Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 74

July 18, 2022

In ricordo di un amico poeta: il “prigioniero” che ha ritrovato se stesso

Gino De Filippo
Come si fa a scrivere della dipartita di una persona con la quale hai avuto modo di condividere quasi un’intera esistenza, più di mezzo secolo di vita? Mai come in una situazione di questo genere valgono le canoniche regole di una scrittura che vuole essere anche un ricordo personale di qualcuno con il quale non puoi più confrontarti.
Il titolo di questo articolo ricalca il post che scrissi sul mio blog il 21 marzo del 2019 in occasione della riedizione del suo primo libretto di poesie. Oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, l’aspirante poeta “prigioniero” del 1968 si è liberato della “prigionia” nella quale la vita l’ha rinchiuso, sino alla fine dei suoi giorni, sulla soglia dei suoi cento anni.
Ogni essere umano è un libro che ognuno scrive sulle pagine del tempo che ci è stato assegnato di vivere. Pagine scritte non solo da noi, nel tempo, nei luoghi e nei modi in cui ci capita di vivere. Ogni pensiero su quelle pagine appare come già stampato a caratteri immobili ed incancellabili secondo quelle leggi che vengono chiamate destino.
Destino. Questa è la fatidica parola che lui, Gino De Filippo, non si stancava mai di ripetere ogni qualvolta ci trovavamo a discutere, riflettere e scontrarci sulla realtà della nostra condizione umana. Lui era convinto che il suo fosse un destino già scritto. Io, non mi stancavo mai di contraddirlo.
Ci sono stati diversi eventi, affatto positivi, che sembrano essere stati davvero fatali nella sua vita. La perdita della sua cara consorte fu senza dubbio il principale. Fu costretto, tutto solo, ad affrontare una nuova realtà che si ostinava a non accettare e non capire. Tra le pieghe che si nascondono negli interrogativi che ogni essere umano pone a se stesso e agli altri, restano sempre inevitabilmente spazi oscuri fatti di incomprensioni, destinati a restare tanto personali e privati, quanto misteriosi ed irrisolti. Vana ed inutile è la ricerca dei torti e delle ragioni. Questi sono solo destinati ad essere le sbarre di quella “prigione” nella quale ogni essere umano costruisce la sua vita. Chi più, chi meno, siamo tutti “prigionieri” di noi stessi.
Il Prigioniero

Un uomo del Sud fatto da sè. Questo era “mast a’ Gino”, un autodidatta nel senso pieno della parola, erede dell’antica tradizione etrusca osco-sarraste della Valle del Sarno: manovale, muratore, imbianchino, carpentiere, disegnatore, progettista, ma anche scrittore, poeta, pittore e sopratutto “mastro” della parola. Un “artista” di quelli veri, senza scuole, accademie o salotti, estraneo alle cronache ed ai circoli chiusi. Solo la quinta elementare, ha frequentato la “scuola della vita”, senza mai mancare all’appello. Mi parlava spesso delle sue origini, di sua Madre, di quel vicolo dove era nato, nella frazione di Episcopio, un mondo scomparso. Di quando lei lo denunziò ai carabinieri perchè voleva imparare a leggere e scrivere.

Invece di andare a “faticare”, lui voleva scrivere. In caserma lo tennero dentro per una mattinata. Quando arrivò il maresciallo, stava per mettere dentro invece sua madre. Da questo ridicolo e paradossale episodio vero nasce quella forte, potente ed incessante esigenza naturale che ha sempre caratterizzato questo mio grande amico: comunicare. La sua era una continua esigenza a dover lanciare un messaggio per capire, magari provocare, lasciare una traccia che fosse il segno della sua presenza ed essenza di essere vivo e pensante.

“Mast ‘a Gino” è andato sempre alla ricerca del “segno” vero dell’esistenza. La sua storia è fatta di parole, disegni, pitture in un ambiente naturale, in una costante incertezza, tra antiche glorie del passato, momenti drammatici del presente e l’incertezza del futuro”.

Così scrissi nella presentazione di una antologia a lui dedicata una decina di anni fa. La si trova degnamente collocata in lettura gratuita nella grande biblioteca digitale del mondo di Internet Archive. Il tempo per chi era davvero nato per scrivere, pur non avendo mai frequentato una scuola, non soltanto non si ferma mai, ma non lo si perde e lo si ritrova, quando meno te lo aspetti. Gino non ha mai smesso di scrivere. Negli ultimi tempi, si rammaricava di non avere più la possibilità di mettere per iscritto i suoi pensieri. Ma la sua mente era sempre attiva. Sapeva essere anche re-attiva. Proverbiale il suo rifiuto ad ogni tipo museruola, inclusa quella imposta dalla pandemia!

Ho avuto modo di avere tra le mani molti dei suoi quadernoni, zeppi di scritture e di disegni. Un vero e proprio mare magnum della sua mente. Se quanto mai misteriosa è la mente di tutti gli esseri umani, un vero e proprio labirinto impenetrabile era quella di Gino: la rabbia e il piacere insieme della comunicazione. Tra i miei libri ho ritrovato un suo dattiloscritto intitolato “Trenda Sonette e ‘llate ccose”, una raccolta che mi dedicò nel mese di febbraio del 1992. Ricordo che gli avevo promesso che avrei trovato il modo di farne un libro.

Non fui in grado di mantenere la parola per varie ragioni, prima di tutto la difficoltà di trovare i fondi, nonostante l’invito che rivolsi agli amministratori ed alle istituzioni locali. Questa raccolta, in gran parte in vernacolo, con una intelligente introduzione sulla realtà del dialetto che lui tanto amava, si sarebbe dovuta chiudere, per contrappeso, con la composizione in versi in lingua inedita che qui di seguito pubblico. Si intitola “Panorami”. La trovo semplicemente stupenda e lascio ai lettori ogni giudizio di merito.

PANORAMI
I
Un minuto, un’ora, un giorno,/un anno … No! Un’eternità/l’ala ferita della farfalla;/un’eternità l’esilio, il freddo/e il silenzio mio, tuo …/Altri cantano glorie/di bandiere gialle. Torneranno,/e non sarò io, nè tu,/ma sempre altri a sedere/nel centro del sole/e fare loro il mondo.
II
Papa padre, Papa figlio;/Ministri e Sacerdoti …/ma soltanto il sacrestano/suona campane a morto./Pellicce benedette, gioielli …/oro di sangue puro!/Altri parlano di guerre,/già combattute e perdute;/da combattere e perdere.
III
Un bosco di silenzio la quercia./Salici e pioppi di lune/fra nevrasteniche sere senza fine./Frammenti di pensieri,/e si muore col sasso in bocca/a mezza voce fra le rive!/Le finestre eccellenti/dominano piazze e fontane.
IV
Il sole sta lontano./Il vento apre cieli di nuvole:/tempo di grandine/per me, per te e non altri./Veli di nebbia le antiche spose/e sogni lacerati …/Sono flauti di piombo e fuoco/a vestire di festa il morto;/a spogliare il mare e le sirene.
V
Sono falco e formica./Sono fiume silenzioso/che scava sotto la culla;/nel segreto d’altra luce/o di stagioni a venire./Tu metà uomo metà bestia/nell’agguato di sempre;/nel tempo che consuma/le ore non vissute …
VI
Il cielo è ferito./Il mare giace senza giorni/di festa nè gabbiani./Mormora la risacca/dove antichi sorrisi/piantarono stelle d’incenso,/d’oro e mirra./Altri varcano i deserti/senza trovare il cammino;/vanno, nel grande lago,/quasi sperduti, a seminare/promesse già svanite.
VII
Essere suono, canto, fiore,/velo di sposa o cascata/di stelle. Andare col vento/per larghe valli e mari/dove mille cuori aperti/attendono l’attesa. Ma tu/non canti, nè tendi mani/al rarefatto aprile; agli occhi/ancor più vuoti del presente.
VIII
Cambiano volto le statue./I quadri e le poesie/stanno fuori dal paesaggio;/dai verdi voli, i teneri/prati all’imbrunita sera./Tu nascondi le ore/dove Ponente di secoli/con mille luci vestì/altri mattini a festa.
IX
Sarò soltanto un numero;/un’ombra sospesa nel buio:/nel buio che uccide prima del sogno,/come altri, ancora altri/e altri ancora …/Nel presente vuoto/fantasmi stranieri/vestiti a festa suonano/musiche pazze di fredde luci.
X
Nere e affamate le navi/e le roulotte bruciano i santi;/da Levante a Oriente/altari imbanditi …/morti acerbe per me, per te/e non altri nel ricambio./Magia di secoli rifatti,/di vecchie strofe dorate/e sermoni di naftalina.
XI
Quante storie incompensibili/nomi impropri trovati/fra malora e malore …/e il mondo invoca Ministri,/guerrieri corazzati e imperi/privi di saggezza./Ma i Prèsidi sono assenti/durante lo sciopero, i libri/di storia non storia/sono rottura concettuale/fra papaline e strip/alla Bocconi e all’asilo nido.
XII
Sono uguali i giorni/e il canto della civetta;/i campanili e le darsene,/come il giorno del sabato,/di fine mese, fine anno./Le rotative maldestre/segnano vessilli e medaglie;/Faraoni e Sacerdoti/cavalcano amore e odio.
XIII
Nel cerchio quadrato/sta il cubo, il triangolo e il rombo./Tutto è Babele! E va/sperduto nella nebbia/la genesi e il dopo./Una fede sospesa vacilla/meridiani e paralleli:/un rincorrere dei padri/nell’impura, lunga notte.
XIV
Rifatela la storia,/senza magia di cabala!/La madre degli eroi/ha occhi profondi;/nella chioma bianca/le ferite e la sconfitta./Abbattete simulacri e sciamani:/falsi figli del tempo,/costruttori di sogni infami.
XV
Roma muore e Roma rinasce./Quante Roma nel mondo/piantano croci e allori;/quanti martiri e vedove/vestono secoli d’attesa./Domani, altro giorno vissuto/di sogni nel sogno …/e saranno pochi a urlare,/gli altri sono assenti.
XVI
Vorrei essere tutto e niente:/sole, pioggia, amore, odio,/gioia, dolore, guerra e pace./Ma i giorni sono corti e traditi;/sono piaga del cielo,/ferita della terra …/come il mare di pietra/che non risacca./Vorrei essere altro giornonel tetto della sera,/ma per voler di Dio/sono soltanto io.

