Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 68
October 31, 2022
Un libro impossibile da leggere

Il 1 Novembre 1972 muore a Venezia il poeta che ha scritto forse il libro più impossibile da leggere. Non è un libro come tutti gli altri, legati alla quotidianità, di quelli che si comprano perché di moda, perché ne parlano i giornali, si è visto e sentito l’autore in TV o se n’è discusso in Rete.
Libri e autori che appaiono e scompaiono, che vivono lo spazio di una stagione, magari anche vendendo migliaia di copie. Libri che hanno il fiato corto, finiscono nel dimenticatoio della storia della letteratura, appartengono a mezza generazione. Finiscono nella indifferenziata della cultura consumistica che divora tutto, sia i testi che i loro autori.
Non a questi appartiene questo libro che è un poema, un “Canto”, anzi una serie di “Canti” che, pur diventati classici, difficilmente sono letti nella loro interezza. Libro impossibile da leggere perchè troppo impegnativo, quasi inavvicinabile dall’uomo comune, perché difficile nella forma e nei contenuti.
Appartiene alla serie di libri troppo concettuali, intellettuali, di cui però tutti ne parlano, li citano e menano vanto di conoscere, ma nessuno li conosce veramente. Eppure osano, addirittura, offendere la memoria e l’arte di chi l’ha scritto in nome di una ideologia che offusca le idee. Questo è stato anche il destino di Pound “fascista non per caso”.
“I Canti Pisani” di Ezra Pound è uno di questi libri sui quali intendo soffermarmi in ricordo della sua morte il 1 Novembre 1972 a Venezia.
Un libro di fronte al quale chi legge si sente smarrito e sperduto per la dimensione sia spaziale e temporale che lo comprende, per il viaggio orizzontale e verticale che l’autore percorre attraverso la foresta dei simboli che caratterizza l’esperienza umana.
La sola storia di Ezra Pound è di per sé un “classico”. Per poter comprendere l’universalità che questo grande libro esprime, credo non ci sia migliore descrizione di quella che ne fece anni fa Eugenio Montale. Ecco quanto scrisse:
“I Canti Pisani” sono una sinfonia non di parole, ma di frasi in libertà. Non siamo tuttavia nel caos perché queste frasi sono legate da un “montaggio” che supera di gran lunga, per apparente incoerenza, quello di qualche parte dell’ “Ulysses” e dell’eliotiana “Waste Land”. Si tratta però di un montaggio di cui sfugge totalmente il connettivo, il nesso conduttore. Immaginate che si possa radiografare il pensiero di un condannato a morte dieci minuti prima dell’esecuzione capitale, e supponete che il condannato sia un uomo della statura di Pound e avrete i “Canti Pisani”: un poema che è la fulminea ricapitolazione della storia del mondo (di un mondo), senza alcun legame o rapporto di tempo e di spazio (…) Migliaia di personaggi, fitto intarsio di citazioni in ogni lingua, ideogrammi cinesi, brani di musica, allusioni a tutto ciò che per cinquant’anni ha alimentato, nella storia, nella filosofia, nella medicina, nell’economia e nell’arte il pensiero moderno, non senza salti vertiginosi nel mondo del mito e della preistoria (….). L’interesse è però ravvivato dal fatto che qua è la’, in questi canti di prigioniero, intravediamo un Pound nuovo, provato dal dolore, una voce che piange, che geme, che soffre; e sentiamo allora che il gioco diventa serio e lo spettacolo del clown si fa tragedia”.
Non credo si possa aggiungere altro. Un libro universale che comprende spazio e tempo, che va oltre il soggetto e diventa oggetto, significato e significante nella dimensione dell’essere e del divenire. Un libro davvero per tutti e per nessuno. Tutti sono sfidati ad entrare nella mente del poeta che scrive, prigioniero di se stesso e del mondo. Pochi sapranno leggere il suo messaggio arrivando fino in fondo. Lo dice chiaramente “il grande fabbro” Pound nel canto 81, parlando della vanità dell’essere e del mondo.
Quello che veramente ami rimane,
il resto è scorie
Quello che veramente ami non ti sarà strappato
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
Il mondo a chi appartiene, a me, a loro
o a nessuno?
Prima venne il visibile, quindi il palpabile
Elisio, sebbene fosse nelle dimore d’inferno,
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
La formica è un centauro nel suo mondo di draghi.
Strappa da te la vanità, non fu l’uomo
A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia,
Strappa da te la vanità, ti dico strappala
Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo
Nella misura dell’invenzione, o nella vera abilità dell’artefice,
Strappa da te la vanità,
Paquin strappala!
Il casco verde ha vinto la tua eleganza.
“Dominati, e gli altri ti sopporteranno”
Strappa da te la vanità
Sei un cane bastonato sotto la grandine,
Una pica rigonfia in uno spasimo di sole,
Metà nero metà bianco
Né distingui un’ala da una coda
Strappa da te la vanita’
Come son meschini i tuoi rancori
Nutriti di falsità.
Strappa da te la vanità,
Avido di distruggere, avaro di carità,
Strappa da te la vanità,
Ti dico strappala.
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
questa non è vanità. Avere, con discrezione, bussato
Perché un Blunt aprisse
Aver raccolto dal vento una tradizione viva
o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questa non è vanità.
Qui l’errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare.
