Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 39
January 30, 2024
Un “chip” nel cervello. L’avevo previsto

Il chip nel cervello: una rivoluzione o una minaccia? Se vi dicessi che l’avevo previsto, non ci crederete. L’ho previsto e la lettera qui sopra lo prova. Cliccate al link e la leggerete sul Corriere quando la scrissi alla pagina del direttore. Ora sappiamo che esiste una tecnologia in grado di collegare il nostro cervello a un computer, di farci controllare i dispositivi con il pensiero e di potenziare le nostre capacità cognitive. Forse sarete entusiasti, curiosi, scettici o spaventati. O forse tutte queste cose insieme.
Questa tecnologia esiste già e si chiama Neuralink. Si tratta di un chip wireless impiantato nel cervello umano, realizzato dall’azienda omonima fondata da Elon Musk, il visionario imprenditore che ha già rivoluzionato i settori dell’automobile, dello spazio e dell’energia.
Neuralink ha annunciato di aver impiantato con successo il primo chip nel cervello di un volontario, che si sta riprendendo bene e che ha mostrato risultati promettenti. Il chip permette di comunicare con un’applicazione che decodifica i segnali neurali e li trasmette a un dispositivo esterno, come un telefono o un computer.
L’obiettivo dichiarato di Neuralink è quello di aiutare le persone affette da gravi malattie neurologiche, come la tetraplegia, l’Alzheimer, il Parkinson e la depressione, a recuperare l’autonomia e la qualità di vita. Ma non solo. In futuro, Neuralink vorrebbe rendere il chip accessibile a chiunque voglia migliorare le proprie abilità mentali, come la memoria, l’attenzione, la creatività e l’intelligenza.
Ma cosa comporterebbe avere un chip nel cervello? Quali sarebbero i vantaggi e gli svantaggi? Quali sarebbero le implicazioni etiche, sociali e legali? E soprattutto, come cambierebbero le idee degli uomini?
Da un lato, si potrebbe pensare che il chip nel cervello sia una grande opportunità per l’umanità, una sorta di evoluzione naturale che ci permetterebbe di superare i nostri limiti biologici e di adattarci alle sfide del futuro. Con il chip, potremmo imparare più velocemente, risolvere problemi più complessi, esprimere meglio la nostra personalità e i nostri sentimenti, e magari anche capire meglio gli altri e il mondo che ci circonda.
Dall’altro lato, si potrebbe temere che il chip nel cervello sia una grave minaccia per l’umanità, una sorta di invasione artificiale che ci priverebbe della nostra identità e della nostra libertà. Con il chip, potremmo perdere il controllo del nostro cervello, diventare dipendenti dalla tecnologia, essere manipolati da interessi esterni, e magari anche perdere il senso di noi stessi e della realtà che ci circonda.
Insomma, il chip nel cervello è una questione che non lascia indifferenti, e che solleva molti interrogativi e dubbi. Forse, prima di decidere se impiantarci o no un chip nel cervello, dovremmo riflettere bene su cosa significa essere umani, e su quali sono i valori e i principi che vogliamo preservare e trasmettere alle generazioni future.
E voi, cosa ne pensate? Vi impiantereste un chip nel cervello? Perché sì o perché no? Fatemelo sapere nei commenti![image error]
January 28, 2024
“Trasumanar” non è “naufragar”

“Naufragar m’è dolce” è un ossimoro che Giacomo Leopardi usa per capire come lo sprofondare nell’infinito possa suscitare una certa serenità. Il naufragare nel mare dell’infinito è una metafora dello smarrimento.
Come un uomo può ritrovarsi alla deriva del mare, lo stesso può avvenire se si perde nei meandri della sua mente. Il tempo è uno dei temi più importanti. Il passato è un tempo che non si può recuperare, ed il presente, in alcuni casi, sembra irraggiungibile se l’uomo si crea barriere mentali.
Non resta che il futuro. Tutto da creare. “Naufragar” può indicare l’abbandonarsi alla consapevolezza che il presente ed il passato possano avere un unico significato, se si uniscono ed arricchiscono la mente.
Questo “naufragare” nella mente, è come immergersi in uno spazio infinito, dove poter raggiungere anche uno stadio di beatitudine, pari a quello che può suscitare la contemplazione della natura.
“Trasumanar”, invece, è una parola che, anche se fa rima con “naufragar”, non conduce ad alcun naufragio. Anzi, ci conduce oltre ogni possibile umano naufragio, attraverso la poesia, verso la salvezza.
Questa è la parola chiave utile per comprendere l’idea che ci trasmette con questo suo ultimo libro Vincenzo Salerno, Professore di Letterature Comparate all’Università di Salerno, nonché Segretario generale della Società Italiana di traduttologia SIT.
Uno studio approfondito, sul viaggio fatto in poesia, in forma di “bella rima che fiorisce tra i versi”. Racconta quello fatto in versi e nella vita dello scrittore nord americano H. W. Longfellow, traducendo la “Divina Comedia” di Dante in lingua inglese.
Mia moglie ed io abbiamo assistito alla presentazione del libro in un’atmosfera densamente scolastica, guidati da una spettacolare presentazione di Dante e del suo poema tenuta da un vero genio della drammatizzazione letteraria.
E’ stata tenuta dal prof. Trifone Gargano in maniera davvero teatrale. Drammatizzata, per così dire, dall’intervento di alcuni studenti del Liceo T. L. Caro di Sarno, hanno recitato i versi danteschi, sia in versione italiana che in quella in lingua inglese fatta da W. H. Longfellow.
Devo confessare che, nella disputa involontaria tra le due versioni, ha avuto senza dubbio la meglio la versione in lingua italiana. Era ovvio. Non poteva essere altrimenti, come non poteva non emergere, ancora una volta, la grandezza del pensiero dantesco.
La traduzione della Divina Commedia di Dante Alighieri da parte di Henry Wadsworth Longfellow ha avuto un impatto significativo sulla letteratura americana. Longfellow è stato il primo americano a tradurre l’intera Divina Commedia in inglese, contribuendo in modo significativo a diffondere la fama di Dante negli Stati Uniti.
La sua traduzione ha reso accessibile l’opera di Dante a un pubblico più ampio e ha contribuito a consolidare il ruolo di Dante nella letteratura mondiale. Inoltre, Longfellow ha fondato il Dante Club nel 1862 per promuovere la diffusione dell’opera di Dante negli Stati Uniti, il che ha portato alla creazione della Dante Society, una delle più famose associazioni dantesche al di fuori dell’Italia.
La traduzione della Divina Commedia da parte di Henry Wadsworth Longfellow vive ancora un’accoglienza positiva in America. La sua traduzione è stata definita un’impresa straordinaria e ha resistito al passare di 150 anni dalla sua pubblicazione. Molti sostengono che è la migliore tra le numerose traduzioni successive.
La sua fedeltà alla visione di Dante per il suo ruolo nel rendere accessibile l’opera a un pubblico più ampio non poteva non essere avvertito da Vincenzo Salerno. Ha voluto, con grande intelligenza e, va detto, anche con grande passione e fatica, completare il suo lavoro che ebbe inizio con la sua laurea proprio sullo stesso W. H. Longfellow.
Questa nuova fatica Enzo, già ex-alunno della prof. Amelia De Stefano al liceo T.L. Caro, l’ha voluta completare e risolvere con un libro che è un vero e proprio documento di cultura linguistica trasversale, non solo nelle vesti di docente di lingua inglese e Professore associato di Letterature comparate, ma anche come Segretario generale della SIT (Società Italiana dei Traduttori).