Nella introduzione in dialetto alla sua raccolta di sonetti, così scrive:

“ ‘U munno è na palla ca gire comm ‘a nu strummele, però ‘u strummele gire appoggiate ‘nderra e ‘u munno, invece, gira all’aria”. Siccome ca ‘o sole sta sembe o stesso posto, ‘a terra, giranne, se trova na vota nd’ ‘a luce e na vota nd’ ‘u scure, perciò fa notte e fa iuorne. Po’, quase comme fa l’arbere quanne vott’ ‘u viende, se cocca na vota ‘a cca e na vota ‘a llà, accussì succere ca ‘e sole nge ne sta na vota cchiù ppoco e na vota cchiù assaie, perciò vene na vota ‘a stagione e na vota ‘a vernata. ‘A no poch’ ‘i tiembe ‘i ‘scinziate stanne ricenne ca ‘sta palla, vonne rice ‘a terra, s’abboccate ‘a no lato, perciò s’hanno spostate pure ‘e vernate e ‘e stagione. E se capisce! Pè forza aeva succere’. Pecchè? ricite vuie, e nge vò assaie p’ ‘o ccapì? si mittite nu pise ngoppa a una spalla cchi vi succere? Succere ca v’abboccate ‘no lato … e cheste è succieso c’ ‘a terra: ‘a no lato a stanne sfrattanne a piglià ‘u sciste, ‘a n’ato lato fravecanne palazze e palazze ‘e gemende, ca pèsene comm’ u fierre, no’ ssaie: ralle e dalle ‘u cucuzzielle ‘rrevenne calle … sfratte ‘a cca, rigne ‘a llà e a terra s’abboccate! …” (dicembre/gennaio 1991/92)

Appena ho saputo della scomparsa di Gino De Filippo, lontano da Sarno, non mi è stato possibile dargli l’ultimo saluto. Ho preso tra me mani una copia della riedizione della sua prima silloge di poesie ripubblicata gratuitamente per merito delle Edizioni “Tipolitografia Buonaiuto” di Sarno e per volontà del suo titolare Luigi Buonaiuto, in ristampa anastatica in un numero limitato di copie non venali.

L’idea di questa pubblicazione nacque quando un gruppo di amici si ritrovò a festeggiare “Masta Gino” in occasione dei suoi novanta anni. Si scoprì che di tutti i libri da lui pubblicati nel corso degli anni, soltanto questo, il primo, uscito nel 1968, non era reperibile. Pochi ne avevano memoria. Nacque così l’idea della ristampa che oggi, in un viaggio a ritroso nel tempo, segna l’inizio di un percorso esistenziale legato alla creatività di un “prigioniero” che, d’allora, non si è mai fermato nel suo cammino lungo i sentieri della comunicazione.

Come ebbi modo di scrivere nella breve antologia intitolata “Alle Falde del Monte Saro” che ho citato innanzi, contenente una sintesi dei suoi lavori, Gino ha continuato a scrivere instancabilmente. Giorno dopo giorno “quadernoni” pieni di poesie, racconti, pensieri, accuratamente raccolti e conservati, in attesa di essere letti a futura memoria. Sono la memoria viva di un uomo che, in lingua o in vernacolo, ha parlato a se stesso e al mondo.

Non sempre è stato capito, ascoltato, compreso, aiutato. Molto spesso, in una realtà locale come la nostra nella quale l’apparire ha sempre la meglio sull’essere, la forma sul contenuto, il detto sul non-detto, mi rendo conto che non era cosa facile raccogliere i suoi messaggi, comprendere i suoi modi di comunicare, in lingua o in dialetto, in versi o in disegni, progetti e pitture.

Mi duole dire che, molto spesso, in diverse occasioni, i suoi tanti “laudatores”, ammiratori dei suoi versi e delle sue storie, giudici parziali dei suoi progetti, ammiratori astuti dei suoi disegni, hanno usato, sfruttato ed utilizzato le sue idee, la sua genialità, senza alcun riconoscimento, manipolando la sua buona fede, tradendo le sue intenzioni. I suoi “occhi di bambino con la voglia sempre di giocare” sono stati quasi sempre ingannati, E lo hanno lasciato solo su una panchina a trascorrere in disumana solitudine i suoi ultimi giorni di “prigionia”. Il vissuto di un Uomo che ha sempre aspirato a fare della sua scrittura un’avventura.

Non gli ho potuto dare il mio ultimo saluto, ero lontano da Episcopio quando ho saputo della sua dipartita. Ho postato su FB la poesia che segue e con lui ho condiviso questa mia lontananza. Fa parte della silloge pubblicata da Rebellato nel lontano 1968. Ci conoscevamo già da qualche anno, dopo il mio ritorno dalla esperienza linguistica in Germania e in Inghilterra. Lui era stato per diverso tempo a lavorare in un cantiere di persone VIP in Sardegna. Gli avevano proposto un brillante futuro come “mastro” nell’edilizia. Cominciava anche a dimostrare il suo estro artistico nella poesia, nel disegno, nella pittura. Non volle mai lasciare la sua amata consorte e la sua famiglia. Si sentiva vittima del suo destino di “prigioniero”. Ora che se n’è andato sono sicuro che nei Campi Elisi avrà ritrovato se stesso.

ORA
Ora che è estate/non posso venire./I binari infocati/bruciano i miei piedi nudi./Meglio restare/nella quiete della campagna./Verrò in autunno/a cercare fra le tue mani/le bancarelle di Piedigrotta./Lascia che riposi./Mi pesano sulle spalle/le battaglie perdute/e fra le mani s’agitano/ancora il mare, nastri rossi/e lame d’argento e di fuoco./Sto qui, sotto il sole/lontano dai balocchi,/aspetto la notte e il silenzio./Eppure/i miei occhi di bambino/hanno ancora voglia di giocare.
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Published on July 18, 2022 08:04

July 9, 2022

Siamo nulla senza memoria

Abi e Jacob
Ho letto un estratto di un commovente libro sulla memoria della pluripremiata attrice, scrittrice, sceneggiatrice e drammaturga anglo-gallese Abi Morgan su cosa succede quando la persona che ami di più, non ti riconosce più. Un pomeriggio, Abi Morgan torna a casa e trova il suo partner di lunga data e il padre dei loro due figli crollato sul pavimento del bagno. Jacob, che era stato sottoposto a cure per la sclerosi multipla, aveva improvvisamente avuto una serie di convulsioni e aveva dovuto essere messo in coma farmacologico.

Mentre riprendeva lentamente conoscenza dopo sei mesi, fece dei tentativi per comunicare con coloro che lo circondavano e si trovò alle prese con la miriade di problemi che erano stati innescati dal danno causato al suo cervello. Ma, mentre Jacob riconosceva la sua famiglia e i suoi amici, non credeva che l’Abi in piedi di fronte a lui, che si era seduta vicino al suo letto d’ospedale, si destreggiava nella cura dei propri figli e si relazionava con la sua sfilza di dottori mentre scivolava tra la vita e morte, era in effetti la sua Abi.

Invece, Jacob vede in lei una donna che non riconosceva, credeva che fosse una persona estranea e anche pericolosa. A partire dal primo crollo di Jacob, e ambientato nel corso di due anni da allora, il racconto di questo libro è una storia sull’amore e sulla famiglia. Abi descrive con incrollabile onestà e sfumature la sfida straordinaria e terrificante di prendersi cura di una persona cara sulla scia di una malattia devastante.

Il libro si chiede: come fai a riportare indietro qualcuno che fa affidamento su di te per il recupero e tuttavia non ti riconosce più? Come consideri gli anni condivisi che sono venuti prima? E soprattutto: come navighi insieme in questa nuova vita? Una storia vera, allora, e non solo sull’amore e sulla famiglia, ma anche su una parola che rimane misteriosa: la memoria.

Il Libro

Questa è la copertina del libro che ha un senso artistico ed una valenza morale, nel solo tratto scritto a pennarello che scolora, su di una pagina di colore rosa. Il titolo esprime tutto lo stato d’animo di chi l’ha scritto e pubblicato. Un libro che chiaramente è un “gift”, un “dono” come scrive la lettrice Meryl Streep. Ma cos’è la memoria? Ombre troppo lunghe del nostro breve corpo, disse il poeta. Non mi stanco mai di ripetere a me stesso questa frase.

Perchè davvero i ricordi sono ombre, nebbie vaganti, a volte ritornano, ma non sono mai gli stessi. Le memorie autobiografiche poi sono quelle più difficili da visitare, anzi rivisitare, perchè, tutto sommato, proprio di questo si tratta. Operazione rischiosa. Si corre il pericolo di essere accettati o respinti, non solo da chi ti legge, ma anche da te stesso. Se, infatti, ti rileggi tempo dopo che le hai scritte, capita che tu stesso non sei d’accordo con quello che hai scritto tempo prima.

La memoria è come una biografia, un racconto pubblico. L’autobiografia è come una conversazione avuta con il tuo confessore, il tuo terapista. Tu, steso sul divano, parli e lui ti ascolta. Se hai bisogno di curarti, se vuoi essere aiutato bisogna che tu dica la verità, tutta e soltanto quella. Il punto è proprio questo: come puoi essere sicuro che quello che dici, vedi, pensi, ricotruisci nella tua mente, sia davvero le verità, quello che è successo tempo prima?

E poi, questi ricordi li tiri fuori per consolarti, per comprendere quello che allora non fosti in grado di capire, oppure che non ti fecero capire? Insomma, ci vuole un ego grande quanto l’amore che si ha per se stessi se si vuole che la memoria dica tutta la verità e che i ricordi non diventino fantasie.

