Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 44

October 26, 2023

Un capolavoro incompiuto

“La vita umana non è altro che una serie di note “a piè di pagina” di un immenso, misterioso e incompiuto capolavoro” (Vladimir Nabokov)
Il tema della vita, del suo senso e del suo fine, è stato da sempre dominante nella letteratura di tutti i tempi e di tutte le civiltà. Si va da un amore viscerale per le manifestazioni esistenziali in tutte le loro forme, ad un odio spesso spietato ed incomprensibile.
La citazione qui sopra è di uno scrittore agnostico che non si poneva alcuna preoccupazione di trascendenza. E’ tratta dal romanzo di Vladimir Nabokov intitolato “Fuoco Pallido”, uscito nel 1962.
E’ un ritratto di una certa gioventù che sciala la propria esistenza, sotto la coltre di apparente decoro ed efficienza discutibili. E’ una citazione per la quale sono riuscito a trovare in Rete una immagine abbastanza pertinente.
Uno scenario naturale sconfinato nella sua misura e bellezza, in un duplice riflesso che diventa riflessione, la realtà e la sua proiezione, con all’orizzonte due figure umane che si perdono nel loro cammino.
Più che un cammino sembra una esplorazione, quella della vita, in cerca del suo segreto, una realtà che può essere spiegata, almeno così sembra, con la scienza. E una prova ne è questa bella immagine che sembra portarci al cuore del problema che resta poi nel mistero.
Non basteranno, infatti, la psicologia e le altre varie discipline storico-sociali a trovare il significato del viaggiare ed esplorare di quelle due figure umane che sfilano silenziose tra quelle altezze.
Le stesse figure sembrano essere soltanto due note esplicative in calce alle pagine di un poema quale quello che si può immaginare riprodotto dalla stessa immagine.
Resta la domanda, nonostante tutto il vagare, cercare ed interpretare di queste due simboliche figure umane, sul senso, significato e ragione d’essere del tutto. Un capolavoro senza dubbio, immenso, misterioso ed incompiuto.
La manifestazione esteriore di una realtà che supera quelle due simboliche figure all’orizzonte, che pur facendo parte del progetto e dello scenario, non riusciranno mai a trovarne una ragione.
Esse ci riportano alla mente i versi di Friedrich Holderlin: “Was ist der Menschen Leben? Ein Bild der Goddheit!” (che cos’è la vita umana se non un’immagine della divinità?) Una presenza che, senza dubbio, deve avere un inizio ed una fine nel suo infinito divenire.
Di questo Nabokov non ne fa parola. Ma è chiaro che il suo pensiero lo porta a sottendere. Quelle due minuscole figure umane, insignificanti solo in apparenza, danno un senso al tutto con il loro essere solo “note a piè di pagina” ed allo stesso tempo concorrono a completare il capolavoro che altrimenti non avrebbe ragione di manifestarsi.
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Published on October 26, 2023 11:15

Il piacere della fotografia: il mezzo è il messaggio. Vedere l’invisibile

Valle del Sarno (Foto@angallo)

La magia dell’immagine che parla. La fotografia è un’arte che cattura un singolo istante nel tempo, creando un’immagine che può essere letta, interpretata e apprezzata in modi infiniti. È un linguaggio visivo universale che comunica attraverso le sue composizioni, i suoi soggetti e le sue emozioni. Mi piace il potere della fotografia e come essa può essere letta e interpretata in diverse prospettive.

La potenza dell’immagine

Una fotografia è molto più di un semplice scatto. È un medium che può raccontare storie, suscitare emozioni e catturare la complessità del mondo che ci circonda. Attraverso le immagini, possiamo esplorare l’animo umano, la bellezza della natura, le ingiustizie sociali e molto altro ancora. Una foto parla senza parole, eppure riesce a trasmettere messaggi potenti e profondi.

Le intenzioni del fotografo

Ogni fotografia è una creazione unica, frutto delle intenzioni e della visione del fotografo. L’autore decide cosa mettere in primo piano, come comporre l’immagine, quale prospettiva adottare e quale storia raccontare. Le scelte tecniche, come l’uso della luce, la profondità di campo e l’inquadratura, sono strumenti che il fotografo utilizza per comunicare il proprio messaggio. Anche il momento in cui viene scattata la foto può essere cruciale, catturando un attimo fugace o un’emozione intensa.

Le Idee di chi la vede

La fotografia, una volta creata, diventa un’opera aperta a diverse interpretazioni da parte dei fruitori. Ogni persona che osserva un’immagine porta con sé la propria esperienza, il proprio background culturale e le proprie emozioni. Di conseguenza, la stessa foto può evocare idee e sensazioni diverse in persone diverse. Le letture possono essere influenzate dal contesto, dal momento storico e dalle conoscenze personali. Una fotografia può ispirare discussioni, riflessioni e dibattiti, aprendo nuovi orizzonti di conoscenza.

Le possibili letture

Una delle meraviglie della fotografia è la sua capacità di essere aperta a molteplici interpretazioni. Una singola foto può essere letta in modi diversi a seconda del punto di vista del fruitore. Ad esempio, un paesaggio può essere interpretato come un’ode alla bellezza della natura, come una riflessione sulla fragilità dell’ambiente o come una rappresentazione dell’armonia tra uomo e natura. Questa polisemia permette a ciascuno di trovare un significato personale e unico nella fotografia.

Le emozioni, i ticordi e le sensazioni

La fotografia ha il potere di evocare una vasta gamma di emozioni. Un’immagine può suscitare gioia, tristezza, meraviglia, nostalgia o stupore. Una foto può anche diventare un ponte verso i ricordi, riportandoci a momenti passati e aiutandoci a rivivere le emozioni associate a quei ricordi. Inoltre, una fotografia può stimolare i nostri sensi, facendoci percepire i colori, i suoni e gli odori di un determinato luogo o situazione.

La tecnica e la comunicazione

La fotografia richiede l’applicazione di una serie di competenze tecniche, come la gestione della luce, la messa a fuoco e la composizione. Questi aspetti tecnici sono fondamentali per trasformare un’idea in un’immagine concreta. La tecnica fotografica può essere utilizzata in modo creativo per comunicare il messaggio desiderato. Il fotografo può giocare con l’uso del colore, della prospettiva e della profondità di campo per creare un’atmosfera specifica o per enfatizzare un particolare elemento.

Cuore e mente

La fotografia è un’arte straordinaria che parla direttamente al nostro cuore e alla nostra mente. Attraverso la sua capacità di catturare la realtà e di trasmettere emozioniprofonde, la fotografia ci permette di esplorare mondi diversi, di connetterci con gli altri e di riflettere sulle complessità della vita. Ogni foto è un’opera d’arte unica, che porta con sé le intenzioni del fotografo e le idee del fruitore. È un linguaggio visivo che supera le barriere culturali e linguistiche, comunicando con immediatezza e potenza.

Leggere una fotografia significa immergersi nella sua composizione, nelle sue linee, nei suoi colori e nelle sue ombre. Significa interpretare il soggetto, le emozioni che traspare, le storie che racconta. Significa anche lasciare spazio alla propria esperienza personale, alle proprie sensazioni e ai propri ricordi. Ogni foto è una finestra aperta su un momento specifico, ma può anche diventare uno specchio che riflette chi la guarda.

La fotografia ci spinge a guardare il mondo con occhi attenti e curiosi. Ci invita a esplorare nuovi orizzonti, a scoprire dettagli nascosti e a cogliere l’essenza di ciò che ci circonda. Attraverso la fotografia, possiamo vedere la bellezza nelle cose semplici, trovare significato nei dettagli insignificanti e rivelare la complessità dell’umanità.

L’elogio della fotografia è un invito a scoprire la sua magia e a lasciarsi affascinare dalla sua capacità di comunicare senza parole. Attraverso le intenzioni del fotografo, le idee del fruitore, le possibili letture, le emozioni e i ricordi che suscita, la fotografia diventa un mezzo potente per esprimere e condividere esperienze umane. È un’arte che ci avvicina, che ci fa riflettere e che ci permette di vedere il mondo con occhi nuovi.

“Leggere una fotografia” nel contesto dell’arte e della comunicazione visiva significa interpretare e comprendere il significato e le intenzioni dietro un’immagine fotografica. Significa andare oltre la semplice osservazione superficiale e indagare gli elementi visivi, emotivi e concettuali presenti nell’immagine.

Quando si “legge” una fotografia, si analizzano diversi aspetti, tra cui:

Composizione e inquadratura: Si studia la disposizione degli elementi all’interno dell’immagine, come sono posizionati i soggetti, l’uso dello spazio, la prospettiva e l’equilibrio visivo. La composizione può influenzare la percezione e il messaggio dell’immagine.

Soggetto e messaggio: Si indaga il soggetto principale dell’immagine e si cerca di comprendere il messaggio o l’idea che il fotografo ha voluto trasmettere attraverso quella scelta. Si considera anche il contesto in cui è stata scattata la foto e come questo può influenzare la sua interpretazione.

Luce e colore: Si valuta l’uso della luce e del colore nell’immagine. La luce può creare atmosfere e emozioni specifiche, mentre il colore può trasmettere significati simbolici o evocare determinate sensazioni.

Emozioni e reazioni personali: Si riflette sulle emozioni, le sensazioni e le reazioni personali che l’immagine suscita. Ogni individuo può interpretare e connettersi con un’immagine in modo diverso in base alle proprie esperienze, alle proprie conoscenze e alle proprie emozioni.

Contesto culturale e storico: Si considera il contesto culturale e storico in cui è stata realizzata l’immagine. Ciò può fornire ulteriori informazioni per comprendere il significato e le intenzioni dietro la foto.

Tecnica fotografica: Si analizza la tecnica utilizzata dal fotografo, come l’uso della profondità di campo, la messa a fuoco selettiva, l’esposizione e altri aspetti tecnici. Questi fattori possono influenzare l’effetto visivo e il messaggio dell’immagine.

Leggere una fotografia richiede quindi un’analisi critica e interpretativa, che va oltre la mera osservazione visiva. È un processo di scoperta e comprensione che coinvolge la mente e le emozioni, permettendo di apprezzare e interpretare l’arte fotografica in modo più profondo e significativo.

La composizione è un elemento fondamentale nella fotografia e può avere un impatto significativo sul messaggio e sull’interpretazione dell’immagine. Ecco alcuni esempi di come la composizione può influenzare il significato di un’immagine:

Punto di vista e prospettiva: La scelta del punto di vista e dell’angolazione da cui viene scattata l’immagine può alterare radicalmente la percezione del soggetto. Ad esempio, una foto scattata dal basso può far apparire un soggetto più imponente o potente, mentre un punto di vista dall’alto può suggerire una posizione di superiorità o di osservazione.

Regola dei terzi: L’applicazione della regola dei terzi implica la suddivisione dell’immagine in una griglia immaginaria con linee orizzontali e verticali. Posizionando i punti focali o gli elementi chiave dell’immagine lungo queste linee o nei punti di intersezione, si può creare un senso di equilibrio e armonia visiva. Questa tecnica può guidare l’occhio dello spettatore e mettere in evidenza particolari elementi all’interno dell’immagine.

Bilanciamento e simmetria: La disposizione degli elementi all’interno dell’immagine può creare un senso di equilibrio o disuguaglianza visiva. L’uso consapevole di linee, forme o soggetti simmetrici può suggerire stabilità, ordine e armonia, mentre l’asimmetria può trasmettere dinamicità, tensione o disordine.

Pianificazione dello spazio negativo: Lo spazio negativo si riferisce all’area vuota attorno al soggetto principale. Una composizione che utilizza in modo efficace lo spazio negativo può creare una sensazione di respiro e dare importanza al soggetto principale, enfatizzandolo e facendolo risaltare.

