Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 38

February 9, 2024

“Si sta come, d’autunno, sugli alberi, le foglie”

L’8 febbraio 1888 nasce Giuseppe Ungaretti. L’autunno, i soldati. “Si sta come, d’autunno, sugli alberi, le foglie”. Questa famosa…

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Published on February 09, 2024 12:57

Il più bel regalo che puoi fare è regalare il tuo tempo agli altri

Il tempo: un dono prezioso da donare. L’affermazione “Il nostro tempo è il regalo più bello che possiamo fare agli altri” racchiude una…

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Published on February 09, 2024 07:05

Il legno storto dell’umanità

LIBERO 4 novenbre 2023

Opinioni-Opinioni-Opinioni-Opinioni-Opinioni-Opinioni-Opinioni

LIBERO 7 novembre 2023[image error]
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Published on February 09, 2024 04:29

February 8, 2024

Tutto è una meraviglia

La Meraviglia del Tutto: Un Viaggio tra Infinito e Mistero.

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Published on February 08, 2024 23:05

February 6, 2024

Beato chi sa ridere di se stesso. Non finirà mai di divertirsi.

Thomas More, è stato un politico, umanista, e santo inglese. Nato a Londra il 7 febbraio 1478, è ricordato per il suo rifiuto di accettare l’Atto di Supremazia, con cui Enrico VIII si proclamava capo della Chiesa d’Inghilterra, e per il suo successivo arresto, processo e condanna a morte. Morì decapitato il 6 luglio 1535. È stato beatificato da papa Leone XIII nel 1886 e canonizzato nel 1935. È anche noto per il suo capolavoro “Utopia”, pubblicato nel 1516, in cui descrive un’isola ideale con un sistema politico ed economico basato sull’uguaglianza e sulla giustizia. La sua figura è stata oggetto di venerazione sia da parte della Chiesa cattolica che da quella anglicana. Era noto anche per il suo senso dell’umorismo. Era un suo tratto caratteriale, oltre che un metodo: «Mi si rimprovera di mescolare battute, facezie e parole scherzose con i temi più seri. Credo che si possa dire la verità ridendo. Di certo si addice meglio al laico, quale io sono, trasmettere il proprio pensiero in modo allegro e brioso, piuttosto che in modo serio e solenne, come fanno i predicatori».

Il suo umorismo era espressione di una gioia profonda alimentata dalla fede. Mentre saliva sul patibolo, chiese all’ufficiale che lo accompagnava: «per quanto riguarda la discesa, lasciami fare da solo». Poi consigliò al boia di mirare bene perché aveva il collo un po’ corto, e una volta messa la testa sul ceppo, disse ancora scherzando di preservare la barba che gli era cresciuta durante la sua prigionia nella torre di Londra: «Essa non ha tradito, quindi non deve essere tagliata».

Non c’è che dire: “Beati quelli che sanno ridere di se stessi perchè non finiranno mai di divertirsi”. Una frase a lui attribuita. Con il tempo ho imparato a seguire questo consiglio. Va ricordato che Tommaso Moro, l’uomo che tra le altre cose inventò la parola “ utopia ”, l’hanno fatto beato e poi santo. Chissà quanto si starà divertendo nell’altra vita, con la sua testa tagliata, magari sotto il braccio. Una testa che ha una storia che merita di essere raccontata. Essa venne, infatti, esposta su una picca alla Torre di Londra. La figlia la recuperò, corrompendo un guardiano e la custodì per molto tempo. Per questo fu anche imprigionata.

Teste come queste hanno fatto la storia. Non è il caso delle altre due che corredano questo post che pure hanno una loro storia. Si tratta soltanto di autoironia e di saper ridere di se stessi. Non è detto poi che, chi si considera un dinosauro , non sappia ridere e sorridere. Ma non voglio essere troppo serioso, anche se è in gioco la mia persona. Questo volto di bambino qui di seguito sono io.

Non ricordo assolutamente nulla di questa foto. Dovevo avere non più di un paio di anni. Mi sono “ritagliato” la testa per metterla a confronto con l’altra. Non quella di Tommaso Moro che ho conosciuto soltanto a scuola. Vi lascio immaginare il vestitino che indossavo. Bianco, forse beige o color crema, pantaloncini corti, calzini arrotolati, scarpette dalla punta consunta che segnalano l’irrequietezza del tempo, seduto su uno degli scanni dei fotografi di un tempo chiamati “puff”, il “cocco” in fronte, i piedini incrociati. Il fotografo dovette lavorarci un bel pò insieme a mia mamma prima di scattare questa immagine. Ecco chi ero circa ottanta anni fa.

Ma se mi chiedete cosa pensavo vi direi una bugia. Solo Dio sapeva quello che poi sarei stato. Ora sto qui soltanto a mettere insieme i pezzi del mio vissuto. Non sono in grado di dire nemmeno quando, dove e perchè venne fatta la foto. Mio padre e mia madre potrebbero dirlo, non ho ormai loro notizie da tempo. In attesa di rivederli, prima o poi dovrà accadere di rincontrarci. Essi sanno e ricordano tutto.

Forse era Pozzuoli, Tramonti, Sarno o Napoli, ma questo conta poco. Tutta una serie di risposte a questi interrogativi si scatena, man mano che scorrono davanti ai miei occhi le scene e gli eventi del tempo passato. Tempo perduto? Non so. Penso sia inutile fare questa ricerca. Chi avrebbe mai saputo/potuto immaginare che a distanza di diversi decenni, l’altro giorno, mi sarei ritagliato l’altra immagine presa in una improvvisa ed inaspettata serie di selfie fatti in un momento di gioco?