“Questi sono a dire il vero i pensieri di tutti gli uomini di ogni età e paese, non sono solo i miei pensieri, se non sono anche i vostri essi non sono niente, o quasi, se essi non sono un enigma e non sono anche la soluzione, non sono niente …”

Così scrive nel suo memorabile “Canto di me stesso” (1855) Walt Whitman. Ma, allora, se le cose stanno così, ogni nostro pensiero che diventa ricordo non ci appartiene, esso fa parte della comunità, l’intera comunità umana, senza distinzione di lingua, colore o religione. Eppure, le biografie e le autobiografie, continuano ad essere l’alimento più ricercato da chi legge e chi scrive.

Tutti quelli che scrivono, in un modo od un altro, facciamo della biografia sia personale che collettiva. Anche chi produce poesie, romanzi, commedie, articoli di giornali, chi scatta fotografie, fa del cinema, scolpisce nel marmo, dipinge una tela, digita su una tastiera come fa questo blogger, tutti, non facciamo altro che parlare di noi stessi e di tutti gli altri.

Per una felice coincidenza, mentre scrivevo questo post facendo ricerche in rete, mi sono imbattuto un una specie di poesia scritta e pubblicata da uno stampatore inglese nel 1652, in una sorta di antologia miscellanea di scritture del tempo. L’autore tipografo avvertiva il lettore:

To the Reader.
All these things heer collected, are not mine,
But divers Grapes, make but one sort of Wine:
So I from many Learned Authours took
The Various Matters Printed in this Book.
What’s not mine own, by me shall not be Father’d,
The most part, I in 50. Years have gather’d;
Some things are very good, pick out the best,
Good Wits compil’d them, and I wrote the Rest:
If thou dost buy it, it will quit thy cost,
Read it, and all thy labour is not lost.
JOHN TAYLOR.
LONDON,
Printed in the Yeare, 1652.
— -
Al lettore
Tutte le cose qui raccolte non sono mie,
Ma una uva diversa fa il buon vino:
Così io da molti illustri autori ho preso
I vari fatti stampati in questo libro,
Ciò che non è mio, non me ne impossesso,
Gran parte, l’ho raccolta in 50 anni,
Alcune cose sono molto buone, tu scegli le migliori,
Le hanno scritte menti illustri, le altre le ho scritte io,
Se compri il libro, il prezzo te lo ripaga,
Leggilo e la tua fatica non sarà vana.

Ecco, la scrittrice e regista inglese Abi Morgan non ha accettato il fatto tanto tragico quanto misterioso che Jacob avesse cancellato il ricordo di lei. Per questa ragione ha scritto il suo libro. Anche io, che sono figlio di un Padre tipografo, ho le mie ragioni per continuare a scrivere.

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Published on July 09, 2022 07:14

July 3, 2022

L’uomo che gioca non invecchia

Il nuovo tablet Fire 7 da Amazon
“L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare.” Così ha scritto Gianfranco Ravasi, scrittore, biblista, teologo, ebraista, nonchè cardinale ed autorevole firma dell’edizione domenicale de “Il Sole 24 Ore”, titolare della imperdibile rubrica “Breviario”. Nel “pezzo” che qui di seguito leggete si occupa di una condizione umana, in senso sia fisico che mentale e culturale che mi tocca da vicino. Mi separano solo tre anni dal suo anno di nascita, in anticipo su di lui, ma mi ritrovo in pieno nella realtà che così magistralmente descrive: l’uomo che invecchia. Ma leggete prima quello che lui scrive:
Per alcuni antropologi l’ominizzazione si sarebbe compiuta quando quell’essere ancora animalesco abbandonò la strada della necessità, dell’utile, della prevaricazione per avere, e fece un atto gratuito e «inutile», come mettersi a giocare o a tracciare qualche segno simbolico o a mirare i colori dei fiori. Purtroppo bisogna riconoscere che il gioco libero e puro sta trasformandosi sempre più in affare e persino in violenza: si pensi solo alla degenerazione dello sport fuori e dentro gli stadi nelle partite di calcio, al giro finanziario che ruota attorno ad esse, al doping e così via.
Il bambino, prima che sia pervertito dai giochi elettronici, riesce ad attestare la bellezza e la creatività del giocare: una paletta e un po’ di sabbia, ai suoi occhi, diventano architettura, così come una scopa può trasformarsi in un cavallo. Allo stesso modo, l’anziano, prima di essere isolato in un appartamento di un anonimo palazzo di periferia, passava ore di serenità e di impegno assoluto giocando a carte con gli amici o a bocce, una pratica ora quasi scomparsa. Tutte queste osservazioni, per altro un po’ scontate, ci fanno comprendere il significato della battuta sopracitata dello scrittore irlandese George B. Shaw: anche nel vecchio il gioco riesce a mantenere vivo e libero lo spirito e persino fresca la mente. E a questo proposito, come non spezzare una lancia a favore dell’enigmistica?
Sono sicuro che se George B. Shaw, famoso scrittore inglese, premio Nobel per la letteratura nel 1925, fosse “vecchio” oggi, a distanza di quasi un secolo, non si darebbe soltanto alla enigmistica, come fanno molti amici miei dinosauri, ma troverebbe il modo di conciliare questa intelligente attività mentale quale è l’enigmistica con quella digitale.
Le opere di questo caratteristico esponente della borghesia intellettuale antiborghese sono giostre d’idee oltre che opere di teatro. Shaw privilegiava, è vero, l’intreccio. I suoi personaggi sono, di solito, portavoce di teorie e punti di vista contrastanti. Il suo era sempre un vivace gioco intellettuale, le molte arguzie e i molti paradossi, divenuti famosi, con cui criticava le caratteristiche e le istituzioni del popolo inglese.
Oggi avrebbe certamente fatto quello che ho fatto io. Mi sono regalato un Fire 7 di Amazon. Lui era un fervente seguace del pensiero scientifico della seconda metà dell’Ottocento, con la teoria darwiniana, e la continua tendenza a dare una spiegazione naturalistica di ogni realtà umana. Avrebbe senza dubbio fatto una scelta evoluzionistica come quella che ho fatto io.
Da semplice figlio di tipografo post gutenberghiano io, lui avrebbe saputo portare alle estreme conseguenze il suo pensiero evoluzionista, facendolo trasformare in mutazione. Trasformazione della comunicazione umana, da tipografica e manuale, lettera per lettera, carattere per carattere, ai bits & bytes digitali, il passo non è breve, ma lungo quanto una evoluzione che diventa trasformazione.
Fire 7 è una piattaforma-mondo digitale nelle tue mani per pochi euro. L’accendi e la schermata ti dice: Home, Per te, Libreria. Tre canali, che sono orizzonti da esplorare ed acquisire. Il mondo a portata di mano, le tue dita alla tastiera, la tua mente in rete, la tua intelligenza in libertà. La conoscenza non è più un enigma, gli esercizi non saranno soltanto giochi enigmistici. La saggezza resterà quando avremo dimenticato tutto quello che abbiamo imparato.
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Published on July 03, 2022 11:55

June 30, 2022

Girolamo da Siena e Freud: il doppio dentro di noi

Girolamo
Girolamo nacque nel capoluogo toscano intorno al 1330. Era frate agostiniano, assai stimato come predicatore, per la chiarezza dell’esposizione e la forza propositiva dell’argomentare. Molto apprezzato anche da Caterina da Siena per il soccorso ai poveri, morì ad Arezzo nel 1420. Scrisse l’ Auditorio Spirituale dal quale proviene l’estratto che segue. A distanza di tanto tempo, per comprendere il brano proposto occorre partire a ritroso da questo epilogo: “E guardate bene come la via della religione e perfezione cristiana non è se non battaglie. La prima battaglia è contro noi stessi, contro quell’altro da noi che in noi si annida. Girolamo, con secoli di anticipo scopre il nostro “doppio” freudiano. Attenzione alla lingua durante la lettura.
“Fa che sempre nel tuo mangiare servi tanta temperanzia, che l’appetito e la fame non sieno al tutto spenti; e così nel bere, si che sempre ti rimanga alquanta sete. Non dormire mai tanto, quanto l’occhio vuole; non ti posare mai tanto, che ti lievi in tutto la stanchezza, ma sempre tieni attediato il tuo corpo di fame, di sete, di sonno, e di tedj coprorali; e sempre lo tieni occupato in quelle virtù che più gli paiano malagevoli, e non ti lasciare mai adempiare neuna sua volontà, nè cosa che troppi gli piaccia, Abbi pace con ogni uomo puor di te, ma col tuo uomo dentro da te sempre combatti, eziandio se teco volesse pace. Sanza speranza di pace sempre con lui fa guerra, e non gli dar mai vinta nessuna sua gara. Ricerca ogni dì ogni tua ragione con lui, e tu li pono innanti Cristo umile e mansueto. Se si leva in vanagloria, e tu gli poni innanti com’egli è polvere. Se si leva per invidia, e tu t’arma di carità. Se per accidia, e tu sperona colla sollecitudine. Se per arroganzia di potenzia, di ricchezze, di bellezze, d’ambizione o di signoria, e tu prendi per arme Gesù Cristo, masueto, umile, povero, sprezzato, battuto, livido, servo e non cognosciuto. E guardate bene come la via della religione e perfezione cristiana non è se non battaglie contro a ogni nimico visibile e invisibile.”