Profondità di campo: La scelta dell’apertura del diaframma e della profondità di campo può influenzare la messa a fuoco selettiva e l’attenzione data a specifici elementi all’interno dell’immagine. Ad esempio, un’immagine con una profondità di campo ridotta, in cui solo il soggetto principale è nitido mentre lo sfondo è sfocato, può isolare il soggetto e dargli maggior rilievo.

Utilizzo delle linee: Le linee presenti nell’immagine, come linee orizzontali, verticali, diagonali o curve, possono influenzare la composizione e la percezione visiva. Le linee orizzontali possono suggerire stabilità e tranquillità, le linee verticali possono trasmettere forza o grandezza, le linee diagonali possono creare un senso di movimento o dinamismo, mentre le linee curve possono evocare morbidezza o eleganza.

Questi sono solo alcuni esempi di come la composizione può influenzare il messaggio di un’immagine. La scelta consapevole degli elementi di composizione può contribuire a creare un’immagine più potente e comunicativa, guidando l’osservatore verso l’interpretazione desiderata dal fotografo.

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Published on October 26, 2023 08:22

La foresta dei “non-credenti”

William Blake nacque a Soho, un quartiere di Londra, nel 1757. All’età di otto anni vide un albero pieno di angeli che risplendevano dai rami come stelle. Pittore, incisore, poeta, stampatore, bibliomane avanti lettera, Blake restò visionario tutta la vita, morì cantando in un bugigattolo dello Strand londinese fatto di due piccole stanze nel 1827. La sua poesia si manifesta principalmente nei “Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza” pubblicati nel 1794, considerati il suo capolavoro poetico anche a distanza di tanto tempo. Durante la sua vita vendette solo trenta copie delle sue composizioni. Wordsworth lo considerò matto; Coleridge lo ritenne un genio e d’allora i critici continuano ad essere divisi su chi fu veramente William Blake. Io, modestamente, lo considero uno degli spiriti poetici più illuminati di tutti i tempi, punto di riferimento per tutte le età e le stagioni della vita. La breve composizione che qui ho tradotto liberamente si rivolge a chi non crede. Non ha bisogno di commenti. Chi non crede è come colui che è addormentato e si disseta mentre sogna al fiume della vita. Il dubbio e la ragione non potranno essere d’aiuto. Bisogna soltanto credere senza chiedersi il perchè.

You don’t believe — I won’t attempt to make ye.
You are asleep — I won’t attempt to wake ye.
Sleep on, sleep on, while in your pleasant dreams
Of reason you may drink of life’s clear streams
Reason and Newton, they are quite two things,
For so the swallow and the sparrow sings.
Reason says ‘Miracle’, Newton says ‘Doubt’.
Aye, that’s the way to make all Nature out:
Doubt, doubt, and don’t believe without experiment.
That is the very thing that Jesus meant
When he said: ‘Only believe.” Believe and try,
Try, try, and never mind the reason why.
 — — — -
Tu non credi, io non cercherò di farti credere.
Tu sei addormentato, io non cercherò di svegliarti.
Dormi, dormi, mentre nel tuo dolce sonno
della ragione bevi al chiaro fiume della vita
Ragione e Newton, sono due cose diverse,
come il canto della rondine e del passero.
La Ragione dice “Miracolo”, Newton dice “Dubbio”.
Sì, così vanno le cose con la Natura:
Dubbio, dubbio e non credere senza esperimento.
Gesù disse: “Credi soltanto”. Credi e prova,
Prova, prova e non chiederti mai perchè.

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Published on October 26, 2023 02:56

October 25, 2023

Nella realtà digitale la “fine” della conoscenza e dei suoi “fini”?

La tipoteca
“La foto che mi hai inviato mostra un tavolo con le lettere dell’alfabeto. Questo è un simbolo dell’inizio della scrittura, che ha permesso agli esseri umani di comunicare e trasmettere la conoscenza nel tempo.
La scrittura ha avuto un’evoluzione significativa nel corso della storia. Inizialmente, era un processo lento e laborioso, che richiedeva l’uso di strumenti e materiali specifici. Con l’avvento della stampa, la scrittura è diventata più accessibile e diffusa. Oggi, la scrittura è digitale, e può essere facilmente condivisa e accessibile a chiunque abbia accesso a un computer o a un dispositivo mobile.
L’intelligenza artificiale (AI) sta avendo un impatto significativo sulla scrittura. Gli algoritmi AI possono essere utilizzati per generare testo, tradurre lingue e persino scrivere contenuti creativi. Questo ha il potenziale di rendere la scrittura più efficiente e accessibile, ma solleva anche alcune preoccupazioni.
Alcuni temono che l’AI possa portare alla fine della conoscenza. Se gli algoritmi AI possono generare testo indistinguibile da quello scritto da un essere umano, allora non c’è più bisogno di umani per scrivere. Questo potrebbe portare alla perdita di conoscenza e di creatività.
Tuttavia, è importante notare che l’AI non è una minaccia per la scrittura. Al contrario, l’AI può essere uno strumento potente per la scrittura. Gli algoritmi AI possono essere utilizzati per aiutare gli scrittori a migliorare la loro scrittura, a trovare nuove idee e a comunicare in modo più efficace.
L’evoluzione della scrittura è un processo continuo. Non sappiamo cosa riserva il futuro, ma è chiaro che la scrittura continuerà a svolgere un ruolo importante nella nostra società.
In particolare, la foto che mi hai inviato può essere interpretata come un simbolo della fine della scrittura come processo manuale e creativo. La scrittura è stata tradizionalmente vista come un’espressione dell’intelligenza e della creatività umana.
Tuttavia, con l’avvento dell’AI, la scrittura può essere generata automaticamente da algoritmi. Questo solleva la questione se la scrittura automatica possa essere considerata una forma di conoscenza.D’altra parte, la foto può anche essere interpretata come un simbolo dell’inizio di una nuova era per la scrittura.
L’AI ha il potenziale di rendere la scrittura più accessibile e diffusa, e di aiutarci a comunicare in modo più efficace. In questo senso, l’AI può essere vista come un’estensione della nostra capacità di scrivere.
Il significato della foto è soggettivo. Tuttavia, è innegabile che la scrittura sta attraversando una fase di trasformazione spettacolare. L’AI sta avendo un impatto profondo sulla scrittura, e il futuro di questo strumento è ancora incerto. (AI)
Questa è la risposta che mi ha inviato AI alla richiesta di un commento. Una foto emblematica quella del banco della composizione gutenberghiano della tipografia di mio Padre.
A distanza di pochi decenni viviamo in un’epoca in cui l’informazione è diventata un oceano che siamo costretti a navigare senza che nessuno ci sappia dire come.
Ci manca l’arte di una saggezza che non c’è mai stata prima e di cui abbiamo assoluto bisogno se vogliamo sopravvivere. Tutti crediamo che avere la possibilità di accedere a sempre più informazioni significa diventare più saggi, vivere meglio rispetto a ieri.
Sembra, invece, che più informazioni abbiamo, più ci sono problemi. Il fuoco di fila delle notizie che ci arrivano in ogni momento ha creato un ambiente umano ed esistenziale in cui, se non informati, siamo condannati ad essere come scartati, incapaci, inadatti a vivere.
Dobbiamo avere necessariamente una opinione sulle cose che accadono, che ci vengono comunicate. Sembra che dobbiamo necessariamente “sapere” per emettere il necessario giudizio che siamo chiamati a dare su qualsiasi problema o argomento.
A spezzoni di informazione devono necessariamente seguire spezzoni di opinioni, con la conseguenza che ci illudiamo di sapere tutto, ma in realtà conosciamo ben poco, se non sempre di meno e di peggio.
Lo scrittore e filosofo americano Ralph Waldo Emerson ha detto: “La conoscenza è sapere che noi non possiamo sapere”. Ma per fare questo dobbiamo prima stabilire una scala di valori che ci possa portare alla corretta conoscenza.
Alla base della scala mettiamoci un pezzo di informazione che ci dice qualcosa di preciso e definito sulla realtà che ci circonda. Poi subito dopo viene il gradino della conoscenza, vale a dire la capacità di comprendere come questi vari pezzetti si incontrano e affermano una verità sul mondo.
La conoscenza nasce dal collegamento. Essa vive, per così dire, tra correlazione e interpretazione. Sul gradino immediatamente successivo troviamo la saggezza che possiede una componente morale nella misura in cui vale la pena ricordarla ed applicarla alla realtà del mondo.
Tutto questo implica uno schema etico che poggia su ciò che vale e non vale, in direzione dell’idea di un mondo ideale e di come lo stesso dovrebbe essere.
Da qui nasce l’importanza dell’impegno, sia personale che sociale, per chi si dedica alla comunicazione come lavoro di scrittura a scegliere tutto ciò che conta ed è importante sulla scena del mondo.
Chi scrive deve innanzitutto mirare alla comprensione, passando dall’informazione, intesa come conoscenza che diventa saggezza. La scrittura, la vera scrittura, crea dei criteri, degli standard, dei modelli di riferimento in chi legge.
Questi lettori, evidentemente, li useranno cercando di imitarli e di andare anche oltre, di trascenderli. Una grande scrittura non consiste soltanto nel fornire alcune informazioni.
Essa, oltre ad informare, deve invitare ad allargare le capacità del lettore, a comprendere, trascendere, sapere andare oltre il testo. Oltre la storia narrata, tenendo d’occhio il mondo circostante, noi stessi e il posto che occupiamo in esso.
In un’epoca come la nostra in cui l’informazione costa poco o niente, ma la saggezza cosa molto, sta a chi scrive colmare questo divario.
Mettiamola così: se io posseggo uno scaffale pieno di libri sulla ingegneria navale, questa conoscenza verte sulla costruzione delle navi. L’accesso a questa informazione, a questi libri, è un prerequisito di conoscenza, ma non una garanzia della conoscenza.
Una volta che sono riuscito a costruire una barca, avrò bisogno della necessaria saggezza che mi porti a saper governare la barca sia nella tempesta che nella calma, sia a riva che in alto mare.
La saggezza morale mi aiuterà a capire la differenza tra la giusta direzione e quella sbagliata. Oggi scriviamo tutti di più e questo è un buon segno, anche se le statistiche dicono che si legge di meno. E questo è un cattivo segno.
Io scrivo per terapia, per capire quello che penso. Soltanto scrivendo saprò essere un buon “nocchiero” della mia “nave”. Buon “scrittore” sarà chi saprà governare la sua nave con saggezza e coraggio, saprà navigare verso giusti orizzonti e precisi ideali.
Saprà, sopratutto, guidare chi legge verso il disvelamento del grande mistero che ci circonda per rispondere all’antica domanda: perchè siamo qui?