Ezra Pound,[image error]
“Pisan Cantos”
(Canto 81)
Il 1 Novembre 1755 scoppiò l’ira di Dio

Sarebbe troppo dire che il terribile terremoto e lo tsunami di Lisbona, che rasero al suolo una delle grandi città d’Europa e uccisero un quinto dei suoi abitanti, abbiano fatto tremare dalla base anche la filosofia europea?
Centinaia di scrittori hanno tentato di dare un senso al terremoto, tra cui il giovane Immanuel Kant. A differenza della maggior parte degli scrittori poeti e filosofi, egli attribuì quel terribile sconvolgimento tellurico alle forze geologiche piuttosto che a Dio.
Che dire poi della popolare ed ottimistica teoria del Dio “buono”, riassunta dall’affermazione di Leibniz secondo cui viviamo nel “migliore di tutti i mondi possibili”, di fronte ai tanti morti ed alle indicibili sofferenze subite da migliaia di persone, nientemeno proprio nel giorno di Ognissanti?
Né potè resistere alla tentazione di occuparsene Voltaire che scrisse il suo scettico “Poema sul disastro di Lisbona” dopo un mese dalla calamità e mise il terremoto il centro del suo capolavoro sarcastico, “Candido”.
La mattina di domenica 1 novembre 1755, poco dopo le nove e mezza, nel porto della città di Lisbona giunse la fine del mondo. In una giornata iniziata con cieli azzurri e mite calore, l’orgogliosa capitale del Portogallo venne colpita da un violento terremoto.
Dopo un breve tremore di due minuti, arrivarono sei lunghi minuti di orrore. Lisbona ondeggiava “come grano al vento prima che valanghe di pietre volanti nascondessero le rovine sotto una nuvola di polvere”.
Una terza scossa rase al suolo la maggior parte degli edifici ancora in piedi, causando una catastrofica perdita di vite umane. La città era stata colpita da una potente scossa sismica stimata in 8,7 della scala Richter, più potente del terremoto di San Francisco del 1906.
Un’ora dopo, il piccolo fiume di Lisbona e la costa dell’Algarve vennero inghiottite da una serie di tsunami. Nelle zone della città non interessate dalle onde, gli incendi infuriarono per sei giorni, completando la distruzione della quarta città più grande d’Europa.
Quando tutto finì, 60.000 anime erano morte e l’85% degli edifici di Lisbona, oltre a un’inimmaginabile ricchezza di tesori culturali, erano stati distrutti. Il terremoto ebbe un impatto devastante sulla psiche europea.
Teologi e filosofi rimasero sconcertati da questa terribile manifestazione dell’ira di Dio. Come conciliare la presenza di tanta sofferenza nel mondo con l’esistenza di una divinità benefica?
Per lo stesso Portogallo, nonostante un ambizioso programma di ricostruzione (che diede vita alla moderna scienza della sismologia), il terremoto inaugurò un periodo di declino, in cui la sua supremazia marittima fu eclissata dall’inesorabile ascesa dell’Impero britannico. Una città e una società vennero cambiate per sempre in un solo giorno di terrore.[image error]
October 30, 2022
Il 31 ottobre ….

31 ottobre è un giorno celebrato nel calendario. C’è la tradizionale festa di Halloween a Hogwarts, con zucche ripiene di caramelle, decorazioni, masse di pipistrelli vivi e, al quarto Halloween di Hogwarts di Harry Potter, il Calice di fuoco, che lo dichiara a sorpresa il quarto campione Tremaghi. È anche l’anniversario della decapitazione incompleta nel 1492 di Sir Nicholas de Mimsy-Porpington, il cui fantasma fu conosciuto per sempre come Nick quasi senza testa. E ovviamente è in questo giorno che Lord Voldemort stesso è entrato nel cottage di Potter e con la Maledizione Mortale — “Avada Kedavra!” — ha ucciso James e Lily Potter ma non è riuscito a uccidere il piccolo Harry, quasi distruggendosi nel processo e lasciandosi indietro , nella cicatrice a forma di fulmine sulla fronte di Harry, una parte della sua anima.
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October 31 is a celebrated day in the calendar. There is the traditional Halloween feast at Hogwarts, with candy-filled pumpkins, decorations, masses of live bats, and, at Harry Potter’s fourth Hogwarts Halloween, the Goblet of Fire, which declares him the surprise fourth Triwizard champion. It’s also the anniversary of the incomplete decapitation in 1492 of Sir Nicholas de Mimsy-Porpington, whose ghost was known forever after as Nearly Headless Nick. And of course it’s on this day that Lord Voldemort himself stepped into the Potter cottage and with the Killing Curse — “Avada Kedavra!” — murdered James and Lily Potter but failed to kill the baby Harry, nearly destroying himself in the process and leaving behind, in the lightning-shaped scar on Harry’s forehead, a part of his soul.
[image error]October 29, 2022
La filanda. In Memoriam …

Quando una foto fa la storia. Mio Padre mi raccontava che quando era ragazzo conobbe un ingegnere svizzero che lavorava ai motori che davano forza produttiva a questa fabbrica, una ex-filanda al centro di Sarno, oggi sede del supermercato Conad e del Liceo linguistico. Quelle chiare e fresche dolci acque che vedete scorrere fin dentro e sotto quel palazzo, da secoli formano una delle sorgenti del fiume Sarno ai piedi della collina del monte Saretto.