Chi sono io oggi? Chi sono stato? Cosa sono diventato? I soliti brutali interrogativi con quel finale diabolico “perchè?” Insomma, alla ricerca del senso, sfidando il ridicolo con una smorfia che caratterizza il mio volto. Come per dire alla Pirandello: “Ma non è una cosa seria”. Alla tua età poi. Ma è proprio ora che ho scoperto l’autoironia. Una qualità troppo spesso sottovalutata, che ha invece funzioni estremamente positive nella nostra comunicazione e nelle relazioni con gli altri.

Sui social è più facile riuscire a prendersi in giro, ma non sempre le ripercussioni sono felici, il saper ridere di sé sia sul Web che nella vita reale è quasi un’arte. L’esigenza di essere veloci e accattivanti allo stesso tempo induce allo scherzo, che, tuttavia, è per lo più uno scherzare su se stessi. Ma, ancora una volta, non tutti lo sanno fare. Ma che cos’è, realmente, l’autoironia? E a cosa serve? Per definizione è la capacità di ridere di se stessi, ed è una qualità innata nella nostra personalità. Eppure la si può anche acquisire nel tempo, una volta che ci si rende veramente conto di quanti siano i vantaggi del poter prendere in giro non solo gli altri, ma prima di tutto se stessi.

“Beato chi sa ridere di se stesso, perché non finirà mai di divertirsi”, diceva Sant’Agostino. E continuò Herman Hesse: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio la propria persona”.

Psicologicamente, l’autoironia comporta diverse riflessioni. Innanzitutto, è da sottolineare il carattere di leggerezza che il ridere di sé comporta. È una leggerezza del tutto sana, non ha niente a che fare con la superficialità. È capace, infatti, di creare un dialogo tra le persone, di reciproco agio, perfino di maggior intimità. Di fronte a qualcuno capace di prendere in giro i propri limiti, siamo portati di fatto a fare altrettanto: a svelare i nostri difetti e a raccontare le nostre esperienze con l’intento di compartecipare alla vita altrui.

Si accorciano le distanze, quindi, e non solo. Si instaura un confronto maggiormente improntato alla reciproca stima. Non cercare di dimostrarsi perfetti consente al nostro interlocutore di “abbassare la guardia” e fidarsi di più. Fidarsi a raccontare le personali imperfezioni. Imperfezioni che, a questo livello di vicinanza emotiva, si ridimensionano. Smettono di essere veri e propri difetti. Si smussano le critiche altrui e, soprattutto, siamo in grado di interpretarle ora come osservazioni da ascoltare e da accettare per poterci migliorare.

Un’altro aspetto molto importante dell’autoironia diventa quello di ritrovare coraggio e fiducia in se stessi. Prendersi in giro da soli è psicologicamente la prima arma che abbiamo per sfuggire alla timidezza o al senso di vergogna, soprattutto quando ci si sente insicuri e l’autostima traballa. E’ anticipare, infatti, qualsiasi giudizio altrui ci possa venire poi posto, mostrandoci consapevoli di noi fino a giungere perfino ad azzittire queste critiche.

Giudizi e disapprovazione spesso sono dettati da emozioni di invidia, di gelosia, di superbia: sapersi porre in ridere annulla immediatamente il carattere eccessivamente competitivo della relazione e, anzi, spesso tramuta il “nemico” in un complice. Senza imbarazzi e sentimenti di inadeguatezza, con molta più simpatia reciproca.

Quella vergogna e bassa autostima iniziale si tramuta con estrema facilità in sicurezza personale e maturità. Sono solo le persone più intelligenti quelle che scelgono l’utoironia, tant’è che spesso questa è proprio una delle qualità vincenti per un Leader. Viene dominato l’ego e l’autorità sterile di una persona, che diventa capace di giocare con sé e con gli altri sviluppando una forte empatia. Esattamente quella virtù, l’empatia, che sta alla base del carattere vincente della leadership: autorevolezza e continuo confronto con opinioni ed emozioni altrui.

Sono, dunque, solo le persone forti a saper ridere di sé? Sì, certo, anche se ironici si può diventarlo. Perché riuscire a fare autoironia significa aver maturato coscienza e consapevolezza della propria personalità, inclusa ogni fragilità. Saper guardare indietro, pensando ad eventi vissuti nella dimensione del tempo, e saperli misurare con quello attuale, significa riviverli in una luce del tutto diversa, se non opposta. L’elemento che si credeva tragico si trasforma quasi in comico. Ci vien da sorridere se non proprio ridere.

Ridere fa bene al corpo, e non è uno scherzo. Oltre ad essere il miglior collante per le relazioni umane, lo è anche con la relazione che ognuno di noi deve avere con se stessi. A livello fisiologico, il riso/sorriso è un’espressione del tutto incontrollabile, ed è auspicabile che sorga e nasca per rivedere occasioni di rabbia o di ira, di conflitto e di contrasto.

Un comportamento del genere esprime genuinità, soprattutto si rivela il miglior antidepressivo naturale. Ridendo aumentano le endorfine e, in particolar modo, la dopamina, ovvero l’ormone del benessere che agisce da vero e proprio antidolorifico. Si innalza la soglia del dolore fisico perché le contratture muscolari inconsce — dovute principalmente ad una somatizzazione dello stress — si rilasciano. Potremmo dire che “si ritrova il tempo perduto”.