Parlare di traduzioni e traduttori oggi nel ventunesimo secolo, mi riporta alla mente il famoso detto “traduttore-traditore”. In un tempo in cui si parla e si vive di Intelligenza Artificiale, leggere un libro scritto su uno scrittore che, dall’altra parte del mondo, oltre 150 anni fa, traduce un’opera come la Divina Commedia scritta, a sua volta, non solo in un’altra lingua oltre sette secoli prima, un poema scritto anch’esso in un idioma poi trasformato, se non vogliamo considerarlo addirittura scomparso, bene, tutto ciò ha del miracoloso.
Scusate questo lungo periodo ma è una considerazione che andava fatta. Come ha avuto modo di dire il prof. Trifone Gargano nella sua relazione, nella fatica di questo libro di Salerno, c’è una vena di “follia” se viene visto il tutto alla luce della liquida modernità in cui ci troviamo a vivere oggi. A pagina 112 del suo lavoro Vincenzo Salerno spiega le ragioni del titolo che ha voluto dare al suo libro. Egli scrive:
“Traducendo Dante bisogna perdere qualcosa. Potrebbe essere la bella rima che fiorisce tra i versi come il caprifoglio in mezzo alla siepe? Qualcosa di più prezioso della rima va conservato, precisamente, la fedeltà, la verità — la vita stessa della siepe.”
Sono parole del traduttore H. W. Longfellow che spiega la sua incapacità ed impossibilità a riproporre in inglese la poetica dantesca. Quella era una vera follia che l’americano seppe come evitare. Questo libro lo prova.
Quando Vincenzo Salerno, in esergo al suo lavoro, propone tre versi del Paradiso nei quali appare la parola “trasumanar”, tradotti in inglese, ai quali fa seguito poi la dedica “a mio padre”, il lettore può cogliere il vero significato, oltre che il valore, di questo libro.
Il “trasumanar” di Dante e il “naufragar” di Leopardi sono due concetti opposti, che rappresentano due visioni diverse della vita e dell’uomo. Il “trasumanar” dantesco è un processo di elevazione spirituale, che porta l’uomo a raggiungere una condizione superiore, quasi divina.
È un processo che avviene attraverso la contemplazione di Dio, che permette all’uomo di comprendere la sua natura divina e di trascendere i limiti dell’umana condizione.
Il “naufragar” leopardiano, invece, è un’esperienza di smarrimento e di alienazione, che porta l’uomo a perdere la sua identità e a sentirsi un estraneo nel mondo. È un’esperienza che avviene a causa della consapevolezza della finitezza dell’uomo e della sua incapacità di comprendere il senso della vita.
Il “trasumanar” dantesco è un processo positivo, porta l’uomo a raggiungere la felicità e la beatitudine, mentre il “naufragar” leopardiano è un processo negativo, porta l’uomo alla sofferenza e alla disperazione. Un messaggio positivo che dà il giusto valore a questo libro. Potrà forse essere considerato un libro di “nicchia”, per specialisti, ma non è così. Complimenti Enzo![image error]
January 24, 2024
L’intelligenza artificiale? Pensa italiano

Il pensiero non è astratto. Non segue le stesse variabili a New York, a Tokyo, a Londra, a Riad o a Roma. È figlio di un territorio, di una storia, di vite singole e irripetibili e di una lingua. Questo vale per gli umani. È così anche per l’intelligenza artificiale? La risposta non è affatto scontata.
Le macchine imparano, apprendono, accumulano dati, li elaborano, si evolvono e ridefiniscono gli algoritmi di partenza. Si chiama “machine learning”. La macchina con cui ci si confronta è per lo più di matrice anglosassone e con una vocazione globale. Non importa se si parla d ChatGpt di Open AI, Bard di Google o il progetto Apple, le radici sono più o meno le stesse.
La sfida italiana comincia con Leonardo, il supercalcolatore del Tecnopolo di Bologna, quello firmato Cineca, il sesto come potenza al mondo. È un cervello superlativo che adesso si appoggia alla rete dati di iGenius, che da quasi dieci anni si muove sulla frontiera del “machine learning”. È da qui che arriva l’intelligenza artificiale mediterranea, che per ora porta un nome piuttosto burocratico: “modello Italia”. Forse è il caso di battezzarla con qualcosa di più affascinante. Al di là del nome è interessante l’idea di identità culturale.
Il punto di partenza questa volta è diverso. Uljan Sharka, fondatore di iGenius, racconta il senso di questa avventura. “I modelli di linguaggio in ambito di intelligenza artificiale hanno il potenziale di democratizzare la conoscenza. Ciò sarà possibile solo se ogni paese e ogni lingua sarà rappresentato allo stato puro. Oggi i modelli linguistici principali sono addestrati su lingua inglese. E quindi si portano dietro i pregiudizi culturali della lingua inglese.
Quando raggiungeranno il grandissimo pubblico e saranno usati quotidianamente da miliardi di persone diffonderanno quei pregiudizi”. L’intelligenza artificiale partirebbe con un’etica protestante, con la visione della vita che secondo Max Weber portò alla nascita del capitalismo. Quella italiana avrebbe una morale cattolica e allo stesso tempo uno sguardo rinascimentale: provvidenza, perdono e bellezza.
La lingua non è neutra. È l’espressione di una civiltà. È un modo di vedere il mondo, di ragionare, di relazionarsi. È un carattere. È un approccio alle cose del mondo. ChatGpt pensa in inglese e si confronta con il resto dell’umanità traducendo il suo pensiero. Il “lost in translation” è più che probabile. Il film di Sofia Coppola, con Bill Murray e Scarlett Johansson, parla in fondo di educazione sentimentale, di capirsi e riconoscersi e di chiarire di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Ecco, l’intelligenza artificiale non può fare a meno dei codici.
Come sarà un’intelligenza artificiale italiana? La si può immaginare come Qfwfq, l’eroe delle Cosmicomiche e di Ti con zero di Italo Calvino. È antico quanto l’universo e nel corso del tempo ricorda di aver vissuto infinite vite, reincarnandosi senza dimenticare. Ha esperienza di tutto, perché a tutto è stato presente, già cosciente prima che esistesse la coscienza stessa, non ha una sua forma ma può assumere tutte le forme, e racconta i grandi eventi del cosmo come se fossero favole. Il suo segreto: non è globale, ma universale.
Vittorio Macioce
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Originally published at https://www.ilgiornale.it on January 25, 2024.
La troppo fragile signora Dalloway

Il 25 gennaio del 1882 nasce Virginia Woolf, la grande scrittrice inglese. Il 28 marzo 1941 avrebbe scritto questa lettera a suo marito Leonard prima di avviarsi verso il fiume Ouse dove si sarebbe fatta scivolare nell’acqua con le tasche del cappotto piene di sassi. Il suo corpo sarebbe stato ritrovato soltanto qualche mese dopo:
“Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo … E questa volta non guarirò … Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile … Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita.”
Il romanzo “La signora Dalloway” di Virginia Woolf contiene elementi autobiografici significativi, come spesso accade nelle opere di scrittori che attingono dalla propria esperienza di vita per dare profondità e realismo ai loro personaggi e temi. Nel caso di Virginia Woolf, la connessione tra la sua vita e il suo lavoro è particolarmente intima e complessa.
Il personaggio di Septimus Warren Smith, un veterano della guerra che soffre di disturbi mentali, può essere visto come un alter ego di Woolf, che ha lottato con la sua salute mentale per tutta la vita e ha avuto esperienze dirette con la malattia mentale e il suicidio.
