Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 65

December 15, 2022

I “Promessi Sposi” nella “Valle dei Sarrasti”

Il Libro

Ho provveduto ad inserire su GoodReads e Librarything, i miei spazi digitali dedicati ai libri, questo libretto alla cui presentazione ho preso parte. E’ un prezioso esempio di Microstoria culturale vissuta in una Valle molto antica, nella pianura del fiume Sarno, risalente all’età del Ferro (IX- VI sec. a.C), dove visse una popolazione osca di origine pelasgica: i Sarrasti.

Essa concorre a comporre col suo ricco ed abbondante mosaico di memoria individuale e collettiva, la Macrostoria, dimostrando che la vita degli esseri umani, per essere veramente significativa, non deve ridursi ad una mera attività che interpreta testi ed eventi. Dovrebbe esserci, invece, la ricerca della verità relativa al modo conflittuale e attivo degli uomini di agire nel mondo. Un paradigma imperniato sulla conoscenza dell’individuale che non rinunci a una descrizione formale e a una conoscenza scientifica anche del collettivo di una comunità.

L’individuale, infatti, il fatto anomalo, l’emergenza, l’avvenimento, non deve mai perdere la possibilità di essere inserito in un’ottica comparativa che lo renda memorabile e significativo. Per questa ragione, un evento microstorico, riferito ad una esperienza culturale così come espressa da questo libretto, si inserisce in quello più ampio ed allargato quale il macrostorico, creando la nozione di contesto.

Non si possono ignorare o interrompere i fili che legano passato e presente. Il passato ci invita alla riflessione, alla comprensione e a dilatare la conoscenza. In questo tempo moderno di comunicazione leggera e veloce si rischia di perdere qualcosa di molto importante, quali gli elementi costituenti che danno profondità e riflessione. Si chiama “Fattore umano”. L’essere umano è tale se si riconosce all’interno di una storia più grande.

Chiedo scusa per questa lunga premessa. Mi pare importante per comprendere il senso del recupero di questi scritti di un personaggio della cultura e della storia della Città di Sarno, dotto umanista e appassionato cultore, passato alla memoria comune locale come “il professore”. Per poi dire che tutto era tranne che un “prof”. Un altro, vero, giovane “prof”, docente universitario, Vincenzo Salerno ha recuperato i brani proposti riferiti ai Promessi Sposi del Manzoni e alcune poesie inedite.

I testi pubblicati non hanno una data precisa, ma tutto lascia ritenere che il tempo della scrittura risalga alla fine degli anni cinquanta. Il “Professore” Raffaele Salerno passa in rassegna i personaggi-protagonisti del romanzo, Renzo, Lucia, Agnese, don Abbondio, Padre Cristoforo, il Cardinale Borromeo, don Rodrigo, l’Innominato e Gertrude.

Al di là di ogni valutazione critica e letteraria, sia dei testi che delle poesie, così come è stato fatto in sede di presentazione del libro, desidero dire anche io qualcosa di molto personale sul “protagonista-personaggio” Raffaele Salerno, recuperato nella memoria di una Città che ha le sue radici nella Macrostoria.

Anche io “conobbi” il “prof” Raffaele Salerno e per fatto personale ne parlo in maniera chiara e consapevole. I miei ricordi si manifestano in due diversi momenti, opposti e contrastanti. Il primo momento risale alla seconda metà degli anni cinquanta. Ero uno studente al liceo-ginnasio della Città e non ero uno studente modello. Non mi piacevano le lingue cosidette “morte”. Ricordo che mio Padre era disperato e si rivolse proprio al “prof” Salerno per consigli.

La tipografia “Arti Grafiche M.Gallo & Figli” era in piazza Municipio, dove c’era anche il “Circolo dell’Unione” molto frequentato dai notabili del tempo. Il “prof.” Salerno era uno dei membri più autorevoli. Mio Padre si rivolse a lui per aiuto. Mi fece una specie di colloquio-intervista. Ma non mi volle a lezione privata. Liquidò mio Padre con un “fatelo faticare con voi nella tipografia. Non è fatto per la scuola”.

In quegli anni al Liceo-Ginnasio di Sarno, e per molti anni a venire poi, la comunicazione umana sembrava essere costruita solo ed esclusivamente dalle “lingue morte”: il latino e greco. Ricordo che ero bravo in italiano e in francese, allora l’unica lingua straniera sul mercato della cultura. Feci un tema al V ginnasio sul personaggio-protagonista don Abbondio che pensavo fosse ben fatto.

Il professore mi mise 5 perchè non credette che l’avessi fatto io e anche perchè in latino e in greco avevo 2. Non mi rimaneva che emigrare altrove. Cosa che feci. Medesima avventura dovette affrontare mio fratello nello stesso istituto. Ho scritto “emigrato” e davvero lo fui dopo essermi diplomato altrove.

Andai a lavorare e studiare in Germania e in Inghilterra. Ebbi modo di rivedere ed incontrare di nuovo il “prof” Raffaele Salerno una decina di anni dopo quando divenni socio anche io del “Circolo”. Ero diventato assistente ricercatore all’Istituto Universitario Orientale.

In diverse occasioni ebbi modo di scambiare con il “prof” Raffaele Salerno idee ed opinioni, in un franco e sempre leale confronto con lui. Non saprei dire se ricordava quello che aveva detto a mio Padre. Ricordo di aver parlato con lui di alcuni sonetti di Shakespeare. Volle sentire il testo in inglese e disse che gli dispiaceva non conoscere questa lingua …

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Published on December 15, 2022 09:05

December 14, 2022

La lampada e l’oscurità

Quando mi chiedono perchè continuo a leggere e scrivere, ad acquistare ed accumulare libri, riviste, giornali, con il rischio di affogare in un mare di carte, di non poter leggere e conservare tutto, ho la risposta facile, che ripeto spesso: perchè sono nato e cresciuto in una tipografia tradizionale.
Il fatto è che non si tratta soltanto di leggere e scrivere in maniera tradizionale, carta e penna, per intenderci. La lettura e le scrittura cartacea si alternano con quella digitale. Non è la stessa cosa, non è facile rendersene conto. Ma è così. Leggere e scrivere in rete è come navigare in un mare senza confini e senza fondo, specialmente se hai gli strumenti per farlo. Se conosci le lingue hai il mondo a portata delle tue dita.
Se conosci l’inglese puoi avere la chiave per aprire le porte di quasi mezzo mondo. Ho detto quasi, non a caso, perchè gli alfabeti, anzi i sistemi di scrittura, sono tanti e tutti diversi. In ogni caso, navigare nelle profondità del mare della Rete, l’inglese può aiutarti a non annegare. Ma, sia sulla superficie della carta che nel profondo del digitale abbiamo bisogno di una “lanterna”.
Ricordate la storiella della lampada? Quale? direte voi. Le “lampade” sono diverse. A partire da quella di Diogene, poi quella di Aladino, e di tanti altri poeti, scittori, filosofi, scienziati che l’hanno chiamata in vari modi.