Lunario dei giorni di quiete

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Published on June 30, 2022 07:05

June 28, 2022

L’insostenibile leggerezza della nostra identità

Il Libro
Per una strana coincidenza mi sono trovato a leggere questo interessante saggio di Paolo Guidone sul fenomeno dell’identitarismo italiano insieme ad un libro di tutt’altra “identità”, è il caso di dire. Perchè proprio di questo si tratta, “identità” intesa come riconoscimento e consapevolezza di chi ha a cuore il proprio destino di essere umano.
Il destino, o la identità, di una bambina di sei anni che emigra con la sua famiglia dalla Valle del Sarno. Diventa una delle più note scienziate nel campo della epidemiologia e della genetica nel suo nuovo Paese, senza mai dimenticare le sue origini.
La sua storia si incrocia con questo saggio scritto da un giovane studioso, della stessa Valle, che va alla ricerca non solo della sua, ma della identità di tutta questa comunità, antica di secoli, alla quale anche lui, come chi scrive, appartiene.
Un invito a nozze per me che ho imparato a leggere e scrivere con i caratteri mobili in una tipografia post gutenberghiana, proprio in questa secolare Valle del Sarno nella quale, per dirla con De Saussure, “tout se tient” e dà vita ad una realtà fatta di molteplici, impreviste ed imprevedibili identità.
Forse non mi troverò d’accordo con quello che scrive e pensa Paolo, preferendo una scelta per me più consona e gradevole, quella “ecologica interiore”.
Ma quello che penso io, conta poco o nulla. L’importante è sapere che l’identità di un essere umano consiste nella coerenza tra ciò che fa e ciò che pensa. Sempre questione di identità sarà.

Paolo Guidone è un amante di lingue semitiche e dei fenomeni sociali. Laureato in Giurisprudenza e innamorato di Geopolitica è specializzato in diplomazia culturale, sistemi finanziari e sicurezza. E’ docente a contratto in C.I. di Relazioni Internazionali, Teoria dei Trattati, Storia dei Mercati Valutari. Ama la Vita, lo Sport e la Ricerca. Ha scritto: “Alla Ricerca dell’Immortalità: Racconti e Tradizioni della mia Terra, la Valle del Sarno” testo donato al suo comune. Per le edizioni de “Il Comunitarista” ha pubblicato questo prezioso saggio che ho letto in versione Kindle. (Il Talebano) Lui scrive: “In quella stessa Campania Felix romana dove il contadino sarnese dimostra come il concetto di piccola Patria non è mero sinonimo di autonomismo o populismo bensì mostra e dimostra qualcosa di più eterno l’Italia profonda, dei Popoli dal grande passato che lotta per sopravvivere alla fine della storia”.

A sua volta, la scienziata Immaculata De Vivo nel suo libro Ecologia Interiore, scritto a quattro mani con Daniel Lumera scrive: “Mia madre era una donna del Sud cresciuta in un ambiente fatto di abitudini sane, prive di eccessi, legato ad uno stile di vita semplice e molto tradizionale. Quando ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, quel modo di vivere è emigrato con noi e ha continuato a segnare la quotidianità della nostra famiglia senza essere in alcun modo intaccato in usanze del posto in cui eravamo arrivati. La nostra casa era a New York ma quando varcavi la soglia tornavi di nuovo a Sarno, nella stessa dimensione genuina, da vita di campagna, dalla quale provenivamo”.

Una questione, quindi, di una vera, concreta e necessaria analisi di quel fenomeno di identità che viene chiamato “identitarismo”, a sua volta connesso al “destino” sia di una comunità che del singolo appartenente. Il saggio di Paolo Guidone si articola in undici interventi preceduti da una breve introduzione ed una emblematica, romantica chiusura in forma di “racconto” dedicata alla “coscienza del contadino”.

Nella Introduzione il giovane e brillante studioso sarnese scrive che intende parlare della identità come “lo strumento necessario a non morire, vittime poco consapevoli di un mondialismo castrante”. Di fronte ad un Dio quanto mai “enigmistico” non siamo altro che “uno sciame di formiche impazzite ad una riunione di formiche impazzite ad una riunione di condominio di Giganti”. I capitoli successivi sono molto ricchi di riferimenti locali e globali, argomentazioni sostenibili e riconoscibili sia da un punto di vista storico che politico e letterario.

Lascio al lettore il piacere di questa lettura, confrontandosi con idee e proposte passate sul palcoscenico della storia, per mano di politici, filosofi, economisti ed esperti di ogni tipo ai quali non è mai mancata, nella storia del pensiero locale, nazionale e globale la possibilità di dire la loro, ignorando sempre, volutamente o inconsciamente, quella che il grande Fiorentino chiamava senza infingimenti la “realtà effettuale”.

Ieri come oggi, come sempre, una realtà che non si può ignorare. Se lo si fa, prima o poi bisogna aspettarsi che essa abbia la meglio, travolgendo chi l’ha ignorata. Pertanto, se la realtà è quella abbiamo sotto gli occhi, giorno dopo giorno, o quella che leggiamo nei libri di storia, occorre avanzare qualche proposta, affinché il tutto non si risolva nella solita critica o in un diluvio verbale, privo di qualsivoglia proposta alternativa.

Gli uomini, le collettività e le società non possono fare a meno di ritrovare un principio di identità: un coagulo individuale e collettivo, saldamente pensato e vissuto. Certo, è più facile a dirsi che a farsi. Eppure è una via obbligata. Si tratta di ricostituire, dal nulla, una comunità che, pur tenendo conto delle esigenze imprescindibili della vita moderna e delle conquiste tecnologiche, sia in grado di ricostituire quelle basi motivazionali e identitarie su cui si fondava l’antica comunità, quella di prima, per intenderci, quella di quando nessuno si poneva il problema dell’identità. Basta leggere il Vecchio Testamento per rendersene conto.

Quella in cui esisteva un senso della trascendenza espresso dal Sacro, in cui esisteva un interazione uomo-collettività-natura e in cui le “bande politiche” di sempre sapevano di avere un limite espresso dal sistema di valori che professavano e in cui credevano. Credete voi possibile ricreare, magari per mezzo di un qualche artifizio informatico, un ambiente del genere, magari di quello “raccontato” da Paolo nel suo “racconto” in chiusura al suo saggio? Una assurdità oltre che una caricatura.

Si tratta invece di stimolare il sorgere spontaneo di una nuova realtà di vita individuale e sociale che possa favorire il mutamento. Come si fa, a livello individuale, stimolare una crescita culturale, al presente del tutto assente, valorizzare nella liquida e frivola immagine mediatica, la pratica della lettura e della riflessione, incentivando ogni forma possibile di dialogo e di confronto che da essa prenda origine?

Stimolare il rispetto e l’orgoglio per le proprie tradizioni, quelle dell’Occidente, per la propria storia, per la propria specificità culturale e comportamentale, senza enfasi o retorica, ma con serena e pacata convinzione, instillare il senso della dignità unita alla valorizzazione dei doveri dell’uomo, far maturare un atteggiamento di rispetto, disponibilità e di tolleranza nei confronti di chiunque: a qualsiasi etnia, religione o ideologia appartenga?

Che dire poi, dopo la lettura e lo studio del libro citato innanzi e scritto dalla “sarnese” “Immacolata” De Vivo, ripensare, in termini razionali e insieme emotivi, il rapporto con la vita che si esprime nell’empatia con la natura, con il prossimo nei confronti con se stessi? A queste cose si aggiunge, a livello sociale, un’azione altrettanto profonda e incisiva. Si tratta di ristabilire alcuni valori collettivamente fondamentali.

Sono l’onore, la fratellanza, lo spirito di servizio, il senso del bene comune, la condivisione, la carità e il coraggio. Oggi, mi pare, si vive, invece, solo nella retorica ufficiale, ma non nella realtà. Ne è correlato, il cambiamento totale della classe al potere, sostituendo alle attuali mafie politiche persone leali, oneste, indipendenti e dedite alla res publica e non alla res propria: quindi, giuste.

Non dimentichiamo Agostino che, con spirito profetico, ricordava: «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia? Quia et latrocinia quid sunt nisi parva regna?». — “Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati?”

Sull’onda di questo cambiamento è d’obbligo l’introduzione di nuove e condivise regole di cittadinanza e di sociabilità, che tengano conto delle esigenze di tutti, ma da cui nessuno può derogare. Infine, ma non ultima, la necessità di un effettivo governo europeo che, limitando al minimo, se non esautorando del tutto gli inutili Stati nazionali, promuova forme federali che uniscano gruppi sociali e entità geo-politiche storicamente, geograficamente, linguisticamente e culturalmente affini.

È fuor di discussione che questo governo debba essere un vero governo senza sudditanza servile nel confronti della volontà politico-economica quando la stessa si accoppia al dominio dell’economia: ossia alla predominanza dell’avere sull’essere. Fare tutto questo equivale a ricostituire un tessuto sociale e individuale sfilacciato. Equivale a riproporre una identità che non deve essere esibita ma che esiste. Equivale, altresì, a porre le basi per una vera comunità che s’innesti, non in maniera subalterna, sulle conquiste tecnologiche, facendone un positivo volano per i propri scopi.

Se questo avverrà, se questa comunità del futuro prenderà piede, allora verranno meno, o quanto meno si ridurranno, i disagi del presente. E con una nuova, sentita interiorità ricomparirà anche quel senso della sacralità dell’uomo, del mondo e della vita che oggi è scomparso, ma che continua a vivere nel profondo dell’inconscio dell’uomo e della collettività. D’altronde, il Sacro e l’Identità sono una cosa sola: tutta da riscoprire.

Bisogna ritrovarla, ricrearla in maniera umana, rifondandola anche in maniera digitale, come non è stata mai prima d’ora. Secondo la definizione data dalla psicologia e dalle scienze sociali, in via del tutto generale, l’identità personale consisterebbe nella rappresentazione di un individuo in relazione al contesto sociale in cui sviluppa la sua personalità. Essa è costituita quindi dalle sue esperienze, dai suoi gusti e dalle sue convinzioni soggettive.

L’Identità personale, così definita, rientra anche tra i beni giuridici tutelati dall’ordinamento, che vuole proteggere l’interesse del soggetto ad essere rappresentato nel contesto sociale in cui vive e in cui esprime la sua personalità, come libera determinazione e rappresentazione del proprio io.

In questo senso, quindi, l’ordinamento giuridico riconosce il diritto del singolo a mantenere il controllo sulla rappresentazione che ha di sé agli occhi della società. Da questi concetti si sviluppano, peraltro, le questioni giuridiche relative alla tutela dell’onore, del decoro, della reputazione, nonché del diritto all’immagine.

Tale diritto rientra infatti tra i diritti fondamentali della persona umana ed è stato così definito anche dalla Corte Costituzionale, secondo la quale il diritto all’identità personale consisterebbe nel “diritto ad essere sé stesso, inteso come rispetto dell’immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l’individuo“.