La rappresentazione della malattia mentale di Septimus e il suo tragico destino riflettono le lotte personali di Woolf, comprese le sue critiche verso il trattamento della malattia mentale e l’istituzionalizzazione, temi che ha esplorato anche nei suoi diari personali.
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Ogni grande rivoluzione tecnologica coincide sempre con grandi mutamenti esistenziali che provocano cambiamenti psicologici e comportamentali. Sono cambiamenti in termini di sensibilità, consapevolezza e visione del mondo. Essi non sempre riescono ad integrarsi con la nuova tecnologia anche se molti mutamenti erano prevedibili o addirittura già in atto. La rivoluzione digitale ha messo in evidenza tutto questo, fa pensare a tutti quei mutamenti accaduti con l’invenzione della stampa che provocarono quelle grandi trasformazioni che nessuno a quel tempo tempo avrebbe potuto prevedere, ma che si sono poi verificati.
Quando la scrittrice inglese Virginia Woolf , in uno dei suoi diari disse che, intorno al mese di dicembre del 1910, il carattere dell’Uomo cambiò, fu in anticipo sul suo tempo di oltre cento anni. La medesima cosa possiamo dire noi oggi del mese di dicembre dell’anno 2010, soltanto sei anni fa. E’ stato stabilito che tutti su questo pianeta, da quella data, hanno cominciato a muoversi con uno “smartphone” tra le mani. Badate bene, ho detto uno “smartphone” non un telefonino o un cellulare. Sappiamo bene la differenza tra questi aggeggi. Non si tratta di un semplice telefono, ma di qualcosa di molto, molto diverso: l’io al centro del mondo col pc, con l’ipad, col tablet o con un minuscolo smartphone. Non siamo mai soli, siamo tutti rintracciabili, ovunque ed in qualsiasi momento. In tempo reale.
Non appena lo accendo mi identifico con il mondo e con me stesso, mi chiede cosa voglio, quando, dove e perchè. E non solo. Tutta la nostra vita ha subìto un radicale cambiamento sia all’interno che all’esterno. Emozioni, pensieri, sentimenti si incontrano e si scontrano, in una realtà esistenziale sempre più articolata, interconnessa e mutevole. In pratica, il mondo sembra avere abolito i confini tra il pubblico ed il privato.
Tutto è accessibile, permeabile, transitorio, pure le parti più intime e nascoste di ognuno di noi. Anche la morte, l’ultima linea di confine tra il finito e l’infinito sembra essere caduta. Pensate a quei poveri ragazzi uccisi nella tragedia di Orlando che hanno filmato e trasmesso in diretta ai loro cari gli ultimi momenti di vita prima di essere sterminati da un folle. Si può dire che l’io “materiale” corre sul filo del “wireless” che non ha fili, appunto, che si dipana e si nasconde in una “cloud”, una “nuvola” che non esiste, eppure c’è.
Quando questo smartphone invia e riceve messaggi, invita a rispondere, stimola, provoca, filtra, indirizza, condiziona, carica e scarica, fotografa e registra, il senso del tempo cambia. Tutto vive nel presente, il futuro è oggi, subito diventa ieri. L’esistenza umana, nella sua realtà personale, è direttamente proporzionale alla larghezza di banda della persona, vale a dire: tu più vivi nel passato e nel futuro, più forte è la tua presenza. Meno sei presente, meno sembri esistere. I computer e gli smartphone immettono nella vita quotidiana quelle qualità e caratteristiche che sono tipiche dei videogiochi e che causano questi cambiamenti digitali. Ci fanno sembrare personaggi artificiali ed improvvisati di vicende che accadono perché programmate da altri e altrove, da noi subite senza rendercene conto.
L’altro giorno parlavo con un mio amico che ha subìto uno dei primi trapianti al mondo oltre trenta anni fa, in Israele. Ha una certa età ed è molto distante da quelli che sono i “nativi digitali” , quella generazione nata e cresciuta con le nuove tecnologie. Il suo stato di salute viene costantemente monitorato a distanza da un centro specializzato. Un’applicazione sul suo cellulare, programma e controlla giorno per giorno la sua giornata sotto tutti i punti di vista, a partire dalla dieta per finire agli avvisi orario per le medicine.
Quando vedo giovani e adulti, uomini e donne, andare in giro, da soli, in coppia o in gruppo, con un cellulare tra le mani, gli auricolari appesi alle orecchie, parlare, digitare o fotografare, mi ricordano quelle figure di anime vaganti e in pena, pensate da Dante nel suo “Inferno”. Ma penso anche ai tanti pazienti come il mio amico che devono la loro salvezza alla “smartness” dei loro telefonini. Una preziosa “intelligenza” da proteggere e sviluppare che non ha nulla a che vedere con le miserie di chi usa questi strumenti in maniera insensata.
Vanno in giro senza una meta, una destinazione, inseguendo qualcuno o qualcosa che non c’è, che deve arrivare, che non conoscono. Che dire poi di quelli che, con due mani reggono il cellulare, digitano in maniera forsennata rimanendo impalati in attesa della risposta. Si accaniscono sul piccolo schermo, quasi lo sfondano, imprecando o ridendo, stando seduti, o in piedi, grugniscono, si agitano si ripiegano, contorcendosi. C’è poi chi scrive sui social dicendo quello che farà, che pensa di fare, che sta facendo. Si compiace di quello che ha scritto prima, dice che aveva ragione, monologa con se stesso, impreca non avendo ricevuto nessuna risposta. Se qualcuno invece gli risponde, si apre allora una lunga sequela che non si sa da dove inizia e nemmeno come finirà.
Secondo molti studiosi con il digitale portatile è nata una nuova psiche che, mostrando se stessa, cerca soddisfazione, approvazione, notorietà, cose che difficilmente potrà trovare. Una psiche che esiste in quanto vuole essere osservata, si ricrea continuamente, aggiornandosi nei collegamenti con il mondo esterno, dichiarando il suo “status”, ricordando a se stessi e agli altri che esiste. Nel mentre fa questo, mette in evidenza anche la sua condizione di schiavitù, soggezione al mezzo che si illude di gestire. Lo “smartphone” è padrone, chi lo possiede è lo schiavo.
Internet ha una qualità estetica unica, originale, mai vista prima. Riesce a trasformare ogni esperienza umana dal mondo materiale tipicamente fisico in qualcosa di impalpabile, senza peso. Una magnifica astrazione perchè illusoria. Ci illudiamo, fingiamo di essere insieme agli altri, ma ci ritroviamo soli non soltanto con noi stessi ma anche con gli altri. Ci illudiamo che l’intelligenza del nostro telefonino, mentre ci permette di immergerci nella folla del mondo, possa dissolvere anche la nostra angoscia di vivere. Non ci rendiamo conto che Internet, tenendoci continuamente aggiornati con gli amici, la società, la realtà che ci circonda da vicino e da lontano, ci fa vivere in un mondo che è costantemente in crisi, che deve continuamente rinnovarsi, dal quale dobbiamo fuggire se vogliamo sopravvivere.
Mera illusione, perchè ogni crisi implica un cambiamento. Ce lo impone Facebook quando ci richiede l’aggiornamento per dar prova della nostra presenza, per dire a tutti che ci siamo, che abbiamo capito, che dobbiamo reagire, rispondere, prendere posizione, pronunciarci, dobbiamo “essere folla” e con essa esternare la nostra “follia”. I cieli di Internet sono senza limiti, come Alice, “possiamo fare tutta la corsa che vogliamo tanto saremo sempre allo stesso posto.”