“Diventa una lampada per coloro che camminano nell’oscurità, un motivo di gioia per quanti sono addolorati, una distesa d’acqua per gli assetati, un porto sicuro per gli afflitti, una casa per lo straniero, un balsamo per chi soffre, una torre salda per chi è in fuga.”
E’ un pensiero di Baha’ Allah 1817–92), il fondatore di un movimento religioso staccatosi dall’Islam e detto appunto bahaismo. Faccio mio questo monito rivolto a chi legge e scrive. È un appello all’amore per assetati, addolorati, afflitti, stranieri, sofferenti e fuggiaschi. Tutti in cerca di aiuto nel dolore, un sostegno nella fatica, una sicurezza nella paura.
Una lampada che, nonostante tutto quello che ci illudiamo di sapere, ci aiuti a navigare nell’oscurità. Difficile e arduo consigliare, guidare, sorreggere nel cammino della vita una persona che è in ricerca. In questa azione, infatti, si deve attingere a una fonte spirituale che, forse, è già in noi ma è disseccata.
È vero, scarseggiano le guide spirituali, quelle figure sapienti che non guardano l’orologio mentre ti ascoltano, che sanno prenderti per mano, ma non ti offrono alternative con l’intenzione di importi le scelte, ma che ti infondono luce e coraggio. Non possono essere le figure, le icone, gli avatar che appaiono e scompaiono sugli schermi della tv, del pc o dello smartphone, cartacei, digitali o subliminali illusioni.

Diogene e Aladino hanno cercato, ma non si può dire hanno trovato. La lampada continua ad essere una favola ed un mito che cerca di far fronte ai desideri, ai dubbi ed alle speranze degli uomini. Tutto rimane un problema di autocoscienza e autoconoscenza. L’intramontabile “conosci te stesso”.
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Published on December 14, 2022 12:50

December 13, 2022

Ho scritto una lettera. Ho ricevuto anche la risposta …

Ho scritto una lettera. Ho ricevuto anche la risposta …“Non dispiacerti di invecchiare. E’ un privilegio negato a molti.”
“Gentile Signore,
ti chiedo di non invecchiare. Non posso decidere io a quanti anni arrivare senza diventare vecchio. Ti farei torto se mi limitassi a chiederti di “invecchiare bene”. In verità io non vorrei invecchiare affatto. Tra l’altro, mi pare che il rimanere giovani sia la forma più sicura di fedeltà al dono della vita. Dunque, caro Signore, non voglio invecchiare.
Fa che io sia del mio tempo e non della mia età, che non mi affezioni morbosamente alle idee, ma ne controlli frequentemente la validità. Aiutami a non prendermi sul serio. Fammi guardare con simpatia a ciò che fanno gli altri specialmente se tentano qualcosa a cui non avevo pensato.
Che io sappia comprendere più che giudicare. Apprezzare più che condannare. Incoraggiare più che diffidare. Fammi capire che è importante ciò che io faccio oggi, non ciò che ho fatto dieci anni fa e che gli altri hanno diritto ad avere da me ciò che sono, non ciò che sono stato. Insegnami a capire che la vita ricomincia sempre nuova e diversa ogni giorno.
Caro Signore, fa che io mi fidi più della fantasia che della esperienza: quest’ultima è legata alla stanchezza e alla rassegnazione, e spesso, è una realtà che fa comodo che non muti, mentre con la fantasia si esce fuori alla scoperta di nuove possibilità. E voglio anche un pizzico di ingenuità, in un mondo di furbastri l’ingenuità può rappresentare la forma più raffinata di pulizia.
Mio Signore, impedisci che faccia l’abitudine a me stesso. Devo sorprendermi, devo obbligarmi ogni giorno a riconoscermi nuovo, diverso, inedito. Devo assumermi ogni giorno la responsabilità di suonare la sveglia, accollarmi l’incarico di scuotermi dal sonno, impegnarmi a rimettere in movimento la vita. Devo dire a tutti che non bisogna deludere le attese, che non c’è tempo da perdere perché la strada è piuttosto lunga.
Fammi comprendere che si invecchia soltanto se ci si rassegna a stare al passo col calendario, mentre si rimane giovani se si ha il coraggio di anticipare puntualmente il risveglio altrui. Signore, non posso invecchiare! sono troppo occupato a dare la sveglia. Permettimi che registri il mio orologio sulla tua ora!
Ho ricevuto anche la risposta. La leggete nella didascalia della immagine che correda questo post.[image error]
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Published on December 13, 2022 07:46

Cento anni in tre minuti

Cento anni
Clicca su CENTO ANNI e vedrai come invecchiare al ritmo dei propri tamburi, da uno a 100 anni. Con una semplice premessa eseguita abilmente, questo video dispone un gruppo eterogeneo di 100 persone in ordine crescente da uno a 100 anni. Con un rullio che segna la progressione, il cortometraggio è intriso di umorismo e umanità. Nelle parole dei realizzatori, il progetto è “come un elenco di statistiche governative in cui i cittadini […] sono emersi da dietro le cifre sulla pagina”. Le persone che scorrono sullo schermo non le vediamo come numeri. Anche nelle esplosioni di un solo secondo ci sono mondi di personalità che si estendono davanti a noi.
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Published on December 13, 2022 06:44

