Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 62

March 3, 2023

La battaglia dei libri cartacei e digitali

Il Libro

Siamo nell’anno del Signore 1697. Di fronte abbiamo un campo di battaglia che è una biblioteca di grande prestigio nel Palazzo di St James, a Londra. I contendenti sono gli Autori Antichi e gli Autori Moderni. Si contendono la vetta del Parnaso che, per chi non lo sapesse, era il monte sede delle Muse ispiratrici di ogni opera. Abbiamo un reporter di eccezione: Jonathan Swift, il mio scrittore preferito. Il libro ha chiaramente un intento satirico. La guerra scoppiò. Omero contro Perrault, Aristotele fa fuori Cartesio, ma aveva mancato Bacone, Tasso e Milton si contendono il comando della cavalleria. Esopo cerca la morale della favola. Io la trovai una cinquantina di anni fa quando dovetti studiare alcuni brani per il primo esame di inglese all’università. Una morale che continuo a rincorrere oggi quando scopro che i moderni non potrebbero esistere se non ci fossero stati gli antichi. Mi pare una cosa ovvia. Eppure ci sono tanti che si mettono a scrivere, si credono scrittori soltanto per questo e non si rendono conto che ripetono cose che sono state già pensate, dette e scritte secoli e millenni fa. Battaglia continua quindi. Senza vincitori. Siamo tutti sconfitti. Dopo tutto, facciamo tutti la stessa fine. Da antichi diventiamo moderni, per poi ritornare antichi. Cinque stelle. E’ Jonathan Swift, il geniale decano irlandese.

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Published on March 03, 2023 19:37

March 1, 2023

“La Morte è la più grande invenzione della Natura”

Il Libro
Un libro dedicato a chi, ad un certo punto della sua esistenza, ha sentito, in seguito a certe situazioni ed esperienze, sorgere un dubbio nella sua anima. Un libro dedicato a chi soffre per il contrasto fra quello che crede di essere il suo “io” spirituale, religioso o sentimentale. E’ dedicato a tutti gli uomini di buona volontà che hanno compreso che lo scopo della vita umana è la formazione di una coscienza superiore e il perfezionamento di se stessi tramite un’armoniosa fusione di tutte le qualità specificatamente umane; a tutti coloro che lottano per capire il significato dei loro sforzi e delle loro prove. E’ dedicato a coloro che vorrebbero che questi sforzi fossero integrati nell’ordine cosmico, e che sono ansiosi di contribuirvi in qualche misura, conferendo così alla loro esistenza e alle loro aspirazioni un reale valore, al di là dei ristretti limiti dei loro interessi individuali. E’ dedicato a tutti coloro che credono nelle dignità umana e nella missione dell’uomo nell’Universo, e a coloro che non vi credono ancora, ma che desiderano essere convinti.
Se nello scrivere il libro, queste furono le intenzioni del fisico e biologo francese Pierre Lecomte du Nouÿ (1883–1947), uno dei più importanti scienziati francesi del Novecento, devo dire che, purtroppo, come tutti sappiamo, di buone intenzioni sono lastricate le strade che conducono all’inferno.
Il libro porta, guarda caso, la data del 1945, ma non ha perso la sua attualità. Lo scrisse quando scappò da Parigi, fuggendo dal suo “inferno”. Erano arrivati i nazisti. Devo riconoscere che questo libro l’ho letto e riletto con grande attenzione, riconoscendomi nelle intenzioni dell’autore. Ogni essere umano sembra essere destinato a vivere, in un modo o un altro, nel suo “inferno terreno”.
Per questa ragione, mi è capitato di fare la lettura impugnando la matita, riempendo le pagine di sottolineature, segni e interrogativi vari, come non ho mai fatto con i libri. Un modo come un altro, di volta in volta per difendermi o accusare, segnalare o cancellare, ricordare o dimenticare.
Un continuo andare avanti nella lettura, per poi ritornare indietro, per meglio comprendere quello che avevo mal capito, cambiando idea su quello che avevo letto. Insomma quando ti imbatti in una frase come questa: “la Morte è la più grande invenzione della Natura”, devi essere sicuro del contesto in cui viene pensata e scritta.
Entrambe le parole con la maiuscola. L’individuo effimero che si confronta con l’individuo psicologico di fronte al mistero della vita. Ho detto che il libro è stato scritto nel 1945 e mi sarebbe piaciuto che il suo fosse ancora vivo oggi a distanza di oltre mezzo secolo. Molta acqua è passata sotto i ponti della Natura e della Scienza. Gran parte degli interrogativi che l’uomo si pone sono ancora senza risposte.
Pierre Lecomte du Nouÿ riesce forse a dare una risposta alle prime quattro canoniche domande chi-cosa-quando-dove, ma non all’ultima e più importante “perchè” di tutta nostra incomprensibile ed insostenibile pesantezza dell’essere vivi.
Lui sostiene che solo Dio può darci una ragionevole risposta attraverso la scienza. Ma, alla fine, anche questa rimane incomprensibile se non riesce a rispondere al suo medesimo “perchè”.
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Published on March 01, 2023 13:56

February 28, 2023

A liquid society …

A liquid society …Foto@angallo

In a liquid society the word “today” no longer exists, one is already oriented toward tomorrow. People become more flexible, more mobile, more open to change. Structures tend to become lighter, more transparent, more liquid. The aim is to create an environment where people can be free to choose their path and change it at any time. The environment in which people move is made up of dynamic, flexible networks that adapt in real time to people’s needs. Supportive tools are based on technology, such as the Internet and social media, which allow people to interact faster and easier. In a liquid society, uncertainty is dangerous … but the medal always has two sides …