“Fatti non foste per viver come bruti ma per seguire virtute e canoscenza”. Siamo qui, da quando veniamo alla luce, sia per sapere cos’è la bella “virtute” quanto l’ambita “canoscenza”.
Il sommo Poeta dimostrò, da par suo, cosa esattamente intendeva: la chiamò “Commedia” per indicare un’opera letteraria che aveva un lieto fine o una conclusione felice, a differenza della “tragedia”, che aveva un finale triste.
La commedia di Dante, quindi, si distingue per il suo finale positivo, poiché il protagonista Dante stesso riesce a raggiungere la salvezza e l’esperienza della visione divina.
Se per il Poeta le cose andarono così, cosa possiamo dire di noi lettori del ventunesimo secolo del nostro viaggio terreno in cerca della “virtute” e della “conoscenza”? Conosciamo bene i “fini”?
Il saggio che segue, che ho tradotto liberamente dall’inglese, dopo di avere anche consultato il libro da cui è nato questa ricerca, tenta di stabilirli in maniera davvero interessante, in una realtà digitale come quella di oggi.
Sia la “virtute” che la “canoscenza” hanno un fine, oppure viaggiamo verso la “fine” di ogni “virtute” e “canoscenza”?
Il Libro
Riunendo un entusiasmante gruppo di operatori della conoscenza, studiosi e attivisti provenienti da diversi campi, questo libro rivisita una questione fondamentale dell’Illuminismo: qual è “l’ultimo o il limite più lontano della conoscenza”? È un libro sul perché facciamo quello che facciamo e su come potremmo sapere quando abbiamo finito.
Nella riorganizzazione della conoscenza che caratterizzò l’Illuminismo, le discipline furono concepite come aventi “fini” particolari, sia in termini di scopi che di punti finali. Mentre assistiamo al continuo passaggio all’economia della conoscenza dell’era dell’informazione, questa raccolta si chiede se concettualizziamo ancora la conoscenza in questo modo. Una disciplina individuale ha sia uno scopo intrinseco che un punto finale naturale? Cosa hanno in comune un esperimento su un moscerino della frutta, la lettura di una poesia e la scrittura di una riga di codice?
Concentrarsi su aree diverse come l’intelligenza artificiale; biologia; studi sui neri; studi letterari; fisica; attivismo politico; e il concetto stesso di disciplinarità, i contributori scoprono una vita dopo la disciplinarità per soggetti che affrontano minacce immediate alla struttura se non alla sostanza dei loro contributi. Questi saggi — siano essi riflessivi, storici, elogiativi o polemici — tracciano un percorso vitale e necessario verso la riorganizzazione della produzione della conoscenza nel suo insieme.
In questo momento, molte forme di produzione della conoscenza sembrano essere destinate alla fine. La crisi delle discipline umanistiche ha raggiunto un punto critico di disinvestimento finanziario e popolare, mentre i progressi tecnologici come i nuovi programmi di intelligenza artificiale potrebbero superare l’ingegno umano. Con la scomparsa dei mezzi di informazione, i movimenti politici estremisti mettono in discussione il concetto di oggettività e il processo scientifico. Molti dei nostri sistemi di produzione e certificazione della conoscenza sono finiti o stanno finendo.
Vogliamo offrire una nuova prospettiva sostenendo che è salutare — o addirittura desiderabile — che i progetti di conoscenza affrontino i propri fini. Con studiosi di discipline umanistiche, scienziati sociali e scienziati naturali tutti costretti a difendere il proprio lavoro, dalle accuse di “bufala” del cambiamento climatico alle ipotesi di “inutilità” di una laurea in discipline umanistiche, i produttori di conoscenza all’interno e all’esterno del mondo accademico sono chiamati a spiegare perché fare quello che fanno e, suggeriamo, quando potrebbero essere fatti. La prospettiva di una fine imposta artificialmente o dall’esterno può aiutare a chiarire sia lo scopo che il punto finale della nostra borsa di studio.
Riteniamo che sia giunto il momento per gli studiosi di tutti i campi di riorientare il loro lavoro attorno alla questione dei “fini”. Ciò non significa necessariamente acquiescenza alle logiche dell’utilitarismo economico o della fedeltà di parte che si sono già rivelate così dannose per le istituzioni del 21° secolo. Ma evitare la domanda non risolverà il problema. Se vogliamo che l’università rimanga uno spazio vitale per la produzione di conoscenza, allora gli studiosi di tutte le discipline devono essere in grado di identificare l’obiettivo del loro lavoro — in parte per portare avanti il progetto illuminista di “conoscenza utile” e in parte per difendersi dal pubblico e descrizione errata della politica.
Il nostro volume The Ends of Knowledge: Outcomes and Endpoints Across the Arts and Sciences (2023) si chiede come dovremmo comprendere i fini della conoscenza oggi. Qual è la relazione tra un progetto di conoscenza individuale — ad esempio, un esperimento su un moscerino della frutta, la lettura di una poesia o la creazione di un grande modello linguistico — e lo scopo di una disciplina o di un campo? In aree che vanno dalla fisica agli studi letterari, dall’attivismo alla scienza del clima, abbiamo chiesto ai professionisti di considerare i fini del loro lavoro — il suo scopo — così come il suo fine: il punto in cui potrebbe essere completo. Le risposte hanno mostrato sorprendenti punti in comune nell’identificazione dei fini della conoscenza, così come il valore di averne in vista.
Come studiosi dell’Illuminismo, traiamo ispirazione per questo intreccio tra fine e fine da un’era che ha dato il via a molti dei nostri modelli per la produzione, la condivisione e l’utilizzo della conoscenza. I pensatori illuministi combinavano definizioni pratiche e utopiche dei fini nel richiedere nuove modalità e istituzioni di produzione della conoscenza, intendendo i fini come obiettivi su larga scala che devono, allo stesso tempo, essere realizzabili.
Agli inizi del XVII secolo, Francis Bacon invocò sia un nuovo inizio nella produzione della conoscenza sia una riconsiderazione dei suoi fini. “[L]’errore più grande di tutti”, scrisse in The Advancement of Learning (1605), “è lo sbaglio o lo smarrimento dell’ultimo o più lontano termine della conoscenza”. I suoi “veri fini”, scrisse in seguito, non erano la reputazione professionale, il guadagno finanziario, e nemmeno l’amore per l’apprendimento, ma piuttosto “gli usi e i benefici della vita, per migliorarla e condurla in carità”. Sostenendo la fine della scolastica, il programma educativo medievale che enfatizzava l’argomentazione dialettica e la logica deduttiva, Bacon ideò il suo Novum Organum (1620), “nuovo organon”, sia come progetto che come inizio di uno sforzo mondiale e durato generazioni per cercare nuovi ‘fini’. Il suo lavoro è generalmente considerato il punto di origine della rivoluzione scientifica.
In questo modo, l’Illuminismo offre un modello di come la fine di una visione della produzione della conoscenza possa essere un trampolino di lancio per nuove idee, metodi e paradigmi. La frattura e il declino della scolastica aristotelica durante il Rinascimento diedero origine a una serie di filosofie ideate per sostituirla. I conflitti tra tomisti e scotisti, l’inadeguatezza delle rinnovate dottrine ellenistiche, il misticismo sconfortante del rosacrocianesimo e della Kabbalah, e persino la promessa fallita del platonismo di fornire un’alternativa moderna e completa ad Aristotele portarono pensatori come Bacon a cercare risposte in altri campi.
I termini di Bacon — exitus, finis, terminus — suggeriscono un focus sia sugli endpoint che sui risultati. La conoscenza, nella sua filosofia, aveva fini (cioè scopi) così come un fine (un punto in cui il progetto sarebbe stato completo). La nuova scienza, secondo lui, avrebbe portato “alla giusta fine e alla cessazione dell’errore infinito” e valeva la pena di intraprenderla proprio perché una fine era possibile: “Perché è meglio dare un inizio a una cosa che ha una possibilità di fine» piuttosto che lasciarsi coinvolgere in cose che non hanno fine, in una lotta e uno sforzo perpetui”. Bacon credeva che gli scienziati potessero raggiungere i loro scopi.
Le discipline così come le occupiamo attualmente sono artefatti delle origini ottocentesche dell’università di ricerca.
L’anno successivo, tuttavia, lo studioso Robert Burton adottò una visione meno ottimistica della produzione della conoscenza in The Anatomy of Melancholy (1621). Considerando la sorte dei “nostri teologi, la professione più nobile e degna di doppio onore”, che nonostante tale dignità avevano poche speranze di ricompensa o incoraggiamento materiale, chiese retoricamente: “a che scopo dovremmo studiare?” … perché ci prendiamo tanta cura?’ La (invidiabile) certezza del filosofo naturale giustapposta al lamento (altamente riconoscibile) dello studioso umanista suggerisce una divisione tra modalità e oggetti di indagine che rimane stereotipata della divisione STEM-umanità. Continuiamo, giustamente o ingiustamente, ad associare le scienze naturali e applicate a fini specifici e comprensibili, mentre la ricerca della conoscenza umanistica sembra infinita.
Cercando di eludere tali stereotipi, abbiamo chiesto ai produttori di conoscenza di rivisitare la domanda fondamentale di Bacon sull’Illuminismo: qual è “l’ultimo o il limite più lontano della conoscenza”? Alcuni potrebbero essere pronti a sottolineare che gli sforzi passati per porre fine spesso appaiono donchisciotteschi o ridicoli con il vantaggio del senno di poi. Per gli studiosi di letteratura, gli esempi paradigmatici di ciò sono il racconto di Jorge Luis Borges “La Biblioteca di Babele” (1941) e il personaggio di Edward Casaubon nel romanzo Middlemarch di George Eliot (1871–2).
Il lavoro di Casaubon sulla sua Chiave di tutte le mitologie è letteralmente infinito; muore prima di completarlo, portando la sua giovane moglie Dorothea a temere che lui la colperà per aver promesso di continuare il lavoro dopo la sua morte. Anche gli scienziati talvolta hanno concepito i loro fini come quelli di fornire, come ha scritto Philip Kitcher nel suo saggio “The Ends of the Sciences” (2004), “un resoconto completo e veritiero dell’universo”, ma l’idea che un tale resoconto possa esistere, o che, se così fosse, potremmo comprenderlo, resta un grande dubbio. L’aspirazione a una fine globale è generalmente illusoria e potenzialmente distopica.
Il nostro obiettivo, quindi, non è quello di offrire una risposta unica o definitiva alla questione dei fini della conoscenza, ma piuttosto di aprire e mantenere uno spazio intellettuale in cui essa possa essere posta. Gli studiosi di tutti i campi potrebbero irritarsi all’idea che il loro lavoro finisca, con le “difese” di vari campi oggi comuni. Le discipline così come le occupiamo attualmente sono artefatti delle origini ottocentesche dell’università di ricerca, che ci ha dato la struttura tripartita di scienze naturali, scienze sociali e discipline umanistiche.
Questo modello, che forma gli studiosi in discipline ristrette ma profonde, è emerso dallo spostamento di 200 anni dell’Illuminismo dalle divisioni curriculari medievali del trivium (grammatica, logica e retorica) e del quadrivium (aritmetica, geometria, musica e astronomia). L’ascesa delle università di ricerca, prima in Germania e poi negli Stati Uniti, pose fine a questo sistema.
Il fatto che tali strutture accademiche siano cambiate radicalmente nel tempo dimostra che non sono intrinseche, e negli ultimi decenni si è assistito a un diffuso interesse per l’interdisciplinarietà sotto forma di programmi e centri istituzionali, nonché in nuovi campi come gli studi americani, gli studi di area e studi culturali. Tuttavia, i critici dell’interdisciplinarietà sottolineano che tali sforzi sono spesso additivi piuttosto che interattivi: cioè combinano metodi disciplinari consolidati anziché rimodellarli. Le questioni relative allo scopo, all’unità e al completamento sono state fondamentali, anche se spesso implicite, nel discorso sull’interdisciplinarietà che ha dominato le discussioni sull’organizzazione istituzionale accademica.
Naturalmente, la produzione della conoscenza non avviene esclusivamente all’interno della torre d’avorio. Fu proprio durante l’Illuminismo che scrittori come Joseph Addison chiesero che la filosofia fosse portata «fuori dagli armadi e dalle biblioteche, dalle scuole e dai college, per abitare nei club e nelle assemblee, ai tavoli da tè e nei caffè». Quel periodo vide il decollo delle società di “miglioramento”, che inizialmente si concentrarono sull’agricoltura e sulle infrastrutture pubbliche ma presto si espansero per includere le arti e le scienze in modo più ampio. Alcune di queste organizzazioni, come la Royal Society britannica (originariamente Royal Society for Improving Natural Knowledge), rimangono istituzioni importanti per colmare il divario continuo tra le università e il pubblico.