December 10, 2022

Memorabilia: la “recensione” della mia tesi

Manoscritto del +Prof. Fernando Ferrara, Ordinario di Lingua e Letteratura Inglese I.U.O. Napoli, 1 luglio 1970
Conoscete la parola “memorabilia”? Dal latino “memorabilis”, quindi ricordare o possedere e conservare, oggetti appartenenti ad un avvenimento, ad un fatto o ad un evento che sono accaduti in un passato relativamente recente. Ogni essere umano ne costruisce una. Amelia, rimescolando la sua incredibile “memorabilia”, ha ritrovato una busta contenente la “recensione” autografa che il mio compianto professore Fernando Ferrara fece della mia tesi, poi pubblicata in estratto negli Annali dell’I.U.O. oltre mezzo secolo fa. La potete leggere qui di seguito. Nel pubblicarla qualcuno forse lo giudicherà un atto di vanità, ma io preferisco pensarlo come un semplice documento del mio tempo passato.
“La tesi del sig. Gallo si intitola molto modestamente ad una delle tante opere di Arthur Young esperto di cose rurali della seconda metà del ‘700, intitolata: “The Farmer’s Tour through the East of England”. Di questo libro, infatti, il sig. Gallo ci dice tutto oltre a farcene una ineccepibile traduzione; ci dice tutto ragguagliandoci con ordine lodevole e con penetrazione su una materia non facile e non incoraggiante e tutto ciò che egli ci dà in una forma cui nulla si dovrà aggiungere o togliere se si dovrà pensare alla pubblicazione. Questa parte del lavoro già di per sè meriterebbe il massimo apprezzamento e la migliore considerazione.
Ma questa parte della tesi non è che il punto di partenza dello studio del sig. Gallo il quale, interessato ed indignato ad un tempo dalla lettura e dallo studio di Arthur Young, ha intrapreso un’indagine completa e condotta veramente a fondo, sulla situazione dell’Inghilterra rurale nella seconda metà del Settecento, all’epoca della Rivoluzione Industriale ed Agricola. Il risultato è una panoramica completa e minuziosa di questo, per un vasto argomento che esamina le condizioni sociali, economiche e tecniche della campagna britannica, le condizioni dei contadini, studia la legislazione, la cultura, l’aristocrazia, osserva il paesaggio spontaneo e artificiale, le abitazioni e le residenze, connettendo questo esame al gusto dell’epoca e sempre, su qualsiasi argomento, tiene presente le manifestazioni culturali e letterarie che meglio riflettono gli aspetti considerati.
Tra tanta ricchezza di argomenti riemerge continuamente la figura di Arthur Young e la sua vicenda diventa pian piano la parabola che esprime l’itinerario del conservatore tardo settecentesco che inizia in difesa degli istituti, ha un momento di resipiscenza e tenta la via del progresso, ma poi sempre più si schiera a difesa degli interessi costituiti fino a concludere con una emblematica cecità di fronte alle nuove situazioni che si vanno delinenando.
Sotto questo aspetto, la tesi del sig. Gallo si legge con lo stesso interesse con il quale si legge un romanzo. Se esistessero dubbi sulla serietà e sull’ampiezza degli studi, basterà considerare la bibliografia veramente completa e veramente utilizzata.
Ho letto di rado tesi così complete, così interessanti, così ben fatte in ogni loro parte e sono lieto di fare in questa occasione le lodi entusiastiche a questo bravo candidato.”
Soltanto una memoria che diventa un ricordo. Per una strana coincidenza, mi sono imbattuto di recente in una specie di poesia scritta e pubblicata da uno stampatore inglese nel 1652, in una sorta di antologia miscellanea di scritture del tempo. Questo avviso, anch’esso “memorabile”, mi ricorda che sono figlio di un tipografo e mi sento perciò di avvertire chi mi legge:
To the Reader.
All these things heer collected, are not mine,
But divers Grapes, make but one sort of Wine:
So I from many Learned Authours took
The Various Matters Printed in this Book.
What’s not mine own, by me shall not be Father’d,
The most part, I in 50. Years have gather’d;
Some things are very good, pick out the best,
Good Wits compil’d them, and I wrote the Rest:
If thou dost buy it, it will quit thy cost,
Read it, and all thy labour is not lost.
JOHN TAYLOR.
LONDON,
Printed in the Yeare, 1652.
 — -
Al lettore
Tutte le cose qui raccolte non sono mie,
Ma una uva diversa fa il buon vino:
Così io da molti illustri autori ho preso
I vari fatti stampati in questo libro,
Ciò che non è mio, non me ne impossesso,
Gran parte, l’ho raccolta in 50 anni,
Alcune cose sono molto buone, tu scegli le migliori,
Le hanno scritte menti illustri, le altre le ho scritte io,
Se compri il libro, il prezzo te lo ripaga,
Leggilo e la tua fatica non sarà vana.
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Published on December 10, 2022 11:15

December 9, 2022

Le strade “perdute” e quelle che abbiamo “dentro” …

Le strade “perdute” e quelle che abbiamo “dentro” …

Non sono nato a Sarno, ma posso considerarmi sarnese, perché da mio padre e dalla sua numerosa famiglia ho ereditato la “sarnesità”. Quando si parla di comunicazione non bisogna fidarsi troppo della memoria. Quasi sempre è offuscata dalla nostalgia per i tempi andati. Per questa ragione non amo gli “amarcord”. Ma questo post non lo è. Vuole essere ben altro.

Quello che abbiamo alle spalle e quello che abbiamo davanti sono piccole cose, se paragonate a ciò che abbiamo “dentro”. Anche se il “non-detto” supera sempre quello che “si può dire”, ho deciso di fare una “mappazione” personale della mia memoria di questi luoghi dove ho vissuto, forse, un tempo “perduto”, ma con pochi rimpianti.

Volendo farlo per le ragioni che scoprirete, non posso non partire che dal centro del paese. Per “centro” intendo proprio il centro della città. Luogo storico dello spazio e della mente: Piazza Municipio. Un posto che è la somma di più luoghi, con memorie diverse.

Non vi sono nato, l’ho detto, ma è come se fossi sempre appartenuto a quello spazio, spostandomi tra via Fabricatore, piazza Municipio, per poi scendere per via De Liguori. In queste poche centinaia di metri, segnati dai tre citati punti di riferimento, cardini della memoria di “dentro”, si distendono altri luoghi che arricchiscono i miei ricordi.

Dai piedi del monumento a Mariano Abignente c’è una “via di fuga”, per così dire, verso il corso principale. I tre punti ai quali faccio riferimento personale portano un numero: via Fabbricatore 14 — Piazza Municipio 5 — via De Liguori 55

Su questo percorso stradale rettilineo si innesta il Rettifilo, a forma di T. Questa lunga e storica strada porta altrove, facendo allungare la memoria fin giù all’incrocio dove la città di oggi ha disteso le sue lunghe braccia in maniera imprevedibile ai tempi di cui mi accingo a parlare. Alla fine degli anni quaranta, i confini del centro erano altri.

Era difficile andare oltre quel grande l’edificio scolastico, così carico di storia, che va sotto il nome di De Amicis. I vari rami sotterranei del fiume attraversavano l’area e confluivano nello stesso stesso fiume. Questo stava li’ a segnarne quasi il confine, anche in maniera non visibile.

Da piccolo, una decina di anni, mi vietavano di andare in quella zona che era chiamata “arreta ‘o ponte”, (dopo il ponte), specialmente di sera, luogo dove si potevano fare brutti incontri. Così dicevano. Ricordo vagamente che il fiume passava sotto il basolato del Rettifilo, scorrendo trasversalmente a quello che era il grande spazio libero usato come campo sportivo, dove l’erba non sarebbe mai attecchita. C’era un lavatoio con un piccolo rivo che lambiva l’antico Caffè all’angolo della piazza all’incrocio.

Ricordo anche alcune fasi dei lavori quando venne costruito il terzo piano sulla scuola De Amicis. Le grandi uscite d’acqua, l’enorme quantità di pali gettati alla sua base per permettere la costruzione, la difficoltà di dare solide fondamenta alla struttura. Oggi, proprio questo terzo piano, non esiste più. Di fianco ad esso, nel corso del tempo, hanno eretto un nuovo edificio chiamato “Teatro”. Da molti, allora, considerato un “intruso”.