Ho letto che alcuni studi sulla risata di un solo minuto, una risata autentica, equivale a ben 45 minuti di massaggi rilassanti su tutti i muscoli dell’organismo. A livello cardiaco, poi, avviene un subitaneo aumento delle pulsazioni: ne consegue una maggior ossigenazione del sangue e un innalzamento vero e proprio delle difese immunitarie. Ridere di sé, insomma, non solo crea empatia, simpatia, sicurezza in se stessi, ma è un vero e proprio toccasana per il nostro sistema immunitario.

Ma come si fa a diventare autoironici? Occorre spezzare la rigidità del pensiero logico deduttivo, quello che pare il più coerente e ragionevole perché va in genere verso il senso comune. Provare ad andare controcorrente, mettendo in moto il Pensiero Laterale . Quello che spiazza, stupisce, ferma il flusso dell’attenzione proprio perché va in senso contrario. E appare irriverente, proprio come il saper ridere di sé. Non perdere mai di vista quelle fatidiche domande chi-cosa-quando-dove-perchè rivolte prima a se stessi e poi alla realtà che ci circonda. Facendole, si scopriranno sempre risposte diverse. Ci sarà soltanto da riderci su. Senza riuscire mai a capire il “perchè” …

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Published on February 06, 2024 13:11

February 3, 2024

I venti anni di Facebook

La domanda è: venti anni di Facebook ci hanno fatto migliori o peggiori di quello che eravamo venti anni fa? Il 4 febbraio dell’anno del Signore 2004 nacque un “bambino” con un nastro azzurro in un dormitorio all’Università di Harvard.
Ricordo vagamente quando, qualche tempo dopo il lancio della piattaforma, con tutti i dubbi, le incertezze e le incognite del caso, mi iscrissi alla nuova piattaforma. Se ne parlava sui giornali, ma nessuno avrebbe immaginato quello che poi sarebbe diventato.
Non ero un novellino di luoghi cosidetti “social”. Avevo una esperienza quasi decennale alle spalle, fatta sempre nel campo dei libri. Avevo anche frequentato un corso tenuto online tenuto a pagamento dall’Università di Londra sulla Formazione Digitale, sapevo quindi come muovermi in questi spazi.
La Rete mi aveva attirato nei suoi fili, tuttora ne sono accalappiato e non credo potrò mai liberarmene. Molti si chiedevano quanto tempo sarebbe durato. A distanza di venti anni ci chiediamo quanto durerà ancora e come cambierà. Me lo chiesi in un post che scrissi su questo argomento quando il “bambino” compì dieci anni.
Il bambino è diventato quasi adulto ormai, ha cambiato non solo l’America dove è nato, ma il mondo intero. E’ vero, sono nati altri “bambini social” che cercano di frenarlo, possiamo dirlo, senza riuscirci. Un compleanno come questo ci offre l’occasione di fare qualche utile considerazione sui cambiamenti e le mutazioni nelle abitudini, nei modi di pensare e interagire che Facebook ha avuto su tutti noi.
Ci sono stati principalmente diversi cambiamenti nei nostri comportamenti da quando Facebook, e con esso gli altri social, si sono impadroniti delle nostre abitudini. Facebook ci ha fatto sentire tutti più giovani, facendoci ringiovanire con la passione per tutto ciò che appare.
La fotografia è diventata una vera e propria droga sociale. Scomparse, o quasi, le macchine fotografiche, divorate dai cellulari, la mania per le immagini è diventata globale. E’ nata una economia chiamata la “me-economia” che ha messo al centro del mondo il nostro io.
Non si tratta soltanto di scambiarsi dei momenti di vita. In una immagine c’è tutto un mondo di sentimenti, passioni, amori, narcisismo, inganni, tradimenti, dolori e passioni che non solo ci accompagnano, ma ci annientano anche, mettendo a nudo la nostra realtà che non risulta poi essere sempre tanto bella.
Ma tutto ciò ha generato anche ansia, insicurezza, oscenità, paure, depressione. Facebook, con gli altri social e con tutta quella figliolanza che hanno generato, le cosi dette “app”, vere e proprie estensioni della piattaforme sociali, hanno fatto il resto.
Era inevitabile che ci fossero forti ripercussioni di ordine psicologico, sociale e culturale specialmente nei giovani. L’interazione umana è stata completamente alterata. La messaggistica sociale ha sostituito quella reale e personale.
Un altro profondo cambiamento è l’idea di “privacy” la quale, se prima era “privata” per definizione, ora è diventata sempre più pubblica. I “likes” e i “dislikes”, i nomi ed i cognomi, veri o falsi, le intimità, gli esibizionismi, le comunicazioni, le esternazioni, le improvvisazioni, il flusso continuo di una comunicazione inarrestabile, incontrollata: non sai più distinguere il vero dal falso.
Tutto questo pensatelo in forma di dati, vi accorgerete che i social, sono diventati delle vere e proprie banche contenenti ricchi, preziosissimi dati che ognuno di noi offre gratuitamente al primo social nel quale decidiamo di entrare. Sono ormai oltre tre decenni che navigo in Rete, almeno la metà della mia vita è quindi “digitale”.
Navigando, capita spesso di imbattermi in spazi che conservano qualche mio scritto, immagine, pensiero o altro, completamente dimenticati. Nulla scompare nella realtà digitale, anche se non è sempre possibile scovarlo.
Questo “tempo-spazio” non l’ho venduto, nessuno l’ha comprato, è stato regalato alla Rete, a Facebook, a Google. Lo abbiamo messo a disposizione di chi sa come muoversi tra quelle entità che chiamiamo “bits & bytes”.
Ne volete un esempio? Una astuta piattaforma, anche essa social, non a caso chiamata “My Social Book”, mi ha stampato in cartaceo tutto ciò che ho scritto e pubblicato in un anno su Facebook: “il libro della mia vita”. In soltanto pochi attimi, facendo seguito al mio ordine, sempre online, l’app ti propone la stampa di un libro con una selezione automatica dei tuoi pensieri ed immagini.
Momenti virtuali e digitali immediatamente versati su carta ed inviati al committente via posta a casa dietro pagamento. Non ho capito bene in quale parte del mondo fisico e reale questa gente lavora, calata nel mondo virtuale. Il servizio è offerto in tutte le lingue. Vi pare poco una cosa del genere?
Ma Facebook è stato anche molto altro in questi ultimi anni. Pensate al tipo di comunicazione che riguarda quella vera e propria arte che si chiama “politica”. Machiavelli credo ne sarebbe stato entusiasta. Fb, come tutti gli altri social, è diventato il messaggio. Si è avverato platealmente quello che previde Marshall McLuhan oltre mezzo secolo fa: “il mezzo è il messaggio”.
Da questa o da quell’altra parte del pianeta, un continuo rimbalzare di comunicati, interviste, discorsi, notizie vere o false, condivise o respinte. Informazione, disinformazione, controinformazione, ognuno può dire quello che pensa, sentirsi quello che non è, proporre quello che non sa, scegliere quello che non capisce.
Dopo soltanto venti anni, questo “giovanetto sociale” è riuscito a cambiare il mondo. Per il meglio o per il peggio? Difficile dirlo. Folte sono le schiere dei sostenitori e degli oppositori a questo tipo di mondo e di vita vissuta “socialmente” legata e condizionata da una tecnologia che è sempre più invadente, fredda ed aggressiva, al servizio di un mercato sempre più avido di denaro e di potere.
Difficile prevedere cosa accadrà quando Facebook diventerà grande, diciamo avrà trenta anni. Il che significa prevedere, pensare il futuro. Uno sport nel quale nella storia del campionato del vivere, gli uomini hanno sempre perso la partita. Il futuro non si costruisce, non si prevede: accade. Nel momento stesso in cui questo succede, è già passato.
Uno psicologo della comunicazione ha detto che con Facebook ci illudiamo di “essere al centro della comunità. Così abbiamo perso il luogo reale dove incontrarci”. Non sono d’accordo. FB, da strumento espressivo per raccontare noi stessi, è diventato uno strumento relazionale.
Lo si usava come una sorta di diario condiviso, ma è diventato un vero e proprio organizzatore sociale. Vi pare poco? Rispetto agli altri social FB non sembra essere lo strumento perfetto, ma chi lo frequenta è un soggetto maturo, riflessivo, non aggressivo e rumoroso come i giovani su Tik Tok o Instagram.
Nel campo relazionale e con l’arrivo di AI, ritengo che FB crescerà ancora e sempre in meglio. Saprà tutto di noi, noi sapremo comprenderci meglio e relazionarci con il mondo che decidiamo di condividere e di conoscere.
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Published on February 03, 2024 10:16