Ma altri sforzi extra-accademici hanno avuto l’obiettivo di ripudiare l’università, piuttosto che connettersi con essa. La Thiel Fellowship, fondata dal venture capitalist di destra Peter Thiel, fornisce ai beneficiari una borsa di studio biennale di 100.000 dollari a condizione che abbandonino o saltino l’università per “costruire cose nuove invece di stare seduti in una classe”. Per molti, le organizzazioni accademiche appaiono moribonde e il miglioramento continuo richiede nuovi accordi istituzionali. La fine di un accordo istituzionale spesso avviene nel nome dell’inizio di qualcosa di nuovo.
Una volta che iniziamo a cercare i fini della conoscenza, quindi, notiamo che le domande interconnesse sullo scopo e sulla completezza sono centrali in molte delle nostre imprese accademiche. Può essere facile identificare alcuni progetti di conoscenza falliti per una buona ragione: l’alchimia, la frenologia e l’astrologia, ad esempio, sono ora intese come pseudoscienze abbandonate (sebbene quest’ultima abbia assunto nuova vita nella cultura del 21° secolo). Sono stati segnalati anche decessi di altre discipline, anche se forse prematuramente. Nel 2008, Clifford Siskin e William Warner sostenevano che era giunto il momento di “scrivere studi culturali sulla storia dell’arresto”. In un post sul blog intitolato “La fine della filosofia analitica” (2021), Liam Kofi Bright ha affermato che il campo era un “programma di ricerca degenerante”.
Peter Woit ha usato un linguaggio simile per descrivere la teoria delle stringhe in un’intervista con l’Institute of Art and Ideas all’inizio di quest’anno; lo definì un “programma degenerativo” il cui obiettivo di unificazione era stato “semplicemente un fallimento”. E Ben Schmidt, nel suo blog, ha diagnosticato “un senso di declino terminale nella professione storica” dato il numero vertiginoso di posti di lavoro accademici. Questi campi hanno prodotto conoscenze preziose, ma (secondo questi autori) potrebbero averci portato il più lontano possibile.
Invece di concentrarci su un singolo campo, abbiamo intervistato i produttori di conoscenza provenienti da tutte le discipline umanistiche, sociali e naturali, all’interno e all’esterno dell’università, per rispondere alla stessa domanda: quali sono i fini della vostra disciplina? Anche se li abbiamo incoraggiati a considerare molteplici tipi di fini, non abbiamo prescritto una definizione per il termine e abbiamo riconosciuto che alcuni avrebbero rifiutato la premessa stessa. Non ci aspettavamo consenso, ma abbiamo trovato punti in comune. Questo approccio sintetico ha rivelato quattro modi chiave in cui comprendere le “fini”, che sono emersi collettivamente: fine come telos, fine come capolinea, fine come conclusione e fine come apocalisse.
Le prime due definizioni si riferiscono più direttamente al lavoro di una disciplina o di un singolo studioso: qual è il progetto di conoscenza che si sta intraprendendo e cosa significherebbe che fosse completo? La maggior parte degli studiosi si sente relativamente a proprio agio nel porre la prima domanda — anche se non ha risposte chiare — ma non ha mai considerato la seconda o considererebbe il processo di produzione della conoscenza sempre infinito, perché rispondere a una domanda porta necessariamente a nuove domande . Noi sosteniamo che, anche se ciò fosse vero, e un particolare progetto non potesse mai essere completato nell’arco della vita di un individuo, è utile avere un punto finale identificabile. Il terzo significato — terminazione — si riferisce alle pressioni istituzionali che molte discipline si trovano ad affrontare: la chiusura di centri, dipartimenti e persino di intere scuole, insieme alla pressione politica e all’ostilità pubblica.
Come possiamo arrivare da qualche parte se non sappiamo nemmeno dire dove vogliamo andare?
Su tutto ciò incombe il quarto significato, soprattutto nel contesto dell’avvicinarsi dell’apocalisse climatica, che mette in prospettiva i primi tre fini: qual è lo scopo di tutto questo di fronte agli incendi, alle supertempeste e alla mega siccità? Per noi questa non è una domanda retorica. Qual è lo scopo degli studi letterari, della fisica, della storia, delle arti liberali, dell’attivismo, della biologia, dell’intelligenza artificiale e, ovviamente, degli studi ambientali nel momento presente?
Le risposte anche per quest’ultimo campo non sono ovvie: come mostra Myanna Lahsen nel suo contributo al nostro volume, sebbene il caso scientifico sia chiuso per quanto riguarda la dimostrazione dell’effetto dell’uomo sul clima, i governi non hanno tuttavia intrapreso le azioni necessarie per evitare che il cambiamento climatico possa verificarsi. catastrofe. Gli scienziati dovrebbero quindi alzare le mani di fronte alla loro incapacità di influenzare le tendenze politiche — anzi, alcuni hanno chiesto una moratoria su ulteriori ricerche — o devono invece impegnarsi con gli scienziati sociali per portare avanti la ricerca su soluzioni sociali e politiche? Che ruolo giocano le norme disciplinari che separano le scienze, le scienze sociali e le discipline umanistiche nel mantenimento dello status quo apocalittico?
In una certa misura, quindi, i fini particolari sono meno importanti della possibilità di scoprire uno scopo condiviso. In definitiva, speriamo di mostrare quali sarebbero i benefici se i progetti di conoscenza iniziassero con il loro fine in mente. Come possiamo arrivare da qualche parte se non sappiamo nemmeno dire dove vogliamo andare? E anche se pensiamo di avere degli obiettivi, stiamo effettivamente lavorando per raggiungerli? Idealmente, un fermo senso sia dello scopo che del risultato potrebbe aiutare gli studiosi a dimostrare come stanno facendo avanzare la conoscenza piuttosto che continuare a girare a vuoto.
Come abbiamo notato, la nostra indagine ha individuato quattro idee sui fini della conoscenza: telos, terminus, conclusione e apocalisse. Ma nel rispondere alla domanda sui fini delle loro discipline, i nostri contributori sono rientrati in un altro gruppo di quattro gruppi, che attraversano la divisione universitaria in tre parti di discipline umanistiche, scienze sociali e scienze naturali. Un gruppo ha adottato l’approccio dell’unificazione: come potrebbe il campo dell’autore raggiungere una teoria o spiegazione unificata, e quanto è vicino il campo a tale obiettivo? Un secondo gruppo ha sostenuto che lo scopo e il punto finale della produzione di conoscenza è un maggiore accesso e che tale accesso è fondamentale per la giustizia sociale. Le discussioni sugli esiti utopici e distopici comprendevano un terzo gruppo, mentre un quarto individuava i propri fini nell’articolazione e nel perseguimento di concetti chiave come razza, cultura e lavoro.
Questi quattro raggruppamenti — unificazione, accesso, utopia/distopia e concettualizzazione — sintetizzano molti dei modi in cui i lavoratori della conoscenza rispondono quando viene loro chiesto di considerare i fini della loro disciplina, dalla ricerca di un punto di convergenza per la conoscenza all’articolazione del progetto centrale del loro campo. In questo modo, abbiamo chiesto ai contributori di reimmaginare il loro posto all’interno della struttura universitaria. Come sappiamo, la ricerca o la metodologia di ogni singolo studioso — quello che abbiamo chiamato il suo progetto di conoscenza — potrebbe divergere in modo significativo da quelle dei suoi colleghi all’interno di un dipartimento o di una disciplina.
La formazione dell’università nel XIX secolo stabilì le nostre tre divisioni principali di discipline umanistiche, scienze sociali e scienze naturali. Ora proponiamo un esperimento mentale di una nuova struttura in quattro parti. Come potrebbe essere un dipartimento o una divisione di unificazione o concettualizzazione? Ci stiamo chiedendo come potrebbe cambiare la produzione della conoscenza per adattarsi al momento presente se ci organizzassimo non in base ai contenuti — inglese, fisica, informatica e così via — ma in base al modo in cui comprendiamo i nostri fini.
Allo stesso tempo, questi fini sono necessariamente interconnessi e i singoli progetti di ricerca potrebbero probabilmente rientrare in più progetti contemporaneamente. Come sostiene Hong Qu nel suo contributo al nostro libro, ad esempio, i singoli ricercatori e i team che lavorano per l’apprendimento autonomo dei sistemi di intelligenza artificiale, o intelligenza generale artificiale (AGI), avranno bisogno di un’esposizione più deliberata alla filosofia morale, alle scienze politiche e alla sociologia per garantire che l’etica le preoccupazioni e le conseguenze indesiderate non vengono affrontate caso per caso o a posteriori, ma vengono anticipate e rese parte integrante dello sviluppo della tecnologia. Educatori, attivisti e politici avranno bisogno di maggiori conoscenze pratiche su come funziona l’intelligenza artificiale e cosa può o non può fare.
Raggiungere il fine immediato dell’AGI implica il perseguimento di un fine nuovo e più astratto, maggiore della somma delle sue parti disciplinari: “un quadro di governance che delinea regole e aspettative per configurare l’intelligenza artificiale con ragionamento morale in linea con i diritti umani universali e le leggi internazionali come così come i costumi locali, le ideologie e le norme sociali.” Qu esplora potenziali scenari distopici sostenendo che, se l’obiettivo di creare un’AGI etica non viene raggiunto, l’umanità potrebbe trovarsi ad affrontare una fine tecnologica. In questo modo, le attuali divisioni disciplinari stanno alimentando un senso di potenziale rovina in tutta la società.
Le strategie che ci hanno portato fin qui potrebbero non essere quelle di cui abbiamo bisogno per andare avanti.
Il ritorno all’Illuminismo mostra come le preoccupazioni sulle divisioni disciplinari siano state presenti sin dal loro inizio. Nel 1728, Ephraim Chambers, editore della Cyclopædia, si chiese “se non sarebbe stato più opportuno, nell’interesse generale dell’apprendimento, abbattere tutte le partizioni e le partizioni, e rimettere il tutto in comune, sotto un nome indistinto”. ‘. Entro la fine del secolo, la ridivisione della conoscenza era stata formalizzata nei “Trattati e Sistemi” protodisciplinari dell’Enciclopedia Britannica. Nel 1818, l’ascesa di gruppi specializzati come la Linnean Society e la Geological Society di Londra portò l’eminente naturalista Joseph Banks a scrivere: “Vedo chiaramente che tutte queste nuove associazioni finalmente smantelleranno la Royal Society”. porre fine ad alcuni tipi di conoscenza senza raggiungere i loro fini.
I confini stabiliti a metà del XIX secolo e rafforzati nel corso del XX secolo sono ora mantenuti dal punto di vista gestionale e finanziario, nonché attraverso metodi e programmi di studio; sono spesso reificati dall’architettura e dalla geografia, con i dipartimenti di discipline umanistiche e STEM ospitati in edifici alle estremità opposte dei campus. Per molto tempo queste tattiche e strategie funzionarono: diedero alle nuove discipline emerse dall’Illuminismo tempo e spazio per crescere. La disciplina offre uno strumento importante per certificare la produzione della conoscenza.
Le strategie che ci hanno portato fin qui, tuttavia, potrebbero non essere quelle di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Se il fine ultimo dell’università è o dovrebbe essere il progresso e la distribuzione della conoscenza — una questione sempre più aperta in alcuni ambienti — allora, su scala più ampia, la capacità di determinare e articolare fini condivisi tra campi della conoscenza sarebbe un passo importante verso la soluzione delle divisioni radicate a livello istituzionale, spesso controproducenti, e l’autorizzazione di nuovi sistemi e organizzazioni di produzione della conoscenza. Possiamo sfuggire al discorso della competizione e della crisi, che tende a mantenerci concentrati sullo stato di salute delle singole discipline o delle specializzazioni universitarie, riorganizzando la produzione di conoscenza attorno a domande o problemi piuttosto che a oggetti di studio? E se, invece di tentare incessantemente di analizzare e porre rimedio ai problemi di una particolare divisione, rivolgessimo la nostra attenzione al sistema di divisione stesso?
Il nostro volume è un tentativo iniziale di vedere come potrebbe apparire il progresso dell’apprendimento se venisse riorientato attorno a fini emergenti piuttosto che a strutture ereditate. La questione dei fini deve continuare ad essere perseguita su scala crescente, dal singolo ricercatore, all’ufficio o dipartimento, alla disciplina, all’università, al mondo accademico e alla produzione della conoscenza nel suo complesso. Il progetto condiviso di considerare i fini del lavoro della conoscenza rivela la ricca storia e gli investimenti accademici delle singole discipline, nonché l’obiettivo più ampio di produrre una conoscenza accurata orientata verso un mondo più etico, informato, giusto e riflessivo. Siamo, per molti versi, solo all’inizio della fine.

