Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 72
August 19, 2022
Un genio da manicomio: Dino Campana

Un genio da manicomio «La mia vita era tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso». Che genio e follia spesso vadano insieme non è cosa nuova, sicuramente coabitarono nel poeta Dino Campana.
«Il matto», lo chiamavano a Marradi, il suo paese natìo, da quando aveva 15 anni e gli furono diagnosticati i primi disturbi nervosi. La sua pazzia inizialmente la mostrò camminando: andava, andava, spariva, tornava, viaggiava, fuggiva.
Spesso di ritorno o sulla via del ritorno veniva ricoverato in un ospedale psichiatrico, perché questo suo vagabondare pareva un segno inequivocabile di pazzia. Si disse, ma nessuno lo sa con certezza, che viaggiò a lungo anche in Argentina. O forse non ci andò mai.
Pare trovasse pace dal suo inquieto errare solo in un modo: mangiando castagne, di sera, insieme ai compaesani. Intanto scriveva, geniale ma incompreso, e studiava. Tanto incompreso che il manoscritto di prose e versi, Il più lungo giorno, che quando aveva 28 anni portò a Firenze ad Ardengo Soffici e a Giovanni Papini, direttori della rivista Lacerba, andò perso.
Peccato che si trattasse dell’unica copia. Dino si mise a riscrivere tutto, con un lavoro davvero «matto e disperatissimo», con aggiunte e modifiche rispetto alla prima versione. Per inciso, il mano manoscritto originale fu ritrovato in una casa di Soffici cinquant’anni dopo.
Alla fine, a sue spese, tra scoppi d’ira, deliri e un umore sempre meno stabile, riuscì a pubblicare la sua opera, che ottenne finalmente l’attenzione della critica, e non solo. Fu proprio dopo quella lettura che Sibilla Aleramo gli scrisse la prima ardente lettera, per poi raggiungerlo a Marradi.
Lei, la quarantenne scrittrice dei salotti romani e milanesi, femminista e politicamente impegnata, prese la corriera per incontrare «il matto» del paese. I due anni seguenti furono un’esplosione di passione, gelosia e follia, fino alla violenza e al ricovero di Dino Campana nel manicomio di Castel Pulci, vicino a Firenze.
Lì, tra deliri, voci che gli parlavano e un’ampia sintomatologia psichiatrica, trascorse quattordici anni. Nell’ultimo anno i sintomi si diradarono fino quasi a scomparire, tanto da far ipotizzare una dimissione imminente. Ma la voglia di fuga fu più forte e una ferita, provocata probabilmente da un filo spinato, causò la setticemia che lo portò alla morte, prima di poter tornare alla vita.
Sarà stato anche matto, ma la poesia visionaria dei suoi Canti Orfici, in cui mescola suggestioni dei simbolisti francesi, influenzerà profondamente i poeti del Novecento, in particolare gli ermetici.
Il critico e scrittore Sebastiano Vassalli, ha scritto, in una sua presentazione ad una edizione di queste poesie, che la vita di questo poeta è tutta riassunta nel verso di Walt Whitman che lui stesso ha posto come epigrafe ai “Canti Orfici”: “They were all torn and cover’d with the boy’s blood” (“Essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo”) … “Chi sono “they”, “essi”? Li elenco in ordine di importanza.
“Essi” sono: i genitori, i compaesani, i letterati dell’epoca, gli psichiatri. Si capisce, allora, che qui è in gioco tutto l’universo esistenziale di un uomo che vuole essere “poeta”, ma tutti lo prendono per pazzo. Non è possibile in questa sede esaminare i fatti riguardanti questi eventi. Porterei il lettore fuori strada, allontanandolo da quello che è il tema principale di questo post che riguarda il ricordo della sua nascita il 20 agosto del 1885.[image error]
Elogio della insostenibile leggerezza del nulla

Attenzione a quello che dite: “Non vale niente, conta quanto zero, dopo c’è il nulla”. Non c’è nulla che valga quanto il niente, lo zero conta più di tutti gli altri numeri che lo seguono, il senso lo trovi nel nulla. La lettura di questo libro lo dice chiaro e tondo.
“Niente è più interessante di niente, niente è più sconcertante di niente e niente è più importante di niente. Per i matematici, niente è uno dei loro argomenti preferiti, un vero vaso di Pandora di curiosità e paradossi. Ciò che sta al cuore della matematica. Avete indovinato: niente.
Giochi di parole come questo sono quasi irresistibili quando non si parla di niente, ma nel caso della matematica si tratta di barare leggermente. Ciò che sta nel cuore della matematica non è correlato al nulla, ma non è proprio la stessa cosa. ‘Niente’ è beh, niente. Un vuoto. Assenza totale di entità. Lo zero, tuttavia, è sicuramente una cosa. È un numero. È, infatti, il numero che ottieni quando conti le tue arance e non ne hai. E zero ha causato più angoscia ai matematici e ha dato loro più gioia di qualsiasi altro numero.
Zero, come simbolo, fa parte della meravigliosa invenzione della ‘notazione del luogo’. Le prime notazioni per i numeri erano strane e meravigliose, un buon esempio sono i numeri romani, in cui il numero 1.998 risulta come MCMXCVIII mille (M) più cento meno di mille (CM) più dieci meno di cento (XC) più cinque (V) più uno più uno più uno (III). Prova a fare aritmetica con quel lotto. Quindi i simboli venivano usati per registrare i numeri, mentre i calcoli venivano eseguiti usando l’abaco, accumulando pietre in file nella sabbia o spostando perline fili.