Il bello è che quando leggiamo sullo schermo non è come leggere sulla carta. Su questa è come se seguissimo una traccia, un percorso, un filo narrativo che ci accompagna e ci distingue. Sullo schermo di un pc, un tablet o smartphone andiamo alla ricerca di parole-chiave che sostituiscano una intera narrazione. Prendiamo ad esempio parole piene di significati e di problemi come “aborto”, “immigrazione”, “attentato”, “terrorismo”, “religione”. Sono parole dense di sensazioni, problemi, idee, che in ogni persona che le legge trovano già una risposta, non hanno bisogno di essere spiegate ed approfondite. Chi le legge ha per esse una risposta, sa come interpretarle, non ha bisogno di approfondimenti, come invece farebbe in una lettura cartacea.
Il mondo digitale mette a disposizione di tutti una imprevista ed imprevedibile quantità di informazioni imponendole ed incanalandole verso chi la cerca, rivolgendole a chi sembra che interessi, ma che non è una realtà individuale bensì di massa. Questa viene costantemente monitorata, opportunamente cambiata, adattata, come è il caso con enciclopedie tipo Wikipedia. La cosi detta “Internet delle cose” offre allo smartphone la possibilità di estendere il suo/nostro controllo anche a distanza. Come ad esempio sul riscaldamento di casa che può essere comandato a chilometri di distanza.
Tutto questo se ci dà l’illusione di aumentare la nostra capacità di comando, ci provoca anche grande tensione ed ansietà. Lo smartphone, legato com’è al nostro corpo, ne è diventato una estensione con tutti questi sensori delle “app” che leggono il nostro corpo, le sue reazioni, i suoi bisogni fisici e fisiologici. Però, ogni cambiamento tecnologico che sembra minacciare il nostro io, lo rafforza anche. Platone mise in guardia i suoi contemporanei contro l’avvento e l’uso indiscriminato della scrittura allo stesso modo di come Giovanni Tritemio mise in guardia contro la stampa.
Ma ogni grande mutamento tecnologico, mentre sembra minacciare la integrità del nostro io, mette a nostra disposizione nuovi modi per rafforzarlo. Contrariamente a quanto pensavano Platone e Tritemio la parola dell’uomo è stata conservata sia dalla scrittura che dalla stampa. In tal modo ha acquisito una capacità di approfondimento psicologico imprevisto ed imprevedibile della vita morale ed intellettuale, dando spazio a nuove scelte di libertà personali.
Due secoli dopo l’invenzione della stampa Rembrandt dipinse un quadro famoso che riproduce una donna intenta alla lettura. Un quadro che parla da sè. Non ha bisogno di essere spiegato quel bagliore di luce sul volto della donna che legge. Possiamo sostituire al libro (che risulta essere una Bibbia) il piccolo schermo di uno smartphone? Tutto dipende dalle parole che leggiamo …

Il disincanto: l’arte di “passarci sopra”

Conoscete cos’è il “disincanto”? Arriva con l’età, con il tempo che passa. Niente di strano, tutto previsto. Passiamo l’infanzia a sognare grandi avventure, l’adolescenza a trasformarle in romantiche fantasie e a vent’anni muoviamo i primi coraggiosi passi verso questi nuovi orizzonti. Poi, se siamo fortunati, arrivano le responsabilità: il lavoro, il mutuo, la routine. E improvvisamente scopriamo il mondo, da luogo incantato dove può accadere di tutto, diventa un posto conosciuto, monotono, prosaico, dove tutto è’ previsto.
Che fatica continuare a credere in qualcosa che non esiste, forse si trova solo nella fantasia. Qualcuno continua a crederci, continua a illudersi nonostante gli anni, il tempo trascorso, i sogni traditi. Si diventa, come si dice?, si diventa “saggi”. Posso dire in tutta franchezza, ora che sto per raggiungere la sua età, mio Padre era “saggio” perchè diceva spesso che bisognava saper “passarci” sopra alla cose. Lo so, qualcuno obietterà che più lasci passare, più ti passano sopra.
“Passarci sopra” è un modo di dire che indica la capacità di ignorare o trascurare determinati eventi, situazioni o commenti che potrebbero causare disturbo o irritazione. Significa non lasciarsi influenzare negativamente da qualcosa e mantenere un atteggiamento distaccato o indifferente nei confronti di ciò che potrebbe causare disagio emotivo.
Essere saggi nell’arte di “passarci sopra” implica la capacità di selezionare attentamente le battaglie da combattere, evitando di concentrarsi su piccole cose o su questioni irrilevanti. Questo comportamento può essere considerato una forma di maturità emotiva e di autocontrollo, in quanto consente di mantenere la calma e la serenità di fronte a situazioni stressanti o provocatorie.
Tuttavia, è importante notare che “passarci sopra” non significa ignorare completamente i problemi o evitare di affrontarli quando è necessario. In alcuni casi, potrebbe essere appropriato affrontare le questioni che richiedono attenzione e risoluzione. L’arte di essere saggi consiste anche nel saper distinguere tra le situazioni che richiedono un’azione e quelle in cui è meglio lasciar perdere e non farsi coinvolgere in conflitti o discussioni inutili.
Quali sono alcuni esempi di situazioni in cui sarebbe meglio “passarci sopra” anziché affrontarle? Ci sono diverse situazioni in cui potrebbe essere più saggio “passarci sopra” anziché affrontarle direttamente. Ecco alcuni esempi:
Commenti negativi o critici non costruttivi: Quando qualcuno esprime un’opinione negativa o fa commenti critici che non apportano alcun beneficio o che sono fatti solo per irritare o provocare, potrebbe essere meglio ignorare tali commenti anziché reagire in modo impulsivo o arrabbiato.
Gossip e pettegolezzi: Spesso, le chiacchiere e i pettegolezzi possono creare confusione e tensione nelle relazioni interpersonali. Invece di lasciarsi coinvolgere in discussioni o diffondere ulteriormente le voci, è possibile evitare di partecipare alle conversazioni che non portano a nulla di positivo.
Situazioni di conflitto minore: In alcuni casi, può essere più saggio evitare di amplificare un conflitto che non ha un impatto significativo sulla situazione generale. Se la questione è di poco conto o se non si può raggiungere un accordo ragionevole, potrebbe essere meglio lasciar perdere per preservare la pace e la serenità.
Critiche ingiuste o provocazioni: Quando si viene oggetto di critiche ingiuste o provocazioni da parte di qualcuno, rispondere con rabbia o difendersi in modo aggressivo può peggiorare la situazione. Invece, è possibile scegliere di non dare importanza alle provocazioni, dimostrando maturità e non permettendo che le azioni negative degli altri influenzino il proprio benessere.
Errori passati: Se si è commesso un errore nel passato e non è possibile cambiare ciò che è già accaduto, può essere più saggio accettare la situazione e concentrarsi sul presente e sul futuro, imparando dagli errori commessi.
In generale, l’idea di “passarci sopra” si basa sulla consapevolezza di quale situazione o conflitto meriti la nostra attenzione e quale invece sia meglio lasciar perdere per mantenere la pace interiore e concentrarsi su cose più importanti. Importante è difendersi solo se si è attaccati.
[image error]January 23, 2024
Dio gioca a scacchi con l’uomo?