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In una società liquida l’oggi non esiste più, ma si è già orientati al domani. Le persone diventano più flessibili, più mobili, più aperte al cambiamento. Le strutture tendono a diventare più leggere, più trasparenti, più liquide. L’obiettivo è quello di creare un ambiente in cui le persone possano essere libere di scegliere il proprio percorso e cambiarlo in qualsiasi momento. L’ambiente in cui le persone si muovono è costituito da reti dinamiche e flessibili che si adattano in tempo reale alle esigenze delle persone. Gli strumenti di supporto si basano sulla tecnologia, come Internet e i social media, che consentono alle persone di interagire più velocemente e più facilmente. In una società liquida, l’incertezza è pericolosa. Ma la medaglia ha sempre due facce …

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Published on February 28, 2023 06:27

February 21, 2023

Il giornale del “figlio del tipografo” …

Il giornale del “figlio del tipografo” … The Times
Conservo questa copia originale del noto quotidiano inglese The Times perchè porta la mia data di nascita. Me lo ritrovo nell’abbondante memorabilia, dal latino memorabilis, tenere in memoria, quegli oggetti che si intendono conservare e ricordare, appartenenti ad un avvenimento storico, ad un fatto noto o ad un evento personale particolare, accaduti in un passato, relativamente recente.
Sono oggetti che ti ostini a conservare perchè sono la tua ragione di essere, anzi di essere stato. Ti dicono, ti ricordano come eri, quello che facesti, come lo hai pensato, quando lo hai fatto, dove ti è capitato di trovarti. Oggetti che, forse, riescono anche a dare una risposta ai tanti interrogativi che, con il passare degli anni, ti sei posto ed ai quali non hai mai potuto/saputo dare una soluzione.
Strano soggetto/oggetto fatto di carta questa copia di giornale. Avrebbe fatto la gioia di mio Padre, tipografo all’antica. Lo sento vicino mentre fatico a tenerlo tra le mani e a sfogliarlo, lo guardo, lo leggo con gli occhi di oggi, e a distanza di questa manciata di anni che mi ritrovo addosso, ne avverto il peso e la distanza. Ecco le sue misure: formato 60X45 cm, 22 pagine, stampa su sette colonne. Porta in testa il numero 48,379, ultima edizione di Londra, costava due penny.
La prima pagina rimane il fatto storico che ha caratterizzato la storia del quotidiano. Recava sempre annunci pubblicitari che scomparvero soltanto nel 1966. Ce lo ricordarono ad una Summer School che mia moglie ed io frequentammo qualche anno dopo, organizzata dalla BBC a Londra quando ci portarono in visita al quotidiano. Conservo gelosamente una riga con il mio nome venuto fuori dal piombo della linotype della loro tipografia.
Ecco come genera i ricordi, uno dopo l’altro, questo vecchio giornale inglese, e si trasfoma in “memorabilia”. Ma non finice qui. Perchè quella data mi riporta anche al luogo dove, Il figlio del tipografo, venne alla luce …
Piazza Polvica

Ovviamente ricordo ben poco di quel giorno. A dire il vero, nulla. Impossibile ricordare il giorno della propria nascita, soltanto chi c’era può riferire quello che accadde. Io c’ero, ma so soltanto quello che mi hanno detto. Troppo tempo è passato. Da ciò che ti hanno detto e raccontato, chi ha preso parte all’evento, forse puoi essere in grado di ricostruire il contesto, gli avvenimenti, le persone coinvolte.

Ti aiuti con l’immaginazione. Il luogo è ancora lì, anche se, ovviamente, a distanza di tanti anni, non è più lo stesso. La piazza, il gruppo di case, la chiesetta, il negozio, il bar, il portone che conduce al cortile, sul retro del gruppo di case. Il blocco di abitazioni, al primo piano, il balcone, le finestre delle stanze, la casa dei nonni. In una di quelle stanze venni alla luce. Immaginare. Non puoi fare di più o di meglio.

Il fatto è che, arrivati ad una certa età, viene naturale cercare di ricostruire il percorso di una vita, a partire proprio da quel giorno. Cercherò di farlo partendo dal principio. E’ proprio questa la difficoltà: non conosco il momento, l’ora e la situazione dell’evento. Ma posso immaginare la situazione ricostruendo con la mia mente.

Mia madre e la sua famiglia erano di quei luoghi, in quella valle, in quel piccolo villaggio, uno dei tanti che formano ancora oggi quel Comune, quella comunità. Avevano deciso che venissi alla luce lì, in quella casa. La loro casa. Mio padre proveniva da un’altra valle, oltre il valico. E’ molto probabile che ci fosse anche lui.

A quei tempi si partoriva in casa. E poi, tra quei monti, in quella valle che si distendeva, allora come oggi, verso il mare, il viaggio era lungo. Due immagini, due direzioni, nord, sud, monti e valli che portano al mare. La Valle del Sarno, la Valle di Tramonti, il golfo di Castellammare ed il Vesuvio con il grande "hinterland" napoletano, Maiori e la Costa d’Amalfi, patrimonio Unesco dell’umanità.

Ogni qualvolta arrivo al Valico, proveniente dalla Valle dei Sarrasti, l'antica e misteriosa popolazione che vi abitò oltre un paio di millenni fa, mi viene in mente il racconto che faceva mio Padre quando, dal paese omonimo, alle fauci di quel fiume, veniva a visitare la sua futura sposa Concetta a Tramonti.

La loro casa era costruita proprio su una delle tre sorgenti del fiume, ed è ancora là in Via de' Liguori, la strada chiamata "alle fontane", appunto. Frammenti di vita cambiata tanto all'interno quanto all'esterno di un mondo vissuto, quello di mio Padre, e scomparso del tutto. Più che viaggi, i suoi erano delle vere e proprie "avventure", come spesso accade nella storia degli uomini.