Ad un certo punto, qualcuno ha avuto la brillante idea di rappresentare lo stato di una fila di perline con un simbolo — non il nostro attuale 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, ma qualcosa di abbastanza simile. Il simbolo 9 rappresenterebbe nove perline in ogni riga — novemila, novecento, nove decine, nove unità. La forma del simbolo non ti diceva quale, non più di quanto non facesse il numero di perline su un filo dell’abaco. La distinzione era che si trova nella posizione del simbolo, che corrispondeva alla posizione del filo.
Nella notazione 1998, ad esempio, il primo 9 significa novecento e il secondo novanta. “L’idea della notazione del luogo rendeva piuttosto importante avere un simbolo per una fila vuota di perline. Senza di esso, non si poteva distinguere tra 14, 104, 140 e 1400. Quindi all’inizio il simbolo per lo zero era intimamente associato al concetto di vuoto, piuttosto che essere un numero a sé stante. Ma nel VII secolo, questo aveva iniziato a cambiare. L’astronomo indiano Brahmagupta spiegò che moltiplicando un numero per 0 si ottiene 0 e che sottraendo 0 da un numero a sinistra il numero intatto usando 0 in aritmetica sullo stesso piano degli altri numeri, ha mostrato che 0 aveva una numerazione genuina.
Il vaso di Pandora ora era spalancato, e quello che esplose non era niente. E che niente glorioso, selvaggio e irritante era. I risultati ottenuti facendo aritmetica con zero erano spesso curiosi, così curiosi a volte da doverli vietare. L’addizione ha lo stesso effetto della sottrazione: il numero è rimasto lo stesso. I puristi linguistici possono obiettare che lasciare qualcosa invariato difficilmente equivale ad addizione, ma i matematici generalmente preferiscono la comodità alla purezza linguistica. La moltiplicazione per zero, come diceva Brahmagupta, dava sempre zero. Fu con la divisione che si instaurarono i seri guai.
Dividere 0 per un numero diverso da zero è facile: il risultato è 0. Perché? Perché 0 diviso per 7, diciamo, dovrebbe essere ‘qualunque numero dia 0 moltiplicato per 7’ e 0 è l’unica cosa che si adatta al conto Ma cos’è 1 diviso 0? Deve essere ‘qualunque numero dia 1 moltiplicato per 0.’ Sfortunatamente, qualsiasi numero moltiplicato per 0 dà 0 e non 1, quindi non esiste un tale numero.La divisione per zero è quindi vietata, motivo per cui le calcolatrici mettono un messaggio di errore se lo provi.
Invece di vietare frazioni come 1 diviso per 0, è possibile rilasciare ancora un altro irritante dal riquadro matematico di Pandora — definendo 1 diviso per 0 come ‘infinito.’ L’infinito è ancora più strano di zero; il suo utilizzo dovrebbe sempre essere accompagnato da un avvertimento del governo: “L’infinito può danneggiare seriamente i tuoi calcoli”. Qualunque sia l’infinito, non è un numero nel senso comune, quindi per lo più è meglio evitare cose come 1 diviso per 0.
Scusate: la maledizione di Pandora non si elude così facilmente. Che ne dite di 0 diviso per 0? Ora il problema non è l’assenza di candidati idonei, ma un loro imbarazzo. Anche in questo caso, 0 diviso per 0 dovrebbe significare ‘qualunque numero dia 0 quando moltiplicato per 0.’ Ma poiché questo è vero qualunque numero usi per dividere, a meno che tu non stia molto attento, puoi cadere in molte trappole logiche — la più semplice è la ‘dimostrazione’ che 1 = 2 perché entrambi sono uguali a 0 quando sono divisi per 0 . Quindi anche 0 diviso per 0 è proibito.”
Originally published at https://www.goodreads.com/book/show/18759201-nothing
[image error]August 17, 2022
Profumo di donna N° 5. La Regina di Parigi

Continua la sfilata di un matto al giorno. Oggi è la volta di una “matta”, una donna, e che donna! Profumo di donna N° 5. Gabrielle Chanel, detta Coco, per sempre Mademoiselle. Ha stile e carattere chiari da subito: giovanissima veste a modo suo, mascolino, severo ed essenziale.
Dice: «Non mi sposerò mai». Nata a Saumur il 19 agosto 1883, cresce con un padre alcolizzato che abbandona lei e i fratelli alla morte della madre. Ha 12 anni; fino ai 18 cresce dalle suore. Con la sorella Adrienne apre un negozietto di lingerie, tentando di sera la carriera di cantante.
Coco è il personaggio di una sua canzone che le rimane addosso per sempre. Non bella, ma ricca di fascino, è pronta a usarlo. Il primo compagno è Étienne Balsan, ricco borghese che eredita il castello di Compiègne, creando un allevamento di cavalli.
Lei accetta di vivere da lui: per la prima volta frequenta un ambiente alto-borghese che la considera sempre e solo l’amante di Balsan. Rimane una outsider, palesemente unica e diversa. Presto convince Balsan ad aprirle un negozio di cappelli a Parigi, dove incontra il suo unico vero amore.
È Arthur Capel, detto Boy, ricco industriale inglese annoiato della vita, che ama i cavalli e le donne da proteggere. È lui che finanzia il suo secondo negozio in Rue Cambon, accanto alla sede attuale di Chanel. Per la loro differenza di classe non si sposano mai e lui muore troppo presto in un incidente d’auto.
La loro storia è ben raccontata nel film del 2009 “Coco avant Chanel”, con Audrey Tautou che somiglia davvero a Mademoiselle. Altri uomini importanti e fascinosi la aiutano a diventare un personaggio memorabile della moda.