Pubblicato su https://aeon.co .
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Published on October 25, 2023 06:43

October 21, 2023

Il secondo cervello in una chip-pillola

Il Libro
Molto interessante la lettura di questo libro che ho fatto in “corpore vili” cioè sul mio smartphone. Una lettura contro me stesso. In effetti, da dinosauro digitale quale sono, non mi stanco mai di ripeterlo, per ricordarmi le differenze, i problemi e gli ostacoli con i quali devo confrontarmi ogni giorno, trovandomi a vivere nel quinto ventennio, attraversando una delle più spettacolari trasformazioni nel mondo della comunicazione umana.
Dico, la lettura di questo libro è stata come fare una lettura di me stesso: i famosi, canonici interrogativi chi-cosa-quando-dove-perchè che riguardano gli esseri umani, questi stessi interrogativi riguardano lo smartphone.
L’autore propone uno smartphone più democratico, più “umano” di quanto possa essere, scusate la ripetizione, l’essere umano. Mi rendo conto che la scrittura di questa recensione fatta direttamente sul mio smartphone mi porta fuori strada. Anzi, no, su di una strada che ben conosco.
Dieci anni fa, sul mio blog unideadivita, diventato archivio dopo di essere passato a MEDIUM, scrivevo del cellulare diventato smartphone in occasione della pubblicazione di un numero speciale che la rivista TIME aveva dedicato a questo secondo cervello.
L’articolo porta la data del 3 settembre 2012, esattamente dieci anni fa. Intitolavo il post “L’uomo senza fili” chiosando il settimanale. Lo ripropongo perchè è l’unico modo per ricordare a me stesso che tutto scorre verso il cambiamento che diventa poi mutazione.
UNIDEADIVITA
Uno degli ultimi numeri della rivista TIME si occupa della rivoluzione “senza fili” che sta avvenendo sulle nostre teste, senza che ce ne accorgiamo. Gran parte di questo numero dell’autorevole settimanale internazionale è dedicata al tema che il direttore Richard Stengel presenta ai suoi lettori in maniera quanto mai sintetica scrivendo: “Il cellulare è diventato una specie di super-estensione di noi stessi: più veloce, più intelligente, più affidabile e sempre acceso. Ci sono più cellulari che servizi igienici in molte parti del mondo. In media, l’attuale telefono portatile possiede più capacità computazionali di quante ne avesse l’astronave Apollo II quando sbarcò sulla luna”. Con queste premesse quanto mai stimolanti, si apre l’inchiesta che si svolge per oltre 24 pagine suddivisa in dieci temi fondamentali che sono altrettante finestre sul nostro modo di vivere e su come il mondo sta cambiando. Sono coinvolti i seguenti argomenti: la democrazia, la socialità, il mercato, la privacy, i comportamenti, la comunicazione, il modo di vedere, il modo di intrattenersi, i sistemi di apprendimento, la salute. Le nostre esistenze sono continuamente rimodulate da questo piccolo aggeggio che in poco tempo, per mezzo di continue e inarrestabili trasformazioni, ha avuto la capacità non solo di trasformare se stesso ma di condizionare e modificare il nostro modo di interagire, pensare e lavorare.
Vediamo in sintesi cosa scrivono i vari giornalisti ed esperti nell’inchiesta. Il primo tema trattato è quello della politica, o meglio della democrazia. E’ noto che Obama, con l’uso intelligente della comunicazione multimediale, ha vinto le passate elezioni. Nella attuale campagna elettorale americana si stanno impiegando centinaia di nuove applicazioni che possono essere scaricate sul cellulare, mettendo in condizione i vari partecipanti alla competizione di essere gestiti e controllati a seconda dei progetti elettorali.
Va detto che queste applicazioni, attraverso i siti sociali quali Facebook e Twitter, sono in grado di movimentare grandi masse di elettori nella gestione delle opinioni e situazioni. E’ stato accertato che nelle scorse elezioni circa il 14 % degli americani votanti hanno comunicato via cellulare il loro voto agli amici. Nelle prossime elezioni sarà interessante sapere come Obama e lo sfidante repubblicano Romney utilizzeranno questa tecnologia per indirizzare e controllare i loro elettori.
Un secondo modo in cui il cellulare sta cambiando il nostro modo di vivere lo si può vedere come i gruppi sociali e le comunità si organizzano utilizzando la messaggistica istantanea. Il così detto “Instant messaging” è quasi sempre privo di “spam” o pubblicità, è personale e ogni messaggio inviato e ricevuto viene sicuramente letto. Là dove la navigazione dei siti, la posta elettronica e le telefonate tradizionali non riescono a convogliare il messaggio, l’IM ha successo. Con esso si può arrivare dappertutto. In questo modo si possono diffondere informazioni, fare politica, raccogliere soldi, favorire un cambiamento sociale per il meglio. Anche da noi è diventato abbastanza diffuso il sistema di fare donazioni inviando messaggi al cellulare con tassa carico dell’utente.
La terza nuova realtà creata dal cellulare è collegata a questa ultima opzione di tipo economico che abbiamo appena menzionato. Il cell è destinato quanto prima a sostituire il portafoglio. E non solo questo, ma anche tutte le carte di credito. Basta avere un “chip” particolare nel telefonino, puntare l’apparecchio ad un lettore elettronico di nuova tecnologia e il gioco è fatto.
Google l’ha già introdotto e si chiama “Google wallet”. Ci sono anche altre applicazioni che in vario modo raggiungono lo stesso scopo. Ovviamente ci sono tutte le precauzioni dell’uso che non sto qui a descrivere. Basta dire che il pagamento via cellulare è già operativo. Un giornalista di TIME ha verificato per l’inchiesta la funzionalità della cosa e sembra che tutto vada per il meglio, pur se con qualche aggiustamento da fare.
La segretezza, o la privacy, è stato un altro argomento della inchiesta. Non ce ne rendiamo conto ma il cellulare sa tutto su di noi e sulla nostra vita digitale. I cellulari della nuova generazione ci mostrano al mondo non appena li accendiamo. Più telefoniamo, mandiamo messaggi, immagini, più facciamo acquisti, navighiamo in rete, più sanno di noi. Nel bene e nel male. Più nel bene, a dire il vero. Almeno finora. Molti casi di criminalità, infatti, sono stati risolti grazie al tracciamento cellulare. Ogni scena di crimine nasconde un “buco” digitale che può servire a risolvere il caso.
Ma sono emersi anche problemi di privacy e di invadenza giudiziaria o poliziesca non sempre corrette. Non fa piacere a nessuno, sia criminali che persone perbene, sapere di essere intercettati, tracciati e registrati senza saperlo o volerlo. Si parla di applicazioni micidiali che possono accedere gli altrui cellulari e infrangere ogni norma di civile convivenza. Non è solo la criminalità a giocare forte ma anche la rivalità e lo spionaggio commerciale.
La sezione dell’inchiesta che si occupa dei cambiamenti nei nostri comportamenti sembra essere molto interessante. Ormai il nostro cellulare è sempre acceso. Camminiamo, parliamo, dormiamo e siamo sempre connessi. E’ straordinario vedere come uno strumento che soltanto qualche anno fa sembrava un oggetto superfluo e ridondante, grosso quanto una scarpa, in così breve tempo, sia diventato tanto indispensabile. Il segreto del suo successo è legato ad una parola: mobilità. Ormai non sappiamo muoverci senza il cellulare.
Una volta non si usciva di casa senza il portafoglio. Oggi ne possiamo fare a meno, tanto lo sostituisce il cellulare, come abbiamo avuto modo di vedere innanzi. Davvero questo gadget senza fili contiene tutto. Il mondo è a portata di mano. Il bello è che possiamo farlo sapere a tutti. Per verificare e certificare quello che è successo in così breve tempo, i giornalisti di TIME hanno fatto alcune domande che sono autoreferenziali, nel senso che ognuno può dare la risposta che crede.
Tutte queste risposte confermeranno il fatto che il cellulare è l’uomo digitale senza fili. Alla domanda cosa pensate voi del fatto di essere connessi sempre, gran parte degli interrogati hanno risposto che è utile, di aiuto e indispensabile. Alla domanda quanto questa tecnologia senza fili abbia cambiato la vita, i più hanno detto molto per la famiglia, per la sicurezza, per le informazioni, per il lavoro e l’istruzione. Tra le funzioni più importanti del cellulare sono state menzionate l’invio di messaggi, la navigazione, le fotografie, la socializzazione.
Circa il 70% degli intervistati ha sul comodino il cellulare quando va a letto. Più della metà ha anche dichiarato che questa tecnologia aiuta il mondo del lavoro e del commercio. Un aspetto importante dell’inchiesta riguarda l’uso del cellulare come macchina fotografica. in un mondo dove apparire sembra più importante dell’essere, l’immagine ha un ruolo centrale. La fotografia ha un potere testimoniale riassuntivo dell’esistenza. Oggi ci ritroviamo un occhio fotografico ovunque. In tempo reale il mondo è diventato digitale e senza fili.
Non mi resta che aspettare. “Dai tempo al tempo”, diceva mio Padre tipografo stampatore post gutenberghiano e aveva ragione. Quanto prima non avremo nemmeno più bisogno del cellulare diventato smartphone. Diventeremo talmente “smart” (intelligenti) che una chip-pillola nel cervello ci metterà in comunicazione con il mondo. L’ho previsto come mi confermò il direttore del “Corriere della Sera” quando pubblicò la lettera che segue sul quotidiano come potete leggere qui di seguito:
Corriere della Sera 17 novembre 2019 [image error]
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Published on October 21, 2023 01:19

October 20, 2023

Tra informazione e conoscenza

Il Libro
Il libro “Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale” di Maryanne Wolf è un’opera che merita di essere letta da tutti coloro che amano la lettura e che sono interessati a capire come il nostro cervello elabora le informazioni che riceve dal mondo digitale. Ecco alcune ragioni per cui consiglio questo libro:

Approccio scientifico: La scrittrice, Maryanne Wolf, è una studiosa di neuroscienze cognitive e questo libro è il risultato di anni di ricerca e di studio. Il suo approccio scientifico rende il libro molto interessante e credibile.

Temi attuali: Il libro affronta temi molto attuali, come l’impatto della tecnologia sulla nostra capacità di leggere e di comprendere ciò che leggiamo. Questi sono temi che riguardano tutti noi e che meritano di essere approfonditi.