Sempre in questo contesto si vanno dunque ad inserire anche le problematiche relative alla tutela della identità digitale, ovvero di quell’insieme di dati ed informazioni immessi sul web e riferibili ad uno specifico soggetto/utente. È chiaro, infatti, che ogni azione compiuta nella realtà di internet fornisce al sistema dei dati che consentono di ricostruire un profilo più o meno dettagliato dell’utente a cui si riferiscono, relativo alla sua personalità, alle sue preferenze ed opinioni personali: in breve, la sua identità personale.

Ne deriva, quindi, che il concetto di identità digitale comprenderebbe, da un lato, la proiezione dell’identità personale di un individuo sul web, dall’altro, l’insieme delle tecniche di identificazione del soggetto che gli consentono di agire nella realtà virtuale tramite strumenti informatici. Ma, allora, se alla identità personale si viene ad affiancare una identità mai vista prima, quella digitale, bisogna pensare che questa nuova realtà impone la creazione di una terza rappresentazione per ogni individuo: il profilo digitale.

Ogni individuo ha un certo grado di controllo sulla rappresentazione pubblica della propria ‘identità personale’, ma non ne ha nessuno sulla rappresentazione della propria ‘identità digitale’, che spesso viene imposta automaticamente. L’imposizione di un’identità digitale avviene mediante ‘profili digitali’, creati automaticamente e basati su dati magari forniti spontaneamente dallo stesso individuo e su algoritmi costruiti da società pubbliche o private, che sfuggono al controllo dell’individuo.

Una, nessuna o centomila identità alla ricerca di quella perduta, o magari mai avuta, solo immaginata, illudendosi di averla avuta. Quella personale me la sono costruita più o meno in maniera consapevole, identificandomi per mia scelta con modelli socio culturali ai quali mi sono riferito in maniera canonica alla mia formazione linguistica cercando di rispondere ai famosi interrogativi “chi-cosa-quando-dove-perchè”.

Nel corso degli ultimi venti/trenta anni, da quando incontrai la realtà dell’ipertesto, ho assunto una identità digitale che mi rappresenta come un individuo, non più persona, ma rappresentazione connessa a qualche specifico interesse, costruita da una quantità sufficiente di dati rilevanti per essere usata, in uno specifico ambito e ai fini del suo utilizzo, come delega dell’individuo.

Da tutto ciò nasce una terza forma di identità, il profilo digitale che è la rappresentazione digitale dell’individuo. Esso è il risultato di processi automatici in cui dati relativi all’individuo vengono prelevati da grandi database e sottoposti a processi inferenziali con lo scopo di individuare caratteristiche personali che aiutino a prendere decisioni che riguardano l’individuo stesso.

La ‘profilazione’ è un processo che impiega algoritmi per trovare correlazioni tra dati riguardanti l’individuo, che possano essere usate per rappresentare un soggetto umano o non umano, individuale o gruppale. Viceversa, dei profili possono essere usati per individuare degli individui come appartenenti ad un gruppo o ad una categoria.

L’individuo non deve essere identificato quando i suoi dati vengono aggiunti al profilo, ma solo riconosciuto (per il momento) , per esempio usando dei cookies. Anche se non c’è una connessione diretta ad uno specifico soggetto, un profilo può essere connesso ad un individuo successivamente alla sua creazione. La connessione avviene quando l’individuo viene riconosciuto come possessore di uno o più attributi appartenenti ad un profilo.

Mi viene in mente a questo punto la vignetta di quella persona la quale, seduta in poltrona, con una scheda tra le mani, si chiede in maniera perplessa: “Cerco me stesso, a volte credo di trovarmi, ma poi scopro che non ero io”. Una immagine ed una situazione ben lontane da quella raccontata da Paolo nel suo primitivo, idilliaco e romantico “racconto” nel finale del suo erudito saggio.

Ma tutto era stato già previsto, anche se in maniera diversa. Qualcuno lo ha scritto magistralmente: “Uno, nessuno e centomila”: “Vitangelo arriva alla conclusione di essere: uno (cioè l’immagine che lui ha di sé stesso), centomila (come le forme che gli vengono attribuite dagli altri) e, in conclusione, nessuno (perché l’idea che lui ha di sé non coincide con nessuno di quelle che gli altri hanno di lui, e non si sa quale sia la più giusta).

La “forma”, purtroppo, la vince sempre sul “contenuto”. Saremo sempre di più costretti a difendere questa nostra davvero “insostenibile leggerezza” di identità.

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Published on June 28, 2022 07:47

June 24, 2022

Dalla Valle di Sarno al Libro-Mondo

Il Libro
“Mia madre era una donna del Sud cresciuta in un ambiente fatto di abitudini sane, prive di eccessi, legato ad uno stile di vita semplice e molto tradizionale. Quando ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, quel modo di vivere è emigrato con noi e ha continuato a segnare la quotidianità della nostra famiglia senza essere in alcun modo intaccato in usanze del posto in cui eravamo arrivati. La nostra casa era a New York ma quando varcavi la soglia tornavi di nuovo a Sarno, nella stessa dimensione genuina, da vita di campagna, dalla quale provenivamo”.

Così scrive nella introduzione a questo suo ultimo lavoro Immaculata De Vivo, il terzo libro di una serie che l’editore Mondadori ha dedicato alla collana chiamata, non a caso, “Vivere Meglio”. Libri di prestigio scientifico e grande successo editoriale, scritti a quattro mani insieme al biologo naturalista di origini sarde Daniel Lumera.

La parola la dice tutta. Dal greco “oikos” casa, abitazione “logia” discorso. La triade di libri che ha avuto una rilevante diffusione si completa con “Ecologia Interiore” il viaggio intrapreso dalla De Vivo e iniziato nella Valle del Sarno con il ricordo della dieta mediterranea inserito nel quadro di riferimento internazionale delle scienze del benessere, della qualità della vita, della pratica e conoscenza della mente, del corpo e della natura e di tante altre cose ancora

La scienziata di Harvard, nata in lingua italiana Immacolata, diventata Immaculata in americano, fra le massime esperte al mondo nel settore dell’epidemiologia molecolare, della genetica del cancro e nello studio dei telomeri, lasciò la Valle irrigata dal fiume omonimo della Città di Sarno quando aveva sei anni. Dai riferimenti biografici reperibili in rete, si può pensare verso la metà degli anni sessanta.

Dopo il successo dei bestseller “Biologia della Gentilezza” (2020) e “La lezione della farfalla” (2021) (di cui mi sono accupato qui su MEDIUM) i due scienziati autori ritornano con questo terzo titolo che completa la ricerca dedicata alla consapevolezza dell’essere che loro chiamano “Biologia dei Valori”.

Un’opera che, partendo dai dati scientifici più all’avanguardia, affronta le grandi tematiche del nostro tempo: la pandemia, le guerre, la crisi climatica, a partire dalla loro radice interiore e dal potere che ognuno di noi ha in sé per affrontarle e trasformare stress e traumi in esperienze di evoluzione e consapevolezza.

Cosa significa “ecologia interiore”? Quale relazione intercorre tra la salute della nostra “macchina biologica” e quella dell’ambiente che ci circonda? Il volume guida il lettore in un viaggio lungo quasi cinquecento pagine. Si dimostra la maniera in cui è possibile salvare la specie umana e il pianeta partendo dall’interno della nostra mente, grazie alla scoperta e all’uso consapevole delle nostre energie rinnovabili interiori, raggiungendo una vita felice e in salute. Sono argomenti questi che hanno sempre attirato sia la mia attenzione che il mio interesse di studio e conoscenza.

Proprio in quegli anni ero reduce da una esperienza lavorativa in terra inglese nel campo della salute mentale. Quando la ragazzina sarnese Immacolata emigrava con la sua famiglia negli Usa, la Tipografia “Arti Grafiche M. Gallo & Figli” di Sarno stampava per i tipi della Intercontinentalia Editrice di Napoli, un libretto di una collana per l’Università di Napoli intitolato “Igiene Mentale”. Non era ancora la parola ecologia nella sua accezione sociale e personale, c’era soltanto un richiamo politico, ma se ne prennunziava fortemente l’arrivo e la necessità in termini di un cambiamento, innanzi tutto dentro noi stessi.

In questo libro, come nei precedenti, pagina dopo pagina viene affrontato il problema di come rendere sano, ecocompatibile ed ecosostenibile il nostro ambiente interiore, trasformando le tossicità in energia pulita, per attraversare al meglio anche i momenti più difficili: dalla purificazione del nostro passato al grande potere del silenzio; dall’energia sessuale come chiave per il cambiamento ecologico, alle forze che nutrono le nostre relazioni affinché siano stabili e longeve; dalle cinque dimensioni della salute, fino al cosiddetto effetto colibrì per un nuovo modello di sviluppo sostenibile interiore ed esteriore che ci aiuti a raggiungere una completa e consapevole realizzazione della nostra vita.

Seguendo un approccio di ricerca inclusivo, che unisce antiche sapienze alle più recenti scoperte scientifiche, Daniel Lumera e Immaculata De Vivo propongono un percorso multidisciplinare con esercizi e suggerimenti pratici, che permette di bonificare i diversi aspetti dell’esistenza per potenziare il sistema immunitario, migliorare la qualità della vita e la longevità, raggiungere una nuova dimensione di salute, liberarsi dalle dipendenze e gestire al meglio la relazione con la malattia, per creare una realtà prospera e autentica per se stessi, gli altri e il Pianeta. Scrive Lumera:

«In questo nuovo lavoro siamo partiti dai dati scientifici che ci indicano chiaramente come il maggior agente inquinante del nostro mondo sia la mente umana. Per questo è urgente partire dall’intimità del nostro sentire, dalla bonifica del nostro ambiente interiore per renderci sostenibili per il Pianeta. Viviamo in un tempo segnato dalla guerra, dalla pandemia, dalla crisi climatica, come possiamo affrontare tutto questo e attuare un vero e proprio detox mentale e rendere la nostra mente ecologica? Tra le pagine di Ecologia Interiore esploriamo insieme, anche con esercizi pratici, l’equilibrio invisibile che intercorre tra la nostra salute e quella dell’ambiente che ci circonda, dimostrando quanto questi “ambienti” siano profondamente interconnessi e quali siano le strategie per una vita sana, in salute e davvero ecosostenibile».