Con il granduca Dmitrij Pavlovič nel 1922 lancia il suo profumo che chiama semplicemente Numéro 5. Ha l’intuizione di utilizzare il tessuto di jersey della Maison Rodier: inconfondibile il «tre pezzi» giacca, maglia e gonna.
Durante la seconda guerra mondiale Coco viene accusata di collaborazionismo con il regime nazista. Si rifugia a Saint Moritz fino al 1953. Riparte con la sua visione personale di stile e femminilità. Lancia la prima tracollina in jersey trapuntato.
Crea il tailleur in tweed e inserisce perle e bijoux falsi che mescola a tessuti importanti. Mantiene ed esaspera la sua eccentricità. Vive gli ultimi anni nella sua suite al Ritz, dove muore a 87 anni.
La sua cliente più famosa è Jackie Kennedy, che nel 1963, a Dallas, nel giorno dell’assassinio del marito indossa il suo iconico tailleur rosa. Forte, creativa e parecchio bizzarra, per istinto sa che la moda passa e lo stile resta. Contraria alla moda del tempo, inventa quella «democratica» che rimane nel tempo.
Frasi col profumo di donna N°5
Non mi pento di nulla nella mia vita, eccetto di quello che non ho fatto.
La forza si ottiene con i fallimenti, non con i propri successi.
Per essere insostituibili bisogna essere unici.
Alcune persone pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità.
Amo il lusso. Esso non giace nella ricchezza e nel fasto ma nell’assenza della volgarità. La volgarità è la più brutta parola della nostra lingua. Rimango in gioco per combatterla.
Bevo Champagne in sole due occasioni, quando sono innamorata e quando non lo sono.
Ci sono persone che hanno i soldi e persone che sono ricche.
La semplicità è la chiave della vera eleganza.
L’atto più coraggioso è pensare da soli. A voce alta.
Una donna che si taglia i capelli sta per cambiare la vita.
C’è un momento per lavorare, e uno per amare. Il che non lascia altro tempo a disposizione.
Un uomo può indossare ciò che vuole. Resterà sempre un accessorio della donna.
Nessun uomo ti farà sentire protetta e al sicuro come un cappotto di cachemire e un paio di occhiali neri.
Una donna dovrebbe indossare il proprio profumo ovunque piace essere baciata.
La bellezza serve a noi donne per essere amate dagli uomini, la stupidità per amare gli uomini.[image error]
August 16, 2022
Il sonno della ragione genera mostri. Era il 18 agosto 1634

L’opera che esprime la fede illuminata di Goya nel valore della ragione, insidiata dai mostri dell’irrazionale. “Il sonno della ragione genera mostri”, (1797–98), Acquatinta e Acquaforte, cm 23×15,5 cm, Biblioteca National de Espana, Madrid. Francisco Goya ci indica il significato della sua opera: “La fantasia priva della ragione genera mostri impossibili: unita a lei è madre delle arti e origine di meraviglie. Quando gli uomini non ascoltano il pianto della ragione, tutto muta in visione“. La sua scelta “illuminista” depreca l’oscurantismo e dichiara che le superstizioni e l’assenza di autonomia di pensiero porterà gli uomini ad uno stato di brutalità e di paura. La ragione si unisca alla fantasia in un intimo connubio tra l’estro creativo e la razionalità. L’opera rappresenta una denuncia dell’oscurantismo, delle superstizioni, delle paure a non perdere mai il controllo della propria coscienza critica per non essere inghiottito dal buio della irrazionalità.
È il 18 agosto del 1634 quando Urbain Grandier, canonico di Loudun, sale sul rogo. Prete colto e anticonformista, famoso per l’oratoria trascinante, ma anche per le abitudini libertine, intreccia varie relazioni con le sue parrocchiane, seduce una giovinetta di buona famiglia dalla quale ha anche un figlio e che abbandona, si innamora di Madeleine de Brou e la sposa con un rito segreto in cui svolge il triplice ruolo di officiante, testimone e sposo.
Ma il suo nome è per sempre legato a quello che possiamo definire il più famoso caso di possessione demoniaca della storia, di cui fu l’involontario motore. La badessa del locale monastero delle Orsoline, suor Jeanne des Anges, inizia ad accusare terrificanti visioni notturne, opera di creature diaboliche alleate del canonico, che la possiede carnalmente attraverso di esse, e tali visioni coinvolgono progressivamente tutte le suore, che invano vengono sottoposte a esorcismi di ogni tipo: si contorcono, si strappano le vesti, pronunciano oscenità e orrende bestemmie, corrono seminude sui tetti o si arrampicano sugli alberi.
Grandier viene processato e assolto, ma la sua posizione di contrasto al carcardinale Richelieu, deciso ad abbattere le fortificazioni di Loudun contro la volontà dei cittadini, lo perderà. Chiamato nuovamente in giudizio davanti a un tribunale a lui pregiudizialmente ostile, è riconosciuto colpevole di stregoneria e patto con il diavolo. Barbaramente torturato non confessa, ma viene ugualmente condannato a morte.
Una ricostruzione accurata della vicenda la compie Aldous Huxley nel romanzo-saggio I diavoli di Loudun (1952). Alla luce delle nostre conoscenze scientifiche la possessione del convento delle Orsoline appare come un caso di isteria collettiva.
La superiora, forse invaghitasi del canonico per la sua fama di seduttore, gli aveva offerto la direzione spirituale della comunità di monache, ricevendone un rifiuto.
La delusione e il desiderio di rivalsa, sfruttato abilmente dal confessore, nemico del Grandier, avrebbero innescato i sintomi isterici che, attraverso il contagio della suggestione, si sarebbero estesi a tutte le suore.