Stile di scrittura: Nonostante la complessità degli argomenti trattati, il libro è scritto in modo chiaro e accessibile. La scrittrice utilizza esempi concreti e casi reali per spiegare i concetti scientifici in modo semplice e comprensibile.

Importanza della lettura: Il libro sottolinea l’importanza della lettura per lo sviluppo del nostro cervello e per la nostra capacità di comprendere il mondo che ci circonda. Questo messaggio è molto importante, soprattutto in un’epoca in cui la lettura sembra essere sempre più trascurata.

In sintesi, “Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale” di Maryanne Wolf è un libro che consiglio a tutti coloro che sono interessati alla lettura e alla comprensione del mondo digitale in cui viviamo. La scrittrice offre un approccio scientifico, temi attuali, uno stile di scrittura chiaro e accessibile e un messaggio importante sull’importanza della lettura.

Il libro tratta principalmente i seguenti argomenti:
L’impatto della tecnologia sulla nostra capacità di leggere e di comprendere ciò che leggiamo. Come il nostro cervello elabora le informazioni che riceve dal mondo digitale. L’importanza della lettura per lo sviluppo del nostro cervello e per la nostra capacità di comprendere il mondo che ci circonda. Come la lettura su supporto cartaceo e quella su supporto digitale influenzano la nostra capacità di concentrazione e di memorizzazione. Come recuperare le abitudini di lettura di base e tornare ad attivare i nostri circuiti di lettura profonda. Il libro offre un approccio scientifico, temi attuali, uno stile di scrittura chiaro e accessibile e un messaggio importante sull’importanza della lettura.

Maryanne Wolf propone diverse soluzioni per migliorare la lettura digitale, tra cui:

Introdurre diverse forme di lettura, basate su testi a stampa e testi digitali, nel periodo compreso fra i cinque e i dieci anni di età. Prima dei cinque anni, i bambini dovrebbero essere tenuti il più possibile lontani dagli strumenti digitali. All’inizio il ruolo dei libri stampati deve prevalere, in modo da rafforzare le peculiari dimensioni spaziali e temporali della lettura. Gradualmente ed esplicitamente, ma non nei primissimi anni di vita, introdurre la capacità di leggere digitalmente. Far evolvere nelle nuove generazioni un cervello bi-alfabetizzato, in grado di leggere in modi distinti, usando la velocità quando è necessario, ma riservando tempo ed energie anche alla lettura profonda. Combinare la lettura su mezzi digitali con la lettura su supporto cartaceo, per un cervello bi-alfabetizzato.
Prendere consapevolezza di dove stiamo andando, di che cosa stiamo facendo con la tecnologia, e di che cosa la tecnologia fa a noi.
Educare alla lettura profonda, passando dal tldl (troppo lungo da leggere) all’arcia/pS (ascolta, ricorda, connetti, inferisci, analizza / poi SALTA!).
Inoltre, Maryanne Wolf sottolinea l’importanza di trovare la calma e la forza, o meglio la “pazienza cognitiva”, per affrontare letture lunghe e lente, capaci di risuonare dentro di noi, di aprire mondi sconosciuti e trasformarsi in riflessione, conoscenza e saggezza.

Secondo Maryanne Wolf, la lettura digitale può avere diverse conseguenze sul cervello, tra cui:

La capacità di lettura superficiale: la lettura su schermo incoraggia la capacità di lettura superficiale, che può portare a una diminuzione del pensiero critico e della sensibilità sociale.
La diminuzione della lettura profonda: la lettura digitale può portare alla diminuzione della lettura profonda tipica dei testi stampati, che è importante per lo sviluppo del pensiero critico e della sensibilità sociale.
La diminuzione della capacità di concentrazione: la lettura su schermo può portare alla diminuzione della capacità di concentrazione e di memorizzazione.
La diminuzione della capacità di empatia: la lettura digitale può portare alla diminuzione della capacità di empatia, che è importante per la comprensione degli altri e per la costruzione di relazioni sociali.

Per contrastare questi effetti negativi, Maryanne Wolf propone di introdurre diverse forme di lettura, basate su testi a stampa e testi digitali, nel periodo compreso fra i cinque e i dieci anni di età. Inoltre, propone di far evolvere nelle nuove generazioni un cervello bi-alfabetizzato, in grado di leggere in modi distinti, usando la velocità quando è necessario, ma riservando tempo ed energie anche alla lettura profonda. Infine, sottolinea l’importanza di trovare la calma e la forza, o meglio la “pazienza cognitiva”, per affrontare letture lunghe e lente, capaci di risuonare dentro di noi, di aprire mondi sconosciuti e trasformarsi in riflessione, conoscenza e saggezza.

Sono nato lettore cartaceo, ho imparato a leggere e scrivere nella piccola tipografia di famiglia mettendo insieme i caratteri mobili sul bancone di marmo della sala composizione. Mi sento un dinosauro digitale, penso che la comunicazione digitale veicola l’informazione mentre quella cartacea conduce alla conoscenza.
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Published on October 20, 2023 07:09

October 19, 2023

Il “fake English” degli Italiani

La Verità 19 ottobre 2023
Non è la prima volta che mi occupo di questo argomento: l’inglese fasullo dei miei compatrioti. Cesare Lanza è un giornalista, scrittore e autore televisivo italiano. Nella sua rubrica “La scommessa”, sul giornale “La Verità”, si è occupato della mania che i nostri connazionali hanno per la lingua inglese. So di scrivere per fatto personale e quindi sarò dichiaratamente di parte per quello che dirò.

Mia moglie e io siamo stati docenti di questa lingua per tutta la vita e ancora privilegiamo questo interesse usando la lingua di Britannia come “messaggio” per “leggere” il mondo. Alla maniera di Marshal McLuhan possiamo dire che “il mezzo è il messaggio”, nel senso pieno dell’espressione: pensiamo in maniera bilingue, usando la lingua inglese sia in cartaceo che in digitale. Inevitabile questa premessa per far capire a chi eventualmente leggerà questo post che siamo parti interessate, e anche molto.

Anglomaniaci quanto basta per far capire a chi difende giustamente la lingua italiana, ma non riesce a comprendere che la comunicazione umana è una abilità quanto mai complessa e che le lingue, tutte le lingue, interagiscono tra di loro e che tutto dipende da chi le usa.

In un mondo contemporaneo come quello di oggi, in cui ogni nostra azione, idea, pensiero e comportamento è inevitabilmente interconnesso con altre azioni, idee, pensieri e comportamenti provenienti da altre lingue, gli ibridismi linguistici provenienti da culture e realtà diverse, in forma di copie, plagi, imitazioni, scambi e prestiti, sono tanto inevitabili, quanto utili e anche necessari.

Tutto accade non più e non solo in cartaceo, ma sopratutto in digitale, alla velocità della luce. Come si dice, in tempo reale, “live”, in diretta, anche via satellite. Il punto di vista della giornalista inglese Amin Kazmin, di cui scrive Cesare Lanza, merita di essere conosciuto. Per questa ragione l’articolo me lo sono andato a leggere sul Financial Times dove è stato pubblicato. La giornalista, che parla dal suo punto di vista multiculturale, dice cose giuste e sensate. Il suo nome e cognome lo provano.

Gli Italiani fanno uso di un “fake English”, un inglese non solo “fasullo” e maccheronico, ma anche incomprensibile agli inglesi stessi. Lei dice che ““l’infatuazione degli italiani per l’inglese è iniziata durante la seconda guerra mondiale, quando le truppe americane liberarono il paese dai fascisti. Ma poiché le scuole enfatizzavano le lingue classiche come il latino e il greco antico, pochi di quella generazione svilupparono una conoscenza approfondita dell’inglese.” La giornalista inglese dice cose che ho sempre pensato, scritto e sostenuto.

Confermo che a causa di quello che la giornalista inglese chiama “enfatizzazione” delle lingue classiche, il latino e il greco, i miei connazionali, almeno di quei tempi, non hanno mai saputo costruire per loro e per il proprio paese un futuro linguistico migliore.

Chi non conosce e non capisce come funziona la comunicazione moderna e, soprattutto, non conosce non solo la la lingua inglese ma nessuna altra lingua straniera, diventa patriottico quando sente e usa termini che gli inglesi, o chi di lingua inglese, a dir poco, non usa e non capisce se non un contesto che possa essere di aiuto.

Nell’articolo viene citato Adriano Celentano per spiegare ai lettori di lingua inglese la tendenza tutta italiana a comunicare maccheronicamente e in maniera spettacolare. La Kazmin ricorda la famosa frase della sua canzone “prisencolinensinainciusol” che non faceva altro che imitare l’incomprensibile inglese-americano con una recitazione cantata in maniera spettacolare.

Prendete gli onnipresenti “self-bar”, distributori automatici della stazione ferroviaria che vendono bevande e “snack”. Non li hai visti? Forse è perché hai preso il “pullman”, un “autobus” interurbano, o hai fatto l’ “autostop”, facendo l’autostop. Forse non eri affatto in viaggio, ma eri impegnato con un “lifting”, non un allenamento ma un “lifting”. Che dire poi dei “jobs act” e dell’ “underdog” della premier?

La giornalista coglie l’occasione per intervistare una esperta linguista glottologa italiana la quale non può che confermare la tendenza degli Italiani a preferire l’inglese, anche chi lo conosce poco o per nulla: “Se usi l’inglese, trasmette modernità, freschezza, progresso tecnologico e, in un certo senso, ”status”, afferma Licia Corbolante, linguista e glottologa che si occupa di gestione e ricerca terminologica, qualità linguistica e comunicazione interculturale.

Lei sostiene che mentre molte parole inglesi, come “computer”, vengono assorbite nell’italiano con il loro significato intatto, altre assumono una nuova vita. “Sono come contenitori vuoti che possono essere riempiti con qualunque significato si voglia attribuire loro”, dice Corbolante. Anche i giovani generano molti ibridi, come i boomerata , cose che farebbero i “baby boomer”.