Io ed altri giovani amici del tempo, “dinosauri” oggi, che scrivevamo su un giornale intitolato “L’ORA del Mezzogiorno”, una piccola voce fuori dal coro del tempo, non riuscimmo a bloccare i lavori. Anche quel genio folle di Vittorio Sgarbi, quando venne a Sarno, disse che quella costruzione era un “mostro”.

Era il tempo in cui i partiti politici locali potevano avere per simbolo una “cinque lire”. Oggi ci sono le “cinque stelle”. Ma la musica politica è la stessa. Miseria e nobiltà, di ieri come di oggi.

Se questa è, grosso modo, la geografia orizzontale della mia memoria, dovrei ora identificare gli spazi e visitare i vuoti a quei numeri ai quali ho fatto riferimento prima, cominciando un viaggio non solo in maniera orizzontale ma verticale e digitale. Vedremo poi come:

- Al numero 14 di via Fabbricatore ci abitavo io, con la mia famiglia.
- Al numero 5, in piazza, c’era la tipografia “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”.
- Al numero 55 di via Liguori c’era la casa della famiglia di mio padre.

Tre strade che sono come dei contenitori nei quali i ricordi trovano una gelosa ospitalità che non è soltanto mia personale, ma anche comune a tanti altri concittadini che in questi luoghi vivevano. Durante questo viaggio nella memoria aprirò delle finestre virtuali, facendo riferimento ad alcuni post-articoli che ho scritto in Rete. Sono come link attivi sulla versione online di questa mia memoria che soltanto alla fine avrà una sua giustificazione.

Chi non ricorda in via Fabricatore alcune presenze del tempo che hanno fatto la storia della città? Il negozio di Giona l’armiere che esponeva lucidi fucili da caccia nel suo piccolo negozio proprio all’inizio della strada. Di fronte, il misterioso orefice “don Carlino”, di fianco la famosa “pasticceria Angora”, altrimenti nota col nome biblico di “Assalonne”, poi lo studio medico del dottore Fabricatore, il fotografo D’Alessio in concorrenza con quello più avanti in via Laudisio, Tambone.

E ancora, il negozio di “Giulia ‘a Rossa”, la tipografia Scala, la libreria di Eduardo Scala, il fornaio “Tore ‘o Nero”, il negozio della “Stagione”, via via arrivando alla Farmacia Tura, dove ritrovo il ricordo della mia severa maestra elementare, sempre vestita di nero. Li ricordo tutti, specialmente l’edicola Oletto, un tempo di “Giritiello & Giulina”.

Il ricordo del negozio di Giona Squitieri mi offre la possibilità di aprire un’altra finestra dalla quale si affaccia una figura di un importante uomo politico sarnese. Il prof. Domenico Musco, un vero e proprio pezzo di storia del nostro Paese. Anche io faccio parte della sua memoria, come credo ne faccia parte lui e la sua famiglia. Piazza Municipio io la ricordo come l’ombelico del mondo, una “Piccadilly Circus” della memoria sarnese dove ritrovo un po’ di tutto.

Musica, politica, arte, religione, il sacro e il profano si confrontavano, mescolandosi, trasformandosi, diventando “altro”. Gli altoparlanti ai piedi di Mariano Abignente che risuonavano della melodia delle “bandiere rosse”, lasciando l’uomo di ferro del monumento sempre impassibile. A questo frastuono rispondeva il frenetico suono delle campane della Chiesa dei frati francescani sempre disponibili al confronto.

Ricordo “Il Circolo dell’Unione”, detto anche “dei signori”, un vero e proprio “covo” di rosicatori sociali. In quelle stanze si “cazzeggiava” come si fa oggi sui social. Si facevano e disfacevano partiti, alleanze e amministrazioni, si giocava e si parlava sia di cultura che di corna, sottovoce, con stile.

Il luogo ideale per discutere di tutto senza sapere niente. La gloriosa sezione dei combattenti, i grossi palchi illuminati per la festa di Ferragosto, le grandi sfide delle bande musicali e le loro fughe dal palco in pieno concerto durante lo scoppio del classico temporale ferragostano.

All’angolo della piazza, tra via Fabricatore e il Rettifilo, c’era l’ufficio con il centralino della SIP. C’erano due signorine che ci lavoravano. Noi da ragazzini andavamo sempre a guardare curiosi, affacciandoci alla porta. Guardavamo con gli occhi aperti quella centralina alla quale quelle signorine parlavano con una cuffia in testa, infilando in un buco un filo che si chiamava “jack”.

Si alzava la cornetta del telefono, (beato chi ce l’aveva!), ti rispondeva la gentile voce femminile e ti chiedeva il numero con il quale volevi parlare. Lei inseriva il “jack” e ti apriva il collegamento. Si sapeva che con quella cuffia in testa le signorine potevano sapere tutto di tutti.

Un’anteprima delle intercettazioni di oggi! C’era poi la tipografia, in quel portone, di fianco al tabaccaio della “ ‘a Rossa”. Sul retro convergeva la bottega laboratorio di un’altra notabile pasticceria che si affacciava sulla piazza, quella di don Antonio Salerno.

Entrando in quel portone potevi sentire l’odore dei dolci in cottura, un profumo che si mescolava con il puzzo acre e penetrante dell’inchiostro della macchine che stampavano in continuazione messaggi di ogni genere, scritti da tutti i tipi umani, colti e ignoranti, buoni e cattivi, bianchi, rossi e neri.

Niente e tutto mi è rimasto della memoria cartacea di questa tipografia post-gutemberghiana. Impossibile ricordare o conservare tutto quello che è stato stampato per circa cinquanta anni. Una memoria la voglio qui ricordare. Avevo i calzoni corti quando mio padre mi mandava a portare le bozze ad un prete autore di un libro che voi tutti ricorderete e che è un “classico” della storiografia locale.

Mi riferisco a don Silvio Ruocco, antesignano di tutti i moderni storici locali. Sedicesimo per sedicesimo, percorrevo a piedi il viale Margherita, consegnando i fogli delle nuove bozze avendo cura di prendere le vecchie. Era un tipo mica tanto socievole quell’omone prete che incuteva soggezione solo a guardarlo. Lo ricordo quando, con il suo bastone, bussava alla vetrina della tipografia, quasi sfondandola.

Preannunciava il suo arrivo, gettando il panico tra i compositori. Era un grande pignolo. Ci vollero diversi anni per portare a termine l’opera. Chi possiede l’edizione originale dei volumi potrà rendersi conto di quanto siano forti le differenze di questa edizione con quella fatta poi dall’Editore Buonaiuto. Sulla piazza si affacciavano, e tuttora sono presenti, altri due “portoni” oltre quello della tipografia.

Nel primo, all’angolo del Rettifilo, dove c’era un negozio di ottica di Alfonso Liguori Rossi, c’era anche un locale dove per diversi anni andò in scena un “teatro dei pupi” molto amato e frequentato al tempo. Pupi a grandezza d’uomo, abilmente gestito da qualcuno di cui non ricordo il nome. Subito dopo c’era il “portone rosso” per eccellenza. Le scale interne portavano ad un appartamento dove viveva una famiglia che ha fatto del suo impegno politico un ideale di vita.