February 1, 2024

“Mattino e sera”: un capolavoro di introspezione

I Libri di Jon Fosse
“Mattino e Sera” di Jon Fosse, premio Nobel 2023 per la letteratura, è un libro che affascina e commuove con la sua tecnica narrativa unica, il flusso della coscienza e il potere dell’indicibile. È un capolavoro d’introspezione che ci guida attraverso le profondità dell’animo umano, rivelando emozioni e pensieri che spesso sfuggono alle parole.
La tecnica narrativa è straordinaria. Attraverso una scrittura delicata e poetica, riesce a catturare l’essenza di momenti fugaci e a trasmetterli al lettore in modo intenso. Il libro è diviso in brevi capitoli, ognuno dei quali rappresenta un frammento di tempo, un istante nella vita dei personaggi. Questa struttura frammentaria richiama l’idea che la vita stessa sia fatta di momenti fugaci che si susseguono inesorabilmente.
Il flusso della coscienza è un elemento predominante in questo romanzo. Fosse ci conduce attraverso i pensieri interiori dei suoi personaggi, consentendoci di entrare nella loro psicologia e di percepire le loro emozioni più profonde.
La narrazione si sviluppa come una sequenza di monologhi interiori, senza interruzioni o punti di vista esterni. Questo stile letterario ci fa sentire come se fossimo immersi nella mente dei protagonisti, creando un legame intimo tra lettore e personaggio.
Ciò che rende “Mattino e Sera” ancora più straordinario è il suo uso del non detto e dell’indicibile. Fosse riesce a veicolare emozioni e significati attraverso ciò che non viene esplicitamente detto. Me ne sono già occupato in un precedente post, non posso che ripetermi appassionato come sono di tutti ciò che parla di comunicazione.
La sua tecnica sottintende l’impiego di una vasta gamma di sentimenti inesprimibili, lasciando spazio all’interpretazione personale. Questo rende il romanzo estremamente coinvolgente, poiché il lettore è chiamato a riempire i vuoti con la propria esperienza e sensibilità.
Fosse affronta temi universali come l’amore, la morte, la solitudine e la ricerca di significato nella vita. Le sue parole sono intrise di una profonda malinconia e di una struggente bellezza, che si manifestano attraverso un linguaggio poetico e immagini evocative.
Il silenzio e la solitudine permeano il romanzo, creando una atmosfera sospesa e riflessiva. “Mattino e Sera” è un libro straordinario che utilizza la tecnica narrativa, il flusso della coscienza, il non detto e l’indicibile per esplorare i recessi dell’animo umano.
È un’opera che richiede una lettura attenta e riflessiva, ma che ricompensa abbondantemente con la sua bellezza e profondità. Se siete appassionati di libri che esplorano la complessità dell’esistenza umana, non potete fare a meno di immergervi in questo capolavoro di Jon Fosse.
“Mattino e Sera” non è un romanzo ma è considerato una lunga novella, coinvolgente per il lettore per diversi motivi. Jon Fosse si avvale di un flusso di coscienza e di una struttura frammentaria, crea un’immersione profonda nella psicologia dei personaggi.
Il lettore si trova a condividere i loro pensieri più intimi e le loro emozioni più profonde, stabilisce un legame intimo con le vicende narrate. L’uso del non detto e dell’indicibile rende il romanzo estremamente coinvolgente.
Fosse lascia spazio all’interpretazione personale del lettore, invitandolo a riempire i vuoti con la propria esperienza e sensibilità. Questo coinvolgimento attivo del lettore nella costruzione del significato rende la lettura un’esperienza personale e unica. La bellezza poetica del linguaggio contribuisce ulteriormente al coinvolgimento del lettore.
Le parole sono intrise di una malinconia struggente e di immagini evocative, che creano un’atmosfera sospesa e riflessiva. Il lettore viene catturato dalla potenza e dall’eleganza delle parole, che lo trasportano in un mondo emotivo intenso e profondo.
I temi universali affrontati nel romanzo, come l’amore, la morte, la solitudine e la ricerca di significato, risuonano nell’animo del lettore. “Mattino e Sera” tocca corde profonde e universali dell’esistenza umana, suscitando empatia e riflessione. Il lettore si trova a confrontarsi con le grandi domande della vita, esplorando le complessità dell’essere umano in modo coinvolgente e appassionante.
Jon Fosse ha scritto altri libri nello stesso genere di “Mattino e sera”. Ad esempio, “The Other Name: Septology I-II” è un altro libro di Fosse che segue la vita di un artista norvegese e che è stato descritto come un romanzo metafisico e ipnotico. “Melancholy” e “Melancholy II” sono altri libri che esplorano temi simili di vita, morte e solitudine.
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Published on February 01, 2024 11:19