In fondo c’era una cascata con alcuni potenti motori che si accendevano sfruttando l’energia della caduta. Mi raccontava che tra i tanti lavori che fece in gioventù ci fu anche quello di aprire di mattina presto la porta che conduceva alla cabina e aiutare l’ingegnere a controllare i motori.
Mio Padre era nato in una famiglia di cinque fratelli e due sorelle, con un padre, mio nonno Michele, sarebbe diventato poi tipografo, tre figli avrebbero ereditato l’arte tipografica. Lui era un grande lettore sin da ragazzo, sarebbe perciò diventato un Tipografo. Tra le tante cose di avventure che mi raccontava, ne ricordo una che non saprei dire se è vera o fantasia.
Disse che l’ingegnere scomparve per un incidente tra i flutti della cascata e il suo corpo non venne mai ritrovato. Nelle notti d’inverno alcuni guardiani dicevano di sentire delle urla e lamenti provenienti dalle acque che oggi continuano a correre. Chissà se erano cose vere o sono cose nate soltanto dalla mia fantasia e da quella di mio Padre. Sempre figlio di un tipografo sono …
Ho scritto che una semplice foto può “fare la storia”. Non è soltanto un modo di dire. In effetti, questo imponente edificio, come altri nelle immediate vicinanze, posti nel cuore di Sarno, caratterizza il passato di un Paese che ha tutto il diritto di definirsi una Città.
Non a caso, un tempo non lontano, per le sue caratteristiche riferite, appunto, a questi edifici, Sarno veniva chiamata “la Birmingham del sud”. Con l’immagine di quell’acqua che continua a scorrere nelle vene del suo fiume, scrive la sua antica Storia, con la lettera maiuscola.
Una Storia comune per tanti suoi cittadini, intere generazioni che sono passate in quelle stanze, sale, saloni, officine, laboratori, “spazi” ripieni di macchine, sono diventati oggi aule scolastiche, studi e centri commerciali. Tutto scorre, passa e si trasforma, diventando memoria, “liquida” quanto si vuole, ma memoria vera.
Questo posto fu anche un ospedale. Al terzo piano, passò a miglior vita una persona che per me fu la più cara di tutti. Questo è proprio il tempo giusto per ricordarla. Mia MADRE finì la sua vita terrena al terzo piano di questo edificio che fu una filanda …[image error]
October 26, 2022
La insostenibile leggerezza della follia

Il 27 OTTOBRE 1466 nasce Erasmo da Rotterdam filosofo, umanista, teologo e saggista. Tutti hanno sentito nominare almeno una volta “Elogio della follia”, un libro scritto in latino nell’arco di una settimana oltre cinquecento anni fa. Dalla lettura di questo capolavoro, che ho letto, badate bene, non in latino ma in italiano e in versione moderna Kindle, disponibile online gratuitamente, ho avuto la conferma che la follia ha una sua logica. La conferma la ritroviamo nei turbinosi avvenimenti che viviamo giorno dopo giorno. Due, in particolare, mi hanno colpito: qui da noi in Italia, una giovane donna di un partito di destra politica, di nome Giorgia, fa il suo primo discorso alla Nazione in veste di Primo Ministro, mentre, nella perfida, ex-imperialista Britannia, un ricco miliardario di nome Rishi, dalla ex-colonia India, diventa Primo Ministro. Pensate un pò come cambia il mondo. Intendo qui parlare della “follia” di Erasmo, in altra occasione mi occuperò di quella italiana ed inglese.
La filosofia della vita di Erasmo è quanto di più lontano dalla follia si possa immaginare. Eppure scrisse questo libro cinque secoli fa. Monaco, perché per un orfano senza mezzi né inclinazioni particolari il convento era un passaggio obbligato. Pochi mesi dopo essere stato ordinato canonico agostiniano lasciò il convento di Steyn grazie alla chiamata del vescovo di Cambrai, che gli offriva un’occupazione da segretario. Da segretario, però, doveva viaggiare e questo disturbava i suoi studi. Convinse, allora, il vescovo a lasciarlo partire, con un modesto assegno, per l’università di Parigi.
Fu protagonista, con Marsilio Ficino e tanti altri, della rivoluzione umanistica che gettò le basi intellettuali della modernità, Erasmo, insomma, fu tutto salvo che un rivoluzionario e tanto meno un “folle”. E poi, ancora, fu cattolico, ma amico di Martin Lutero, si allontanò quando Lutero cercò di strappargli nette prese di posizione sia politiche che religiose e poi declinò con garbo l’offerta del cappello cardinalizio dei cattolici. Nell’Europa delle guerre di religione, anziché schierarsi, pensò al dopoguerra.
Ho detto di avere avuto modo di rileggermi il libro in maniera approfondita soltanto oggi, dopo di avere avuto per anni con me la copia cartacea del libro che non restituii alla biblioteca dell’ospedale mentale di Harperbury, a nord di Londra, dove dovetti confrontarmi davvero con quella che in genere viene chiamata follia o pazzia. Folle è colui che crede di sapere senza conoscere, pazzo è colui che lo ascolta e gli crede senza sapere.
Ma quella fu un’esperienza per me diversa, perchè quei miei pazienti con i quali vissi per più di due anni, erano sia l’una che l’altra cosa, con qualcosa in più: avevano deficienze sia mentali che fisiche. Quella era un genere di follia ben lontana da quella di cui si occupò Erasmo, in latino. I pazzi o i folli di cui parla e scrive Erasmo, o meglio, fa parlare il personaggio “Folly” sono altra cosa. Ma vediamo in breve il contenuto dell’opera.