Mi sembra ancora di sentire le voci elettorali del tempo in cui la politica sapeva avere anche un valore ideale e morale. Un’altra “finestra” sulla piazza è il ricordo di quella che fu l’ultima libreria di Sarno degna di questo nome. Si chiamava romanticamente “Amore mio”. Proprio di fronte alla libreria c’è l’ingresso alla chiesa di San Francesco, memoria religiosa della città. Di fianco c’è il portone di entrata che conduce, dopo di avere attraversato il chiostro, alle stanze del convento che si snoda su due piani in continuità fisica con il vicino Municipio.

Il Convento merita un ricordo particolare per gran parte di noi “dinosauri” oggi, giovani di allora. Dagli anni del dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta, e’ stato un punto di riferimento, un contenitore anch’esso di valori morali ed ideali oltre che, ovviamente, religiosi. Faceva da contraltare, e’ il caso di dire, al “balcone rosso” di cui ho detto innanzi. Ricordo che in una di quelle stanze viveva qualcuno che mi introdusse allo studio della filosofia. Non era un monaco francescano, bensì un prete, che era ospite dei frati.

La sua era una piccola stanza, ripiena di libri. Quando mi faceva lezione ero affascinato da quello che diceva. Ricordo che capivo ben poco. Non mi interrogava mai, non mi faceva mai ripetere, non mi chiedeva mai se avessi capito. Era un monologo incontrollato. Ero capace di stare li seduto ad ascoltare per ore, il suo perfetto italiano. Accompagnava le sue parole con gesti della mano destra con la quale sembrava disegnare nell’aria il senso di quello che diceva.

Ho imparato da lui ad amare la filosofia, ma allora era difficile capirla. Ci voleva del tempo. Ci sarei riuscito prima se lui, che insegnava a Nocera, non fosse morto in un incidente stradale. Ogni mattina prendeva l’autobus. Quel giorno prese un passaggio con un camion. Segnò la sua fine terrena.

Potrei dire tante altre cose sul Convento di Piazza Municipio. Come non ricordare fra’ Masseo e la sua dispensa, fra Ciro e la sua cesta per la questua, padre Baldini e le sue zuppe di cipolla per dimagrire, padre Olimpio Cuomo e la sua associazione, padre Gerardo Rispoli, padre Raffaele Squitieri amici fraterni e tanti altri frati che si prendevano cura di noi in tutti i modi possibili?

Chi eravamo? Ci alternavamo nei mesi e negli studi o interessi. Ne ricordo alcuni, studenti o membri dell’Associazione Cattolica: Emilio Prisco, Aniello Agovino, Alessandro Salerno, Salvatore Monda, Enzino De Colibus, Andrea Ricupito, Battista Robustelli, Salvatore D’Angelo. Tutti a studiare nelle celle, a giocare a ping pong, a vedere i film in pellicola proiettati nel Cineforum del Chiostro. Un mondo scomparso, un mondo perduto e mai più ritrovato.

Scendendo verso via De Liguori, prima di arrivare al numero 55, i ricordi mi riportano ad altri luoghi e persone che concorrono a fermare il tempo. Chi non ricorda il negozio del vecchio Cerbone? Aveva spezie, dolci e caramelle di ogni specie. Poco distante, il farmacista Raiola distribuiva medicine a richiesta come da prescrizione con ricette su misura. Non c’era ancora la moderna farmacopea industriale. Qualcuno ricorda quella ricetta di “citrato e cremone” che mia madre mi mandava a comprare?

Lui la confezionava pazientemente, pesando le dosi delle polverine col bilancino. Non ricordo se era una ricetta per fare i dolci oppure una purga! Per quest’ultima c’era anche il sale inglese. Più in la’ c’erano le indimenticabili signorine La Guardia, gentili cucitrici, ricamatrici e lavoratrici a maglia, testimoni di un’epoca in cui il tempo scorreva sul filo dei ricami. Poi di fronte sulle scale, cosiddette di Pasqua, trovavi la casa della famiglia De Colibus, più giù quella dei De Liguori.

La signora Ginevra fu una cara amica di mia Madre. La famiglia De Liguori ci diede in fitto la casa quando ci trasferimmo, nel primo dopoguerra, da Pozzuoli a Sarno. Mio Padre aveva perduto il lavoro che aveva all’Ansaldo. Da collaudatore di cannoni, divenne un membro della famiglia delle “Arti Grafiche M. Gallo & Figli” in piazza Municipio.

Ricordo molto poco di quei giorni in quella casa a poca distanza da quellla di mio Padre, dove viveva Nonno Michele con la famiglia Gallo. Al numero 55, appunto, dove, per un gioco strano della vita, più tardi saremmo andati ad abitare. Ma al piano di sotto, non nella casa paterna. Quella della famiglia dei fratelli Gallo. Cinque maschi e due femmine.

Poco prima del numero 55, in un portone precedente, abitava la famiglia del dottore veterinario Alfonso Annunziata. Una delle poche persone nella mia vita che non dimenticherò mai. Una famiglia all’antica, integerrima e riservata. Alfonso era stato in America, ma questo grande Paese non gli era piaciuto. Aveva preferito ritornare in Italia.

Con lui trascorrevo lunghe ore a parlare di tutto, sopratutto della sua passione per la lingua e la letteratura inglese. Da lui imparai tanto e non ho mai dimenticato, io giovane sbarbatello, la sua grande sensibilità. Parlavamo mentre lui costruiva pazientemente navi e modellini in miniatura di tutti i tipi. Non l’ho mai più incontrato. Ricordo che nel suo palazzo, a sinistra delle scale, c’era una sorgente di acqua solfurea. Una delle tante misteriose presenze sotterranee del fiume Sarno.

Sotto la casa paterna, a livello di strada c’era, c’è ancora, una beccheria. I gestori di allora erano personaggi di un mondo scomparso. Oltre alla carne si vendeva anche il pesce, specialmente stoccafisso e baccalà. Tutto puzzava laggiù alle “quattro fontane” intorno a quel palazzo costruito su una delle sorgenti di un fiume tanto antico, quanto ricco di storia e di fauna ittica ormai vicina all’estinzione.

“Antonio e Idolella ‘a baccalaiola” ci consolavano nei pomeriggi d’estate con il giradischi ad alto volume, mentre Bobby Solo intonava per la centesima volta il suo ossessivo ritornello della canzone “una lacrima sul viso”. Di fronte c’era l’autorimessa di un altro personaggio storico sarnese “Ciccio ‘a Capocchia’.

Grandi battaglie e liti caratterizzavano quello spazio di strada che diventava un palcoscenico a cielo aperto, mentre io, affacciato alla finestra al primo piano dove abitava il Cavaliere Giuseppe Buchy, insieme alla mia prozia materna tramontina Maria, ci godevamo lo spettacolo.