La vicenda risale al XVII secolo, ma «i diavoli di Loudun» dovevano fare ancora notizia… e vittime. Nel 1971 il film I diavoli, ispirato al libro di Huxley, regia di Ken Russell, presentato a Venezia, fu accusato di blasfemia e ne venne immediatamente ordinato il sequestro, fino alla sentenza assolutoria da parte della Cassazione.
Della serie: Almamatto . Un matto al giorno. 365 tipi strani (+1) che hanno cambiato il mondo
[image error]“Elvis the pelvis”: ve lo ricordate?

«Quando Elvis sorrideva il sole si metteva a brillare». Così si esprimeva Joe Esposito. L’importanza di un sorriso. Come quello, uno degli ultimi, che Elvis fece durante l’interpretazione del brano “Unchained Melody” il 21 giugno 1977 e che tanto ha colpito Antonella Santovincenzo. Il sorriso di un uomo stanco e sofferente, capace ancora, però, di creare legami indissolubili nello spazio e nel tempo. È proprio rincorrendo questo sorriso che Antonella ci porta alla scoperta dell’Elvis uomo, oltre il mito, tracciandone un ritratto estremamente privato, quasi intimo. Ripercorrendo i luoghi dove l’artista è vissuto, e visitati dall’autrice, il libro riesce a sondare tutti gli aspetti caratteriali di Elvis: la solitudine, la generosità, l’insicurezza, la versatilità, gli stati d’animo, il carisma, l’intelligenza, l’ambizione, il senso estetico, il talento, il patriottismo, la spiritualità. La seconda parte del libro è dedicata alla mostra itinerante curata dall’Autrice, in collaborazione con altri estimatori di Presley, volta a scoprire l’Elvis privato, le sue passioni, il rapporto con la madre e la famiglia d’origine.
Detestava quel soprannome: «Elvis the pelvis», e non ne faceva mistero. Un giorno gli chiesero perché e lui spiegò che quel suo modo provocante, quasi osceno, di dimenare il bacino quando cantava era soltanto per fare scena, ma il suo carattere era addirittura l’opposto. Chi lo conosceva bene, sua madre, gli amici, confermavano. Era un tipo schivo, timido, insicuro e introverso, puritano e addirittura bigotto. Si scatenava solo sul palcoscenico, al ritmo del rock, tirando fuori un timbro cavernoso e sensuale che un critico una volta arrivò a definire «spermatico». Fatto è che le ragazzine impazzivano, urlavano, svenivano, o lo assalivano per denudarlo.
Non ancora maggiorenne aveva già venduto decine di milioni di dischi, con Don’t be cruel, Teddy bear, Love me tender, Jailhouse rock, grazie anche all’abilità di un manager astuto e cinico come Tom Parker, che certo non si lasciava intimorire dai benpensanti che definivano la musica di Presley «demoniaco veicolo di perdizione». La macchina da soldi funzionava a pieno regime, anche se, forse per reggere il ritmo dei concerti e dei film, forse per dissimulare la propria insicurezza, cominciò a far uso di psicofarmaci.
Negli anni Settanta, dopo Are you lonesome tonight e It’s now or never (O sole mio), il re del rock è al culmine della notorietà, ma gli stati depressivi sfociano ormai in atteggiamenti sempre più vistosi e aggressivi. Sul palco alterna mosse provocanti a figure di karatè, ma il fisico dei suoi 35 anni è ormai patetico, gonfio di cibo e di medicine. Acquista per i suoi spostamenti un quadrigetto, e poi un quadrimotore. La moglie Priscilla, incapace di reggere le corna e le follie, chiede il divorzio. Lui, ridotto quasi a un rottame, minaccia a mano armata i suoi collaboratori, spara alle proprie auto…
E tuttavia risale un’ultima volta sul palco a Indianapolis il 26 giugno ’77. È come un pugile suonato, ma riesce miracolosamente a terminare il concerto in piedi, davanti a 18.000 persone. Pesa 158 chili. Meno di due mesi dopo l’ultima fidanzata lo trova esanime in bagno ucciso da un’overdose di farmaci e barbiturici.
Elvis Aaron Presley ( 8 gennaio, 1935 — 16 agosto, 1977)
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Della serie: Almamatto . Un matto al giorno. 365 tipi strani (+1) che hanno cambiato il mondo
August 15, 2022
Senza speranza e pure grafomane…

Ha ragione chi scrive che non tutti i mali vengono per nuocere: la campagna elettorale è dura da sopportare, però il lato positivo è che dopo il voto finalmente non avremo più questo ministro della salute a dettarci le regole per sopravvivere dopo la pandemia.
Tutti siamo stati “prigionieri” in questi due/tre anni, pur se in maniera diversa, della speranza come sentimento e di Speranza come ministro. Fortunatamente siamo ancora qui a raccontarcelo, riscoprendone le ragioni.
Queste le ritrovo nel titolo del famoso libro che lo stesso ministro ebbe l’ardire di scrivere e pubblicare nel mese di ottobre 2020. Memorabile la dedica: “A chi ogni giorno fa il proprio dovere. A chi si batte contro il virus. A chi non ce l’ha fatta”.
La vicenda di questo libro la conoscono tutti, una comune storia di grafomania. Il Ministro della Sanità italiana scrive un libro mentre combatte il virus, gli dà quel titolo, lo passa a Feltrinelli che lo stampa e inizia a diffonderlo.
Il Ministro, vista la piega che prende il Covid 19 nonostante il suo impegno, si rende conto che avrebbe fatto meglio a non scriverlo e decide di bloccarlo dicendo alla stampa: “adesso non posso impegnare tempo nelle presentazioni”.