James Joyce: torturò la lingua inglese

James Joyce nasce a Dublino il 2 febbraio del 1882. Per capire come la pensava questo grande della letteratura inglese basta riportare una sua frase:
“Ciò che chiedo al mio lettore e’ di dedicare la sua intera vita allo studio dei miei libri”.
Categorico, non vi pare? Ne aveva ben ragione, se pensiamo a quello che ha scritto. Opere come “Ulisse” (1922) e “La veglia di Finnegan” (1939); un romanzo autobiografico “Ritratto dell’artista da giovane” (1916) ed una raccolta di racconti “Storie di Dublino” (1914).
Venne educato dai Gesuiti, ebbe la possibilità di conoscere una prostituta all’età di 14 anni e potè sapere tutto del sesso. Lasciò gli studi di medicina e voleva diventare un uomo di spettacolo. In un albergo di Galway conobbe una cameriera di nome Nora Barnacle all’età di 22 anni quando cominciò ad immaginare la struttura dell’Ulisse, dopo il suo primo incontro con lei, il 16 giugno del 1904.
Una data questa che ha una ricorrenza annuale e viene celebrata come il “Bloomsday”, dal nome del protagonista del libro Leopold Bloom. Poco tempo dopo l’incontro con Nora decisero di lasciare l’Irlanda e scappare in Europa. James pensava di guadagnarsi da vivere insegnando. Tra l’altro fu anche a Trieste. Ma fu un fiasco e fini’ per lavorare in una banca a Roma per un certo tempo.
Sempre in difficoltà economiche, dovettero contare sempre sull’aiuto del fratello di James, Stanislao. Ebbero un figlio che chiamarono Giorgio. Per non averne più, come forma di prevenzione, decisero di dormire separati per non farne più. Ma arrivò Lucia un anno dopo. James fu un buon genitore, tanto da viziare i suoi figlioli, senza mai dare loro una punizione. Ebbe a dire in una intervista: “I figli devono essere educati con amore, non con le punizioni”.
Joyce aveva paura dei fulmini e dei tuoni. Si rifugiava sotto le coperte quando c’era un temporale. Temeva anche i cani e andava in giro con pietre in tasca per paura di essere attaccato dagli animali randagi. Amava solo la musica e la letteratura e non sopportava la pittura. Sulla sua scrivania aveva una immagine che ritraeva Penelope ed una foto di un uomo di Trieste di cui non fece mai nome. Disse che era lei a dargli l’ispirazione per scrivere il personaggio di Leopold Bloom. Sulla scrivania aveva anche una statuina in bronzo di una donna distesa su una sedia con un gatto sulle spalle. Tutti i suoi amici gli dicevano che era orribile, ma a lui piaceva. Un suo amico disse che James aveva dei gusti orribili. Lui aveva solo il genio.
A Joyce piaceva bere e ballare. La figliastra disse che “il liquore gli va giù per le gambe fino ai piedi, non alla testa”. Era solito sedersi con le gambe incrociate, le dita di un piede sotto il tallone dell’altro piede. Era una persona gentile, generoso con chi non conosceva. Invitava sempre i camerieri a bere con lui al suo tavolo. Sylvia Beach, proprietaria della casa editrice Shakespeare and Co, disse che:
“trattava la gente come suoi simili, sia che fossero scrittori, bambini, camerieri, principesse o ciarlatani. Era interessato a tutto quello che la gente potesse dire. Mi disse che non aveva mai incontrato qualche persona che lo annoiasse. Se arrivava in taxi, non usciva mai dalla vettura prima che l’autista non avesse finito di raccontare quanto stava dicendogli. Joyce davvero riusciva ad affascinare tutti. Nessuno poteva resistere al suo fascino”.
James Joyce ha detto: “L’artista, come il Dio della Creazione, rimane dentro, dietro, oltre oppure al di sopra della sua opera d’arte, invisibile, rarefatto nella sua esistenza, indifferente, distaccato a guardarsi le unghie”.
Un esempio della sua famosa prosa va sotto il nome di flusso della coscienza. Una tecnica narrativa che Joyce ha utilizzato in modo innovativo in molte delle sue opere letterarie. Questa tecnica consiste nel raccontare il flusso dei pensieri di un personaggio senza alcun filtro o imposizione logica, sintattica e talvolta anche grammaticale.
In questo modo, il lettore può entrare nella mente del personaggio e comprendere i suoi pensieri, le sue emozioni e le sue percezioni in modo più intimo e profondo. Un esempio notevole di questa tecnica è il monologo interiore di Molly Bloom nel diciottesimo capitolo dell’opera “Ulisse”.
In questo passaggio, Joyce rappresenta il flusso di coscienza di Molly senza alcuna punteggiatura, organizzazione logica dei pensieri, spiegazioni approfondite o sintassi. Questo rende la modalità di pensiero rapido e scomposto più credibile e realistica:
“sì e poi ho visto che c’era un altro come me veniva giù per la scala e allora ho fatto come se non l’avessi visto e mi sono messa a guardare il quadro di una signora con un bambino e un angelo o qualcosa del genere era un quadro molto bello e mi sono messa a guardarlo e lui è passato accanto a me e ha fatto un rumore con la bocca come se fosse un bacio ma io non gli ho dato retta e allora lui ha fatto un altro rumore con la bocca e mi ha toccato la natica destra con la mano destra e ha detto sì come se mi stesse chiedendo qualcosa e allora ho detto no e mi sono alzata e sono andata via per la porta a vetri e lui mi ha seguita con lo sguardo e poi si è messo a ridere e allora ho fatto un altro rumore con la bocca come se fossi disgustata e così sono uscita.”