In voga è anche il “cringe”, tipicamente italianizzato in cringiata, qualcosa di inquietante o imbarazzante; cringissimo, il massimo del rabbrividire, e cringiometro, come valutare il imbarazzo. I puristi potrebbero rimanere inorriditi, ma per Corbolante è il dinamismo linguistico. “L’italiano è una lingua vitale”, dice. “Prendiamo materiale estraneo e lo adattiamo alle nostre esigenze. Va bene!”
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Published on October 19, 2023 22:02

I libri sono un pericolo d’incendio. “Bruciali tutti e poi brucia le ceneri”

19 ottobre 1953: settant’anni dalla pubblicazione. Nel 1953 il visionario autore Ray Bradbury (1920–2012) pubblicava un romanzo che avrebbe segnato profondamente la letteratura distopica e la nostra comprensione della libertà e della censura: Fahrenheit 451. Con il suo messaggio critico, avvincente e atemporale, questo libro è diventato un classico della narrativa e una pietra miliare della cultura contemporanea.
In occasione del settantesimo anniversario dalla pubblicazione, Mondadori porta in libreria una nuova edizione nella collana Oscar Cult. Oltre a Fahrenheit 451, questa ardente versione rinnovata anche nella veste grafica comprende un’appendice contenente i due racconti preparatori che, come un vero e proprio banco di prova, hanno portato alla scrittura dell’amato romanzo: Molto dopo mezzanotte e Il pompiere.
“Era un piacere bruciare tutto. Era un piacere particolare veder le cose divorate, annerite, trasformate. Quando prendeva la bocchetta di ottone, il gran serpente che sputava cherosene velenoso sul mondo, il sangue gli batteva alle tempie e le sue mani diventavano quelle di un fantastico direttore che esegue le sinfonie della fiamma e dell’incendio per ridurre in brandelli le rovine carbonizzate della storia.”
La nuova edizione di Fahrenheit 451: tra design contemporaneo e performatività. Ho riletto il libro e lo trovo sempre unico. Certamente Ray Bradbury conosceva Faust, in tutte le sue rappresentazioni storiche e letterarie. Io conobbi quello dell’inglese Marlowe al tempo dei miei studi universitari ed ebbi modo di confrontarlo con la figura di Montag.
Se si è un amante del romanzo o un nuovo lettore interessato a scoprire la storia straordinaria racchiusa tra le pagine di Fahrenheit 451 questa riedizione speciale del romanzo di Bradbury offre un’opportunità unica per calarsi ancora più profondamente nel mondo del pompiere Montag.
Tra cartacei e digitali, sono molti i miei libri, forse troppi, forse pochi, dipende da chi li ama, li colleziona, li conta e magari trova anche il tempo, la forza e l’intelletto per leggerli. Lecito chiedersi a che serve collezionare tanti libri, per i molti anni vissuti, tramandati da padre in figlio, da nonno a nipote.
Poi, per uno scherzo del destino o magari del diavolo, è proprio il caso di dirlo, ti capita tra le mani un libro che hai letto tanto tempo fa, facendolo studiare anche a chi forse non era ancora pronto a a leggerlo e comprenderlo.
Mi riferisco alla “Tragica Storia della Vita e Morte del Dottor Faust” scritta in forma tragica e poetica da quel poeta bandito e straordinario avventuriero che fu Christopher Marlowe. Il dramma narra la storia di Faust, uno studioso così avido di sapere da non accontentarsi del sapere accademico, della medicina e della teologia, avventurandosi nel campo della magia nera.
Siccome la ricerca autonoma e libera della verità (la filosofia o la scienza) era stata da sempre in contraddizione con la teologia dogmatica, che invece reclama obbedienza (si pensi ad Adamo, ad Icaro o a Prometeo), Faust assume le sembianze di un negromante, perché poco più che stregoni venivano visti gli scienziati ed i filosofi della natura nell’epoca dei conflitti religiosi in Europa.
Dopo aver compiuto un’invocazione nel suo studio, gli appare il diavolo Mefistofele con il quale stipula un patto: Faust avrà la conoscenza ed i servizi del servo di Lucifero per 24 anni, dopo i quali il diavolo avrà la sua anima. A questo punto, Faust prova un momento di liberazione che assomiglia ad un desiderio sconfinato d’onnipotenza.
Tuttavia, sebbene egli faccia grandi progetti per il proprio immediato futuro, e sebbene sogni di utilizzare le abilità acquisite per ottenere potere e gloria, riesce solo a compiere piccoli atti di bassa levatura.
Durante tutta l’opera, Faust viene continuamente consigliato da due angeli, uno buono e uno malvagio, simboleggianti i due lati della natura umana. Nell’ultima ora della sua esistenza, Faust dà vita al famoso soliloquio, nel quale l’opera raggiunge un altissimo livello di poesia.
Questo brano l’ho proposto per anni a tanti miei giovani studenti illudendomi di trasmettere loro non solo l’importanza della conoscenza della lingua inglese, mio obiettivo primario al tempo, ma anche la passione per la lettura e la conoscenza.Ecco, “leggere” significa “conoscere”, l’ho imparato a spese mie col tempo.
Oggi, che scopro di avere accumulato una notevole quantità sia di letture che di tempo, avverto, come Faust, questo grave peso che diventa sempre più un fardello. I libri sono tanti. Infiniti sono quelli scritti nel corso dei secoli. Chissà quanti ne dovrei ancora leggere, che non ho letto e che non potrei mai farlo. E allora, rileggo questo brano della “dannazione” e mi chiedo se non arriverò anche io a imprecare come il dottor Faust: “brucerò i miei libri!”.
Intendiamoci, non ho fatto nessun patto con nessuno, e non intendo farne. Potrei liquidare il tutto consolandomi con Qohelet il quale, oltre tremila anni fa, chiudeva il suo canto lamentandosi che si scrivevano troppi libri e che tutto era “nebbia”, ma non risolverei il problema.
Interverrebbe Montag e salverebbe tutto. La storia di Montag è un viaggio verso l’illuminazione, che rappresenta la lotta dell’individuo per affermare la propria identità e il proprio pensiero critico in un mondo che cerca di soffocarli. Una riflessione profonda sulla censura, sulla manipolazione culturale e sulla lotta per la conoscenza.
È proprio con queste pagine che Bradbury getta le basi per la storia di Guy Montag e del suo ruolo come pompiere incaricato di bruciare i libri. E proprio queste pagine, insieme a Fahrenheit 451, forniscono una visione unica del processo creativo dell’autore e offrono un’opportunità di analisi approfondita per coloro che desiderano esplorare le origini e lo sviluppo di questo cult.
Ray Bradbury, Waukegan, Illinois, 1920 — Los Angeles 2012. Narratore e sceneggiatore cinematografico, ha rinnovato il genere fantascientifico. Fra le sue opere, oltre al celeberrimo Fahrenheit 451 (1953), Addio all’estate, L’Albero di Halloween, Il cimitero dei folli, Constance contro tutti, Cronache marziane, Il popolo dell’autunno, Tangerine e Viaggiatore nel tempo.
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Published on October 19, 2023 06:15

October 15, 2023

Oltre l’orizzonte, per il migliore dei mondi possibili

Foto@angallo
Stamattina, sulla spiaggia, ho visto un gruppo di signore distese in cerchio sulla sabbia a poca distanza dal mare. Una di esse, al centro girava intorno con un oggetto che credo diffondesse un profumo e un suono, mentre in sottofondo una dolce, soffusa musica si accompagnava al silenzio tutto intorno, in un primo mattino con il cielo coperto.
Dopo di aver fermato questo momento in una foto, ho saputo che stavano seguendo un corso di meditazione, yoga, mindfulness e ayurveda. Qualcosa del genere. Troppe “cose” messe insieme che, comunque, segnalano il malessere diffuso che ci circonda in una quotidianità fatta sempre più liquida e pericolosa.
In tempi di incertezza e turbolenza, è fondamentale prendersi cura del proprio benessere interiore. La meditazione, lo yoga, la mindfulness e l’ayurveda sono pratiche millenarie che offrono strumenti potenti per affrontare le sfide della vita moderna.
In questo articolo, cercherò di esplorare come queste pratiche possono contribuire a creare il migliore dei mondi possibili in tempi difficili. Confesso di aver seguito diversi corsi del genere in Inghilterra nelle tante “Summer School” frequentate insieme a mia moglie e tanti studenti di ogni parte del mondo.
La meditazione è la ricerca di pace nel caos, una pratica che ci permette di coltivare la consapevolezza e la calma. In un mondo frenetico e iperconnesso, trovare momenti di silenzio e riflessione diventa sempre più cruciale.
La meditazione ci aiuta a rallentare, ad osservare i nostri pensieri e le nostre emozioni senza giudizio, e a trovare uno spazio di pace personale con se stessi e con il mondo.
Attraverso di essa, possiamo sviluppare una maggiore resilienza e una migliore gestione dello stress, consentendoci di affrontare le sfide quotidiane con maggiore chiarezza e serenità.
Lo Yoga cerca di unire il corpo e la mente, è una pratica che coinvolge corpo, mente e spirito. Attraverso una serie di asana (posizioni), respirazione consapevole e meditazione, lo yoga ci aiuta a ristabilire l’equilibrio e l’armonia all’interno di noi stessi. Lo yoga migliora la flessibilità, la forza e la resistenza fisica, contribuendo a mantenere il nostro corpo sano e in forma.
Durante le sessioni di yoga, ci concentriamo sul momento presente, lasciando da parte le preoccupazioni del passato e le ansie future. Questa consapevolezza ci permette di vivere nel qui e ora, godendo appieno di ogni istante.
Mindfulness è la ricerca di essere presenti nel momento, l’antico “hic et nunc”, l’arte di essere completamente presenti nel momento presente, accettando ciò che accade senza giudizio. Attraverso la pratica della mindfulness, impariamo a sintonizzarci con le nostre sensazioni, emozioni e pensieri senza lasciarci travolgere da essi.
Questa consapevolezza ci consente di rispondere in modo più efficace alle sfide e alle difficoltà della vita, anziché reagire in modo impulsivo o automatico. Ci aiuta anche a coltivare la gratitudine e l’apprezzamento per le piccole gioie e i momenti preziosi che spesso trascuriamo nella frenesia della vita moderna.
L’Ayurveda è un sistema tradizionale di medicina che ha origine nell’antica India. Il termine “Ayurveda” deriva dalle parole sanscrite “Ayur”, che significa “vita”, e “Veda”, che significa “conoscenza” o “scienza”. Quindi, l’Ayurveda può essere tradotto come “scienza della vita” o “conoscenza per vivere in modo sano”.
Un approccio olistico alla salute e al benessere, che considera l’individuo come un tutto integrato di corpo, mente e spirito. Il suo obiettivo principale è promuovere la salute e prevenire le malattie, piuttosto che concentrarsi solo sulla cura delle malattie esistenti.
Ogni individuo è unico e ha una costituzione individuale chiamata “dosha”, che è determinata da tre energie o principi fondamentali chiamati Vata, Pitta e Kapha. Si ritiene che il mantenimento dell’equilibrio tra queste energie sia essenziale.
L’Ayurveda utilizza una varietà di approcci per promuovere la salute, tra cui l’alimentazione, l’igiene quotidiana, l’attività fisica, la respirazione, il massaggio, le erbe medicinali, le terapie di purificazione e le pratiche di meditazione e yoga.
Questi metodi sono personalizzati in base alla costituzione individuale e alle esigenze specifiche di ciascun individuo. Sono stati ampiamente studiati e praticati per migliaia di anni e sono ancora diffusi in molti paesi oggi.
Se non è possibile vivere nel migliore dei mondi possibili, crearsene almeno una idea è una fattibile. Unire la meditazione, lo yoga, la mindfulness e ayurveda può essere un potente strumento per creare il migliore dei mondi possibili, anche in tempi difficili.
Sono pratiche che ci offrono un rifugio interiore, un’opportunità di connessione profonda con noi stessi e con ciò che ci circonda. Ci aiutano a sviluppare una maggiore consapevolezza di noi stessi, delle nostre emozioni e dei nostri bisogni, consentendoci di reagire in modo più equilibrato e compassionevole alle sfide che incontriamo lungo il cammino.
Terapie, pratiche, filosofie, chiamatele come volete, ci insegnano a coltivare la gentilezza e la compassione verso gli altri. In periodi di tensione e divisione, possono essere un faro di luce che di guida verso una maggiore comprensione reciproca e una società più armoniosa.
Ci permettono di sviluppare una prospettiva più ampia e un senso di connessione con il mondo che ci circonda. Attraverso la consapevolezza, riconosciamo che siamo parte di un tutto più grande e che le nostre azioni hanno un impatto non solo su noi stessi, ma anche sugli altri e sull’ambiente.
Questa consapevolezza ci spinge ad agire in modo responsabile e compassionevole, cercando di contribuire a creare un mondo migliore per tutti. In tempi difficili, come questi che stiamo vivendo, è fondamentale prendersi cura del proprio benessere interiore, guardando oltre l’orizzonte del proprio io.
Guardare oltre l’orizzonte significa spingersi oltre i limiti delle proprie conoscenze, esperienze e prospettive attuali. Rappresenta la volontà e l’apertura mentale di esplorare nuove sfide e possibilità al di là di ciò che è familiare o prevedibile.
Guardare oltre l’orizzonte implica una visione ampliata, una mentalità aperta e la capacità di immaginare e perseguire obiettivi che vanno al di là di ciò che si è già raggiunto o conosciuto. Un concetto che può essere applicato a diversi ambiti della vita, come la carriera, le relazioni interpersonali, la creatività e la crescita personale.
Guardare oltre l’orizzonte richiede il coraggio di abbandonare le proprie zone di comfort e di esplorare nuovi territori, sfidando le convinzioni limitanti e cercando opportunità che potrebbero essere al di là di ciò che ci si aspetta. Questa prospettiva è spesso associata all’aspirazione al progresso e all’innovazione.
Guardare oltre l’orizzonte implica la volontà di superare gli ostacoli e di essere aperti a nuove idee, approcci e modi di pensare. Significa essere disposti a imparare da esperienze diverse, ad adattarsi ai cambiamenti e a cercare soluzioni creative per affrontare le sfide che si presentano lungo il cammino.
Guardare oltre l’orizzonte può anche essere un invito a sviluppare una prospettiva più ampia sulla vita e sul mondo che ci circonda. Ci incoraggia a considerare le conseguenze delle nostre azioni a lungo termine e a prendere in considerazione il benessere degli altri e dell’ambiente.
Una visione olistica e globale, riconoscendo che siamo tutti interconnessi e che le nostre scelte possono influenzare il benessere collettivo. Rappresenta un invito a superare le limitazioni mentali, ad abbracciare l’incertezza e a esplorare nuove possibilità. È un atteggiamento che ci spinge a crescere, a evolverci e a contribuire a un mondo più ampio e significativo.
Lo scrittore francese Victor Hugo ha espresso una prospettiva poetica sull’orizzonte. La sua affermazione “l’orizzonte è la linea che sottolinea l’infinito” implica che l’orizzonte stesso sia un simbolo dell’infinito o dell’illimitato. Un richiamo a una visione più ampia del mondo e al potenziale per l’esplorazione e la scoperta continua.
L’orizzonte fisico, lontano e apparentemente inaccessibile, diventa un simbolo dell’infinità dell’universo e delle possibilità inesplorate che si estendono oltre i nostri confini attuali. Nella poesia e nella letteratura, l’orizzonte è spesso utilizzato come metafora per rappresentare l’aspirazione all’infinito, all’elevazione spirituale o all’oltrepassare i limiti del conoscibile.
Può rappresentare la ricerca di nuove prospettive, di nuovi orizzonti da esplorare sia fisicamente che intellettualmente. In questo senso, l’affermazione di Victor Hugo invita a guardare oltre ciò che è immediatamente visibile o comprensibile, a spingersi oltre i confini delle proprie conoscenze e comfort, alla ricerca di nuove esperienze, idee e possibilità che si estendono all’infinito.
Si tratta di un invito poetico a coltivare la curiosità, ad abbracciare l’ignoto e ad esplorare il vasto panorama dell’esistenza, lasciando che l’orizzonte ci ispiri a scoprire e a realizzare il nostro potenziale più profondo.
Nella poesia e nella letteratura, l’orizzonte è spesso utilizzato come metafora per rappresentare l’aspirazione all’infinito, all’elevazione spirituale o all’oltrepassare i limiti del conoscibile. Può rappresentare la ricerca di nuove prospettive, di nuovi orizzonti da esplorare sia fisicamente che intellettualmente.
Quando stamattina ho visto quelle dodici signore stese sulla spiaggia a fare un corso, un cocktail di meditazione, yoga, mindfulness e ayurveda, mi sono reso conto che aspiravano ad andare oltre l’orizzonte e navigare nell’infinito. Ci sono riuscite? Solo loro lo sanno.
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Published on October 15, 2023 09:22