Originariamente scritto in latino, il libro si presenta come un lungo discorso o “declamazione” pronunciato da una Follia personificata. Erasmo usa il personaggio di Folly come portavoce per criticare e prendere in giro le debolezze della natura umana in generale, nonché molte delle istituzioni e dei costumi del suo tempo, sia all’interno che all’esterno della chiesa.
Usando sarcasmo, ironia, arguzia e una ricchezza di allusioni erudite alla letteratura classica, Erasmo descrive la follia come una forza potente negli affari umani. Il libro si conclude con una rappresentazione della sincera fede cristiana come forma positiva e redentrice di follia che ha il potenziale per dare all’umanità un senso di estasi spirituale elevando gli esseri umani al di sopra delle preoccupazioni del mondo.
Erasmo afferma di aver scritto il libro in una settimana mentre si trovava a casa del suo amico Sir Thomas More a Londra; il titolo latino del libro, “Moriae Encomium”, è un gioco sul nome di More. Il libro ha subito una serie di revisioni durante la vita di Erasmus e ha provocato un’ampia varietà di reazioni, dall’elogio all’attacco. Ad esempio, papa Leone X ne fu molto divertito e divertito, mentre un altro uomo di chiesa credeva che Erasmo stesse tentando di distruggere la chiesa attraverso la sua satira.
Erasmo difese e chiarì molti aspetti di Elogio della follia nella sua lettera del 1515 a Maarten Van Dorp, un giovane teologo che aveva criticato l’opera. La satira di Erasmo è stata accreditata per aver attirato l’attenzione del pubblico su molti degli abusi nella chiesa che avrebbero portato alla Riforma protestante e cattolica.
Folly, raffigurata come una donna che indossa un costume da sciocco, si presenta a un’assemblea e dichiara che, sebbene non apprezzata e non riconosciuta, è responsabile della felicità dell’uomo. Pertanto consegnerà un “elogio” a se stessa. Spiega la sua storia familiare e presenta i suoi assistenti e prosegue parlando dell’influenza che ha sulla vita dell’uomo. Dice che i matrimoni e il parto non esisterebbero mai senza di lei e la vecchiaia viene addolcita e mitigata da lei. Anche gli dei sono in debito con lei, come dimostra il loro comportamento.
La follia descrive le donne come sciocche perché cercano costantemente la bellezza e compiacere gli uomini, mentre gli uomini sono ancora più ridicoli perché la bellezza di una donna li induce a compiere atti assurdi. La follia è essenziale poiché le riunioni pubbliche devono includere la follia per essere divertenti. Le amicizie non avrebbero mai successo senza follia, perché le persone si dicono che le stranezze dei loro amici sono le loro virtù più alte. In effetti, tutte le relazioni sulla terra, incluso il matrimonio, hanno bisogno di follia e adulazione per procedere armoniosamente.
La follia sostiene che l’amore per se stessi non è una cosa negativa e che le persone devono piacere a se stesse per realizzare qualcosa di valore. Secondo Folly, i progetti non sarebbero mai realizzati se non fosse stato per lei, e inoltre, le persone tendono ad amare lo sciocco più del saggio; in fondo lo stolto diverte e dice la verità senza offendersi e, a volte, alla brutale verità è preferibile una sciocca illusione.
Nella seconda metà del libro, Folly critica vari ceti sociali e professionali. Inizia con avvocati e medici, poi tocca filosofi, giocatori d’azzardo, cacciatori, gente superstiziosa, autori di libri, poeti, uomini d’affari, grammatici, persone ossessionate dalla loro stirpe e ascendenza, artisti e persino intere nazioni e città. Tutte queste persone, dice Folly, mostrano un alto livello di follia, come dimostrato dal loro compiacimento, stupidità e irrilevanza.
Si rivolge in modo specifico ai teologi; sono, dice, più in debito con lei di qualsiasi altra classe di persone perché sono orgogliosi delle loro oscure argomentazioni e interpretano le Scritture per adattarle alle loro opinioni e tesi. Peggio ancora, i teologi confondono i loro ascoltatori con giri di parole confusi e ignorano il vero messaggio di Cristo. I monaci dimenticano il Vangelo mentre papi, cardinali e vescovi vivono una vita di lusso. Anche i principi e i governanti secolari ignorano il loro popolo, assecondando i propri capricci.
Negli ultimi capitoli del libro, Folly si rivolge all’idea del pazzo cristiano. La Scrittura loda la semplicità e l’ignoranza, e Cristo e San Paolo parlavano di mansuetudine e umiltà. Cristo è stato, dice la follia, il più grande sciocco di tutti, perché si è fatto peccato per redimere i peccatori. Per Follia, questi esempi dimostrano che la religione cristiana assomiglia più alla follia che alla saggezza. Inoltre, Folly sottolinea che un cristiano dovrebbe cercare la trasformazione divina, un’aspirazione che suggerisce la follia, e avvicinarsi il più possibile a Dio. La follia si conclude ricordando ai suoi ascoltatori di godersi la vita il più possibile come il più illustre discepolo. Erasmo chiude il suo libro con queste parole:
“Ma ormai, dimentica di me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però il detto greco: “spesso anche un pazzo parla a proposito”; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne. Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo d’essermi abbandonata a un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. C’è un vecchio proverbio che dice: “Odio il convitato che ha buona memoria”. Oggi ce n’è un altro: “Odio l’ascoltatore che ricorda”. Perciò addio! Applaudite, vivete, bevete, famosissimi iniziati alla Follia.”