Gli risponde Immaculata De Vivo:

«In questo terzo libro insieme non solo proseguiamo il nostro viaggio nella salute e nei valori, ma basandoci sulle ricerche scientifiche più recenti andiamo a identificare forme diverse e non sempre evidenti di “tossicità” che mettono in pericolo l’intero ecosistema. Approfondiamo come le singole scelte quotidiane abbiano un enorme impatto su salute, gestione delle crisi e dei momenti difficili, anche in relazione a temi molto attuali come la solitudine, l’isolamento, le dipendenze, il cancro, la gestione della malattia e le delicate fasi della vita come la menopausa. Le ricerche indicano chiaramente l’importanza di una reale ecologia interiore, sia per ragioni biologiche, quali l’attivazione dei naturali meccanismi che riparano i danni genetici garantendoci quindi una più alta qualità di vita, salute e longevità, ma anche per ragioni sociali, collettive e ambientali».

Il libro è suddiviso in otto sezioni ognuna di esse dedicata ad un particolare aspetto della ecologia con le sue molteplici facce: quella interiore, del passato e del presente e della memoria, l’ecologia sociale della solitudine e delle dipendenze, ecologia del silenzio, dell’energia sessuale, dell’amore e dello stile di vita.

“L’ecologia interiore fonda i propri principi sull’armonia tra l’ambiente interno ed esterno, portandoci al superamento dell’apparente frattura percettiva fondata sull’idea illusoria che esistano un sntro e un fuori, ambienti sepratati ed autonomi. La dicotomia uomo-natura eiste solo nella nostra mente dula. L’uomo è natura.”

Così conclude il libro Daniel Lumera. A sua volta, Immacolata De Vivo afferma:

“Penso che abbia ragione il saggio Epitteto che ci invita a non smettere mai di essere padroni di noi stessi, perchè è in questo che sta la nostra vera libertà. Essere al comando delle scelte che si fanno, consapevoli il più possibile delle loro conseguenze, informati in modo razionale e scientifico, mai vittime di raggiri e credulità: dal concetto di equilibrio, la mia riflessione è così approdata a quello di controllo, come altro fondamento imprescindibile del benessere … Partecipazione come atto di liberazione oltre che di gentilezza”.

Tutto ciò che nasce e muore è Natura, ma dobbiamo imparare ad essere padroni prima di noi stessi. Questa è la ragione per cui sono stati scritti questi tre libri ed in particolare questo. Oltre quattrocento pagine di testo, un ricco corredo di note, una quarantina di pagine di documentata bibliografia non sono bastate agli autori e all’Editore per stimolare le intenzioni dei lettori a fare questo viaggio quanto mai affascinante, ma anche difficile.

“Conosci te stesso”, oggi come ieri e come sempre, resterà un utopico aforisma che gli uomini di tutte le lingue, nazionalità e culture si scambiano a volte come offerta di pace, altre in forma di conflitto. Per favorire la partecipazione, la condivisione e la comprensione dei lettori il libro in versione cartacea è stato pubblicato non soltanto in edizione Kindle e in Audiolibro ma anche in una versione dinamica con un supporto video: una vera e propria inedita esperienza digitale.

Per scoprire gli approfondimenti e sperimentare le pratiche guidate, il lettore viene invitato ad eccedere ad un sito dedicato oppure a scansionare con lo smartphone il codice QR per mezzo del quale si acquiscono contenuti multimediali dedicati per ogni sezione, otto in tutte. Il lettore potrà non solo conoscere di persona Daniel Lumera, ma avere anche la possibilità di partecipare con commenti ed osservazioni in chat.

Vi assicuro che non avevo finora ancora fatto una esperienza di lettura di questo tipo. Ho avuto modo di capire che la espressione lanciata dall’Editore, e usata anche dagli autori “libro-mondo” per definire questo libro, indica davvero una svolta nella storia dell’editoria.

Un libro che va in live streaming, fa entrare chi lo legge in una masterclass di più ore che gli permette di approfondire i 7 insegnamenti dell’ecologia interiore tra teoria ed esercizi pratici applicabili in modo immediato e trasversale alle aree più importanti della vita personale, relazionale e sociale. Davvero un libro-mondo tutto scoprire, anzi da ritrovare in se stessi.


Daniel Lumera, biologo naturalista, è docente e riferimento internazionale nell’area delle scienze del benessere, della qualità̀ della vita e nella pratica della meditazione, che ha studiato e approfondito con Anthony Elenjimittam, discepolo diretto di Gandhi. È autore bestseller di La cura del perdono (Mondadori, 2016), coautore di Ventuno giorni per rinascere (Mondadori, 2018) e La via della leggerezza (Mondadori, 2019) e, insieme a Immaculata De Vivo, di Biologia della gentilezza (Mondadori, 2020) e La lezione della farfalla (Mondadori, 2021). È ideatore del metodo My Life Design®, il disegno consapevole della propria vita personale, professionale, sociale, una metodologia applicata a livello internazionale in aziende pubbliche e private, al sistema scolastico, penitenziario, sanitario e nell’accompagnamento al morente. È inoltre fondatore dell’Associazione My Life Design Onlus che declina il metodo in progetti ad alto impatto sociale, come la Giornata Internazionale del Perdono, che nelle ultime tre edizioni ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica italiana, e del Movimento Italia Gentile e la sua espressione internazionale, l’International Kindness Movement, volti a promuovere i valori di gentilezza, pace e cooperazione a livello globale.

Immaculata De Vivo, scienziata di origini italiane, è docente di Medicina alla Harvard Medical School e professoressa di Epidemiologia alla Harvard School of Public Health. È una delle massime esperte mondiali nel settore dell’epidemiologia molecolare e della genetica del cancro. Inoltre, è esponente di spicco nello studio dei telomeri: l’orologio biologico del nostro organismo. I suoi studi, pubblicati dalle più prestigiose riviste scientifiche, sono stati citati da varie testate internazionali tra cui “The New York Times”, “Forbes” e la CNN. Con Daniel Lumera ha pubblicato Biologia della Gentilezza (Mondadori, 2020) e La lezione della farfalla (Mondadori, 20201).
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Published on June 24, 2022 16:02

June 15, 2022

Next Generation Eu: che cos’è il PNRR?

MEDICI OGGI
PNRR e Telemedicina: soluzioni tecnologiche interoperabili che mettono in comunicazione pazienti, medici e farmacisti sul territorio. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un documento che il governo italiano ha redatto per mostrare alla commissione europea come l’Italia intende investire i fondi erogati dal programma Next Generation Eu. Il documento in questione descrive i progetti cui sono destinati i fondi comunitari e presenta un calendario di riforme, finalizzate all’attuazione del programma e alla modernizzazione del Paese. Le tematiche principali su cui si fonda il piano includono la digitalizzazione e l’innovazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale. I progetti sono divisi in 16 categorie, a loro volta raggruppate in 6 diverse missioni. Tra queste figura anche la Sanità.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha destinato alla Missione 6 “Salute” 15,63 miliardi di euro, pari all’8,16% dell’importo complessivo stanziato. Il denaro verrà utilizzato per sostenere le riforme e gli investimenti necessari per rinnovare il Servizio Sanitario Nazionale.

Perché la Missione Salute? Adeguare il nostro SSN al mutato contesto demografico ed epidemiologico è una priorità assoluta. A tale obiettivo vanno aggiunte la necessità di garantire una maggiore uguaglianza nel soddisfacimento dei bisogni di salute, indipendentemente dalle condizioni socioeconomiche, e la volontà di rendere la rete assistenziale capace di rispondere alle esigenze lasciate scoperte dalla razionalizzazione della rete ospedaliera.

Inoltre, è fondamentale aumentare la capillarità dell’offerta, sia in termini di cura che di prevenzione, eliminando ogni disparità geografica (soprattutto quelle che intercorrono tra Nord e Sud del Paese). Innovazione, ricerca e digitalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale sono le priorità assolute fissate dal Governo.

Gli ospedali di comunità

Tra gli obiettivi principali della Missione 6 “Salute” figura la realizzazione dei cosiddetti Ospedali di Comunità, pensati come strutture ponte tra il domicilio e l’ospedale vero e proprio. Già presenti in alcune regioni, entro la metà del 2026 saranno 381 in tutta Italia, per un totale di 7.620 posti letto. Il potenziamento della Sanità passerà attraverso questi presidi, detti anche Strutture per le Cure Intermedie (SCI), nei quali presteranno servizio medici di medicina generale, pediatri, infermieri e OSS.

Ogni Ospedale di Comunità disporrà di una manciata di posti letto, di un ambulatorio, di una sala destinata alla riabilitazione e di altri servizi necessari. Lo scopo è assistere chi non può stare a casa e, al contempo, alleggerire la pressione sui reparti.

Tali strutture cambieranno la prospettiva cui siamo abituati: l’ospedale è destinato a diventare l’ultimo nodo di una rete territoriale più attenta alle esigenze del cittadino, con gli Ospedali di Comunità che costituiranno il primo fondamentale approdo per chiunque dovesse lamentare patologie acute di lieve e media entità, o patologie croniche già diagnosticate e in fase di riacutizzazione.

La Telemedicina nel PNRR

Gli interventi previsti per la Missione 6 intendono rafforzare le prestazioni sanitarie erogate dallo Stato, grazie alla creazione di presidi e strutture territoriali (come gli Ospedali di Comunità), al rafforzamento dell’assistenza domiciliare, a una più efficace integrazione tra i vari servizi socio-sanitari e allo sviluppo della Telemedicina. Quest’ultima fa riferimento a una tipologia di assistenza a distanza che ricorre a tecnologie innovative, tra cui le Information and Communication Technologies (ICT).