E che spettacolo! Zia Maria era venuta a servizio del Cavaliere da Tramonti, in Costa d’Amalfi, non so per quali misteriose vie. Questo Cavaliere del Lavoro fu uno di quei personaggi della storia di Sarno che meriterebbe un discorso a parte. Fu zia Maria a propiziare, guarda caso, l’incontro e il matrimonio tra mia madre e mio padre, uno dei cinque baldi giovanotti Gallo che abitavano al piano di sopra.

C’era anche una sorella, Anna, grande ricamatrice, ma lei preferì emigrare negli anni venti negli Usa. Ritrovai il suo nome a Ellis Island, quando andai a New York qualche anno fa. Il suo sangue Gallo si trasfuse in Parziale, e questi sono sparsi in tutti gli USA. Ma questa e’ un’altra storia.

Nell’anno del Signore 1964 ero appena ritornato dalla ruggente Inghilterra dei Beatles e per uno dei quei misteriosi eventi che accadono nella nostra vita, da via Fabbricatore 14 ci eravamo trasferiti al numero 55 di via De Liguori, al primo piano, dalla prozia materna tramontina e il Cavaliere, proprio nel palazzo dove, al piano superiore, era vissuto nonno Michele con i suoi sette figli. La casa era finita ad un fratello di mio Padre con la sua famiglia: Domenico e Amalia, coi figli +Michele, +Rina, Anna Maria, Rosalia.

Ci viveva ormai da tempo tutta sola Anna Maria. Al suo ricordo ed alla sua gentilezza si fermano i miei ricordi. Li inseguo altrove, per altre strade, che raccontano altre storie. Questo post lo dedico a Lei, alla sua scomparsa. Anna Maria Gallo, mia cugina. E’ passata a miglior vita. Buon viaggio Anna!
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Published on December 09, 2022 03:04

December 7, 2022

La donna che doveva essere eliminata

Camille Claudel, L’Età matura, 1902 circa, gruppo in bronzo composto da tre elementi, 114 x 163 x 72 cm. Parigi, Museé d’Orsay
Nasce l’8 dicembre Camille Claudel scultrice (1864–1943). Il grande bronzo realizzato a Parigi rappresenta una scena penosa e drammatica: da una parte un uomo maturo e una donna formano un unico blocco; dall’altra una giovane donna nuda, in ginocchio, implora, cercando invano di trattenere l’uomo. Le mani della giovane non raggiungono la mano dell’uomo, lo spazio vuoto tra quelle mani segna un destino, quello di Camille.
La donna in ginocchio, l’implorante, è lei: undici anni dopo verrà portata via da casa sua, in camicia di forza, per essere internata nel manicomio dal quale non uscirà più. L’appartamento da cui è prelevata con violenza, nel marzo 1913, è pieno di gatti e dei loro escrementi, soprattutto di macerie di sculture. Camille crea e distrugge, in preda a un tormento straziante. Ciò che la tortura è la fine della relazione con lo scultore e suo mentore Auguste Rodin, che aveva conosciuto nel 1883: ne era diventata collaboratrice, musa, amante.
La passione fra i due è travolgente, ma Rodin è combattuto tra l’amore per lei e il legame con la compagna storica, Rose Beuret, che non lo lascerà mai. Non solo: Rodin ha successo, mentre la talentuosa Claudel è donna e in quanto tale destinata a minori riconoscimenti..Dopo anni di tormento, Camille comprende che Auguste non la sposerà. Comincia a soffrire di manie di persecuzione, si rifugia nell’alcol. Rodin diventa un nemico: «Lo vedo attorno a me, lui è ovunque, specie quando scolpisco. So cosa vuole, vuole rubarmi le idee, i bozzetti, ma non glielo permetterò. Se si presenterà qui, lo ucciderò con le mie mani».
Crea e distrugge le sue opere, con rabbia cieca. Camille scolpisce dall’età di 12 anni, con creta, gesso e fango. È sostenuta dal padre e dal fratello (il noto poeta Paul), ma fortemente ostacolata dalla madre che per tutta la vita le sarà profondamente ostile. Sarà proprio lei a deciderne l’internamento. In trent’anni non andrà mai a farle visita. Camille resterà rinchiusa fino alla sua morte, nel 1943, raccontando a un diario le violenze subìte da lei e dalle sue compagne: «La mia colpa è quella di essere una donna che ha voluto vivere come voleva. È per questo che devo essere eliminata». (Almamatto)
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Published on December 07, 2022 13:00