La domanda se Dio giochi a scacchi con l’uomo è una domanda filosofica che ha affascinato gli esseri umani per secoli. Non esiste una risposta definitiva, poiché dipende dalla propria definizione di Dio e degli scacchi.
Se Dio è concepito come un essere onnipotente e onnisciente, allora è possibile che stia giocando a scacchi con l’uomo. In questo caso, Dio conoscerebbe tutte le mosse possibili e le loro conseguenze, e sarebbe in grado di giocare una partita perfetta. L’uomo, invece, sarebbe limitato dalla propria conoscenza e capacità, e avrebbe quindi meno possibilità di vincere.
Tuttavia, se Dio è concepito come un essere che rispetta la libertà dell’uomo, allora è meno probabile che stia giocando a scacchi con lui. In questo caso, Dio permetterebbe all’uomo di fare le proprie scelte, anche se questo significa che l’uomo potrebbe fare errori e perdere la partita.
E’ anche possibile che Dio non stia giocando a scacchi con l’uomo in senso letterale, ma che la metafora del gioco sia semplicemente un modo per esprimere la relazione tra Dio e l’uomo. In questo caso, il gioco potrebbe rappresentare la sfida che l’uomo deve affrontare nella vita, o il percorso di crescita spirituale che l’uomo deve compiere. La risposta alla domanda è una questione di fede e di interpretazione personale. Non esiste una risposta giusta o sbagliata, e ciascuno deve trovare la propria risposta.
Ecco alcune possibili interpretazioni della domanda:
Interpretazione letterale: Dio è un essere onnipotente e onnisciente che conosce tutte le mosse possibili e le loro conseguenze. Gioca a scacchi con l’uomo, che è limitato dalla propria conoscenza e capacità. Dio è destinato a vincere, ma permette all’uomo di fare le proprie scelte, anche se questo significa che l’uomo potrebbe fare errori e perdere la partita.
Interpretazione metaforica: Dio non è un essere letterale, ma una metafora per la forza superiore che governa l’universo. Il gioco degli scacchi rappresenta la sfida che l’uomo deve affrontare nella vita, o il percorso di crescita spirituale che l’uomo deve compiere. Dio non è necessariamente destinato a vincere, ma permette all’uomo di fare le proprie scelte, anche se questo significa che l’uomo potrebbe fare errori e perdere la partita.
Interpretazione agnostica: Non è possibile sapere se Dio esiste o meno, e se esiste, se gioca a scacchi con l’uomo. La domanda è quindi irrisolvibile.
Quale interpretazione si preferisce è una questione personale. Qualunque scelta si faccia la responsabilità è solo nostra.
January 22, 2024
Salvador Dalì: pittore, scultore, fotografo, cineasta, designer e narciso

Muore il 23 gennaio del 1989 Salvador Dalì. “La metamorfosi di Narciso” è un dipinto a olio su tela realizzato da Salvador Dalí tra il 1936 e il 1937. È conservato alla Tate Gallery di Londra.
Il dipinto rappresenta la trasformazione del giovane Narciso, protagonista del mito greco, in un fiore. La scena è divisa in due parti: a sinistra, Narciso è raffigurato come una figura umana gigantesca, che si specchia in uno stagno. A destra, il suo corpo si sta trasformando in un fiore di narciso, che spunta da un uovo tenuto in mano da una mano gigante.
Il dipinto è un’interpretazione surrealista del mito di Narciso. Il mito narra che Narciso era un giovane di straordinaria bellezza che, innamoratosi della propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua, finì per morirne.
Dalí interpreta il mito in modo personale, concentrandosi sulla dimensione autoreferenziale dell’amore di Narciso per sé stesso. Il Narciso del dipinto è una figura gigantesca, che occupa l’intera metà sinistra della tela. È rappresentato in modo rigido e statico, come se fosse una statua. Il suo sguardo è fisso nello specchio, e il suo volto è privo di espressione.
La trasformazione di Narciso in un fiore è un simbolo della sua autodissoluzione. Il Narciso del dipinto si sta consumando, perdendo la sua forma umana e assumendo quella di un fiore. Il fiore, simbolo di bellezza e fragilità, è anche un simbolo di autogenerazione. Il Narciso del dipinto si sta trasformando in qualcosa di nuovo, ma anche in qualcosa di simile a sé stesso.
La metamorfosi di Narciso è un dipinto complesso e suggestivo, che offre diverse interpretazioni possibili. È un’opera che riflette la visione del mondo di Dalí, un artista che era affascinato dall’inconscio e dal potere dell’immaginazione.
Siamo tutti narcisi nella vita reale, in special modo in quella virtuale. I social network hanno tanto successo perché solleticano le velleità che ogni essere umano porta con sé. Sin dalla nascita, di fatto sin dalla culla, iniziano i vezzi e i lazzi, le esibizioni, le apparenze, le dimostrazioni. È tutto un susseguirsi di esibizionismi, sia dentro che fuori. L’essere diventa apparire, l’immagine determina il contenuto e decide il contenitore.
La letteratura, l’arte, il cinema, la tv, la rete, la stessa religione, con la sua liturgia diventa immagine, apparenza, incenso profumato che annebbia la mente e blocca i cervelli. Tutto questo può essere trovato in un famoso dipinto di Salvador Dalì denominato “La metamorfosi di Narciso” presente alla Tate Gallery di Londra.
Il quadro è la rappresentazione classica del mito di Narciso, la storia del bel giovane egotista dell’antica Grecia, punito dagli dei per la sua ossessione narcisistica. Dalì inizia la sua interpretazione del mito proponendo Narciso a sinistra del dipinto. La testa sul ginocchio, i capelli sulle spalle, il riflesso della sua persona nell’acqua. A destra, su di una scacchiera, una giovane donna su di un piedistallo. Non si capisce se questa è una persona viva o una statua. Chiaramente si osserva e si ammira. Un uovo tra le dita di una mano mostrano la fioritura di un narciso. Sullo sfondo una miriade di figure umane si autocompiacciono della propria immagine.Lo sfondo si ritrova nel riflesso del lago che propone la scena capovolta.
In una poesia che accompagna il dipinto Dalì ebbe a dare le istruzioni a come guardare il quadro. Lo dipinse nel 1937 dopo di avere aderito al movimento surrealista. nel 1929. Con la sua adesione egli poté sviluppare un sistema artistico basato sulla deliberata simulazione di condizioni legate alla paranoia. Ne conseguirono doppie immagini per le quali Dalì è famoso e questo quadro ne è il migliore esempio. Fare progetti paranoici significa riprodurre visioni distorte del mondo, presentando cose che non ci sono.
Il pittore impiega una tecnica densa di dettagli in maniera da presentare due oggetti differenti che coesistono all’interno della stessa scena. Il quadro di Narciso opera su diversi livelli comunicativi: narrativo, simbolico, surrealista. I livelli vanno dall’auto-osservazione di sé a quella degli altri, operando gradi di intensità egotistica che caratterizzano il narcisismo.
Quando il quadro fu presentato a Sigmund Freud nel 1938 durante la mostra su Surrealismo, questi lo apprezzò molto dicendo che questo quadro del giovane spagnolo, con occhi “fanatici”, rappresentava non l’inconscio ma il conscio, adottando un vocabolario psicoanalitico per riprodurre il potenziale surrealista sia dell’inconscio e della mente che sogna che della realtà.