La Telemedicina avvicina professionisti e pazienti anche se geograficamente lontani e comporta la trasmissione sicura di dati e informazioni sotto forma di testi, immagini e suoni, utili ai fini della prevenzione, della diagnosi, del trattamento e del controllo dei pazienti. A rendere ancora più evidente la necessità di aggiornare le tecniche classiche attraverso l’impiego di tecnologie moderne è stata la recente pandemia da COVID-19. La Telemedicina sta contribuendo in maniera efficace a ridurre la distanza tra medico e paziente.

Le soluzioni tecnologiche CGM

Interoperabilità e telemedicina per migliorare la capillarità e la qualità dell’assistenza, puntando sulla “casa quale primo luogo di cura”: è questo il fulcro della Missione 6 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tra gli esempi più interessanti di soluzioni interoperabili vi sono quelle presentate da CompuGroup Medical (CGM), che ha recentemente illustrato il progetto CGM STUDIO.

Parliamo di un gestionale in cloud per medici, integrato con tutti i servizi imprescindibili. Il software consente al medico di operare su un’unica piattaforma, in modo da ottimizzare gli aspetti organizzativi e migliorare la gestione dei pazienti impegnati in percorsi di cura multidisciplinari.

Grazie all’interoperabilità, CGM STUDIO è collegato ai servizi di CLICKDOC, app che permette di connettere tra loro pazienti, medici e farmacisti, con la possibilità, per i primi, di prenotare visite online e ottenere pareri medici a distanza. La piattaforma CGM CARE MAP, invece, offre una gestione integrata, scalabile e modulare dei percorsi di cura dei pazienti cronici, incluso il passaggio dall’ospedale alla presa in carico sul territorio.

Una soluzione che, grazie ai servizi di telemedicina, permette al medico di stare più vicino al paziente, garantendo una maggior continuità assistenziale attraverso il monitoraggio da remoto, elemento che contribuisce a migliorare l’esito delle terapie.

Bibliografia

IRPA [Internet]. Lo Stato Digitale nel PNRR — La Telemedicina; 29 luglio 2021 [consultato il 9 giugno 2022]. Disponibile all’indirizzo: https://www.irpa.eu/lo-stato-digitale-nel-pnrr-la-telemedicina/ Ministero della Salute [Internet]. PNRR Salute [consultato il 9 giugno 2022]. Disponibile all’indirizzo: https://www.pnrr.salute.gov.it/portale/pnrrsalute/homePNRRSalute.jsp Quotidiano Sanità [Internet]. PNRR. Dal Ministero un nuovo sito web per monitorare l’attuazione della Mission 6 Salute; 5 maggio 2022 [consultato il 9 giugno 2022]. Disponibile all’indirizzo: https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=104501 PMC [Internet]. Italian National Recovery and Resilience Plan: a Healthcare Renaissance after the COVID-19 crisis? 1 ottobre 2021 [consultato il 9 giugno 2022]. Disponibile all’indirizzo: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8851004/ AGENAS [Internet]. Missione 6 Salute; 4 maggio 2022 [consultato il 10 giugno 2022]. Disponibile all’indirizzo: https://www.agenas.gov.it/pnrr/missione-6-salute Sito CGM https://www.cgm.com/ita_it/prodotti/telemedicina/telemonitoraggio/domiciliare.html [image error]
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Published on June 15, 2022 12:13

June 9, 2022

La “lettera” del grafomane …

La “lettera” del grafomane …
Hai sempre detto che ero un “grafomane”. Sono stato vendicato. Ora che hai questa tessera, lo sei anche tu. E sei anche “certificato”. Io non lo sono mai stato, anche se scrivo da sempre. In effetti, è vero.
Sognavo di diventare un giornalista. Sono sempre stato un “grafomane”. Una cosa che sognavo di fare invece di studiare: scrivere. Questa è una buona occasione per dirlo, anzi ripeterlo.
Quando arrivi ad una certa età, devi fare i conti prima che con gli altri, con te stesso, per poi confrontarti con il Giudice finale. Scrivo a chi? A te che puoi mostrare questa tessera ma, sopratutto, è a me stesso che scrivo questa lettera.
Una parola, lettera, che, per questa occasione, ha più di un significato. Se continuerai a leggere, potrai capire cosa voglio dire con “lettera”.
“Better to write for yourself and have no public, than to write for the public and have no self.” — “Meglio scrivere per se stessi e non avere un pubblico piuttosto che scrivere per un pubblico e non essere se stessi”.
Così ha scritto Cyril Connolly, un critico e scrittore inglese. Quello che dice è, come tutte le affermazioni categoriche, vero solo a metà. Tutti scriviamo per registrare i nostri pensieri.
Non sempre sappiamo quali sono, ma ci rendiamo conto che circolano nella nostra mente. E’, comunque, importante cominciare a scrivere per farli venire fuori.
Beato chi si mette alla scrivania, con penna o computer, e sa già quello che ha in testa. Nel momento che cominciamo a registrarli, ci accorgiamo che altri pensieri, imprevisti e non attesi, si presentano e chiedono di manifestarsi.
Accade sempre, anche quando dormiamo. Non a caso, qualcuno ha scritto che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. La scrittura per me è, appunto, come un sogno. La cosa più straordinaria è che questo sogno non accade sempre allo stesso modo.
Si tratta di tracciare un percorso da intraprendere. Un pensiero, che diventi scrittura, che ci conduca ad un eventuale lettore. E se non c’è, comunichiamo con noi stessi. L’importante è aprire la connessione. La scrittura fa appunto questo: accende i pensieri.
Si è portati a pensare che se quello che si scrive può essere pubblicato, rende questo contatto più naturale ed accessibile. Scrivere sempre come fa un “grafomane” significa che ogni giorno impariamo a pensare meglio.
Lettera dopo lettera, parola dopo parola, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina. Ecco, questo è il percorso che trasforma il pensiero in scrittura.
Quando osservavo i compositori nello stanzone della tipografia di mio Padre e li vedevo prendere, uno ad uno, quei caratteri di piombo dalle cassette dove erano sistemate in un ordine ben preciso, quelle “lettere”, allineate sul tipometro, una dopo l’altra, riga dopo riga, era come se mi parlassero.
Diventavano “forma”. Sullo spazio del lungo bancone di marmo, una a fianco all’altra, lettere di piombo che diventavano pagine.
Mi sembrava che parlassero, che trasmettessero i pensieri di chi li aveva pensati, lettere di piombo impregnate di inchiostro, impresse sulla pagina.
Era la scrittura che nasceva ai miei occhi. Era come se sentissi le voci, i racconti, le narrazioni. Le lettere si animavano nella mia mente, come ancora oggi, da sveglio ed anche in sonno.
Accade spesso che a sera, prima di addormentarmi, mi metta a pensare a cosa scrivere l’indomani. Magari ho una idea, un concetto, una situazione, una persona, una parola da sviluppare, elaborare, chiarire e ci costruisco sopra un tessuto di immagini e di parole virtuali.
Una sequenza di lettere da prendere dalle cassette dei compositori. So bene che l’indomani saranno sparite, non riuscirò mai a farle riemergere così come si sono presentate in quel momento mentre ero nel buio della mia mente.
Eppure, ricomincio a pensare e scopro che, come per incanto, tutto riemerge, anche se in forma diversa. Mi accorgo, allora, che ciò che conta è la pratica, l’esercizio, la volontà di attraversare quella barriera dell’inconscio oltre il quale ognuno di noi sa che c’è tutto quanto serve a fare senso.
La pratica della scrittura rincorre e cerca le lettere, affina la parola, accelera il pensiero, costruisce il senso, lo rende consistente e confidente, cerca di presentarlo nel modo migliore, prima a se stessi e poi all’eventuale lettore.
E’ importante che ci sia qualcuno a cui presentare quanto si pensa. Non puoi scrivere, senza confrontarti con questa entità che ti segue implacabile come un’ombra.
Scrivere ogni giorno migliora la nostra abilità a condividere dopo di avere pensato quanto prima non esisteva, almeno così crediamo. Ci dà credibilità, prima nei confronti di noi stessi e poi degli altri.
Molto spesso scopriamo che gli altri siamo noi stessi. Ci ritroviamo, infatti, a riflettere su come la penserebbe chi, nelle varie situazioni di lavoro, di studio e di relazione, abbiamo avuto modo di confrontare.
Pensiamo, allora, che in noi non esiste una sola ed unica realtà di ascolto, di confronto e di critica, bensì tante realtà dalle quali nascono pensieri, idee, suggerimenti per quanto cerchiamo di dare forma per iscritto.
Quello che cerchiamo, sopratutto, è trovare credibilità a ciò che diciamo. Il riscontro della società alla quale, lo vogliamo o no, apparteniamo. Ecco perchè, quanto dice Cyril Connolly non è affatto vero.
Quanto meno non lo è per intero. Si può scrivere per se stessi perchè si crede in quello che si pensa. Ma allo stesso modo si può benissimo scrivere qualcosa senza crederci soltanto perchè si sa che c’è qualcuno che vuole leggere quelle cose in quel determinato modo.
Nonostante tutti gli sforzi non possiamo mai essere sempre noi stessi. Non siamo un blocco uniforme di pensiero, un monolite sacro a cui dedicare quello che vogliamo scrivere. Se scriviamo ogni giorno scopriamo di essere costruttori, architetti del nostro pensiero sempre nuovo, sempre diverso.
E’ la nostra storia personale che si crea e si ricrea, torna e ritorna, ma anche appare e scompare, attesa ma imprevedibile. Insomma è il futuro che si dipana davanti alla nostra mente e che materializziamo con le parole.
Tutto ciò che scriviamo può essere strettamente personale, ma anche dinamicamente sociale, appartenente a tutti. Dipende da come sappiamo comunicare, quali linguaggi usiamo, a quali culture ci rivolgiamo, i loro ambienti, le loro tradizioni, la loro sensibilità.
Una cosa è certa e cioè che ogni qualvolta che scriviamo la nostra voce diventa più forte, più coraggiosa, più consistente. Scopriamo che ci appartiene sempre di più. Ma nello stesso momento in cui l’abbiamo scritta non è più nostra. Appartiene al mondo. Per questa ragione dobbiamo scrivere ogni giorno.
Ora che appartieni all’Ordine, ti auguro di farlo nel modo migliore possibile anche per il ruolo che svolgi con la tua attività nel mondo della comunicazione contemporanea. Molta acqua dei miei tempi è passata sotto i ponti del mondo moderno.
Quelle piccole lettere, sporche di inchiostro, che tanto mi affascinavano quando mio Padre mi insegnò a metterle in fila una dopo l’altra e imparai a leggere e pensare, oggi, a te, ti parlano, le vedi e le senti quando le digiti, cercandole sulla tastiera, o addirittura le “parli” nei tuoi messaggi, nei video e nei podcast.
Mi sono vendicato. Anche tu sei diventato un “grafomane”. Benvenuto nell’Ordine!…
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Published on June 09, 2022 06:57

