Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 24

September 26, 2024

Il diavolo non veste solo tecno …

Il diavolo non veste solo tecno …
Ricorderete “Il diavolo veste Prada” un film che esplora temi legati alla moda, al lavoro e alle pressioni sociali. Il titolo si riferisce al personaggio di Miranda Priestly, interpretato da Meryl Streep, che è la direttrice della rivista di moda Runway.

Miranda è caratterizzata da un comportamento autoritario e spietato, tanto da essere paragonata a un “diavolo”. La frase implica che, nonostante la sua natura severa, Miranda è anche estremamente elegante e sofisticata, dato il suo legame con il prestigioso marchio di moda Prada.

Francesco, ovviamente, non ha niente a che fare con Miranda, spero di non essere considerato blasfemo. Il Papa fa il suo lavoro, che non è affatto un “mestiere”, ma una missione. Come tutte le missioni, la sua ha un senso metafisico e soprannaturale.
Si appella allo “Spirito santo”, non può avere un comportamente autoritario e spietato. Il fatto è che non è per nulla facile conciliare l’essere umano chiamato Francesco con la sua missione di Papa, Vicario di Cristo.
Rappresenta Gesù sulla terra, successore del principe degli Apostoli, San Pietro, a cui Gesù conferì il primato sulla Chiesa, Capo del Collegio dei Vescovi, guida i cattolici nel mondo, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, detiene autorità su questo stato indipendente, non può quindi essere un “diavolo”.
Ma ci sono tutti gli elementi per commentare quello che dice. Francesco, come Papa, affronta spesso il tema del diavolo e delle sue tentazioni nel contesto moderno, sottolineando come la tecnologia e la superstizione possano fungere da strumenti per il male.
Questo discorso è stato parte di un ciclo di catechesi incentrato sul ruolo dello Spirito Santo nella vita dei credenti. Francesco ha evidenziato che il diavolo tenta l’umanità attraverso la tecnologia, l’occultismo e le superstizioni.
Ha affermato che molti oggi non credono più nell’esistenza del demonio, considerandolo solo un simbolo o una metafora. Ha citato Charles Baudelaire per sottolineare che “la più grande astuzia del demonio è far credere che non esista” .
Il Papa ha avvertito che la superstizione è una forma di dialogo con il male, esortando i fedeli a mantenere le distanze. Ha affermato: “Con il diavolo non si dialoga, lo si caccia via” .