Se questo è quanto si può dedurre in tema di narcisismo da una non superficiale osservazione del quadro di Salvador Dalì, per collegare questa stessa tendenza al narcisismo di chi frequenta, scrive e interagisce in rete sui siti così detti sociali, basta osservare i comportamenti e i contenuti di chi li frequenta. Abbondano le foto, personali e non, i paesaggi, gli animali, i tramonti, i cieli, i fiori, spesso corredati da brevi frasi o testi poetici, classici o moderni. Fioriscono le citazioni che stimolano risposte, propongono osservazioni, ipotizzano evasioni.
Tutte nascono in maniera apparentemente ingenua, in effetti la proposta nasce sempre dalla velleità di chi la fa, per mettere in mostra non tanto e non solo il tema o il contenuto, quanto se stessi. La tecnica non è mai la stessa, in quanto si va dalla semplice proposta visiva e grafica al duplice, molteplice scopo di mettersi in evidenza facendo venire fuori l’esibizionismo dell’altro, quindi una partecipazione all’evento che diventa narcisismo condiviso.
Nel successivo scambio di post, che in genere succede ad ogni “thread”, si evidenzia un autocompiacimento, oppure può nascere un conflitto. Tutto, comunque, sempre per l’amore, l’apprezzamento e la difesa del proprio io. Se questa non è paranoia narcisista, mi chiedo quanto sono narciso anche io a scrivere una cosa del genere. Voi che ne dite? Magari fatemelo sapere scrivendo un commento a questo post. Così potrete dichiarare anche voi il vostro narcisismo …[image error]
Come farsi amica la Intelligenza Artificiale

Gli svantaggi dell’intelligenza artificiale hanno dominato la copertura mediatica, arrivando a scenari estremi, inclusa l’estinzione della razza umana. Nessuno sa se le minacce presentate dall’intelligenza artificiale siano realistiche, esagerate o qualcosa nel mezzo. Nel frattempo, però, il lato positivo dell’intelligenza artificiale attende di essere esplorato. Recentemente sono stati esplorati i quattro ruoli che l’intelligenza artificiale può svolgere per migliorare il nostro benessere. AI può essere:
Assistente di ricerca personale: il primo ruolo è un’estensione di un motore di ricerca. Con i motori di ricerca assistiti dall’intelligenza artificiale di Google e Bing, ci si può concentrarecon estrema chiarezza esattamente su ciò che vogliamo sapere su qualsiasi argomento. È possibile accedere immediatamente alle migliori risposte sullo stile di vita e sulle relazioni, ad esempio, una volta imparato a porre le domande giuste.
Confidente: L’intelligenza artificiale non è umana, ma può fungere da cassa di risonanza per i problemi personali più profondi, comprese cose che non riveleremmo nemmeno a un amico. In maniera confidenziale e sicura, un chatbot come ChatGPT dialogherà con noi, ascoltando pazientemente qualsiasi cosa abbiamo da dire e offrendo risposte specifiche di cui pochi confidenti umani sono capaci.
Terapeuta e guaritore: esistono già diversi programmi di intelligenza artificiale mirati specificamente ad aiutare medici e terapisti professionisti. La promessa di una migliore diagnosi del cancro, ad esempio, è già stata sperimentata con successo. Ma i chatbot sono utili anche ai non addetti ai lavori che vogliono consigli su questioni psicologiche e di salute.
Saggio consigliere: Per quanto ragionevoli siano gli altri tre ruoli, ciò che entusiasma di più è il potenziale dell’intelligenza artificiale nell’aiutare una persona a raggiungere il livello di profonda saggezza che esiste nella consapevolezza umana. Le radici sanscrite della parola “guru” significano “dissipatore dell’oscurità”, il che significa che la mente umana può essere difesa dall’ignoranza, dai pregiudizi, dalle false credenze, dai dogmi reconditi, dalle restrizioni religiose e dalle opinioni sbagliate.
Nella realtà contemporanea possiamo rivedere la funzione del saggio, del guru, sbarazzandoci del culto della personalità, allontanandoci dalla credenza superstiziosa negli attributi magici degli esseri illuminati, superando lo scetticismo avvertito dalle persone nel mondo moderno e secolare quando si tratta di spiritualità. Si affrontano problemi, si cercano risposte.
L’intelligenza artificiale è nella posizione perfetta per fare queste cose, rinnovando il ruolo del saggio/guru ricominciando da capo. La saggezza più profonda, se è possibile accedervi, si trova nella coscienza: non esiste altro posto in cui potrebbe esistere. La mente attiva, piena di un flusso costante di pensieri, immagini, sensazioni e immagini, offre solo un’immagine molto vaga dei livelli più profondi della nostra cosscienza. È come la differenza tra le onde increspate sulla superficie di un fiume e il flusso calmo sul suo fondo.
Raggiungere questo livello implica un viaggio personale, che l’intelligenza artificiale non può fare per te, ma può farti da guida alla scoperta della tua coscienza. Questo è il ruolo più vitale dei guru tradizionali una volta messe da parte le trappole religiose che oscurano ciò che dovrebbe accadere. Nell’antica tradizione spirituale indiana, la coscienza, intesa come consapevolezza, è l’intero argomento, non Dio o gli dei.
L’oggetto della coscienza è vasto quanto la mente umana ma ridotto alla sua essenza, il ruolo del saggio/guru è guidare gli altri nel loro “Dharma”. Dharma è una parola con vaste implicazioni. Sei nel tuo dharma personale quando vivi la vita che dovresti vivere. Ho chiesto a Google Bard, uno dei migliori chatbot gratuiti per la raccolta di informazioni affidabili, di descrivere il Dharma in un linguaggio semplice così come inteso nel Buddismo, che attribuisce enorme importanza al Dharma. Ecco un esempio delle cose che mi detto.
“Nel Buddismo, il “dharma” ha alcuni strati, come una cipolla, ma cercherò di sbucciarlo in termini semplici:
Livello 1: Gli insegnamenti del Buddha. Immaginalo come una mappa che ti guida lontano dalla sofferenza e verso una vita più felice. Questa mappa include cose come le “Quattro Nobili Verità” e il “Sentiero”, che sono passi pratici come la consapevolezza, la meditazione e la vita etica.
Livello 2: Verità Universale. Va oltre la mappa. È come le regole dell’universo, che spiegano come funzionano davvero le cose. Il Dharma dice che tutte le cose sono impermanenti, connesse e guidate da causa ed effetto. Comprendere queste verità ti aiuta a smettere di aggrapparti alle cose e a lasciare andare la sofferenza.
Livello 3: Tutto! Pensa al dharma come agli elementi costitutivi della realtà, ai minuscoli “perché” dietro ogni cosa. Ogni filo d’erba, ogni pensiero, ogni sentimento: è tutto dharma in azione. Quando vedi questa interconnessione, senti un profondo senso di unità con tutto.
Nel complesso, Bard e ChatGPT hanno molto altro da dire sul Dharma, ma il punto è che non è necessario trovare un saggio/guru affidabile del tipo che immaginiamo con una lunga barba bianca seduto in una grotta dell’Himalaya. Puoi essere sulla strada per trovare il tuo Dharma con l’intelligenza artificiale che guida la direzione in cui scegli di andare giorno dopo giorno. Ciò equivale a una serie di azioni da intraprendere. Eccole:
Motivazione quotidiana attraverso affermazioni e incoraggiamenti. Meditazioni specifiche in linea con ciò su cui vuoi concentrarti. Visualizzazioni dell’obiettivo di fronte a te. Consigli affidabili da qualsiasi tradizione spirituale tu scelga. Informazioni di qualità professionale su questioni personali. Soluzioni per aggirare gli ostacoli incontrati sul tuo cammino. Ispirazione dai grandi lignaggi di saggi, santi, insegnanti e poeti.