Il torturatore della lingua Joyce scrisse solo quattro romanzi nella sua vita, ma con quelli ha cambiato la storia della letteratura. Nell’Ulisse, il suo capolavoro, inventa uno stile del tutto personale, basato sul flusso di coscienza e lo sperimentalismo linguistico. Sulla trama dell’ultima opera, Finnegans Wake, si discute ancora oggi: oltre 600 pagine, scritte fra il 1923 e il 1938, in cui la tecnica del flusso di coscienza arriva all’estremo, sparisce la grammatica, non c’è punteggiatura. Il linguaggio è onirico, la narrazione un sogno. Dal 1904 al 1915 Joyce, nato a Dublino il 2 febbraio 1882, era vissuto a Trieste, città facente allora parte dell’Impero austro-ungarico e quindi legata alla cultura mitteleuropea, dove era già diffusa la conoscenza delle teorie freudiane, che dovevano influenzare sia lui che il suo studente di inglese e amico Italo Svevo. Venne anche a contatto diretto con la pratica analitica: sua figlia Lucia fu per un breve periodo in cura da Jung, con il quale Joyce ebbe un rapporto non facile. La stesura di Finnegans Wake si intreccia con il disagio psichico (lo scrittore soffriva di depressione, fobie varie, abusi alcolici) e l’intensa e simbiotica relazione con la figlia. Il linguaggio fluviale, completamente destrutturato, indifferente a farsi comprensibile, indica una perdita delle coordinate spazio-temporali e del rapporto porto con la realtà. Lo scrittore sembra trasferire sulle pagine del romanzo un codice segreto condiviso con la figlia. Parlando di lei ebbe a confessare: «Qualche volta mi dico che quando lascerò questa lunga notte, lei pure guarirà». «Lei era totalmente la sua ispiratrice, il che spiega la di lui ostinata riluttanza a vederla dichiarata pazza. La sua propria Anima, psiche inconscia, era così solidamente identificata con lei, che il dichiararla pazza sarebbe stata come un’ammissione di avere in sé, lui pure, una latente psicosi.» (C.G. Jung).

(ALMAMATTO)

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Published on February 01, 2024 09:10

January 31, 2024

Il mezzo è il messaggio: il diritto di scrivere.