Il contesto è quello della fine degli anni trenta del secolo e millennio trascorsi. Dopo di essere partito da Sarno verso Nocera o Pagani, con mezzi di fortuna del tempo, mio Padre si apprestava a fare la "scalata" del monte Chiunzi, percorrendo un sentiero ancora oggi visibile.

Arrivato in cima, avrebbe dato un rapido sguardo alle sue spalle verso la Valle dei Sarrasti e sarebbe, a grandi passi, disceso verso la frazione di Polvica, uno dei tredici villaggi del Comune, nell'altra Valle "intra montes", quella di Tramonti.

Raccontava, poi, che ad un certo punto, in un luogo chiamato " 'a Chiancolella", gli sarebbe venuto incontro un colono mandato dalla famiglia della fidanzata per accompagnarlo nella discesa. Gli portava qualcosa da bere o da mangiare, qualche indumento per la "cambiata".

Non mancava mai di ricordare, ogni qualvolta raccontava di queste sue visite "d'amore", di quella volta che, poco prima di arrivare al Chiunzi, una nuvola di passaggio gli fece una abbondante doccia, facendolo arrivare a destinazione tutto inzuppato.

Queste sue narrazioni orali le ritrovo nella descrizione che lo storico amalfitano Matteo Camera fa della Valle di Tramonti, moderno "polmone verde della Costa d'Amalfi". Rileggendola, a distanza di tanti anni, si può rivivere quella antica atmosfera, oltre il tempo che fu di mio Padre, in un territorio che oggi va "letto" in maniera del tutto diversa.

Ecco cosa intendevo dire quando ho parlato di cambiamenti esteriori e interiori. Vale la pena rileggere insieme qualche brano della introduzione che lo storico fa introducendo Tramonti nel suo importante studio. L'occhio quasi fotografico, ma molto romantico, del Camera si muove dal suo punto di vista opposto, quello di Maiori, da sud verso nord:

"Qual'emozione non prova il viaggiatore quando per la prima volta visita tutta questa immensa ed ampia vallata, frammezzata da una lunga catena di monti che da Maiori si distende sino alla torre detta di Chiunzo. All'aspetto di questo luogo magico e ridente, evvi qualcosa di calma, di dolce, di filosofico, che prepara l'anima a sortire dal torrente delle rapidi e folli agitazioni di questa vita di fallaci illusioni! Ivi la salubrità dell'aria, la purezza del cielo e le dolci aure campestri, destano in un cuore sensibile un non so che di dolcezza e di grata impressione."

Va subito messo in evidenza che la visita, anzi l'accesso a questa vallata di cui parla lo storico e cronista amalfitano nel suo importante studio "Memorie Storico-Diplomatiche dell'antica Città e Ducato di Amalfi" pubblicato nel 1876, non è lo stesso di quello che vedeva mio Padre, una volta scalato a piedi il "Monte Chiunzo", e che ancora oggi vediamo, a distanza di tanti anni.

A quei tempi, il Valico non era stato ancora "valicato", per così dire. L'unico accesso a questo "polmone verde" moderno era dalla Costa, dal mare. Si può così comprendere quanto sia diverso e quanto sia anche cambiato il modo di guardare il territorio. Camera così continua:

"Senza amplificar con parole questo sorprendente panorama, diciam di non trovarsi altrove più aggradevole e grazioso soggiorno. Gli alti monti quivi formano una specie di cerchio, in mezzo a cui giacciono immense valli, che di tratto in tratto son interrotte da collinette ed altipiani, tutti coverti di verzura e di innumerevoli selve di castagni e di altri alberi fruttiferi. Il viaggiatore sorpreso sembra essere tutto ad un'ora trasportato sott'altro Cielo, in lontana regione ...D'intorno intorno a questo vasto bacino, coronato da' monti, veggonsi di distanza in distanza sparsi sopra ineguali piani, tredici borghi con altrettante parrocchie ...Ecco ciò che costituisce la terra di Tramonti, vocabolo che spiega ed indica la sua posizione "intra montes" ... Nulla turba il silenzio di codesto solingo e pacifico luogo, che potrebbe essere eletto per ritiro della contempalzione e della filosofia ..."

Centocinquanta e più anni ci separano oggi da questa documentata descrizione. Inseguendo la freccia del tempo all'indietro, possiamo in parte intravedere ancora oggi gli stessi identici percorsi. In termini esistenziali abbracciano lo stesso spazio di un millennio. Confrontiamo le parole precise e essenziali del Camera, usate in questa sua accurata descrizione della Vallata di Tramonti con quelle immagini o parole facilmente accessibili con il nostro pc o cellulare.

Grazie a Google Earth ed alla sua tecnologia, sembra quasi di "vedere" il mio giovane genitore attraversare la Valle dei Sarrasti, affannarsi a risalire a piedi i pendii scoscesi del Monte Chiunzi, attraversare il Valico e allegramente scendere per pievi e poderi, passare davanti a casali e attraversare vigne e pascoli.

Lui ci impiegava quasi una giornata per arrivare dalla Valle dei Sarrasti a quella di Tramonti. Un forte legame ha sempre unito queste due grandi Vallate. Ancora oggi c'è una irresistibile e consistente continuità di interscambi umani, sociali e culturali. Per averne una prova basta rileggere con attenzione il prezioso volume Tramonti. La terra operosa, pubblicato una decina di anni fa dal "Centro di Cultura e Storia Amalfitana", con il patrocinio anche del Comune di Tramonti.