October 14, 2023

La nuova questione sociale. L’AI cambierà l’uomo.

La digitalizzazione è una rivoluzione culturale, sociale e industriale che procede a ritmi elevatissimi e sta segnando una discontinuità con tutto quello che Homo Sapiens ha vissuto fino ad oggi. Il suo inizio affonda le radici a metà dello scorso secolo con l’invenzione dei suoi componenti principali: il transistor — l’elemento di calcolo di base che produce i dati 1 e 0 dei codici — e il microprocessore — il complesso di transistor e altri piccoli componenti che processano i dati 1 e 0 facendo calcoli ed elaborando le informazioni.
Negli ultimi settant’anni, grazie agli immensi sforzi della ricerca e alla crescita dell’industria elettronica, la dimensione dei transitor è diminuita costantemente passando dai millimetri ai miliardesimi di metro — questo è uno dei principali risultati della nanotecnologia. Grazie a questa riduzione di dimensione, il numero di transistor impacchettati nei microprocessori è aumentato corrispondentemente. Oggi in un microprocessore possono esserci miliardi di transistor che consentono potenze di calcolo impensabili sino a pochi anni fa.
Uno smartphone odierno ha una capacità di calcolo molto superiore a quella del computer che governava il modulo LEM che portò l’uomo sulla Luna per la prima volta. I microprocessori, diventando sempre più piccoli e sempre più potenti, hanno potuto essere impiegati in oggetti sempre più vari e interconnessi fra loro. Non solo computer, smartphone o sistemi robotici ma anche elettrodomestici intelligenti, quella che oggi chiamiamo domotica, automobili, aerei, satelliti. La rete internet, i social e tutte le applicazioni digitali che usiamo (si pensi ai network TV digitali) sono possibili perché esistono computer molto potenti che processano dati e immagini a velocità altissime e li immettono in reti — in fibra ottica ma, sempre più, anche wireless, come il 5G — che li propagano istantaneamente. Per questo oggi possiamo vedere un film o un evento sportivo direttamente sul nostro telefono. I dati, le immagini e tutte le informazioni da processare sono conservati in immense memorie distribuite (il cloud) che a loro volta dialogano con i supercomputer per poter addestrare gli algoritmi che elaborano le informazioni, fanno previsioni e moltiplicano i servizi per noi utenti. Disporre di dati e di potenza di calcolo consente di prevedere eventi e di simulare situazioni complesse proprio come facciamo noi umani, ma in una scala esponenzialmente più estesa.
È questa l’essenza dell’intelligenza artificiale: un sistema di accumulo di dati prelevati dall’ambiente attraverso i sensori, che vengono poi elaborati per prevedere l’evoluzione degli scenari e prendere le dovute decisioni. È solo oggi che questo approccio tecnologico ha raggiunto la sua maturità, perché è solo di recente che i supercomputer hanno ottenuto potenze di calcolo paragonabili a quelle di un cervello umano (sia pur con funzionamenti totalmente differenti, siamo oltre decine di milioni di miliardi di operazioni al secondo!!). Una delle frontiere dell’intelligenza artificiale, ad esempio, è quella di sviluppare una rappresentazione digitale della Terra e dell’essere umano.
Avere a disposizione una copia digitale del pianeta ci consentirebbe di studiare e agire poi per mitigare o annullare gli effetti delle attività umane sull’ambiente. Magari invertendo il processo di riscaldamento del pianeta o recuperando alcune aree inquinate. Le stesse tecnologie applicate alla modellazione del corpo umano, ci consentirebbero di prevedere tutte le malattie di un singolo individuo, personalizzare terapie e stile di vita. Ma senza guardare a futuri lontani, già oggi la digitalizzazione, attraverso le immagini che provengono dall’ecosistema dei satelliti che monitorano continuamente il pianeta, ci consente di verificare lo stato di salute delle infrastrutture, con la possibilità di evitare incidenti e programmare interventi. Ci dà indicazioni esatte sui livelli di inquinamento di un territorio o il grado di fertilità di un determinato terreno.
La digitalizzazione ha anche inaugurato l’era della medicina personalizzata. Poter simulare l’interazione del Dna a partire dai dati reali provenienti dal sequenziamento dei genomi dei singoli individui, ci sta consentendo di capire sempre meglio i meccanismi biologici attraverso cui rimaniamo in salute. La possibilità di conoscere il genoma del coronavirus ci ha consentito di realizzare in tempi record il vaccino per un virus sconosciuto. Simulare digitalmente l’interazione fra il nostro genoma e una cellula tumorale ci sta consentendo di comprendere come intervenire con farmaci mirati, una alternativa sempre più possibile rispetto a metodi più invasivi. Siamo agli albori della medicina personalizzata ma già da ora possiamo intravedere la prospettiva. L’orizzonte di attuazione sarà nel prossimo decennio.
Il livello di digitalizzazione di un Paese determina il suo posto nel mondo. Al pari, o forse più, del Pil, la capacità di calcolo e di storage pro capite è l’indicatore più appropriato per definire il livello di avanzamento di un Paese. Il digitale è sempre più una risorsa strategica. Se guardiamo, ad esempio, alla lista TOP500.org dei più potenti supercomputer non-distribuiti al mondo, vediamo che la nazione con la potenza computazionale complessiva più alta sono ancora gli Stati Uniti. In terza posizione, dopo il Giappone, troviamo la Cina, con quest’ultima che sta mettendo in campo investimenti senza precedenti ed è già seconda per numero di sistemi. Ma fra le prime ci sono anche Finlandia e Italia.
Si tratta di problematiche di politica industriale cruciali per un Paese che vuole restare competitivo, ma non sono le uniche. Ad un livello più strutturale, le tecnologie del digitale interrogano il cuore delle società avanzate su due questioni interconnesse e fondamentali per la loro tenuta: la crescita delle diseguaglianze e la trasformazione del mercato del lavoro. Se non governata adeguatamente, la diffusione in ogni aspetto della vita quotidiana di IA e robotica rischia, infatti, di replicare le disparità esistenti, a livello di nazioni e tra individui, garantendo i benefici dell’innovazione solamente a chi dispone di redditi elevati.
Il digital divide nell’accesso a internet è un problema già riconosciuto dall’economia dello sviluppo. Si aggiunge il fatto che non tutte le tecnologie del digitale sono pienamente mature e cost-effective. Prendiamo l’automotive: negli ultimi vent’anni, in Italia il prezzo medio di un’automobile nuova è cresciuto di quasi il 100 per cento, mentre il reddito familiare medio solamente di un quinto; e lo sviluppo dei software per la guida autonoma e l’elettrificazione, nel breve termine, rischiano di acuire ulteriormente le sperequazioni.
C’è poi il problema delle competenze, legato a quelli che il sociologo Alvin Toffler chiamava “choc del futuro”: se proiettiamo l’attuale trend di sviluppo tecnologico, che ha visto una progressiva accelerazione dell’innovazione nel corso del tempo, possiamo aspettarci che le prossime generazioni, nell’arco della loro vita, faranno esperienza di almeno tre o quattro invenzioni disruptive, capaci cioè di rivoluzionare profili professionali e organizzazione del lavoro; e chi non saprà adattarsi sarà lasciato indietro. La competitività di un Paese sarà quindi determinata anche dalla sua capacità di adattare il proprio modello di welfare e il sistema dell’educazione per supportare un turnover più elevato sul mercato del lavoro, favorire la ricollocazione e la formazione continua.
La corsa verso il primato tecnologico nella digitalizzazione determinerà la nuova gerarchia delle nazioni. È una sfida epocale per ogni Paese che voglia dirsi evoluto. Investire in Intelligenza “naturale” e in intelligenza artificiale rappresenta il miglior investimento per la prosperità e per la sicurezza di un Paese nel lungo periodo.
Roberto Cingolani
* Amministratore Delegato e Direttore Generale di Leonardo

Originally published at https://www.ilgiornale.it on October 15, 2023.

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Published on October 14, 2023 23:18

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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