Foto@angallo
Tutti hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni, un diritto sancito da quasi tutte le costituzioni. Con la nascita di Internet, la più grande invenzione di ogni tempo dopo quella della ruota, oggi abbiamo la possibilità di connetterci al mondo digitale e comunicare ciò che pensiamo in tempo reale. Lo si può fare liberamente, “free lance”. Vi pare poco?
Le opinioni fanno le idee, le idee alimentano la libertà, liberano il pensiero. I “social” hanno avuto tutto il successo che continuano ad avere sopratutto perché hanno liberato il pensiero degli esseri umani che per secoli è stato quasi sempre chiuso nel buio delle stanze della loro mente, spesso anche incatenato. Le opinioni si sono sempre di più diffuse facendo nascere, però, anche una nuova categoria umana che non esisteva prima. Una categoria, non professionale, ma molto diffusa, che va sotto il nome di “tuttologia”.
Se tutti possono esprimere le proprie opinioni, significa che ognuno può parlare di tutto. Politica, arte, religione, cucina, medicina … L’intera catena della conoscenza umana scorre sulle pagine di Google, sotto i nostri occhi, sul nostro tablet o smartphone. Tutti possono leggere e rispondere proponendo opinioni una dopo l’altra, in una catena senza fine. Opinionisti e tuttologi a confronto ogni giorno sul palcoscenico del mondo diventato una “rete”.
Qualcuno ha detto che è una “rete” che genera follia, alienazione, violenza. Altri pensano che può facilitare il nostro rapporto con il divino. Per questa ragione si parla di “cyberteologia”. Altri ancora, e sono i più, pensano solo a fare mercato, quindi soldi. In questo contesto mi trovo a scrivere in uno spazio virtuale, una piattaforma digitale che aspira ad avere un “respiro” globale.
La stessa piattaforma, però, non intende perdere perdere di vista quelle che sono le varie e diversificate realtà umane, sociali e culturali locali. Questa realtà si chiama MEDIUM, un nome che oltre ad avere una risonanza nobile e antica, intende essere un “territorio” più di una piattaforma e di un social.
Negli spazi infiniti della rete c’è posto per tutti, sia per gli opinionisti che i tuttologi, a condizione che sia per gli uni che per gli altri ci siano idee e libertà per evitare che la stessa Rete non diventi una nuova Babele. C’è bisogno, perciò, anche di un corretto coordinamento tra tutti gli uomini dotati di intelligenza ed anche di quello che gli anglosassoni chiamano “common sense”: un genuino, onesto e pratico senso comune, per far si che, pur tra le grandi differenze di cultura, lingua e tradizione, venga perseguito lo scopo comune, quello di una conoscenza che porti alla elevazione, crescita e valorizzazione dell’uomo in quanto essere umano vivo ed inviolabile e dell’umanità in quanto realtà, sia materiale che spirituale.
Scrivere su MEDIUM spesso sembra una passeggiata virtuale in una città affollata dove ogni passante è un estraneo. Metti i tuoi pensieri, la tua anima e le tue parole là fuori e, in cambio, ricevi una cacofonia di risposte da vagabondi senza volto su Internet. È un’esperienza unica, esaltante e, a volte, sconcertante. Ti trovi su una piattaforma in cui le parole regnano sovrane, funge da palcoscenico digitale per voci di ogni ceto sociale. Puoi mettere il cuore nella tua scrittura, creare frasi che risuonano nel profondo del tuo essere, ma alla fine, il tuo pubblico è un mare di volti sconosciuti.
C’è un certo anonimato in questa interazione, una finzione dietro la quale tutti ci nascondiamo. È come un ballo in cui tutti indossano una maschera e ballano sulla stessa melodia, ma non rivelano mai veramente la propria identità. Nel mondo di MEDIUM, sei solo una voce tra milioni, in competizione per l’attenzione, il riconoscimento e l’elusiva convalida degli estranei. Le tue parole sono la tua valuta e il numero di applausi, condivisioni e commenti diventa la tua scorecard. È facile lasciarsi coinvolgere in questo gioco di numeri, per equiparare il tuo valore come scrittore con i parametri del tuo successo.
Ma nel vasto oceano di interazioni virtuali, è importante ricordare che dietro ogni avatar c’è una persona reale con le proprie esperienze, lotte e storie uniche. Anche se scrivere a volte può sembrare come gridare al vuoto, è fondamentale riconoscere che ogni lettore è una potenziale connessione in attesa di essere stabilita.
La bellezza di MEDIUM sta nella possibilità di incontri fortuiti. Potresti imbatterti in un pezzo che risuona con le tue esperienze, scritto da qualcuno che si sente come uno spirito affine, anche se non l’hai mai incontrato di persona. Questi momenti di connessione sono ciò che rende la scrittura simile a una conversazione con estranei su Internet.
È in questi momenti che risplende davvero la potenza della parola scritta. Quando le parole di un perfetto sconosciuto ti toccano il cuore, ti fanno annuire in accordo o ti fanno venire una lacrima agli occhi, riafferma l’esperienza umana condivisa. Ti ricorda che anche in questo vasto panorama digitale ci sono fili di comunanza che ci legano tutti. Io lo faccio sia nella mia lingua nativa che in quella che ritengo essere la portavoce della mia seconda identità. Ognuno di noi, ormai, vive più vite, parla e ascolta più lingue in una realtà a più dimensioni. Il mezzo resta il messaggio. Il messaggio è vita.
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Published on January 31, 2024 19:36

Perchè mi piace la fotografia

Foto@angallo

“Solo la fotografia ha saputo dividere la vita umana in una serie di attimi, ognuno dei quali ha il valore di una intera esistenza.” Così ha scritto Eadweard_Muybridge (1830–1904) fotografo inglese, pioniere della fotografia in movimento. Col passare degli anni mi sono appassionato alle immagini, siano esse fotografie, disegni o dipinti. Forse sarà la diffusione dei siti sociali sui quali ognuno trasmette qualcosa in questa forma scambiandosi fotografie e video.

Aumenta la voglia di vedere facce e movimenti, situazioni e avvenimenti, sarà la trasformazione della memoria, il tempo accelera in ogni essere umano il desiderio di correre. Non saprei dire con esattezza. E’ certo che tutti ci divertiamo a fotografare, non solo con la mente le situazioni in cui ci troviamo. Cerchiamo di fermarle sulla “carta” della fotografia. A dire il vero la carta lucida delle foto di un tempo è diventato lo schermo del PC e dello smartphone perché ormai tutto va a finire lì.

Parole, immagini e suoni sempre a portata di mano nelle nuvole della sua memoria. Restano parcheggiate là per poi essere smistate nei modi e nei tempi opportuni, realizzando quello che tutti chiamano “condivisione”. Non a caso, proprio su questa condivisione i così detti siti sociali hanno avuto successo: condivisione di facce, luoghi, situazioni, eventi che accompagnano la vita degli uomini tutti i giorni.