December 6, 2022

L’ansia della nascita e quella dell’inquietante morte


“Pensare alla propria nascita è inquietante come pensare alla propria morte?”. L’interrogativo me lo sono posto di recente con questa domanda leggendo un libro su Cosa c’è di là. In questo post ho provveduto a invertire le parole “nascita”“morte”.
Mi chiedo se anche il neonato avverte la sua nascita inquietante, alla stessa maniera di come, nel giorno che verrà il suo turno, avvertirà “inquietante” la sua morte.
Se il libro di Enzo Bianchi intende affrontare il problema della fine, in questo post mi interessa riflettere su quello opposto. Quello del principio, dell’inizio, non quello del fine vita. Quello che sarà, in fieri, il punto di vista di quel bambino nelle braccia del padre nella immagine che correda questo post.
Faccio riferimento alla recensione che ho scritto sul libro di Enzo Bianchi per elaborare l’argomento ed estendere il pensiero all’inizio del tutto, alla nascita, all’inizio di una vita. La foto è una corretta sintesi di quello che intendo dire.
Avendo qualche anno in più di Enzo Bianchi, saggista e monaco laico, fondatore della Comunità monastica di Bose, della quale è stato anche priore, ho potuto sapere cosa pensa su un tema che tocca tutti gli esseri viventi. Soltanto gli umani, però sono in grado di sentirsi “inquieti” per quello che “ci sarà di là”.
Certamente, mi dicevo leggendo il libro, Bianchi ne saprà più di me. Devo riconoscere, però, che, “Cosa c’è di là” rimane una “terra incognita”, anche dopo la lettura del libro.
Il saggio è una comunicazione tutta umana, spirituale e anche religiosamente filosofica, in cerca di una identità che confluisce nella parola chiave che avvolge il tutto: “mistero”. Se misterioso è l’inizio, la nascita, può essere chiara e comprensibile la fine, la morte?
L’aggettivo “inquietante” la sa lunga. Contiene, forse, un minimo di possibilità per comprendere di cosa stiamo parlando: della vita, del suo senso e di tutto il resto. La vita, voi la vivete in “quiete”?
Un mio amico, parroco di montagna in Costa di Amalfi, ama ripetere spesso, quando si trova davanti ad interrogativi che attendono una risposta precisa, che “siamo tutti in sala d’attesa”. Quando ce ne andremo sapremo la risposta. Non è che lui si arrende, non potrebbe farlo, è un “collega” di Enzo Bianchi.
Il fatto è che lui si limita ad arrendersi a quello che “crede” e rinunzia ad ogni forma di “speculazione”. Fa bene, fa male? Non sarò io a giudicare. Nè tanto meno posso criticare il monaco cristiano e saggista Enzo Bianchi.
Con i suoi anni, può rivolgere il suo pensiero solo a quello che lo aspetta “di là”. Un “futuro” che lo preoccupa molto di più del suo passato. Come ogni essere umano.
Tutto il contrario di quel bambino nelle braccia del suo papà. Non se ne preoccupa perchè non ne sa ancora nulla. Ma non più di tanto e quanto ne sappiamo noi.
Come non sa nemmeno se è stato “inquieto” prima di venire alla luce. Tutto l’opposto di tante persone che si sentono in ansia per la prospettiva della loro morte.
L’ansia di morte è universale. Questa ansia limita e organizza l’esistenza umana. Il neonato ignora tutto. Ma soffriamo anche di ansia da parto prima di venire alla luce?
Quel bimbo che nella foto l’uomo con gli occhiali ha tra le braccia, ha sofferto di ansia in quello stretto spazio del grembo materno? Ansia di vivere?
Forse. Ansia simile a quella che scoprirà più tardi anche lui, come tutti gli esseri umani, di quell’altra terribile, inquietante, appunto, ansia di morte?
Mentre diciamo molto sulla nostra ansia per la morte, si dice poco o nulla sull’ansia della nascita. Il pensiero guida è che “tutti gli uomini sono mortali” (“uomini” nel senso di “esseri umani”).
Una volta che teniamo presente che siamo natali, oltre che mortali, dovremmo dirci che anche la nascita può causare ansia. Quel padre nella foto non la mostrava, tutto intento a esprimere la sua felicità di genitore.
Non la mostra nemmeno il nuovo nato al centro della storia, il nuovo arrivato certamente “inquieto” su quello che gli stava capitando. Una nuova storia che stava per cominciare.
Creava ansia a chi lo aveva tra le braccia, come era stata in ansia sua madre che lo aveva avuto in grembo per tanto tempo. Un’ansia davvero inquietante che non poteva non essere stata trasmessa al nuovo essere umano.
Iniziava ad esistere ad un certo punto nel tempo, in un determianto luogo e qualcosa di molto misterioso stava per iniziare. Dalla non esistenza, si passava alla esistenza.
Lui, il nuovo arrivato non poteva rendersene conto allora, se ne sarebbe reso conto dopo. Ma l’ansia inquietatnte l’avevano vissuta prima i due genitori. Non potevano non averla trasmessa anche a lui.
Un passaggio molto difficile da comprendere per entrambi. Non era accaduto tutto improvvisamente. La nuova esistenza era arrivata gradualmente.
Ogni cosa era cominciata da una singola cellula, uno zigote. Poi si era sviluppato un corpo formato che aveva cominciato ad avere un livello rudimentale di esperienza durante la gestazione.
Una volta uscito dal grembo è stato coinvolto nella cultura e nei rapporti con gli altri, ha acquisito una personalità e una storia strutturate. Lo zigote era diventato un “io”, un “me”. Tutto senza ansia? Impossibile!
Ansia di nascita che anticipa o prelude all’ansia di morte, perché l’ansia di morte riguarda anche la nostra continua condizione di essere mortali, vulnerabili alla morte che può sempre intervenire per lasciare progetti interrotti e incompiuti.
Nell’angoscia di nascita è tutta la nostra condizione di essere natali che ci preoccupa.
(Bibliografia digitale: https://aeon.co.)
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Published on December 06, 2022 13:24

December 4, 2022

I “si” della vita degli “uomini vuoti”