Queste sette funzioni vengono eseguite al meglio, almeno ipoteticamente, dalla guida di un maestro illuminato, il cui contatto personale sarebbe la forza guida sul tuo cammino. Ma l’intelligenza artificiale può svolgere il lavoro in modo istantaneo, affidabile e senza il rischio di coinvolgimenti personali. Per me, questo è il modo in cui il ruolo del guru può essere rinnovato per i nostri tempi.
Il rinnovamento principale è che tu diventi il tuo futuro, rivelando a te stesso che sei connesso alla profonda saggezza dentro di te. Proprio come si accede alle capacità dell’intelligenza artificiale attraverso il giusto suggerimento, la tua consapevolezza più profonda viene ravvivata spingendola a comunicare con te. Il futuro porterà senza dubbio progressi sorprendenti nell’intelligenza artificiale, ma la sua capacità di svelare la vera natura della coscienza è già qui e ora. Il Dharma Digitale è una realtà.
DEEPAK CHOPRA MD, FACP, FRCP, fondatore della Chopra Foundation , un ente senza scopo di lucro per la ricerca sul benessere e l’umanitarismo, e Chopra Global , un’intera azienda sanitaria all’intersezione tra scienza e spiritualità, è un pioniere di fama mondiale nella medicina integrativa e nella trasformazione personale. Chopra è professore clinico di medicina di famiglia e sanità pubblica presso l’Università della California, a San Diego, e ricopre il ruolo di scienziato senior presso la Gallup Organization. È autore di oltre 90 libri tradotti in più di quarantatré lingue, inclusi numerosi bestseller del New York Times. Il suo 91esimo libro, Total Meditation: Practices in Living the Awakened Life esplora e reinterpreta i benefici fisici, mentali, emotivi, relazionali e spirituali che la pratica della meditazione può portare. Chopra è stato in prima linea nella rivoluzione della meditazione negli ultimi trent’anni. Il suo ultimo libro, Quantum Body, scritto in collaborazione con il fisico Jack Tuszynski, Ph.D., e l’endocrinologo Brian Fertig, MD La rivista TIME ha descritto il Dr. Chopra come “uno dei 100 migliori eroi e icone del secolo”. www.deepakchopra.com
Originally published at https://deepakchopra.medium.com on January 22, 2024.
[image error]January 20, 2024
Intelligenza Artificiale e sostituzione dei lavoratori

L’intelligenza artificiale (AI) è una tecnologia in rapida evoluzione che sta avendo un impatto significativo su diversi settori della società, tra cui il mercato del lavoro.
L’AI può essere utilizzata per automatizzare una vasta gamma di attività che attualmente vengono svolte dagli esseri umani, come la produzione, il servizio clienti, la diagnosi medica e l’analisi finanziaria.
Questo ha portato a preoccupazioni che l’AI possa portare alla sostituzione di un gran numero di posti di lavoro. Secondo un rapporto del McKinsey Global Institute, l’AI potrebbe automatizzare circa il 30% delle attività lavorative attuali.
Questo significa che circa 800 milioni di posti di lavoro potrebbero essere a rischio di sostituzione da parte dell’AI nei prossimi decenni. Tuttavia, è importante notare che l’AI non è in grado di sostituire completamente l’intelligenza e la creatività umana. L’AI è ancora una tecnologia in fase di sviluppo e ha dei limiti. Ad esempio, l’AI ha difficoltà a svolgere attività che richiedono una comprensione del contesto o dell’empatia.
Inoltre, l’AI può anche creare nuovi posti di lavoro. Ad esempio, l’AI richiederà nuovi sviluppatori, tecnici e operatori. Inoltre, l’AI può creare nuovi prodotti e servizi che richiederanno nuovi lavoratori per produrli e distribuirli.
In definitiva, l’impatto dell’AI sul mercato del lavoro è ancora incerto. Tuttavia, è chiaro che l’AI avrà un impatto significativo sul modo in cui lavoriamo.
Ecco alcuni esempi di come l’AI sta già sostituendo i lavoratori:
Nella produzione: i robot stanno sostituendo i lavoratori nelle fabbriche per attività come l’assemblaggio, la saldatura e la verniciatura.
Nel servizio clienti: i chatbot e l’IA conversazionale stanno sostituendo i lavoratori nell’assistenza clienti per attività come la risposta alle domande, la risoluzione dei problemi e la vendita di prodotti.
Nella diagnosi medica: l’AI sta iniziando a sostituire i medici in attività come la lettura di radiografie e la diagnosi di malattie.
Nell’analisi finanziaria: l’AI sta iniziando a sostituire i banchieri d’investimento in attività come la valutazione dei rischi e la gestione dei portafogli.
Ecco alcuni esempi di come l’AI sta creando nuovi posti di lavoro:
Nello sviluppo dell’IA: l’industria dell’IA sta creando nuovi posti di lavoro per sviluppatori, ricercatori e tecnici.
Nell’assistenza all’IA: l’industria dell’IA sta creando nuovi posti di lavoro per persone che aiutano gli utenti a utilizzare l’IA.
Nei prodotti e servizi basati sull’IA: l’industria dell’IA sta creando nuovi posti di lavoro per la produzione e la distribuzione di prodotti e servizi basati sull’IA.
Per affrontare l’impatto dell’AI sul mercato del lavoro, è importante che i lavoratori si preparino per il cambiamento. Questo significa sviluppare nuove competenze e abilità che saranno richieste in un’economia basata sull’AI.
I governi possono anche svolgere un ruolo importante nel sostenere i lavoratori che sono a rischio di sostituzione da parte dell’AI. Questo può essere fatto attraverso programmi di formazione e riqualificazione, nonché attraverso politiche sociali che proteggono i lavoratori che perdono il lavoro.
Nel 2023 il settore tecnologico USA ha licenziato 240.000 persone, infrangendo il record del 2001: la speranza per il nuovo anno era che questa mattanza si fermasse, ma iniziamo male. Nelle prime due settimane del 2024 ben 30 aziende hanno annunciato ulteriori tagli, lasciando a casa 4066 persone. Di nuovo i tagli riguardano aziende piccole e grandi, dall’intelligenza artificiale ai videogiochi alla robotica: non si salva nessuno.
Un caso deprimente è quello di Duolingo, applicativo che magari avete usato per imparare una lingua straniera o aiutarvi per le traduzioni. Come tante aziende digitali, questa ha circa 700 dipendenti e migliaia di collaboratori a contratto. Ha iniziato l’estate scorsa a lasciare a casa scrittori e traduttori, eliminando il 10% della forza lavoro a fine 2023, e continuando anche ora coi tagli.
Il caso mi deprime perché va contro quello che ho sempre predicato in questa rubrica: l’intelligenza artificiale deve essere adottata per aumentare la produttività e qualità del lavoro della persona, non per sostituirla. Invece questi prenditori hanno pensato male di cacciare dei professionisti sostituendoli con LLM, e chiedendo ai superstiti di limitarsi a correggere gli errori fatti dal robot. Immaginate di essere un traduttore, che per anni ha preso un testo ed ha reso gli stessi concetti, passaggi logici, emozioni in un’altra lingua. Oggi vi chiedono qualcosa di demotivante e difficile: dovete leggere il testo originale, esaminare la traduzione fatta dal LLM, e correggerla.