Si ferma la diffusione, va al macero, almeno così dissero. Io lo trovai sul bancone del mio giornalaio il 24 ottobre del 2020. (foto al link) Ovviamente non lo comprai perchè mi vergognavo di avere un ministro del genere.
Eravamo tutti in pieno lockdown, tra autocertificazioni e presunti vaccini, contravvenzioni e minacce legali. A futura memoria ebbi modo di sperimentare sulla mia pelle la triste esperienza vissuta di una contravvenzione di 300 euro per non avere obbedito alla imposizione di limitazione di circolazione anticovid. Una esperienza indimenticabile.
Il libro del ministro aveva per sottotitolo questa frase: “Dai giorni più duri a una nuova idea di salute oltre ogni speranza”. Furono quelli giorni davvero duri mentre noi, cittadini comuni, vivevamo non solo senza idee, ma anche senza speranze.
Se mi limito a fare una superficiale lettura dell’indice di quel libro, mi rendo conto di quanto megalomane fossero le idee del ministro.
Diviso in quattro parti, dopo una premessa con “prologo senza manuale”, lo scrittore ministro entra nella tempesta con inquietudine e vive i primi cento giorni dopo l’arrivo di un virus venuto e visto da lontano. Le sue intenzioni sono quelle di unire l’Italia all’Europa per salvarci dal pericolo. Lui sa che siamo tutti diversi, ma dobbiamo essere uniti. Si rende conto che salvare il malato Italia, dentro la crisi, non è cosa facile. Le scelte da fare sono sempre più difficili. Tra una Italia blindata ed un mercato impazzito, nessuno può salvarsi da solo. Bisogna innanzitutto salvare gli anziani e fare la dovuta resistenza per ripartire e riflettere. Tra riflessioni internazionali e virtù antieroiche, si rincorre il vaccino perchè il dovere della politica è trovare la giusta cura. La quarta parte del libro manifesta in maniera chiara le idee del ministro che si dice convinto del perchè e come guariremo. Ci aspetta, a sua parere, una partita doppia, una sanità circolare, per un nuovo ministero ed un epilogo certo con il ritorno della sinistra. Quest’ultima parte costituisce l’epilogo del libro al quale il ministro dà il titolo rivela la sua vera natura: “Il ritorno della sinistra”.
Tutto da leggere. Sono convinto che questa parte del libro, con gli eventi che poi si sono succeduti e gli sono caduti addosso, con i disastri che si sono succeduti, convinsero, e venne convinto, che tutto quello che aveva pensato e scritto nel suo libro, era meglio non farne nulla.
Meglio ritirare il libro, mandarlo al macero. Non avrebbe potuto confrontarsi con il mondo là fuori dalle sue sicure stanze del ministero con chi aveva vissuto sulla propria pelle ben altre esperienze. Il libro scomparve dalla circolazione. In qualsiasi altro paese il ministro si sarebbe dimesso.
Ma la bibliomania, si sa, fa storia e il libro rimane un ottimo esempio di scrittura politica bibliomaniacale. Finisce su eBay e raggiunge cifre impensabili per i collezionisti bibliomani.
Quella del Ministro della Salute della Repubblica Italiana fu una intenzione davvero sinistra, quella di anticipare con quello che scriveva, per merito suo, la fine e la sconfitta di un male che ha mietuto migliaia di vittime innocenti non solo qui in Italia.
La sua fu una chiara dimostrazione di arrogante presunzione. Qualche settimana fa, per puro caso, la mia edicola ha cambiato gestore e nel rimettere a posto libri riviste e giornali, scovo una copia del libro che ora ho qui con me.
Sulla quarta di copertina si legge: “Guarire si può. Cambiare si deve”. Grazie a Dio. Non saremo più “prigionieri nè della speranza nè di Speranza”. Se vi rileggerete la presentazione editoriale del libro vi convincerete di quanto sia pericolosa la sinistra grafomania politica …[image error]
August 13, 2022
Ieri come oggi, oggi come ieri, è sempre Cinema Paradiso …

A distanza di quasi due generazioni, il film di Giuseppe Tornatore (1988) rimane un capolavoro. Per varie ragioni. La principale riguarda la comunicazione. Tutto ruota, infatti, intorno a questa attività umana che caratterizza ogni società.
Ci sarebbe da scrivere un saggio di antropologia culturale a vedere la vita di quella gente, di quel paese, in quel determinato periodo storico.
Tornatore fece nel suo film quella “lettura” alla stessa distanza di tempo con la quale potremmo farla noi oggi, con il medesimo lasso di tempo. Sommando i due spazi temporali sarebbero quasi ottanta gli anni presi in considerazione.
La carica dei miei anni e più. Se la si facesse di nuovo oggi, quella “fotografia” sociale che Tornatore fece allora, scopriremmo che, quella gente non esiste più. Ma sarebbe facile rilevare che, a ben vedere, non tutto è cambiato. Tutto sommato, le cose stanno ancora così.
Se sentite quello che si dicono in questa campagna elettorale i vari partiti (esistono ancora?): gruppi, movimenti, raggruppamenti, abbinamenti, convergenti o divergenti, nulla è cambiato da questo punto di vista.
Voglio dire, aveva ragione chi disse che “bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”. Il nipote del Principe di Salina sapeva bene quello che diceva. Resta vero che quella gente, quei luoghi, quel modo di vivere, non esistono più.
Ma, purtroppo, quegli stessi luoghi, quella gente, quei comportamenti continuano a manifestarsi, ad essere presenti non solo così come furono magistralmente registrati dall’occhio magico del regista Tornatore.