La stessa, medesima follia fece Giorgia qualche anno fa. Scrisse il suo libro “Io sono Giorgia” e oggi ha confermato la sua “follia” …
[image error]October 19, 2022
“”Cosa pensi che fosse quel posto, un luogo di villeggiatura?”

Alexander Solzhenitsyn era un autore sconosciuto fino alla pubblicazione di “Una giornata nella vita di Ivan Denisovich” nel 1962, il libro che gli avrebbe fatto vincere il Premio Nobel nel 1970. È il resoconto della sopravvivenza di un solo giorno di un contadino russo a malapena alfabetizzato in uno dei campi di lavoro di Stalin. Raffigura la complessità e la resilienza dello spirito umano in uno stile paragonabile a Tolstoj e Dostoevskij. Questo studio misura l’impatto politico e letterario che il libro ha avuto in Russia e all’estero ed esamina le sue qualità più universali e intrinseche.
A pochi mesi dalla fine del disgelo culturale, il 20 ottobre del 1962, il premier sovietico Nikita Khrushchev mise fine ad un tabù decennale approvando la pubblicazione di “Un giorno nella vita di Ivan Denisovich”, uno spietato romanzo dell’ex prigioniero Aleksandr Solzhenitsyn sulla brutale vita in uno dei campi di lavoro di Stalin. A quelli del Politburo che temevano le sue rivelazioni su quei luoghi, il premier ribattè, con orgoglio in questo giorno all’editore di Solzhenitsyn: “Cosa pensi che fosse quel posto, un luogo di villeggiatura?”. Il romanzo ebbe un successo immediato in URSS e in Occidente, ma nel giro di due anni Krusciov fu costretto a lasciare l’incarico a Breznev e, dopo cinque anni, Ivan Denisovich fu silenziosamente rimosso dalle biblioteche sovietiche, dopo dodici, lo stesso Solzhenitsyn, fu esiliato con la forza in Occidente.
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Alexander Solzhenitsyn was an unknown author until the publication of “One Day in the Life of Ivan Denisovich” in 1962, the book that was to win him the Nobel Prize in 1970. It is an account of a barely literate Russian peasant’s surviving a single day in one of Stalin’s labour camps. It depicted the intricacies and resilience of the human spirit in a style comparable with Tolstoy and Dostoyevsky. This study gauges the political and literary impact that the book has made in Russia and abroad, and examines its more universal, intrinsic qualities.
During a cultural thaw that had just a few months remaining, Soviet premier Nikita Khrushchev broke a decades-long taboo by approving the publication of “One Day in the Life of Ivan Denisovich”, an unsparing novel by former prisoner Aleksandr Solzhenitsyn about the brutal life in one of Stalin’s labor camps. To those in the Politburo who feared its revelations about the camp, the premier retorted, as he proudly recounted on this day to Solzhenitsyn’s editor, “What do you think it was, a holiday resort?” The novel was an immediate success in the USSR and in the West, but within two years Khrushchev was forced out of office by Brezhnev, within five Ivan Denisovich was quietly removed from Soviet libraries, and within twelve Solzhenitsyn himself was forcibly exiled to the West.[image error]
La battaglia dei libri. Padri cartacei e figli digitali. Il rumore delle parole.

Il piacere di leggere. Voi come leggete? Il libro è disponibile in queste edizioni: versione libro tradizionale, audiolibro, e-book, libro in formato drone, in versione nanolibro, libro in versione cristalli olografici, in versione letta da un corvo elettronico, in versione gas inodore, letto e spiegato da un robot tutto fare, in versione t-shirt … Voi come leggete?
La battaglia dei libri non è un fatto nuovo nella storia dell’editoria, o meglio, nella storia della letteratura. Soltanto, però, con l’avvento della così detta I.T. “Informazione tecnologica” le cose fissate da quel genio che fu Gutenberg sono cambiate. Mio Padre era tipografo gutenberghiano ma anche aperto ai cambiamenti. Io che sono suo figlio sono convinto che siamo in una fase di grandi trasformazioni nel campo della comunicazione con sviluppi imprevedibili. Sono coinvolte non solo quelle care letterine dell’alfabeto mobile inventato dal tipografo tedesco, ma l’intera realtà dell’essere uomini che pensano, scrivono, leggono e vogliono comunicare, lasciando una traccia di se stessi durante il viaggio su questo pianeta chiamato Terra.
La vignetta che ho di recente scovato in Rete sintetizza qui sopra, con una chiara vena ironica, i tanti, diversi modi di pensare, leggere e scrivere un libro. Non sembri esagerato, allora, dire che si tratta di una vera e propria battaglia, una guerra di uomini, mezzi e menti, che risale ben indietro nel tempo. Addirittura tremila anni fa se pensiamo che già nel Qohelet si diceva chiaramente che c’erano troppi libri!
Non intendo qui rifare questa affascinante storia. Desidero soltanto ricordare quella famosa satira scritta, ma non portata a termine, da Jonathan Swift intitolata proprio “La battaglia dei libri”. Dietro questa presunta battaglia scoppiata in una biblioteca, quella del patron di Swift , si intravedevano le ragioni di un altro conflitto: quello tra autori, scrittori e mentalità antiche e moderne.