La Lettura 4 dicembre 2022
Sono oltre trecento le parole che costituiscono questo manifesto fatto, appunto, di parole che hanno la funzione di comunicare, alla maniera degli hashtag o delle etichette, situazioni significative della nostra esistenza. Tutte hanno un valore negativo, una negazione per affermare il valore di quanto possiamo opporre, da contrappeso, alla realtà che ci opprime e ci condiziona.
Dalla prima, no alla “guerra”, all’ultima no al “fronteretro”, meritano di far parte del nostro vocabolario esistenziale. Leggiamole, rivisitiamole tutte, riempiamo i “vuoti” mentali, spirituali e materiali di cui è fatta, da sempre, la nostra vita. Quando Lao-tzu, il filosofo cinese, nel VI-V sec. a.C. scriveva che:
“con l”argilla bagnata si formano i recipienti; ma è il vuoto che è in essi a consentire la pienezza dei vasi. Col legno si costruiscono case, porte e finestre; ma è il vuoto che è in esse a rendere abitabili le dimore. C”è la parte visibile dell”utilità; ma l”essenziale rimane invisibile”
conosceva già tutte queste parole e situazioni che l’artista Moreno Gentili ha messo nel suo manifesto? Una sorta di celebrazione del “vuoto” occupato negli spazi interni di un vaso, di una casa, e non solo, ma anche e sopratutto, di una mente, a costituire la realtà vivente delle presenze umane. Insomma, uomini/donne, pronti a tutto.
In gonna, o in giacca e cravatta, cellulare, laptop e accessori elettronici. Con migliaia di “amici” su “FaceBook” e “Twitter”. Ma non si accorgono di essere soltanto “uomini vuoti” come quelli nella poesia di T. S. Eliot.
Gli uomini vuoti
Un centesimo per il vecchio Guy
Noi siamo gli uomini vuoti
Noi siamo gli uomini impagliati
Che si appoggiano l’uno sull’altro
Le teste imbottite di paglia. Ohimè!
Le nostre voci aride, quando
Sussurriamo insieme
Sono quiete e senza significato
Come vento nell’erba asciutta
O le zampe dei topi sopra il vetro rotto
Nelle nostra arida cantina
Sagoma senza forma, ombra senza colore,
Forza paralizzata, gesto senza movimento;
Quelli che hanno attraversato
Con occhi diretti, l’altro regno di morte
Ci ricordano –almeno — non come perdute
Anime violente, ma soltanto
Come uomini vuoti
Gli uomini impagliati.
II
Occhi che non oso incontrare nei sogni
Nel regno di sogno della morte
Questi non appaiono.
Lì gli occhi sono
Luce del sole su una colonna infranta
Lì, vi è un albero che oscilla
E vi sono voci
Che cantano nel vento
Più distanti e più solenni
Di una stella che si dilegua.
Fa che io non sia più vicino
Nel regno di sogno della morte
Fa che io indossi
Travestimenti scelti come un
Cappotto di topo, pelle di corvo, doghe incrociate
In un campo
Comportandomi come si comporta il vento
Non più vicino.
Non quell’incontro finale
Nel regno del crepuscolo
III
Questa é la terra morta
Questa è la terra del cactus
Qui immagini di pietra
Sono erette, qui ricevono
La supplica della mano di un morto
Sotto lo scintillio di una stella che si dilegua.
E’ così
Nell’altro regno di morte
Ci si risveglia da soli
Nell’ora in cui stiamo
Tremando di tenerezza
Labbra che vorrebbero baciare
Pregano la pietra infranta.
IV
Gli occhi non sono qui
Qui non ci sono occhi
In questa valle di stelle morenti
In questa valle vuota
Questa mascella rotta dei nostri perduti regni
In questo ultimo dei luoghi d’incontro
Noi brancoliamo insieme
Ed evitiamo di parlare
Riuniti in questa spiaggia del tumido fiume
Senza vista, se non per
Occhi che riappaiono
Come la stella perpetua
Rosa dalle molte foglie
Del crepuscolare regno della morte
La speranza soltanto
Degli uomini vuoti
V
Qui noi giriamo attorno al fico d’India
Fico d’India fico d’India
Qui giriamo attorno al fico d’India
Alle cinque del mattino.
Tra l’idea
E la realtà
Tra il movimento
E l’atto
Cade l’Ombra
Perché Tuo è il Regno
Tra il concetto
E la creazione
Tra l’emozione
E la risposta
Cade l’ombra.
La vita é molto lunga.
Tra il desiderio
E lo spasmo
Tra la potenza
E l’esistenza
Tra l’essenza
E la discesa
Cade l’Ombra
Perché Tuo é il Regno
Perché Tuo è
La vita é
Perché Tuo è
Questo è il modo in cui finisce il mondo
Questo è il modo in cui finisce il mondo
Questo è il modo in cui finisce il mondo
Non con uno scoppio ma con un piagnucolio.
 — — — -
The Hollow Men
A penny for the Old Guy
I
We are the hollow men
We are the stuffed men
Leaning together
Headpiece filled with straw. Alas!
Our dried voices, when
We whisper together
Are quiet and meaningless
As wind in dry grass
Or rats’ feet over broken glass
In our dry cellar
Shape without form, shade without colour,
Paralysed force, gesture without motion;
Those who have crossed
With direct eyes, to death’s other Kingdom
Remember us — if at all — not as lost
Violent souls, but only
As the hollow men
The stuffed men.
II
Eyes I dare not meet in dreams
In death’s dream kingdom
These do not appear:
There, the eyes are
Sunlight on a broken column
There, is a tree swinging
And voices are
In the wind’s singing
More distant and more solemn
Than a fading star.
Let me be no nearer
In death’s dream kingdom
Let me also wear
Such deliberate disguises
Rat’s coat, crowskin, crossed staves
In a field
Behaving as the wind behaves
No nearer -
Not that final meeting
In the twilight kingdom
III
This is the dead land
This is cactus land
Here the stone images
Are raised, here they receive
The supplication of a dead man’s hand
Under the twinkle of a fading star.
Is it like this
In death’s other kingdom
Waking alone
At the hour when we are
Trembling with tenderness
Lips that would kiss
Form prayers to broken stone.
IV
The eyes are not here
There are no eyes here
In this valley of dying stars
In this hollow valley
This broken jaw of our lost kingdoms
In this last of meeting places
We grope together
And avoid speech
Gathered on this beach of the tumid river
Sightless, unless
The eyes reappear
As the perpetual star
Multifoliate rose
Of death’s twilight kingdom
The hope only
Of empty men.
V
Here we go round the prickly pear
Prickly pear prickly pear
Here we go round the prickly pear
At five o’clock in the morning.
Between the idea
And the reality
Between the motion
And the act
Falls the Shadow
For Thine is the Kingdom
Between the conception
And the creation
Between the emotion
And the response
Falls the Shadow
Life is very long
Between the desire
And the spasm
Between the potency
And the existence
Between the essence
And the descent
Falls the Shadow
For Thine is the Kingdom
For Thine is
Life is
For Thine is the
This is the way the world ends
This is the way the world ends
This is the way the world ends
Not with a bang but a whimper.
The Hollow Men
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Published on December 04, 2022 07:09

December 2, 2022

Desiderio di immortalità

Un antico simbolo di immortalità
Il desiderio di immortalità si basa sulla consapevolezza che lo spirito regna in noi. Forse voi non crederete in quello che scrive un filosofo e pedagogo bulgaro che leggo da sempre. Omraam Mikhaël Aïvanhov (1900–1986) me lo fece conoscere un indimenticabile amico webmaster bulgaro di nome Orlin Velinov scomparso molti anni fa ormai. Aivanov non scrisse nè pubblicò libri in vita. Tutto il suo sapere lo distribuì nei suoi discorsi e conferenze che venivano registrate in tutto il mondo. Solo dopo la sua morte quei discorsi sono stati trascritti e pubblicati in forma di libri e anche in digitale. Io credo in quello che pensava e vi meraviglierete che lo dico. Se avete qualcosa da obiettare, ditemelo e ne discuteremo. Buona fortuna!
« La morte è un cambiamento di stato che ci permette di conoscere regioni alle quali non possiamo avere accesso finché siamo imprigionati nel nostro corpo fisico. Vivere sulla terra e vivere nell’altro mondo sono entrambe esperienze necessarie alla nostra evoluzione: per questo veniamo, poi ripartiamo… e poi di nuovo torniamo… Il desiderio di immortalità che abita gli esseri umani non è una chimera, ha un fondamento reale; ma poiché gli umani ignorano che cosa in loro è immortale, la maggior parte di essi si aggrappa più che può alla vita fisica. Ma l’immortalità non è data al corpo fisico, ed essi si sentiranno immortali solo il giorno in cui avranno imparato a impregnare con la vita dello spirito i propri pensieri, i propri sentimenti e le proprie azioni. Questa è la vita immortale. Coloro che vivono la vita dello spirito, coloro che hanno veramente compreso cos’è la vita dello spirito, non hanno paura della morte. Sono coscienti che le ricchezze che hanno accumulato nel proprio cuore e nella propria anima non li abbandoneranno mai, anzi, sanno che le troveranno amplificate nell’aldilà, perché è nell’aldilà che tutti abbiamo la nostra origine. »
— — — — —
“Death is a change of state that allows us to know regions which we cannot access while confined in our physical body. Living on earth and living in the world beyond are both necessary experiences for our evolution, which is why we come, then we leave… then we come back again… The human longing for immortality is not a pipe dream; it is based on reality. But because people do not know what is immortal in them, most of them cling as hard as they can to physical life. However, the physical body has not been given immortal life, and they will only feel immortal once they learn to infuse their thoughts, feelings and behaviour with the life of the spirit. That is where immortal life is to be found. Those who live the life of the spirit and who have truly understood what the life of the spirit is do not fear death. They are aware that the riches they have amassed in their heart and soul will never leave them. On the contrary, they know they will find them magnified in the world beyond, since that is where we all originate from.”
— — — Omraam Mikhaël Aïvanhov
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Published on December 02, 2022 13:22

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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