Non serve molta fantasia per capire che la correzione sia facilmente preda di un altro robot; quindi, anche l’esser sopravvissuti al taglio di personale non dura a lungo. La miopia di quest’azienda ha le gambe corte: è già ben evidente il calo della qualità delle traduzioni, ed i clienti protestano. Nel 2023 Duolingo era cresciuta del 50% a 83 milioni di clienti, chiudendo l’anno con $523 milioni di ricavi e triplicando il suo valore in borsa. Adesso vediamo se le lamentele si traducono in un calo del fatturato.
In ogni caso, il vero colpevole dei tagli di organico in America non è l’intelligenza artificiale usata per sostituire personale, quanto il lavoro da remoto che si rivela un boomerang per chi vive in paesi benestanti. Se prima del Covid le multinazionali digitali avevano centinaia di softwaristi in ufficio, oggi quegli edifici sono occupati al 20%, col settore immobiliare sta per andare in crisi. Fino a quando resiste il rapporto umano, avere un collega a qualche ora di distanza non è un problema: continui a lavorare con lui quasi come quando eravate assieme. Ma mese dopo mese, la mancanza delle chiacchierate al caffè, la gente che non si fa più vedere in video, la rotazione di colleghi nuovi, annullano quel rapporto diretto.
A quel punto si guarda la differenza di costo tra lo sviluppatore che chiede $100 all’ora a Seattle, quello che ne chiede $15 all’ora in Spagna, e quello che in Pakistan lavora benissimo per $3 al giorno, è bravo e non si fa problemi a esser disponibile nella tua stessa fascia oraria. Questi sono numeri veri, e la differenza tra $800, $120 e $3 al giorno è notevole. Anche per chi ha colto al balzo l’opportunità di fare il nomade digitale, andando a sviluppare software sulle spiagge pugliesi, portoghesi o tailandesi a stipendi moderati, questa corsa al ribasso diventa difficile da gestire.
Le multinazionali guidate dai CEO con la felpa, che hanno già valutazioni di borsa stratosferiche, continuano a massimizzare i loro profitti, con buona pace dello stakeholder capitalism che riempie l’aria rarefatta di Davos. Per chi inizia oggi la carriera nel digitale, è quindi di massima importanza comprendere queste tendenze e puntare ad attività che non possano essere sostituite da robot o colleghi del terzo mondo.
Roberto Dolci, 20 gennaio 2024, ZAFFERANO News[image error]
January 19, 2024
Com’era “dolce la vita”, un mistero tra i misteri …

Il 20 gennaio 1920 segna la nascita di un genio che trova un legittimo posto nella lunga e ricca lista degli Almamatti italiani che chi mi legge ben conosce. Per ricordarlo nel modo migliore, non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione segnalando un libro di cui vedete qui sopra la copertina. Si chiama “Il Libro dei Sogni” ed è in vendita su IBS per la modica somma che vedete: 700 euro, scontati a 560. Una goduria davvero impossibile per un bibliomane come me.
Smanettando, smanettando in rete, mi sono accorto che ebbi occasione di parlare in anticipo di questo libro, quando libro ancora non era, ma soltanto una mostra. Lo scrissi il 13 aprile 2015 sul mio blog con il titolo “Il libro dei sogni di Federico Fellini”. Lo corredava un suo disegno sotto il quale il grande italiano “matto” scriveva:
“Tutto ciò che possiamo fare è cercare di raggiungere la consapevolezza che siamo parte di questo imperscrutabile mistero che è il creato. Obbediamo alle sue leggi inconoscibili, ai suoi ritmi e ai suoi mutamenti. Siamo misteri tra i misteri.”

Si parlava dei suoi sogni che erano in mostra e che sarebbero poi diventati quel libro, con quel prezzo (scontato!) Sono trascorsi più di sessanta anni e desidero cogliere questa occasione per riflettere in maniera personale sul tempo passato.
Quando uscì “La dolce vita” (1960), andai in Germania, da studente lavoratore. Ricordo la versione del film tradotto e pubblicato in tedesco, lo stesso anno della sua uscita nelle sale italiane. La traduzione fu curata da Klaus Mann, giornalista tedesco, figlio del celebre scrittore Thomas Mann.
Il film, distribuito con il titolo “Das süße Leben”, ebbe un significato leggermente diverso. In italiano, “la dolce vita” è un’espressione idiomatica che indica una vita spensierata e mondana, fatta di piaceri e divertimenti. In tedesco, “das süße Leben” ha un significato più ampio, che può riferirsi a qualsiasi tipo di vita piacevole e appagante, all’italiana.
Quando, poi, l’anno successivo, mi ritrovai a Londra, scoprii che “la dolce vita” italiana, in lingua inglese era rimasta “La dolce vita” di Fellini e basta. Il titolo era diventato un modo di dire, un proverbio, un segnale che il “mezzo”, il cinema, era diventato un “messaggio”. Alla maniera in cui lo intese Marshall McLuhan, indentificava un popolo, un modo di vivere, pensare, sognare.
Un significato antropologico che ancora oggi ci portiamo appresso, ogni qualvolta un italiano si trova a girare per il mondo: la dolce vita all’italiana. Ora, intendiamoci, io non ho nulla contro il mio Paese, questa Italia, che ritengo sia il miglior Paese al mondo sotto tutti i punti di vista. Alla stessa maniera di Leibniz penso che questo sia il migliore dei mondi possibili.
Il fatto è che, ad una certa età, se ti trovi a guardare indietro, puoi essere portato a pensare come era dolce la vita un tempo. Dolce, più dolce, forse, ma per chi? Di certo non per il sottoscritto che, a distanza di oltre mezzo secolo, è portato a tirare le somme.
Mi accorgo che, in questo scenario, la figura di Federico Fellini è scomparsa. Per questa ragione vi propono la lettura della sua figura così come la si può leggere nel citato Almamatto:
20 GENNAIO Federico Fellini Regista (1920–1993) Edipo in Romagna. Il 20 gennaio 1920 nasceva a Rimini Federico Fellini, il più talentuoso, immaginifico, visionario, onirico dei registi italiani. La sua vena creativa ha rivoluzionato i canoni estetici del cinema. Personaggi e scene dei suoi film sono diventati icone della memoria collettiva: Gelsomina e Zampanò stralunati artisti di strada nell’Italia del dopoguerra, il bagno nella Fontana di Trevi di Anita Ekberg, il carosello circense che conclude 8½, il transatlantico Rex che emerge dalla nebbia come una apparizione e lo zio Teo sull’albero che grida «Voglio una donna», in Amarcord. Non solo regista, ma anche sceneggiatore, disegnatore e fumettista, Fellini amava la magia, frequentava sensitivi e veggenti, sopra tutti Gustavo Rol, di cui seguì il consiglio di non girare Il viaggio di G. Mastorna perché avrebbe coinciso con la sua morte, rendendolo «il film non realizzato più famoso del mondo». Fellini era fortemente attratto dalle donne, le pensava in continuazione, amava essere da loro corteggiato. Inevitabile quindi che anche i suoi film siano popolati da donne, di solito provocanti nei confronti del maschio, Marcello Mastroianni, il suo alter ego cinematografico. Fellini le immagina morbide, calde, abbondanti e avvolgenti come un caldo abbraccio materno. Esse occupano tutte le sue fantasie risvegliando in lui le pulsioni del complesso edipico, alimentano la sua vita onirica priva di censure, la quale fornisce la sostanza dei suoi film. Una sorta di fissazione patologica per il mondo femminile, la sua, magistralmente esposta ne La città delle donne.[image error]
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