Un po’ come oggi, tra cartacei e digitali. Non è la prima volta che mi occupo di questo argomento e temo non sarà nemmeno l’ultima. Ogni giorno, chi ha la possibilità di navigare in Rete, ma anche chi non lo fa per svariate ragioni, si può rendere conto di quanto questa “battaglia” sia in atto, sotto diversi aspetti. Senza tirarla troppo per le lunghe, desidero in questa occasione mettere in evidenza alcuni fatti che riguardano la stampa e la comunicazione come è stata sempre fatta e come si andrà a fare.
Due esempi pratici mi aiutano per dimostrare questa “guerra” in atto tra due realtà che si identificano in cartaceo e digitale , ma che hanno riflessi e nomi diversi nel tempo, come antichi e moderni nel caso di Swift. Una questione non solo di nomi ma anche di fatti, se per cartaceo intendiamo i classici, gli antichi, e digitali i moderni sia di oggi che di ieri.
La satira dello scrittore irlandese non venne completata, non sappiamo come l’avrebbe conclusa. A distanza di tanto tempo possiamo dire che, ovviamente, i moderni hanno vinto, com’è logico che sia. Ho sotto gli occhi, invece, la pubblicazione di un libro, che in questo caso, riguarda un mio amico che si diletta a scrivere poesie e, da impagabile narciso, le pubblica per farle leggere ai suoi amici.
Se si consulta il catalogo del suo editore , si scopre una ricca e variegata gamma di offerte di pubblicazioni di romanzi, poesie, racconti, per adulti e per bambini, saggi ed altre scritture le quali confermano che il Bel Paese resta il paese per eccellenza di “poeti, santi e navigatori”. Il volume del mio amico e’ intitolato “Il rumore delle parole” , guarda caso. Come di ogni volume pubblicato, viene presentato offrendo al visitatore online un estratto del lavoro, la bio dell’autore e le possibilità di acquisto dell’opera.
Tutto normale. Voglio dire, la Rete usata come “bancarella” del mercato. L’importante è che all’amo lanciato dall’editore, abbocchi il pesciolino che ama la poesia, il romanzo, il racconto. Nessuna edizione versione eBook. Una scelta editoriale precisa, discutibile, quanto si vuole, ma libera e democratica. Tutto bene allora, direte voi. Di che ti lamenti?
L’editore fa il suo lavoro, come meglio ritiene opportuno. Stampa un certo numero di copie, sembra non chiedere impegni all’autore, gli offre un limitato numero di libri, invia il testo ai tanti concorsi di scrittura e di poesia che fioriscono in Italia. Se funzioneranno gli agganci e i collegamenti, l’aspirante poeta, saggista o romanziere, sarà premiato e l’autore sarà invitato con la gentile consorte, ospite gradito se vincente. Un circolo virtuoso direte, voi, di che ti lamenti? Per amor del cielo, tutto lecito, democratico e corretto.
Io vorrei, a questo punto, però, farvi conoscere l’aspetto digitale della pubblicazione. Prendiamo tra le mani il libro di poesie del mio amico, una serie di poesie raggruppate per sezioni. Sono più di un centinaio, ognuna di esse solleva un problema, presenta delle riflessioni, espone considerazioni che chi scrive rivolge a se stesso, passandole poi all’attenzione di chi legge.
Quando il lettore avrà tra le mani la versione cartacea, l’unica cosa che potrà fare sarà quella di riportare quello che pensa sulla metà della pagina bianca, sotto il testo bianco lasciato dal tipografo a pie’ di ogni poesia. Se avrà la fortuna di partecipare ad una riunione con l’autore potrà confrontarsi non solo con lui ma anche con chi condivide la lettura del libro.
In una edizione digitale del libro le cose andrebbero in maniera del tutto diversa. Un libro di poesie come quelle del volume di cui stiamo parlando, sarebbe una versione dinamica del testo, nel senso che potrebbe essere commentata, evidenziata, gli argomenti taggati e rilanciati sui social, sui forum, aprendo dibattiti e discussioni, valorizzando i contenuti, favorendo la diffusione del libro. Insomma, per dirla tutta: la differenza tra un libro in versione cartacea e uno in versione digitale sta nel fatto che nel momento in cui l’editore-stampatore ha fissato sulla carta il messaggio dell’autore, quelle pagine a stampa segnano la sua fine.
Il libro e’ un “fossile”. Solo il lettore potrà farlo rivivere, ma nella sua testa, senza poter fare nulla per comunicare con il testo nè con l’autore. Non parliamo poi di condivisione, al massimo il libro potrà essere “prestato”. Nella versione digitale si possono inserire link attivi a immagini, clip video e audio, collegamenti a forum, chat, social per “uscite laterali”, approfondimenti, condivisioni, insomma in ogni momento il lettore sa di poter personalizzare, approfondire, condividere. Mai come in questo caso resta valida l’intuizione di Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio”.
La parola che distingue e caratterizza un testo digitale da quello cartaceo è la sua “dinamicità” . Non si tratta soltanto di proporre un testo stampato sullo schermo, come una fotocopia, un banale testo chiamato “PDF”. Un esempio pratico di come il pensiero digitale stia cambiando la struttura mentale della comunicazione umana ce l’offrono siti e applicazioni dedicate alla scrittura creativa. I promotori intendono rivolgersi in generale al pubblico dell’editoria mondiale, al lettore. Loro intenzione è quella di coinvolgere chi legge e scrive, l’autore e il lettore.