Nella fitta rete di attività economiche tra il Quattrocento e il Cinquecento sono visibili "documenti per la storia, le arti e le industrie delle province napoletane" editi da Gaetano Filangieri fra il 1883 ed il 1891, abbiamo diverse prove documentali di questi antichi interscambi tra le due Valli.

Il nome di Antonio Gallo, che era anche quello di mio Padre, oltre che il mio, ricorre in uno di questi documenti e prova, insieme a diversi altri, questo intenso legame che ancora oggi caratterizza questo moderno "polmone verde" patrimonio UNESCO dell'umanità.

Il 12 dicembre dell’anno 1484, in questo paese di Tramonti, la moderna Costa d’Amalfi, come persona che di mestiere facevo il “guarnimentaio” e di nome di chiamava Antonio Gallo, ricevetti:

“… tarì 3 per una frangetta e per palmi 25 di lacci d’oro e seta morata per guarnimento di una spada, che servì nella entrata che fece il Duca di Calabria in Napoli tornando di Lombardia, più sei ducati, 1 tarì e 10 grana per lacci e frange d’oro filato, che occorsero ad ornare due paia di stivaletti neri del medesimo Duca, e 2 tarì ed 8 grana per sette canne da zagarella di seta morata, adoperate a guarnimento degli abiti di velluto morato di detto Signore, e dei paggi che entrarono in Napoli con lui”.

In sole sei righe c’è il lessico di tutto un mondo scomparso. Il tarì è il nome di varie monete circolanti nell’area del Mediterraneo a partire dall’anno mille per diversi secoli. Le frangette erano ornamenti tessili posti sul bordo di capi d'abbigliamento o pezzi d'arredamento.

Il palmo era usato come misura di lunghezza. La seta morata aveva chiari riferimenti arabi nelle stoffe operate e disegnate, realizzate attraverso il ricamo. La spada occupava il posto centrale in questo assetto esteriore del cavaliere, in questo caso il Duca di Calabria.

Oltre ai tarì troviamo altre monete in uso per i pagamenti quali il ducato e la grana. Le canne di zagarella erano evidentemente degli ornamenti ai vestiti. Chi lavorava questi prodotti di abbigliamento dovevano essere degli artigiani molto abili e ricercati negli ambienti in cui si gestiva il potere mettendo bene in mostra la forza e la ricchezza dell’essere per mezzo dell’apparire.

Il "guarnimentaio" Antonio Gallo si affiancava ad altri mestieri e lavori di elevata specializzazione per la produzione di utensili quali chiavi, difese, serrature, cancellate di ferro, coltelli, spade e altre ferramenta, stanghe, selle, busti, frangette, lacci d’oro, seta morata e via dicendo. Altri tempi, altro lavoro, altri mestieri.

E’ stato solo un caso che io abbia scoperto di questa reincarnazione. Se un processo del genere si ripete costantemente per tutto l’universo e in tutti gli esseri viventi, chissà quante vite e reincarnazioni possiamo sperimentare. Il tutto grazie a queste due Valli che costituiscono davvero un grande inestimabile patrimonio non solo per chi ci vive ma anche per chi ci nacque. Sono stato felice di raccontarlo nel mio giornale digitale della vita qui su MEDIUM.

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Published on February 21, 2023 11:07

February 16, 2023

“Much Ado About Nothing” …

“Much Ado About Nothing” …
Good day everyone. Today, I’m going to talk about nothing. Now, when I say nothing, I don’t mean absolutely nothing. I mean nothing in particular that I’m going to talk about. I’m just going to talk about whatever comes to my mind.
We all have days when we feel like we’re in a rut and nothing is going right. Well, this talk is about those days. It’s about taking a break from worrying and stressing, and just letting your mind wander.
We all have thoughts and ideas that come and go, but we don’t always take the time to explore them. So, I’m going to invite you to do just that. Take a few moments to sit back, relax and let your mind wander. Who knows what will come up?
It could be anything from a funny memory to a profound thought. Or, it could be something that you never expected. But, whatever it is, just let it be. There’s no need to judge yourself or your ideas. Just enjoy the process of letting your mind wander.
Who knows, it could be the start of something great. So, take a moment to clear your mind and just let yourself meditate on the emptiness of non-existence in round type. What follows is printed in italic and it is not my thinking on nothing …
In philosophy there is a lot of emphasis on what exists. We call this ontology, which means, the study of being. What is less often examined is what does not exist. It is understandable that we focus on what exists, as its effects are perhaps more visible. However, gaps or non-existence can also quite clearly have an impact on us in a number of ways.
After all, death, often dreaded and feared, is merely the lack of existence in this world (unless you believe in ghosts). We are affected also by living people who are not there, objects that are not in our lives, and knowledge we never grasp.
Upon further contemplation, this seems quite odd and raises many questions. How can things that do not exist have such a bearing on our lives? Does nothing have a type of existence all of its own? And how do we start our inquiry into things we can’t interact with directly because they’re not there?
When one opens a box, and exclaims “There is nothing inside it!”, is that different from a real emptiness or nothingness? Why is nothingness such a hard concept for philosophy to conceptualize? Let us delve into our proposed box, and think inside it a little.
When someone opens an empty box, they do not literally find it devoid of any sort of being at all, since there is still air, light, and possibly dust present. So the box is not truly empty. Rather, the word ‘empty’ here is used in conjunction with a prior assumption. Boxes were meant to hold things, not to just exist on their own. Inside they might have a present; an old family relic; a pizza; or maybe even another box.
Since boxes have this purpose of containing things ascribed to them, there is always an expectation there will be something in a box. Therefore, this situation of nothingness arises from our expectations, or from our being accustomed.
The same is true of statements such as “There is no one on this chair.” But if someone said, “There is no one on this blender”, they might get some odd looks. This is because a chair is understood as something that holds people, whereas a blender most likely not.
The same effect of expectation and corresponding absence arises with death. We do not often mourn people we only might have met; but we do mourn those we have known. This pain stems from expecting a presence and having none. Even people who have not experienced the presence of someone themselves can still feel their absence due to an expectation being confounded.
Children who lose one or both of their parents early in life often feel that lack of being through the influence of the culturally usual idea of a family. Just as we have cultural notions about the box or chair, there is a standard idea of a nuclear family, containing two parents, and an absence can be noted even by those who have never known their parents.
This first type of nothingness I call ‘perceptive nothingness’. This nothingness is a negation of expectation: expecting something and being denied that expectation by reality. It is constructed by the individual human mind, frequently through comparison with a socially constructed concept.