Quel paese, quella gente, quella società, tutto è ancora vivo, presente e attivo in tutta intera la nostra società. Ogni immagine proposta nel film agli occhi dello spettatore del XXI secolo, fa riemergere, anche se sotto altre forme, in altre vesti, con differenti suoni ed immagini, situazioni del presente:
Le parole chiave sono sempre le stesse: il lavoro, il sesso, l’economia, la chiesa, il clima, la malinconia, la bellezza e l’ignoranza, lo sfruttamento e la bontà, il lassismo e il fatalismo, il fascismo, il comunismo …
C’è un personaggio nel film di Tornatore che mi ha sempre colpito ogni qualvolta rivedo questo film. Una presenza minore che appare più volte man mano che il tempo passa la sua mano sulla realtà circostante.
Pur non parlando mai, comunica a modo suo, saltellando, correndo dappertutto, urlando parole sconnesse nei panni sporchi dello scemo del paese.
Ricorda il folle Shakespiriano, nel quale probabilmente il regista intende manifestare lo scorrere del tempo che tutto travolge e tutto trasforma.Ecco, tutto questo ho pensato, guardando questo film per un’ennesima volta.
Non so se mia nipote, che appartiene alla generazione Z, ha visto questo capolavoro. Non saprei da dove cominciare per spiegarle certe situazioni, scene, motivi, sensazioni e sentimenti che soltanto chi li ha vissuti è in grado di conoscere e raccontare.
Avrei certamente molte difficoltà a farle comprendere tutto quello che il regista è riuscito a mettere in questo suo quadro sociale di quello che fu il nostro Bel Paese. O, meglio, era, soltanto quaranta più quaranta anni fa, ma che è ancora così oggi, ma in forme diverse …[image error]
La scrittura è creativa?

Oggi con i social media siamo tutti “autori” nel senso che leggiamo, scriviamo, inter-agiamo, condividiamo, elaboriamo, copiamo, incolliamo, interpretiamo, manipoliamo, reinventiamo, insomma scriviamo, ma non siamo “scrittori”, ma siamo pur capaci di “inventare” un significato.
Il sociologo francese Michel Foucault nel 1969 si chiese “chi è un autore?“ Si diede anche una risposta: “L’autore è certamente un principio funzionale per mezzo del quale, nella nostra cultura, si fissano dei limiti, si esclude, si sceglie, l’autore, pertanto è una figura ideologica che determina il modo in cui noi temiamo la proliferazione del significato”.
La domanda è allora: si può insegnare a scrivere? La risposta sembra scontata tanto banale è la domanda. Sembra che tutti nasciamo lettori, tanti ormai hanno la possibilità di imparare a leggere, per poi imparare a scrivere in un modo od un altro. Qui, a dire il vero, si tratta di imparare a scrivere non tanto per vivere la quotidianità nel suoi vari e diversi impegni, quanto imparare a scrivere e diventare uno “scrittore”.
A me che sono un “dinosauro”, figlio di un tipografo post-gutenberghiano, questa denominazione mi ha fatto sempre sorridere. E’ davvero una vita che ho scritto per vivere, come docente e come scrivente di ogni cosa che possa/debba essere scritta. L’ho fatto, ovviamente, per guadagnarmi da vivere.
Ma è di una particolare attitudine alla scrittura che intendo occuparmi: la scrittura come lavoro, professione. Per scrivere libri e possibilmente venderli. Fate una ricerca in rete e scoprirete quanti sono i libri catalogati che si occupano di scrittura creativa. Migliaia, e milioni se li cercate su Google.
Con i media moderni sembra che questa passione per la scrittura sia diventata addirittura una mania. Ma la grafomania, come la bibliomania, sembra siano delle patologie piuttosto antiche. Quello che mi interessa qui di parlare sono le tante scuole di scrittura creativa che ci sono in giro.
Ho letto un articolo su una rivista letteraria inglese in cui una scrittrice, anche insegnante di scrittura, parlava delle sue esperienze in questo campo dopo una vita trascorsa in questo tipo di insegnamento. Ha intitolato, non a caso, il suo scritto:” “Insegnaci a scrivere bene”. Lei si riferisce ad un particolare tipo di scrittura chiamata “scrittura immaginativa”. Racconti, romanzi, “fiction” per intenderci. E’ possibile un insegnamento del genere? Certamente.
Ogni cosa che caratterizza gli uomini penso sia possibile insegnare, nel bene e anche nel male, purtroppo. Si può insegnare la musica, la matematica, le scienze, perchè non a scrivere? L’importante è che ci sia la persona giusta a cui insegnare, persone che abbiano delle particolari predisposizioni, che possano poi diventare un “talento”. Si intende che questo non lo si può insegnare a nessuno se non lo si possiede già, ed è tutto da scoprire.
La cosa di cui non tutti sembrano rendersi conto è il fatto che per imparare a scrivere bisogna prima impossessarsi delle giusta tecnica. Nessuno si aspetta che un ragazzino al quale piace la musica, prenda subito un violino ed inizi a suonare senza che non abbia fatto un gran numero di ore di esercizi e di studi prima. Stessa trafila deve seguire un matematico, un pittore, uno scieziato. C’è un ben preciso elemento tecnico da apprendere da chi il mestiere lo conosce.
Mentre per la musica, la pittura e la scienza queste sono cose che la maggior parte di noi raramente fa, e chi lo fa lo pratica nei luoghi adatti il laboratorio, il teatro e gli studi.
Tutti, invece, abbiamo il dono della parola e crediamo di poter accedere facilmente a quello della scrittura. Parliamo e scriviamo tutti i giorni, in ogni modo possibile, pensiamo, quindi, che sia facile e possibile scrivere, costruendo pensieri, persone e luoghi immaginari. Grave errore.