L’editore a sua volta ha bisogno di lettori, gente che, appunto, ha deciso di leggere. Sarà inevitabile il passo successivo, il ritorno all’autore. In questo modo il cerchio si chiuderà con piena soddisfazione per le parti coinvolte. Se il libro di poesie del mio amico fosse stato pubblicato su una piattaforma del genere, sarebbe stato a portata di mano sempre, ovunque e comunque. Puoi avere una intera biblioteca sul tuo pc, iPad ed anche ormai sul tuo cellulare. Il destino del libro non sarà più la reclusione della biblioteca, ma la piazza grande digitale.
Leggere e scrivere in cartaceo non è la stessa cosa di leggere e scrivere in digitale. Chi pensa che la comunicazione cartacea sia migliore di quella digitale non sa quello che dice. Una mia antica conoscenza ha scritto di recente un libro, un romanzo pseudo fantascientifico interamente dedicato a questo argomento. Ha presentato il libro in molte scuole e centri culturali diffondendo l’idea nella quale fermamente crede e fa credere, come tanti, che il libro cartaceo non scomparirà mai e che il libro digitale non potrà mai sostituirlo.
Sono posizioni estreme ed estremistiche di chi non sa leggere i cambiamenti e crede di fermare il tempo che inesorabilmente passa e cambia uomini e cose. Solo gli sciocchi possono pensare che il libro tradizionale, con il quale sono nato e cresciuto, possa scomparire di botto. Alla stessa maniera, soltanto un pazzo ignorante può pensare di eliminarlo sostituendolo con uno digitale. Le due realtà sono destinate a procedere insieme forse almeno per altri cinque secoli, il tempo che ha vissuto il libro di Gutenberg.
[image error]October 15, 2022
Parole, parole, parole …

Siamo tutti intrappolati nel deserto del tempo

Dino Buzzati nasce il 16 ottobre 1906 a San Pellegrino, nei pressi di Belluno. Lo ricordo per il suo romanzo “Il deserto dei Tartari”, un perfetto concentrato del più implacabile pessimismo esistenziale. Con lui siamo tutti intrappolati nella fortezza del tempo sotto il segno dell’attesa.

“Il deserto dei Tartari” è un romanzo di attesa e irreversibilità. La storia è abbastanza semplice, anche se strana: Drogo, un giovane ufficiale di un regno immaginario, viene assegnato a un posto di frontiera, in un’antica cittadella, ai margini di una distesa desertica, da dove, si dice, potrebbero sgorgare orde di nemici, i tartari, in qualsiasi momento.
Drogo, prima di tutto, desidera essere trasferito altrove, ma senza convinzione e infine senza successo. Alla fine resterà al forte per quasi tutta la vita, in attesa di una guerra che tarderà sempre ad arrivare.
Il pregio principale di questo romanzo è, infatti, quello di sentire l’inevitabile scorrere del tempo e, di fondo, l’avvicinarsi della morte. L’autore ci riesce, non solo attraverso le riflessioni esistenziali del suo protagonista, ma soprattutto (Buzzati fu anche pittore) attraverso descrizioni contemplative di oggetti a volte impercettibili, nature morte: la corsa di una stella attraverso la cornice di una finestra, il percorso di un raggio di luna a terra, un cavallo immobile nel deserto, rituali militari ripetuti mille e mille volte, movimenti di truppe all’orizzonte, la neve che si scioglie, il volo delle nuvole nell’aria.
Le interazioni tra i soldati del forte e, occasionalmente, con i borghesi della città, sono quasi sempre accattivanti per il loro carattere allo stesso tempo concreto e insolito, per la loro irrisoria meschinità. Un tratto della scrittura che, è stato giustamente sottolineato, fa pensare spesso a Kafka ne “Il processo” e “Il castello” .
“Se la monotonia delle vostre giornate vi sembra eterna ed invincibile, vi manca l’aria e non vedete via di fuga intorno, e tuttavia le ore scorrono una dietro l’altra inarrestabili, ricordatevi che non c’è libro che abbia rappresentato con più esattezza la disperazione del tempo de “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati. Riprendetelo dallo scaffale dove lo avete riposto chissà quando, soffiate via la polvere che vi sarà depositata sopra e collocatelo sul vostro comodino, accanto alla radio con il display digitale che vi sveglia ogni mattina. Sfogliarne un capitolo, di tanto in tanto, o anche solo qualche pagina sarà un contravveleno sufficiente per allontanare l’ansia e i cattivi pensieri. Tornerete ad indossare l’uniforme del giovane tenente Giovanni Drogo e a camminare lungo le stanze e le mura gialle della Fortezza Bastiani, nell’attesa di vedere apparire dal fondo della pianura un esercito nemico che non si paleserà mai. Ogni anno che passerà capirete sempre meglio che la sua storia, la vostra storia, e’ una gigantesca metafora della perdita della giovinezza. Come se l’esistenza fosse un avamposto sul confine tra un deserto e un altro, una lunga notte consumata ad aspettare qualcosa che non accadrà mai, una grande occasione, una seconda possibilità. Quando ve ne accorgerete, buona parte della vita sarà già trascorsa. Ma vi conforterà sapere che questa e’ una malattia che abbiamo tutti. E che leggere, in fondo, e’ uno dei modi più interessanti e piacevoli di impiegare il tempo.”[image error]
(E. Berthoud-S. Elderkin: “Curarsi con i libri”, Sellerio editore)
Oscar Wilde a Clapham Junction

Oscar Wilde, famoso drammaturgo e poeta, fu vittima di abusi omofobici in questa stazione mentre veniva trasferito dalla prigione di Wandsworth alla prigione di Reading. 2:00–2:30 20 novembre 1895. Questa targa fu svelata in memoria del suo passaggio attraverso la Clapham Junction Station. Wilde era stato condannato a due anni di lavori forzati in seguito alla sua condanna per “grossolana indecenza con gli uomini”. Dalle 14:00 alle 14:30 del 20 novembre 1895, Oscar fu costretto a stare in piedi, ammanettato e in abiti da carcerato, sulla “piattaforma centrale” mentre veniva trasportato nella prigione di Reading. Fu presto riconosciuto e divenne oggetto di scherni, sputi e insulti mentre una folla si radunava intorno a lui. Wilde fu così traumatizzato dall’evento umiliante che pianse alla stessa ora e per la stessa durata ogni giorno per un anno dopo. Ne scrive in “De Profundis”, la sua lettera autobiografica scritta al suo partner Lord Alfred Douglas nel 1897.
