità si possono isolare diversi argomenti di rilevante importanza nella comunicazione contemporanea. Ruotano tutti intorno alla relazione esistente tra informazione e conoscenza.
Diventano voci, parole-chiave, etichette, oggetto di critica e discussione per chi crede nella comunicazione cartacea, trasformati poi in articoli, saggi, libri. Chi privilegia, invece, la comunicazione digitale, li fa diventare tags, hashtags, gifs o emoji che si trasformano poi in chats, podcast, fogli elettronici o ebook.
Il tutto si muove in un ambito quanto mai ampio perchè tocca ogni aspetto della condizione umana: la comunicazione. Quel lettore al quale si riferisce la mia lettera si lamentava del fatto che stanno scomparendo le edicole e diminuiscono i lettori. Chi legge il giornale da un pc o un cellulare, è un “pazzo”, era la sua conclusione.
Con la mia risposta ho inteso segnalare la nascita di un nuovo e diverso tipo di lettore, quindi di giornale, e di un nuovo modo di fare comunicazione, di leggere e scrivere per interpretare la realtà.
Molto abilmente Mario Giordano, giornalista, scrittore e redattore della pagina delle lettere, ha saputo interpretare questa nuova realtà portando acqua al suo “mulino” in maniera intelligente. Ma il problema, anzi i problemi, sul tappeto restano e come!
Uno dei miei poeti preferiti si pose, quasi un secolo fa, il tema del dissidio esistente tra informazione e conoscenza. Lo fece a suo modo, ovviamente, in maniera poetica, per me magistrale. Il poeta e scrittore anglo-americano Thomas Stearns Eliot si pose queste domande:
“Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nelle informazioni?“
Nella introduzione al suo play The Rock, un coro composto da sette figure maschili e dieci femminili, in uno scenario roccioso, ai piedi di una collina, intonano un prologo alla soluzione del conflitto tra informazione e conoscenza. Correva l’anno 1934 ed era una voce in anticipo sui tempi di oggi:
O perpetual revolution of configured stars, O perpetual recurrence of determined seasons, O world of spring and autumn, birth and dying! The endless cycle of idea and action, Endless invention, endless experiment, Brings knowledge of motion, but not of stillness; Knowledge of speech, but not of silence; Knowledge of words, and ignorance of The Word. All our knowledge brings us nearer to our ignorance, All our ignorance brings us nearer to death, But nearness to death no nearer to God. Where is the Life we have lost in living? Where is the wisdom we have lost in knowledge? Where is the knowledge we have lost in information? The cycles of Heaven in twenty centuries Brings us farther from God and nearer to the Dust.
O rivoluzione perpetua di stelle configurate, o ritorno perpetuo di stagioni determinate, o mondo di primavera e autunno, nascita e morte! Il ciclo infinito di idea e azione, Invenzione senza fine, esperimento senza fine, Porta la conoscenza del movimento, ma non dell’immobilità; Conoscenza della parola, ma non del silenzio; Conoscenza delle parole e ignoranza della Parola. Tutta la nostra conoscenza ci avvicina alla nostra ignoranza, tutta la nostra ignoranza ci avvicina alla morte, ma la vicinanza alla morte non ci avvicina a Dio. Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nelle informazioni? I cicli del Cielo in venti secoli ci portano più lontano da Dio e più vicini alla polvere.
Ad un’attenta lettura emerge un’altra delle tante parole chiave o tags alle quali ho accennato innanzi. Il confronto tra informazione e conoscenza ci mette di fronte alla ragione fondamentale della nostra esistenza: il problema di Dio.
Ma non è mia intenzione qui estendere la discussione a questo tema. Desidero soltanto risolvere in maniera, quanto più possibile sintetica, il tema iniziale: informazione vs conoscenza, digitale vs cartaceo.
Informazione è tutto ciò che è riconducibile, riportabile e trasformabile in dati, dal latino datum-data (plur.) Essa concorre a formare la conoscenza che, a sua volta, diventa qualcosa-altro che si viluppa nella mente e nel corpo di chi riceve e conosce questi dati. In estrema sintesi, l’informazione tecnologica gestisce in maniera digitale tutto ciò che vive ed esiste e lo trasforma in digits.
Un digit è una cifra, un elemento di un insieme che, preso nel suo insieme, comprende un sistema di numerazione. Pertanto, una cifra è un numero, in un contesto specifico. Nel sistema di numerazione araba decimale (base 10), le cifre sono gli elementi dell’insieme {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9}.
La scrittura, (all’origine fatta di segni che indicavano lettere, le quali, messe insieme, formano le parole), in questo modo diventa numeri trasformati in impulsi elettrici. Questi formano il testo che leggiamo sullo schermo del pc o del cellulare.
La tecnologia della informazione (IT) fa scorrere questo infinito fiume della comunicazione sugli strumenti che ci mette a disposizione. Un fiume che non ha mai la stessa acqua, nella quale noi ci immergiamo.
«Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va”.
Eraclito lo sapeva bene , anche se non aveva il cellulare. Io, ogni mattina, leggo il giornale sul cellulare e mi bagno restando però sempre all’asciutto. Se voglio bagnarmi, devo conoscere quello che ho letto e che mi è soltanto scivolato addosso. Sono stato soltanto informato. Se voglio conoscere veramente, mi compro il giornale cartaceo.
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Dante la chiamava “canoscenza”. Se voglio veramente conoscere, devo fare ciò che leggo mio, sviluppando nella mente, nel corpo e nel comportamento ciò che conta e mi interessa. Il digitale fa informazione, il cartaceo fa conoscenza. Entrambi fanno nascere un nuovo tipo di lettore in cerca, ovviamente, della Verità. Che può essere anche un giornale sul cellulare.
May 4, 2022
Quella sera del cinque maggio 1998 c’ero anch’io …

I
Venne dopo il sole.
Prima venne la morte
Vestita di nebbia
Di pioggia e di fango.
Scese rumorosa lungo i valloni
Portando con sé il fragore
Che rovesciò sull’io ingordo,
Quello senz’ali e con i piedi di piombo.
Ma furono le grida delle madri
A scivolare sulla lava,
Dalle culle alle ginestre della Funicella;
Dalle strade prigioniere al Tuoro,
Al Calabrici…
II
Quella sera
Dal cielo vedovo di stelle
Scesero lacrime incolori
Per inondare preghiere e peccati
Nel piccolo orizzonte
Divenuto senza fine.
Poi tutto tacque sotto il fango
E la notte divenne silenzio di follia.
III
Ora canto le lacrime dei vivi
Dove la terra di delizie
S’è fatta deserto e pena;
Dove l’uomo, come ombra senz’anima,
Vaga smarrito
Cercando radici di pensiero;
Membra disperse di vite immature
E farfalle dalle ali spezzate.
Canto qui, sotto il Saro,
Fra antiche mura
Dove la storia in poche ore
Ha segnato con cieco monito
La superbia senza ragione.
IV
Eppure c’erano ulivi ed allori;
Passeri freschi di volo
Sui crinali e nella piana
Fra vigneti e il mare,
Dove secoli di luce
Avevano seminato amori universali.
Ora sono larghi e profondi
Gli occhi dei bambini;
Smorti i sorrisi delle spose
Nei vecchi cortili con gerani
Ove tutto è fango e silenzio.
V
Non basteranno tutti i fiori del mondo
Per le morti acerbe,
Né basteranno i marmi scolpiti
A sanare le piaghe delle madri.
Non bastano neppure le sere bugiarde
Fatte di babeliche parole!
Piuttosto, domani,
Portino fra le zolle martoriate
Il seme buono di nuovi amori.
Gino De Filippo
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