May 29, 2022

“The Extended Book”: il figlio del tipografo l’aveva previsto

Il sito
Ma esiste un libro che non si sfoglia e non si finisce mai di leggere? Si, esiste. Nato dal mio blog, questo libro è intitolato “Il figlio del tipografo”. Ho raccolto sessanta post pubblicati nel corso di venti anni sul mio blog, li ho fatti precedere da altri trenta post dedicati alla scrittura creativa, ho stampato il libro POD (print on demand) e chi vuole può leggerlo acquistandolo oppure online su Internet Archive. La cosa non finisce qui, ovviamente, perchè continuo a pubblicare post sul blog. In questa maniera posso dire che questo è un libro che si legge online e in cartaceo, si sfoglia, si clicca online e non si finisce mai di leggere. Si clicca e si legge. Si sfoglia e si legge.
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Published on May 29, 2022 13:03

May 25, 2022

Quando “eravamo giovani” nei fatidici anni sessanta

Il Libro
Quattro anni dividono l’autrice del libro dal suo recensore e otto da me che scrivo questo post. Io sono, pertanto, senza dubbio un “dinosauro”, loro due sono due persone “non più giovani”. Lei ha scritto questo libro la cui copertina vedete qui sopra. Lui è un famoso scrittore, direttore editoriale e polemista, lei è un’altrettanto nota ed autorevole scrittrice giornalista. La passione giornalistica che li accumuna mi offre l’occasione per condividere i loro pensieri e riflessioni sul tempo che abbiamo vissuto: quando “eravamo giovani”.
Io, che sono “nessuno”, è pur vero che li leggo da quando ho memoria. Specialmente Vittorio Feltri. Ha scritto sul suo giornale LIBERO un appassionato articolo-recensione sul libro della collega Maria Luisa Agnese condividendo con lei malinconici pensieri sui famosi e fatidici anni sessanta. Un particolare tipo di malinconia, che confina con la nostalgia, uno dei sentimenti per lui più dolci.
Per le mie letture, sono sempre attento a scegliere libri che mi diano la possibilità di ricostruire fatti, situazioni ed eventi che mi hanno colpito ed interessato e che scopro condivisibili anche con persone, come queste due, che non ho mai incontrato nè conosciuto.
E’ il destino nella scrittura di ogni essere umano, andare alla ricerca del tempo perduto, nella speranza di ritrovarlo nel presente. Da quello che ho capito, sia nell’autrice del libro che nel suo amico recensore, c’è tutto un mondo da rimpiangere.
Nel libro che ho letto in versione Kindle la narrazione della Agnese inizia con la famiglia, con la quale, in quegli anni, era solita trascorrere le sue vacanze ascoltando musica discutendo di costume e varia cultura, senza tralasciare la politica.
Un viaggio che dura dieci anni raccontato a fil di cronaca, in maniera tutta femminile che si conclude con il pensiero preoccupato di John Kennedy condiviso dalla scrittrice su quanto siamo disposti a fare per il bene del proprio Paese. Una preoccupazione più che giustificata.
Ogni generazione farebbe sempre bene a porsi questo problema per la creazione di un futuro migliore a quelle che si susseguono. Non ebbi il tempo, il modo e l’opportunità di porre a me stesso la domanda, nè di fare lo stesso percorso.
Quel nostalgico decennio è cadenzato nella mia memoria in ben diversi capitoli, caratterizzati da ben più diversi e problematici eventi personali. Su questo contrasto intendo costruire questi miei ricordi.
Un giovane del profondo Sud come me, in quegli anni confusi e tumultuosi del primo dopoguerra, aveva ben poche vie di fughe per evadere da quella antica Valle del Sarno abitata sin da prima della fondazione di Roma dalla misteriosa popolazione dei Sarrasti.
A parte la nota citazione di Virgilio nell’Eneide (VII, 738) che li indicò col nome di Sarrasti, si sa ben poco di questa tribù che la tradizione fa discendere dai Pelasgi i quali, nell’alta Età del Bronzo, migrarono dal Peloponneso e si insediarono in gran parte dell’Italia Meridionale.
Queste popolazioni si stabilirono anche nella Valle del Sarno e ribattezzarono il fiume “Sarno” o “Sarro” in memoria di un altro fiume, il “Saron”, che scorreva nella madre patria da cui essi erano emigrati.
Dalle ricostruzioni fatte in base ai reperti ritrovati nell’area, i Sarrasti erano un popolo operoso, ricco e forte, rispettoso dei deboli e degli anziani. Ma questa è soltanto letteratura speculativa.
Si disperde nella notte dei tempi, lasciando traccia oggi di un territorio diventato non altro che uno sterminato “hinterland” napoletano che si distende ai piedi del vulcano Vesevo al quale ben si assegna il nome di “sterminator”.
Evadere da un ambiente del genere, se si conosce la realtà del tempo, era del tutto impossibile. Mia madre proveniva da una diversa realtà, un’altra valle, forse ancora più chiusa e diversa da quella in cui l’aveva portata a vivere suo marito.
Il “genius loci” in questi casi la fa da padrone, condizionatore, creatore di destini ai quali, chi ha la sventura di capitarci, raramente riescono a sfuggire.
Un luogo tanto antico, quanto preistorico, non poteva non essere legato e condizionato ad una classicità perduta e mai veramente posseduta. Tutto l’insegnamento scolastico di quegli anni postbellici, fine anni cinquanta, inizi anni sessanta, non potevano sfuggire a quel tipo di educazione ed istruzione che ha sempre confuso i due indirizzi e le relative realtà.
Si preferiva istruire piuttosto che educare, la classicità doveva prevalere ignorando del tutto la modernità. Quando decisi di studiare le lingue moderne, dopo che mi avevano fatto odiare abbondantemente il latino e il greco, e dopo di avere subito diversi fallimenti e delusioni, emigrai in Germania per apprendere la lingua.
Il tedesco era una delle tre previste dal piano di studio. Mi ritrovai studente lavoratore a Stuttgart,facchino e giardiniere tra la Mercedes Benz e la Porsche.
Conobbi magliari e pizzaioli, venditori di tappeti e di canzoni, scoprii il sesso e discussi di nazismo, imparai a dormire sul nudo pavimento, ma venni annientato da quella realtà alla quale sentivo di non appartenere.
Poco meno di un anno mi bastò per comprendere che “quando il tedesco che sa scrivere bene si tuffa in una frase, non lo vedi più finché non emerge dall’altra parte del suo Atlantico con il verbo in bocca.”
Chi ha imparato il tedesco sa cosa vuol dire questa immagine ironica usata da quella malalingua che fu lo scrittore americano Mark Twain (1835–1910).
“La lingua tedesca è una dozzina di frammenti di parole gettati in un cilindro ottagonale, guardateli bene prima di iniziare a girare la macchina, perché non li vedrete mai più nella loro semplicità, mai più. Una persona dotata dovrebbe imparare l’inglese (tranne l’ortografia e la pronuncia) in trenta ore, il francese in trenta giorni e il tedesco in trent’anni.”
Ritornai a casa, era la fine del 1960 e fu anche la fine del mio sogno di imparare una lingua che solo Mark Twain, un americano di lingua inglese, mi avrebbe poi aiutato a comprendere quanto fosse difficile imparare.
Non mi diedi per vinto e l’anno dopo partii per la mitica Albione accettando l’invito di una signora amalfitana, naturalizzata inglese, che conosceva la famiglia di mia madre nella Valle di Tramonti.
Ci impiegai 45 ore per arrivare in una fredda e nebbiosa notte di novembre del 1961 ad arrivare a Victoria Station. Alfred mi venne incontro e conobbi Britannia.
Tre settimane di permesso di ingresso e mi titrovai a lavorare per due anni e più in un luogo che non mi sarei mai aspettato di conoscere. Un ospedale per deficienti mentali e fisici, studente infermiere.
Superai il “Preliminary Exam”, una borsa di studio pagata dal Ministero della Salute inglese mi permise di provare il brivido del primo volo in vacanza verso l’Italia.
Due anni e più mesi mi bastarono per capire le differenze tra la lingua di Goethe e quella Shakespeare. I Beatles, Mary Quant, Lady Chatterly fecero il resto.
Quando ritornai a casa, trovai mio Padre senza lavoro e la gloriosa tipografia di famiglia aveva definitivamente concluso il suo ciclo vitale.
Il ritorno agli studi fu molto duro, la Patria mi chiamava al servizio e con cinque mesi di corso divenni allievo ufficiale artigliere alla SAUSA di Foligno, poi sergente, poi S.Tenente.
Quando ritornai nella aule universitarie dell’I. U.O. mi scontrai con le metafore del Libretto Rosso di Mao e compresi cosa volesse dire “cedere un poco significa, cedere molto”. La violenza era in arrivo. Anzi era arrivata.
Nessuno si curava di dare una risposta alla domanda che aveva posto John Kennedy. Il resto è stato tutto già raccontato e l’abbiamo vissuto in diretta. Questo fu Il mio fatidico decennio degli anni sessanta. Quando fui giovane anche io.
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Published on May 25, 2022 13:05

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Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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