Dietro ogni vero talento si nasconde una tecnica ben precisa. Thomas Edison ha detto che il 99 per cento del genio è fatto di sudore e aveva ragione.
Se c’è il talento, ed anche intelligenza e immaginazione, senza una padronanza della tecnica per comunicarla agli altri, sarà impossibile farsi accettare.
Bisogna saper gestire il pensiero, nei suoi vari aspetti comunicativi. E’ il “mestiere” che bisogna apprendere, la capacità di riuscire ad immaginare di poter essere “altro” e “altri”, al di là di se stessi …
Quanti sono disposti a rinunciare a se stessi, alla propria identità, alla propria storia, ai propri pensieri, a favore di un altro, di tanti altri, personaggi che diventano persone vere della loro immaginazione? Tanti credono di saperlo fare a cuor leggero, per vendere qualche copia del proprio libro e sorprendere qualche ingenuo che casca nella sua rete.
Si illudono di saper scrivere libri propinandoli a tanti che pensano di saper leggere. Non si rendono conto che per saper scrivere bisogna innanzitutto saper leggere, Per saper leggere è necessario saper pensare.
Io consiglierei alla autrice/scrittrice/insegnante di scrittura creativa, di insegnare innanzitutto a pensare, prima di leggere e poi scrivere. Tutto il resto è solo “rumore”, come il titolo di quella nota canzone …[image error]
August 12, 2022
Ecce Sossio, il mago del Sud gran sacerdote della filosofia

Perché un commento a Umano, troppo umano? Perché Umano, troppo umano, scritto come opera unica e testamentaria, è in realtà l’instauratio magna di Nietzsche, che dà la stura a una lunga serie di altre opere. Esso segna l’abbandono di una lunga sudditanza alla metafisica di Schopenhauer e Wagner e la conversione alla fede nello “spirito libero”, cioè alla razionalità illuministica nel segno di Voltaire, a cui il primo volume dell’opera fu dedicato in occasione del centenario della sua morte. Ma questa sudditanza era stata un apprendistato, grazie al quale soltanto Nietzsche potè incamminarsi sulla sua propria strada. Si imponeva allora un lungo giro divagatorio in contrasto con il suo pathos e credo giovanile, onde pervenire a una meta che non era ancora salita al suo orizzonte: “l’atto di una enorme purificazione e consacrazione dell’umanità”, ma più propriamente la fondazione della religione laica, come approdo finale del processo che aveva travagliato tutta l’età moderna. A tal fine era però necessario sgombrare il campo da tutte le false credenze che lo avevano fino allora occupato. Quindi il progetto di Nietzsche era, sotto specie di esaltazione della razionalità, la pars destruens di un progetto complessivo di cui egli ignorava la pars construens, e ciò perché, come egli poi sentenziò, “il futuro dà la legge al presente”. Il risultato fu un terremoto provocato dalla sua lotta a ogni forma di falsità, ipocrisia, illusione, di cui filosofie, religioni, morali, tradizioni, istituzioni, costumanze si erano fino allora nutrite. Dopo le tre poderose opere aforistiche prezarathustriane, Umano, troppo umano, Aurora e La gaia scienza, “il visionario dello Zarathustra” sarebbe tornato all’ispirazione iniziale della religiosità terrena proclamata nella Nascita della tragedia. Umano, troppo umano è la prima di tali opere.
Qualche mese fa, era di maggio, ho incontrato a Napoli il maggior filosofo italiano del nostro tempo: Sossio Giametta. Abbiamo pranzato a casa di Emilia Del Franco che guida la casa editrice Bibliopolis che ha pubblicato l’ultimo libro del traduttore italiano di Nietzsche che riguarda proprio il filosofo-poeta dello Zarathustra: Commento a “Umano, troppo umano” aforisma per aforisma. È un’opera capitale con cui il filosofo napoletano — perché Giametta è nato 93 anni fa a Frattamaggiore — riesce in un’impresa non ordinaria: capire e far capire Nietzsche più di quanto Nietzsche non abbia inteso se stesso e non si sia fatto intendere dagli altri.
Infatti, oggi se vogliamo sapere, come ripeteva Mazzino Montinari, “cosa ha detto Nietzsche” c’è una via maestra da seguire: ascoltare cosa dice Sossio Giametta che ha ricondotto Nietzsche al suo tempo, lo ha liberato da tutta una serie di ossessioni e demoni e ne ha fatto il riferimento di una “religione della libertà” o religione laica che — spiega Giametta — ha iniziato il suo cammino secoli addietro con i filosofi italiani del Rinascimento, è transitata nell’opera di Spinoza per giungere a Nietzsche che di Spinoza riteneva di essere, attraverso i secoli, il fratello spirituale. Insomma, con Sossio Giametta possiamo dire: Ecce Nietzsche e, ancor più, Ecce Sossio.
Mentre Sossio Giametta, seduto in poltrona, si girava e rigirava tra le mani il volume del suo Nietzsche dicendo “questo libro è un capolavoro tipografico, guardate che meraviglia di stampa”, lo guardavo con affetto e con ammirazione perché avevo la naturale consapevolezza di conversare non con un professore di filosofia ma con un vero filosofo che ha nella umana simpatia e nell’amicizia per gli uomini e il pensiero la qualità stessa dell’incarnazione della filosofia. Una magia o quasi. Amici e ammiratori gli hanno ora, giustamente, dedicato un libro, curato da Marco Lanterna, intitolato Il Mago del Sud pubblicato da Olio Officina. Il 30 luglio, giù nel Salento, a Santa Maria di Leuca, lì dove l’Adriatico si confonde con lo Ionio e lo Ionio si tuffa tra le braccia dell’Adriatico, il libro è stato presentato e discusso sotto le stelle di una bella notte d’estate.