Il 16 ottobre 1854 nacque Oscar Wilde. Drammaturgo, scrittore e poeta (1854–1900) Il più noto martire gay Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde nasce a Dublino il 16 ottobre 1854. Frequenta il prestigioso Trinity College di Dublino, poi il Magdalen di Oxford. Qui si fa subito notare per il linguaggio sferzante, i modi stravaganti e l’intelligenza brillante. Conosce Pater e Ruskin, due famosi intellettuali, che lo introducono alle più raffinate teorie estetiche. Arrivato a Londra, nel 1879 inizia a scrivere saggi giornalistici e alcuni Poems.
È scrittore, poeta e drammaturgo, con stile di vita libertino e modo stravagante di vestire, e diventa una delle figure più famose dei circoli londinesi. Nel 1884 sposa Constance Lloyd: un matrimonio di facciata. Wilde è di fatto omosessuale e vive questa situazione con disagio, soffocato dalla morale vittoriana. Dopo la nascita dei figli Cyril e Vyvyan si separa dalla moglie. Ha molte relazioni omosessuali, ma il suo grande amore è lord Alfred Douglas, detto Bosie. Nel 1890 pubblica il suo unico romanzo, “Il ritratto di Dorian Gray”, che gli procura grandissima fama, ma anche accuse di immoralità.
Nel 1891 per Sarah Bernhardt scrive il dramma “Salomé”, creando nuovamente scandalo: in Francia viene accolto bene, mentre in Inghilterra viene censurato. Ha successo la commedia “Il ventaglio di Lady Windermere”, in cui è evidente la critica alla società vittoriana, ma la sua vena umoristica esplode con “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, altro attacco all’ipocrisia dell’epoca. La sua amicizia particolare con Bosie finisce per rovinarlo: processato per il reato di sodomia, subisce anche l’ac l’accusa di bancarotta.
Viene condannato a due anni ai lavori forzati. In carcere scrive De profundis, una lunga e commovente lettera al mai dimenticato Bosie che si è allontanato da lui. Sarà il vecchio amico Robert Ross, che lo attende all’uscita dal carcere, a far pubblicare questo libro trent’anni dopo la sua morte. Dopo un nuovo riavvicinamento a Bosie, Wilde scrive la “Ballata del carcere di Reading”, che termina a Napoli. Muore a Parigi il 30 novembre del 1900 di meningite.
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On October 16, 1854, Oscar Wilde was born.
Playwright, writer and poet (1854–1900) The best known gay martyr Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde was born in Dublin on 16 October 1854. He attended the prestigious Trinity College in Dublin, then Magdalen in Oxford. Here he immediately stands out for his lashing language, extravagant manners and brilliant intelligence. He meets Pater and Ruskin, two famous intellectuals, who introduce him to the most refined aesthetic theories. Arriving in London, in 1879 he began writing journalistic essays and some Poems.
He is a writer, poet and playwright, with a libertine lifestyle and extravagant way of dressing, and he becomes one of the most famous figures in London circles. In 1884 he married Constance Lloyd: a facade wedding. Wilde is in fact homosexual and lives this situation with discomfort, suffocated by Victorian morality. After the birth of his children Cyril and Vyvyan, he is separated from his wife. He has many homosexual relationships, but his great love is Lord Alfred Douglas, aka Bosie. In 1890 he published his only novel, The Portrait of Dorian Gray, which brought him great fame, but also accusations of immorality.
In 1891 he wrote the play Salomé for Sarah Bernhardt, again creating scandal: in France it was well received, while in England it was censored. The comedy The Fan of Lady Windermere is successful, in which criticism of Victorian society is evident, but his humor explodes with The Importance of Being Earnest, another attack on the hypocrisy of the time. His particular friendship with Bosie ends up ruining him: tried for the crime of sodomy, he is also accused of bankruptcy.
He is sentenced to two years in forced labor. In prison he writes De profundis, a long and moving letter to the never forgotten Bosie who has turned away from him. It will be his old friend Robert Ross, who is waiting for him when he comes out of prison, to have this book published thirty years after his death. After a new rapprochement with Bosie, Wilde writes the Ballad of the Reading prison, which ends in Naples. He died in Paris on November 30, 1900 of meningitis.
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