Pure nothingness, on the other hand, does not contain anything at all: no air, no light, no dust. We cannot experience it with our senses, but we can conceive it with the mind. Possibly, this sort of absolute nothing might have existed before our universe sprang into being. Or can something not arise from nothing? In which case, pure nothing can never have existed.
If we can for a moment talk in terms of a place devoid of all being, this would contain nothing in its pure form. But that raises the question, Can a space contain nothing; or, if there is space, is that not a form of existence in itself?
This question brings to mind what’s so baffling about nothing: it cannot exist. If nothing existed, it would be something. So nothing, by definition, is not able to ‘be’. Is absolutely nothing possible, then? Perhaps not. Perhaps for example we need something to define nothing; and if there is something, then there is not absolutely nothing. What’s more, if there were truly nothing, it would be impossible to define it.
The world would not be conscious of this nothingness. Only because there is a world filled with Being can we imagine a dull and empty one. Nothingness arises from Somethingness, then: without being to compare it to, nothingness has no existence. Once again, pure nothingness has shown itself to be negation.
A world where there is nothing is just an empty shell, you might reply; but the shell itself exists, is something. And even if there were no matter, arguably space could still exist, so could time; and these are not nothing.
Someday we may come face to face with pure space, that is a nothingness waiting to be filled. Possibly, when scientists find a way to safely pilot spaceships into black holes, or are able to create a pure vacuum, we will be forced to look straight into the void. But even if that really is nothing, by entering into that nothingness, humans will destroy it by filling it. Or perhaps we will be consumed by it and all traces left of our existence will be erased.
Death, the ultimate void for humans, makes people uneasy for obvious reasons: all that they are will be forever reduced to a blank space felt only by loved ones, and even that absence will be forgotten someday. However, let us not steer away from these questions about nothingness, even if they may take us to bleak places.
When one looks a little closer at the big questions, even though it may seem contradictory, nothingness appears everywhere. And if we want to learn how something came from nothing, or if there ever was nothing, we can not shy away from looking into the scary void a little closer.
© Sophia Gottfried 2020 — An Essay on Nothing
Sophia Gottfried is the philosophy club president at the Harker School in San Jose.
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Published on February 16, 2023 08:02

February 10, 2023

Alla ricerca del “senso” della vita

La Verità 8 febbraio 2023

Ancora un’altra lettera da me scritta e pubblicata su un quotidiano nazionale. Ho già avuto modo di dire in un precedente post che di lettere ne ho scritte tante nel corso degli anni a riviste, giornali e settimanali di ogni tipo e tendenza, tante da poter farne un libro. Ma questa la ritengo oltre che importante molto personale e coinvolgente. Spiego il perchè prima a me stesso e poi a qualche benevolo eventuale lettore che volesse leggermi.

Se ho deciso di scriverla è perchè mi offre la possibilità di parlare del “senso della vita”, un argomento sul quale è stato scritto e si continua a scrivere molto. Siamo tutti alla ricerca di questo senso, uno dei più grandi e antichi interrogativi che l’uomo si pone da quando nasce. Non esiste una risposta unica o definitiva. Può dipendere da convinzioni personali, credenze religiose o dalle scelte di vita di ciascuno.

Per alcune persone, il senso della vita può essere quello di conoscere se stessi e il mondo intorno, di vivere una vita piena e significativa, di contribuire al bene comune e alla felicità altrui, fino all’idea di cambiare il mondo. Per altre, può essere di raggiungere uno scopo spirituale, di trovare l’amore e di crescere come individuo.

Altre possono considerare il senso della vita come il raggiungimento di un obiettivo prescelto. Il fatto è che la ricerca sul senso si intensifica vivendo. C’è da dire, comunque, che c’è anche gente che vive ma non sa di esistere. Mi ritrovo a scrivere di questo interrogativo ad una certa età, il che ha un particolare valore perchè è la somma delle esperienze che la vita mi ha dato e il senso al quale, sia io che ognuno degli esseri umani con i quali mi sono confrontato, abbiamo cercato di chiarire a noi stessi.

Un processo non sempre facile da comprendere, tanti sono i modi nei quali una vita può essere vissuta. Ma non intendo andare per le lunghe e passo direttamente al senso della lettera pubblicata. Quello che scrive Mario Giordano, giornalista e scrittore, riguarda un episodio di cronaca giudiziaria che ha visto qualcuno decidere la vita di un altra persona, e di un giudice che ha deliberato essere un “valore morale” l’azione esercitata. Quella vita “meritava” l’exit finale perchè non aveva “valore”. Il problema centrale è appunto questo: chi può decidere se una vita “merita” di essere vissuta o meno?