Il mago del sud, infatti, pur vivendo tra Bruxelles e Milano, ritorna ogni estate prima a Frattamaggiore e poi ancora più a Sud nella Magna Grecia per immergersi, come un filosofo antico, nelle acque del “greco mar”. I ritratti di Sossio Giametta che si leggono nel libro Il Mago del Sud — il mago del Nord era detto Hamann, filosofo a sua volta caro a Giametta — ci restituiscono il profilo di un pensatore originale che ha fatto della conoscenza della storia del pensiero una ragione di vita.
Mentre mangiavamo degli ottimi spaghetti al pomodoro — e Sossio scartava con simpatia le cosiddette pellecchie ossia la pelle o buccia del pomodoro — gli ho chiesto se fosse arrivato alla filosofia attraverso le traduzioni e lui, guardando e sorridendomi mi ha detto: “Oh, no, alla filosofia sono arrivato fin da quando ero nel ventre materno”. E c’è da credergli non solo leggendo un altro suo godibilissimo libro che è una sorta di autobiografia intellettuale — Senecione, edito da liberilibri — ma anche guardando, se ci si riesce, con un sol colpo d’occhio tutta la sua vasta opera che per comodità didascalica possiamo dividere in due grandi ali: una è l’interpretazione di Spinoza e di Nietzsche e l’altra è la rilettura della storia della filosofia moderna che Giametta non fa iniziare, come fanno i manuali scolastici, con Cartesio e l’ossessione gnoseologica, bensì con i nuovi filosofi della natura italiani del Cinquecento e con Giordano Bruno che considera, né più né meno, il maggior filosofo dell’età moderna.
Il fascino dell’opera di Sossio Giametta promana non poco proprio da questa interpretazione del cammino del pensiero moderno in cui — il lettore potrà notarlo anche con questo pezzo di giornale — gli autori di Giametta son tutti dei filosofi per vocazione o necessità e non dei docenti che, spiace dirlo ma pur va detto, il più delle volte spiegano agli altri ciò che loro stessi non hanno capito. In fondo, questo mago del pensiero e della traduzione dei pensieri altrui — si consideri che ha tradotto di tutto, da Cesare a Goethe, dallo stesso Spinoza a Schopenhauer — ha iniziato a far filosofia per un preciso bisogno interiore.
In sostanza, come dice nell’autobiografia sotto forma di dialogo platonico, perché stava male. Ora, se prendete un’altra strepitosa autobiografia intellettuale, il Contributo alla critica di me stesso di Benedetto Croce, vi leggerete questa cosa: “Iniziai a filosofare per soffrire meno”. E del suo conterraneo — come, del resto, suo conterraneo e consanguineo è anche il Nolano — mi dice: “Croce è stato il mio primo maestro”. Infatti, tante sono le pagine di Sossio Giametta dedicate a Croce. Non ultime quelle del libro Eterodossie crociane, edito proprio da Bibliopolis con cui è iniziato questo articolo, in cui Giametta rivela il segreto di Croce: Francesco De Sanctis. Ma questa storia la racconterò un’altra volta.
Giancristiano Desiderio
Originally published at https://www.ilgiornale.it on August 13, 2022.
[image error]August 10, 2022
“Spolvera, se proprio devi, ma …”

Spolvera, se proprio devi spolverare, anche se forse sarebbe meglio fare un quadro, scrivere una lettera, fare un dolce, piantare un albero, conosci la differenza che c’è tra necessità e bisogno?
Spolvera se proprio lo devi fare, ma non c’è molto tempo, ci sono fiumi da nuotare, montagne da scalare, musica da ascoltare, libri da leggere, amici da godere, una vita da vivere.
Spolvera se proprio devi spolverare, ma il mondo è là fuori col sole nei tuoi occhi, il vento nei tuoi capelli, una fioccata di neve, uno scroscio di pioggia, questo giorno non ritornerà.
Spolvera se proprio lo devi fare, ma ricorda, la vecchiaia arriva e non perdona. E quando te ne andrai, perchè dovrai andartene, tu stessa sarai polvere.
Una poesia, a dir poco, crudele ed impietosa. Scritta da una donna. Ma attenzione, vale anche per gli uomini.
Lo sappiamo bene, sopratutto la condizione femminile caratterizza l’azione sulla quale poggia tutta la struttura della poesia.
La parola è MUST, dovere, abbinata abilmente per assonanza, con l’altra DUST, polvere. In effetti quest’ultima, oltre ad essere un sostantivo, qui ha anche una funzione verbale. Sta per spolverare.
Le donne conoscono bene questa attività. Ma se per gli uomini ha il valore di una metafora, il senso della futilità del fare e del vivere rimane e caratterizza, a mio parere, sia gli uomini che le donne nelle loro azioni quotidiane.
In questa poesia che ho tradotto in maniera libera dall’inglese, si invita chi legge ad esplorare tutte le virtù che la vita ci offre e che non sappiamo sfruttare perchè preferiamo fare cose inutili: spoverare, appunto. Le parole chiave della poesia sono: dust, polvere, time, tempo, life, vita, must, dovere.
Il poeta, anzi la poetessa, parla con un “tu” sconosciuto che legge la poesia. Si incoraggia il lettore a sfruttare al massimo la vita prima che venga portata via dalle mani del tempo.
Dipingere, scrivere, cucinare, piantare, meditare, nuotare, arrampicarsi, ascoltare, leggere, amare, guidare e vivere la giornata.
Se si insiste a “spolverare”, prima o poi saremo destinati ad essere polvere … “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”.[image error]
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