Ogni momento o situazione può essere quel momento che caratterizza l’esistenza, come dice Muybridge. In rete ci sono migliaia di luoghi dedicati alla fotografia , abbondano i fotografi dilettanti e quelli professionisti. Una passione, un lavoro, una opportunità per selezionare, “fare a fette” il tempo per poi studiarlo, osservarlo, conservarlo. A me piace guardare una immagine fotografica, specialmente quando questa è importante, artistica, per così dire memorabile.

Ma che cos’è che rende una fotografia tale? La prima caratteristica, io credo, sia appunto la sua capacità di non solo di fermare la “memoria” con la sua novità che ne costituisce il messaggio, ma di “fare” memoria. Tutti conosciamo la sensazione di quando, guardando una foto, scopriamo cose che avevamo dimenticato. Il “disco rigido” del nostro cervello improvvisamente diventa mobile, flessibile e si apre alla lettura dei cassetti dimenticati, tenuti chiusi dal tempo. Ritornano alla mente eventi, persone, idee, luoghi che sembravano essere affondati nelle nebbie del passato.

Certo che l’arte della fotografia ne ha fatta di strada nel corso degli anni. A partire da quella che nel 1838 fece Louis_Daguerre chiamandola “Le Boulevard du Temple” a Parigi, alle otto del mattino. Non ancora una fotografia ma un dagherrotipo , le prime fotografie della storia. Ovviamente questa foto ha un valore storico perché è la prima volta che appare l’immagine umana che si vede in evidenza. Un uomo che si fa lustrare le scarpe. Daguerre forse ci impiegò diverso tempo per riprendere l’immagine. E’ certo che le persone non si resero conto di essere riprese e forse lo stesso fotografo non sapeva che i soggetti gli sarebbero apparsi sulla lastra.

La stessa cosa si può dire di questa seconda fotografia scattata a distanza di più di un secolo, questa volta a colori. Il protagonista inconsapevole è un embrione umano del fotografo svedese Lennart Nilsson pubblicata sul settimanale “Life” il 30 aprile del 1965. Allora sconosciuto, poi diventato famoso, Nilsson pubblicò poi un libro sui nove mesi di gravidanza che ebbe un successo mondiale, vendendo oltre cinquanta milioni di copie in venti lingue.

In questo caso abilità tecnica, intuito e immaginazione si fondono facendo nascere veri capolavori d’immagine che fanno la storia. Alla stessa maniera di quella altra foto che ritrasse l’uomo sulla luna che tutti ricorderanno. Entrano in gioco in queste immagini diversi elementi che caratterizzano gli attimi fermati nella foto, ma anche lo spazio che viene lasciato a chi guarda alla sua fantasia per poter poi ricostruire un’intera sequenza significativa, quello che c’era prima e quello che sarà venuto poi dopo.

In questo caso la fotografia entra in competizione con la pittura. La differenza tra una foto riuscita e un quadro di pittura sta nel fatto che quell’attimo che il fotografo riesce a fermare col suo apparecchio è un attimo in movimento che descrive una intera sequenza. Il quadro invece riesce ad essere sempre diverso, sia per la varietà dei colori che per lo stato d’animo di chi lo guarda.

Ovviamente l’evoluzione della tecnica fotografica è in stretta correlazione con l’evoluzione del mezzo che il fotografo ha a sua disposizione. Oggi chiunque riesce a fare bellissime fotografie sulle quali non è necessario intervenire perché sono già relativamente perfette. Tanto perfette che possono anche essere non vere, truccate, alterate, modificate.

Un elemento al quale io non so rinunciare in una fotografia è quello che io chiamo il “contesto visivo”. Quando si vuole cogliere un dettaglio e il fotografo vuole fermarlo nel tempo e nello spazio, è necessario che lo faccia tenendo presente l’esigenza di chi la osserverà e comprendere le relazioni che la stessa vuole trasmettere. E’ vero che si fa appello alla immaginazione di chi guarda, ma non sempre chi “legge” quella immagine possiede gli elementi necessari per interpretarli.

Prendiamo ad esempio questa immagine che risale al 1990 ripresa dall’operatore del telescopio spaziale Hubble . Non fu un operatore umano ma uno strumento tecnico in orbita. Gli elementi per la comprensione dell’immagine in questo caso provenivano dalla NASA la quale ci ha detto che “V838 Monocerotis” è un’enigmatica stella variabile situata nella costellazione dell’Unicorno a circa 20.000 anni luce dal nostro Sistema solare.

Agli inizi del 2002 è stata registrata un’improvvisa esplosione sulla stella; inizialmente si è pensato che fosse una delle tipiche eruzioni delle stelle note come novae, ma si è subito capito che si trattava di qualcosa di sostanzialmente diverso. La causa dell’esplosione è ancora incerta, ma sono state avanzate alcune ipotesi, che includono la possibilità che si tratti di un’eruzione dovuta ai processi che stanno portando alla morte della stella o la fusione di una stella binaria o di pianeti precipitati sulla stella.

Il telescopio riprese l’evento e questo è il risultato. Solo l’immaginazione della mente umana può dare il contesto ad una immagine di questo tipo. Ognuno ci può vedere quello che gli pare. Non a caso quando venne pubblicata molti andarono col pensiero al quadro di Van Gogh “Notte stellata”. Questo prova che alla base della fotografia e della pittura c’è uno stretto rapporto legato alla coscienza che ognuno di noi ha della realtà.

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Published on January 31, 2024 12:11

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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