“Il settimo comandamento “non uccidere” significa che non devi uccidere nessuno in qualsiasi circostanza. Si riferisce a una proibizione di uccidere altre persone, ma può anche significare che non si dovrebbe prendere la vita di altri esseri viventi. La Bibbia cita l’uccisione come uno dei sette peccati capitali, e i principi morali delle principali religioni del mondo condannano l’uccisione. In molti paesi, l’omicidio è un reato grave punibile con pene severe.”

Il testo virgolettato è la risposta a questo interrogativo che mi ha dato la Intelligenza Artificiale. Una risposta, a dire il vero, che non ha nulla di artificiale e tutto di umano. Mi tranquillizza l’idea che la IA la pensi ancora come quella umana, nonostante tutto quello che si dice di essa. Non solo di questa, a dire il vero, ma anche della vita di ogni giorno, visto e considerato che “uccidere” accade ogni giorno.

Non lo si fa solo in guerre, (sono oltre 50 le guerre guerreggiate attualmente su questa Terra) ma anche secondo la legge di chi sostiene che la morte può avere un “valore morale”. Ma quand’è che un essere umano può essere considerato privo di “particolare valore morale e sociale”? Se sfogliamo i libri di storia troviamo innumerevoli esempi e situazioni in cui è stata affermata questa, come dire? “necessità”. Vogliamo chiamarla “esigenza sociale” non punibile?

Leggendo quell’articolo scritto da Mario Giordano e la sua risposta alla mia lettera sulla decisione di quel medico di “eliminare” quella vita, anticipandone l’uscita dal mondo, mi sono ricordato di quei pazienti, bambini, giovani, anziani e vecchi, per i quali, oltre mezzo secolo fa, io, giovane e sprovveduto come ero, mi posi il medesimo interrogativo.

Erano pazienti ai quali, in quell’ospedale mentale a nord di Londra dove ero finito per mantenermi a studiare, dovevo dare cura ed assistenza nella loro totale incapacità di comprendere la loro condizione fisica e mentale. Qui è bene andare direttamente al cuore del problema che ruota intorno alle domande: Perché aiutarli a vivere? Perché la maggior parte di quei pazienti avevano un cervello oltre che un fisico imperfettamente sviluppati sin dalla nascita? Perchè continuare a tenerli in vita?

Erano destinati a rimanere in quella condizione per tutta la vita. Non avrebbero potuto mai migliorare sia nel fisico che nella mente. Erano fatalmente destinati a peggiorare. Allora, ieri, come oggi, in quel posto a nord di Londra, come in tante altre realtà ancora oggi. Secondo statistiche recenti, su cento bambini, cinque presentano queste deficienze. Bambini destinati poi a diventare vecchi.

C’è tutta una gamma di variabili sia per quanto riguarda la classificazione dei tipi di patologie che i sistemi d’accertamento del livello mentale, come ad esempio l’intelligenza, il temperamento, la salute fisica, l’ambiente, il lavoro, la scuola e molti altri. Le cause di queste condizioni possono essere diverse: fattori ereditari trasmessi attraverso le cellule sessuali dei genitori; influenze negative esterne traumatiche come ferite o malattie contratte dopo il concepimento; oppure una combinazione di entrambi.

Quello che si intendeva, allora, in psichiatria col termine di “deficienza mentale” lo si intende ancora oggi anche se i termini sono mutati. Chiamatela come volete, questa esistenza da deficienti, cretini, mongoloidi, down, imbecilli, idioti, ritardati, subnormali fisici e mentali resta ancora senza una ragione, senza una risposta alla domanda iniziale.

Che facciamo, li eliminiamo tutti per un “particolare valore morale e sociale”? Noi li curavamo, bambini, giovani, adulti, anziani e vecchi, uomini e donne. Ieri come oggi, ovunque su questo pianeta, la pietà e l’umanitas non possono far scomparire il senso della vita.

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Published on February 10, 2023 01:06

February 7, 2023

Lettere & Memorie …

Lettere & Memorie …LIBERO Quotidiano
Non ricordo la data in cui fu pubblicata questa mia lettera a Fausto Carioti, vice direttore e gestore della posta sul quotidiano LIBERO. Ne ho scritte tante di lettere ai giornali nel corso della mia vita. Se volessi/potessi raccoglierle e metterle insieme di certo coprirebbero le pagine di un libro. Una mania? forse, anzi certamente. Rientra, evidentemente, in quella più ampia e vasta mania che sfocia nel mare magnum della scrittura.
Scrivere significa sempre la volontà di voler comunicare qualcosa a qualcuno. Non sempre ci è è chiara la ragione di prendere carta e penna, o andare alla tastiera, e soprattutto trovare il giusto destinatario a cui far arrivare i propri pensieri. Questi si manifestano nei momenti e nelle forme più imprevedibili.
Puoi leggere qualcosa al giornale, il brano di un libro, sentire una parola alla radio, un urlo raccolto in auto per strada mentre guidi, il conducente che ti sorpassa te l’ha lanciato e ti pare una imprecazione senza senso, una notizia al telegiornale, un tweet che leggi al cellulare, una invettiva dell’ultimo cretino con il quale hai avuto una discussione finita male. Ecco, ogni momento è buono per scrivere un commento, una osservazione, una reazione. Difficile trovare a chi indirizzare la lettera.
Ricordo di avere nella mia biblioteca un libro fatto, appunto, di lettere inviate al quotidiano inglese The Times. Lettere inviate nell’arco di 75 anni che sembrarono degne di essere raccolte e ripubblicate in un libro dalla direzione del quotidiano. Il titolo la dice tutta: “Il primo cuculo”. Si riferisce alla lettera che un lettore del quotidiano aveva inviato alla redazione comunicando al giornale che la primavera si stava avvicinando perchè aveva sentito il canto del primo cuculo.
Solo quel particolare senso della vita e dell’umorismo che caratterizzano gli inglesi poteva spingere un lettore a scrivere pensieri del genere ad un giornale e per giunta poi essere scelta come lettera da essere ripubblicata in un libro. Ho riletto la lettera inviata a Carioti e ho fatto un viaggio indietro nel tempo, nel mio tempo, partendo dal tempo di oggi, proiettandomi in quella sezione che il redattore del libro ha chiamato “Futuro”. Il “reddito di cittadinanza” sta per essere cancellato e ne parliamo Carioti ed io come qualcosa che caratterizza gli “spitiri animali” degli uomini.
Le lettere sono molte e anche interessanti, tanto da superare i limiti del loro tempo, scritte anche da persone e personaggi importanti di quei 75 anni. Scrittori, poeti, semplici cittadini, tutte lettere incasellate in opportune sezioni. Quella dedicata al “futuro” contiene quella scritta sul canto del primo cuculo. Il direttore, nel chiudere la sezione si lascia andare ad alcune considerazioni sulla parola che definisce la sezione.
Mi piace segnalare qui quella con la quale si chiude la selezione. Porta la data del 12 dicembre del 1968. Ve la traduco: “Signore, la situazione, ovviamente, è seria. Ma non dobbiamo disperare. Lei dice che “siamo facendo un picnic sul Vesuvio” e che “abbiamo messo le tende su una sottile lastra di ghiaccio”. Qualsiasi nazione che è capace di fare cose del genere è una nazione in gamba. Cordiali saluti.” La lettera è scritta da un signore che si firma “George E. Christ”. (!!!)
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Published on February 07, 2023 08:47