Papa Francesco ha messo in guardia contro i pericoli della pornografia online, definendola una “brutalità” e un esempio di come la tecnologia possa essere sfruttata dal demonio per tentare le persone .
Ha inoltre sottolineato che, sebbene la tecnologia offra molte risorse positive, essa presenta anche innumerevoli opportunità per cadere nelle tentazioni. Il Papa ha notato che, mentre il diavolo è stato scacciato dalla fede, è rientrato attraverso superstizioni e pratiche occulte, invitando i cristiani a vigilare e a rimanere sobri .
Gli inviti del Papa mettono in luce la necessità di riconoscere le insidie moderne esortando i fedeli a resistere con la forza dello Spirito Santo. Papa Francesco ha identificato tre veleni del diavolo che rappresentano tentazioni diffuse e pericolose nella vita dei credenti.
Questi veleni sono l’attaccamento eccessivo ai beni materiali, al denaro e ai ruoli sociali. Il diavolo tenta le persone a soddisfare i propri bisogni materiali in modo egoistico, come dimostrato nel racconto della tentazione di Gesù nel deserto, dove il maligno lo invita a trasformare le pietre in pane per soddisfare la sua fame.
Il secondo veleno è la sfiducia nei confronti di Dio. Il diavolo insinua dubbi sulla bontà e sull’intenzione divina, spingendo le persone a mettere alla prova Dio o a ricattarlo, come quando suggerisce a Gesù di buttarsi giù dal tempio per vedere se Dio lo salverà.
Infine, il veleno del potere si manifesta nel desiderio di dominare sugli altri e di ottenere il controllo a tutti i costi. Questo veleno porta a una smania di prevalere sugli altri, distogliendo le persone dalla loro dipendenza da Dio e spingendole a cercare il potere attraverso mezzi terreni.
Sono veleni che colpiscono non solo Gesù, ma anche ogni individuo, portando alla divisione tra le persone e alla solitudine spirituale. Ha esortato i fedeli a non dialogare con il diavolo e a opporre la Parola di Dio come antidoto contro queste tentazioni.
Il rifiuto del mistero della vita è il veleno in assoluto, un tema complesso e profondo che può manifestarsi in vari modi nella società contemporanea. In un mondo sempre più dominato dalla dalla razionalità tecnologica, molte persone cercano risposte tangibili.
Questa ricerca di certezze può portare a una negazione del mistero intrinseco della vita, che è spesso caratterizzato da incertezze, domande senza risposta e complessità.
Accettare il mistero della vita implica anche accettare l’imprevisto e l’incertezza. Molti individui possono sentirsi sopraffatti da questa idea, preferendo rifugiarsi in routine e schemi prevedibili, piuttosto che abbracciare l’ignoto.
Rifiutare il mistero della vita può significare anche trascurare il valore delle esperienze uniche e irripetibili che la vita offre. Ogni persona ha una storia da raccontare, e spesso le esperienze più significative sono quelle che sfuggono a una spiegazione razionale.
Il mistero della vita è spesso legato a questioni esistenziali e spirituali. Alcuni possono rifiutare di esplorare queste dimensioni, preferendo un approccio materialista o scientifico che non contempla la possibilità di significati più profondi o trascendenti.
Le relazioni sono uno degli aspetti più misteriosi della vita. L’incapacità di comprendere completamente gli altri, le loro emozioni e motivazioni può portare a una certa distanza emotiva. Rifiutare il mistero delle relazioni significa anche perdere la bellezza dell’imperfezione e della vulnerabilità.
Il mistero della vita è inevitabilmente legato alla morte e all’ignoto che essa comporta. La paura di affrontare la propria mortalità può spingere le persone a rifiutare qualsiasi riflessione sul significato della vita stessa.
Una una visione limitata dell’esistenza, priva gli individui delle opportunità di crescita personale, di connessione emotiva e di scoperta. Accettare il mistero significa abbracciare la complessità della vita, riconoscendo che non tutte le domande hanno risposte chiare e che la bellezza dell’esistenza risiede spesso nell’ignoto.
Rifiutare il mistero della vita può avere diverse conseguenze significative, sia a livello individuale che sociale. Quando si ignora il mistero della vita, si corre il rischio di perdere il senso di meraviglia e significato nell’esistenza.
Le esperienze quotidiane possono apparire vuote o prive di valore, portando a una vita percepita come monotona e priva di scopo. Il rifiuto del mistero può portare a una distanza emotiva nelle relazioni interpersonali.
Senza la capacità di apprezzare l’imprevedibilità e la complessità delle relazioni umane, le persone possono diventare più ciniche e meno empatiche, riducendo la qualità delle loro interazioni sociali.
La frase “la più grande astuzia del demonio è far credere che non esista” spiega come questa astuzia possa manifestarsi nella società contemporanea e la sua negazione dell’esistenza del demone non solo diminuisce la consapevolezza delle forze maligne, ma può anche portare a una maggiore vulnerabilità di fronte alle tentazioni e alle crisi morali.
Questo concetto invita a una maggiore vigilanza e discernimento nella vita quotidiana, suggerendo che riconoscere l’esistenza del male è fondamentale per affrontarlo efficacemente.
Il diavolo non veste solo tecno, il demone veste una realtà complessa in cui le influenze della realtà e della tecnologia si intrecciano. Entrambi i mondi presentano sfide e opportunità, rendendo il “male” una figura poliedrica che trascende i confini tradizionali.
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Published on September 26, 2024 06:33

September 24, 2024

“Fino alla fine senza fini”

Foto@angallo Treccani “Fine”

Di tutte le “parole ombrello” questa è certamente un “ombrellone”. In linguistica, il termine “parola ombrello” si riferisce a una parola che racchiude sotto di sé un insieme di significati o categorie correlate. Questa espressione è utilizzata per descrivere un vocabolo che funge da categoria generale per vari termini specifici, creando un “ombrello” semantico. Mi sono trovato a commentare in rete un articolo sulla triste parabola degli ideali umani.

Mi è venuta spontanea la frase pensiero “la fine e il fine degli ideali”. Sono andato alla Treccani e ho scoperto che la parola è davvero “senza fine”, come quella famosa canzone di Gino Paoli e Ornella Vanoni. Ricordo quando scoprii per la prima volta questa parola. Ma in lingua inglese. Ero giovane, giovanissimo, a Londra, in Hyde Park, in una della tante manifestazioni dei ruggenti anni sessanta, quando su un cartellone della Salvation Army lessi la frase “The end is at end”. Non capii bene il significato, a prima vista. Poi “l’ombrello” si aprì e compresi che “la fine è vicina”. Allora, come oggi, come sempre, siamo in attesa dell’Apocalisse.

Ma è solo una delle innumerevoli situazioni in cui questa parola può farci trovare. Il suo etimo di partenza, la Treccani lo fissa su tre punti basati su due parole, una latina e un’altra greca: finis e τέλος. Fine, cessazione, scopo sembrano essere i sensi di partenza. Una storia ricca e complessa. Dalle sue origini, come indicatore di un limite, si è evoluta fino a diventare un termine polisemico, capace di esprimere una vasta gamma di concetti. Dal principio di un inizio, alla conclusione di un’azione, alla morte, passando per lo scopo e il risultato. Senza fine, appunto come nella canzone, quella della vita.