January 31, 2023

My living library …

My living library … The Book
This is a brief summary of the book whose cover is reproduced here. Whenever I enter my digital library on GoodReads I feel the same as Diana.

“Diana thought of spending a week in a cabin on the shore of Jersey, she thought it was a fun idea. Away from everything and everyone, a short distance from the ocean, in wild and untouched nature. Isolated, without a cell phone or connection with the world, along with her parents and their friends, in those little caravan cabins that served as accommodation. There was no air conditioning despite the sweltering heat and humidity.

Desperate for relief, Diana seeks out a cooler place and comes upon a cabin converted into an old library with a working air conditioner. She enters it and hides under a table, then she lays down to take a nap. When she wakes up she finds herself locked in the library and a strange cast of characters has emerged from their books.

Cleopatra, King Arthur, Don Quixote, and Romeo have taken human form and offer to help her. Is she crazy? Don Quixote extracts Dr. Freud from her biography to assure her that she is healthy, which does not reassure her at all. The characters do what they can to help Diana escape the library, and along the way, she learns their stories and learns even more about herself.”

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Published on January 31, 2023 07:19

January 27, 2023

Caro Alessandro …

Caro Alessandro … Alessandro Salerno  (link)

Sono sicuro che leggerai questa lettera. Quando, alla fine del saluto che in tanti ti abbiamo dato, mi sono imbattuto in Battista, anche lui tutto solo, smarrito e pallido come non l’ho mai visto, mi sono reso conto che il tempo era davvero finito. Proust ebbe modo di perderlo e tentò invano di ritrovarlo. Il luogo era proprio quello giusto, la Chiesa di San Francesco, in piazza Municipio, a Sarno, nella Valle dei Sarrasti, i miei veri luoghi della mente, come lo furono anche per te.

Quando ci siamo abbracciati, Battista ed io, non abbiamo saputo dire nulla. Eravamo soltanto sgomenti. A dire il vero, lui qualcosa ha sussurrato, ma io non ho avuto la forza di capire né di rispondere. Ho fatto poi un pò di conti con il tempo e mi sono reso conto che è trascorso più di mezzo secolo. Mi affido al flusso della coscienza della mia memoria per elaborare il dolore della tua dipartita.

Forte e sentita l’omelia del celebrante, le sue parole hanno inumidito gli occhi e pensieri di tanti che erano venuti in quella Chiesa per darti il loro ultimo saluto. Cosa buona, giusta e naturale dare un saluto ed un riconoscimento ad una persona come te. Quante cose sei stato? Studente, marito, padre, nonno, docente, politico, giornalista, preside, certamente molte altre cose ancora.

Mentre sentivo le parole dell’omelia ho alzato gli occhi al cielo verso l’alto della cupola della chiesa. Mi sono ricordato di quando, attraverso quella grata sulla destra, in alto, in un passaggio interno del convento, andavamo a dare una occhiata durante qualche celebrazione religiosa. Il convento era in quel tempo il nostro regno.

Eravamo in molti in quegli spazi: la sagrestia, il chiostro, le scale, i corridoi, le sale, le celle dei frati, il tunnel che portava alla sede dell’associazione. Tanti giovani sono passati per quelle stanze: il refettorio, la cucina, la biblioteca, le stanzette dei frati. Il celebrante continuava la sua omelia in tuo onore e in tuo ricordo, io rincorrevo i miei ricordi.

Lui non poteva sapere di quel tempo, non sapeva nulla di noi. Forse non era ancora nato. Tu, quei nomi e quei volti, li ricordi bene: Enzino, Andrea, Battista, Aniello, Emilio, Nino, Salvatore, padre Gerardo, padre Raffaele, fra Ciro, fra Masseo, padre Baldini, padre Olimpio, il prof. Fezza … Non solo nomi noti e parole strane, ma anche situazioni ed eventi inenarrabili, per noi memorabili.

Il latino si mescolava con il germanico, la storia dell’arte con la letteratura, la cuticola con la biologia, la cartolina inglese con il “see you soon”, la tesi in storia dell’arte con il prof. Ciociano, la registrazione video audio con la cerimonia dell’alzabandiera, Battista che andava a comprare il tuo panino per la colazione di burro e marmellata alla salumeria di fronte in piazza. Ora c’è una parrucchiera. Lo so, sto monologando, difficilmente chi legge comprenderà quello che scrivo.

Ma tu mi capirai, sorriderai, mi correggerai, aggiungerai qualche dettaglio che ho dimenticato. Quello fu un tempo davvero irripetibile. Una generazione che si stava preparando ad affrontare una nuova realtà, quella di un “mondo nuovo” che non ha finito ancora di diventare “nuovo”. Quando Livio, dopo la cerimonia, mi ha chiesto di scrivere qualcosa sul suo giornale, non fui in grado di rispondergli.

Poi mi sono ricordato che tu sei stato, tra le tante cose, anche un giornalista. Qualche tempo fa apparve in rete la tua immagine che ripropongo per l’occasione. Ci scrissi un post su. Nel post apparivamo in cinque, “soci fondatori” di una associazione. Una delle tante che ha visto Sarno. Facendo un salto di un paio di decenni, dopo il tempo del convento, mi ritrovai insieme a te e altri amici “fondatore” di qualcosa di cui tu sei stato esperto: l’arte di saper fondere nella comunicazione umana sia l’umanità che la cultura.

Diventasti per questo Preside. L’impegno nella comunicazione fu qualcosa alla quale la nostra generazione ha dato tutta la dovuta passione. Ognuno di noi in maniera diversa. La creazione di una associazione e di un giornale, uno dei tanti giornali e delle tante associazioni, per una Città che aspira sempre a rinascere. Tre prof e due legali, della medesima generazione, una ventina di anni dopo. Quello che s’era seminato nei giorni passati in convento si diffondeva nel tempo futuro della città.

In un piccolo Paese come il nostro ci conosciamo tutti. Rivedere questi volti a distanza di tanto tempo, mi porta a pensare ai tanti conti in sospeso che abbiamo tutti con la vita. Siamo sicuri di avere svolto e portato a compimento la missione che ognuno di noi si era prefisso? Abbiamo saputo fronteggiare le sorprese, affrontare i cambiamenti, evitare gli errori, costruire un futuro non solo ragionevole, ma anche vivibile?

Una domanda alla quale dovrà saper rispondere a suo tempo chi ama fare spesso l’ “amarcord”, vivendo in un presente senza pensare che c’è anche un altro mondo da scoprire, oltre il passato e il futuro. Esiste anche l’eterno. Esso vive in ciò che non muore in un tempo che rimane sempre illusorio e poco significativo: nella memoria.

La distanza che ci separa oggi dal tempo in cui questi “soci” cercarono di cambiare il mondo, o almeno il piccolo “nostro” mondo sarnese, vale quella di un tempo, a mio modesto parere “perduto”, solo se si riesce a superare se stessi e si affronta il futuro non in nome di ideologie, bensì in nome di una comunità che vuole ritrovare se stessa.

Essere “soci della vita” non è compito facile. Tu ci sei riuscito con bravura, genuinità ed impegno. Ti ringrazio per avermi onorato della tua amicizia. Solo qualche settimana prima della tua scomparsa ci eravamo abbracciati in occasione della presentazione del libro curato da tuo figlio Enzo. Che la terra ti sia lieve, caro Alessandro e a presto.

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Published on January 27, 2023 08:18

January 22, 2023

Un uomo di poche parole …

La brevità è l'arguzia dei migliori
Si dice spesso che “le azioni parlano più delle parole”.
In altre parole, non è necessariamente la quantità di parole che una persona pronuncia che conta, ma piuttosto la sostanza e la qualità di quelle parole. C’è anche un detto che proclama “il silenzio è d’oro”, il che significa che a volte è meglio non dire nulla piuttosto che parlare senza pensare o parlare in un modo che non è utile o produttivo.
C’è del vero nell’idea che gli uomini (e le persone in generale) che sanno esprimersi in modo chiaro e conciso siano spesso più efficaci e rispettati di quelli che parlano in modo eccessivo o non necessario. Essere in grado di scegliere le parole con saggezza e parlare con uno scopo può essere un segno di intelligenza, fiducia e professionalità.
Tuttavia, è anche importante riconoscere che persone diverse hanno stili di comunicazione diversi e che è importante essere in grado di adattarsi a situazioni e pubblici diversi. In alcuni casi, può essere opportuno essere più prolissi e utilizzare più parole per trasmettere un messaggio, mentre in altri casi può essere più efficace essere più succinti.
La chiave è trovare un equilibrio e comunicare in modo efficace. In una società come la nostra il male più comune è la logorrea. Il suono “liquido” della parola scorre in rima con quella parola omofona che lascio alla immaginazione di chi legge. Se in principio era il verbo, non possiamo pensare di essere umani senza parola. Ne bastano poche per dare il senso al tutto.
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It is often said that “actions speak louder than words.”
In other words, it is not necessarily the quantity of words that a person speaks that matters, but rather the substance and quality of those words. There is a saying that “silence is golden,” which means that sometimes it is better to say nothing at all rather than speak without thinking or speak in a way that is not helpful or productive.
There is truth to the idea that men (and people in general) who are able to express themselves clearly and concisely are often more effective and respected than those who speak excessively or unnecessarily. Being able to choose words wisely and speak with purpose can be a sign of intelligence, confidence, and professionalism.
However, it is also important to recognize that different people have different communication styles and that there is value in being able to adapt to different situations and audiences. In some cases, it may be appropriate to be more verbose and use more words to convey a message, while in other cases it may be more effective to be more succinct. The key is to find a balance and communicate effectively.
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Published on January 22, 2023 13:36

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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