Tu trascini la nostra vita
Senza un attimo di respiro
Per sognare
Per potere ricordare
Quel che abbiamo già vissuto
Senza fine
Tu sei un attimo senza fine
Non hai ieri
Non hai domani
Tutto è ormai
Nelle tue mani, mani grandi
Mani senza fine
Non m’importa della luna
Non m’importa delle stelle
Tu per me sei luna e stelle
Tu per me sei sole e cielo
Tu per me sei tutto quanto
Tutto quanto io voglio avere
Senza fine … La la la la la
La la la la …

Un'avventura nelle meraviglie dell'italiano - Una parola al giorno

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Published on September 24, 2024 21:36

September 21, 2024

La bandiera, il castello, la luna

Foto@angallo
Dei tre elementi che caratterizzano questa immagine, il meno visibile è quel puntino microscopico bianco, che è la luna, all’altezza del castello. Avrei potuto zoomare per ingrandire, si sarebbe persa l’imponenza del castello sulla roccia a scapito anche dell’altra metà di questo fantastico panorama in Costa d’Amalfi.
Sulla linea dell’orizzonte, come su di un palcoscenico marino, si affaccia l’incanto di Ravello. Una questione di identità con la quale mi confronto ogni giorno durante l’indispensabile, immancabile footing mattutino.
L’ambiente è quello del piccolo porto di Maiori, punto di arrivo e di partenza per migliaia di visitatori in ogni stagione dell’anno. Siamo in molti boomer mattinieri a ritrovarci tra lo sventolare di tutte le bandiere di benvenuto, al soffio del maestrale. In questa immagine ho inteso fermare la mia identità nello spazio e nel tempo.

Il Castello Miramare, chiamato anche “Castello Mezzacapo”, fu costruito per volere di un bizzarro marchese con quel cognome. Sorge a ridosso dell’antica Torre dell’Annunziata che ne è diventata parte e funge da ingresso principale. I suoi tre piani sono inseriti tra tre torri cilindriche a guglia conica agli spigoli della facciata e dietro l’edificio. È stato utilizzato negli anni ’60 come ristorante e balera.
Fa parte della mia memoria storica personale. Dopo il rito del matrimonio, nella Cattedrale di Amalfi, trascorremmo una serata danzante proprio in questo posto. Il Castello fa parte del Comune di Minori. Mia moglie ed io, nell’albergo di Villa Romana, passammo la prima notte di nozze per poi partire il giorno successivo per Londra. Tempo mai perduto, bensì ritrovato ogni giorno, a distanza di oltre mezzo secolo.

La bandiera è il secondo elemento caratterizzante di questa immagine. La bandiera italiana, come simbolo nazionale, mantiene un valore e una funzione significativi anche in un mondo sempre più globalizzato. In questo contesto, le bandiere non solo rappresentano identità nazionali, ma svolgono anche un ruolo cruciale nel promuovere valori di unità, cultura e appartenenza.
Il tricolore appare come la prima bandiera nella fila che si distende lungo il molo. Cosa sono le bandiere oggi, in un mondo sempre più globalizzato? Sono simboli di identità culturale e unità nazionale. Esse evocano sentimenti di orgoglio e appartenenza tra i cittadini, fungendo da rappresentazione visiva della storia e dei valori condivisi.
In un’epoca in cui le identità possono sembrare sfumate a causa della globalizzazione, la bandiera offre un punto di riferimento tangibile per le comunità nazionali diventate internazionali. Possono servire come strumenti di resistenza contro l’omogeneizzazione culturale, in un contesto globale in cui le culture sono minacciate dalla standardizzazione, il forte attaccamento a simboli nazionali come la bandiera nazionale può aiutare a preservare tradizioni e pratiche culturali locali.
Tutte le bandiere rappresentano valori e tradizioni locali che possono essere minacciati dalla standardizzazione culturale. Questo mosaico di simboli contribuisce a una comprensione più profonda della complessità dell’identità in un contesto globale. Esse non solo rappresentano la storia e i valori di una nazione, ma fungono anche da strumenti di coesione sociale e resistenza culturale. La bandiera italiana, con il suo ricco simbolismo e significato storico, rimane un potente emblema di unità e orgoglio per gli italiani nel contesto globale odierno.
Per me il simbolo tricolore ha un ricordo anche molto personale. Durante i cinque mesi che feci per il corso di allievo ufficiale di complemento a Foligno, nei vari servizi c’era anche quello della guardia alla bandiera. Tre ore di sentinella armata in un lungo corridoio che portava agli uffici del comandante della Scuola SAUSA di Foligno. 180 minuti che sembravano una eternità. Ricordo ancora il suono dei miei anfibi mentre camminavo in quei corridoi in difesa della Bandiera.

La luna è un simbolo ricco di significato e ha assunto diverse interpretazioni nel corso della storia, influenzando culture e tradizioni in tutto il mondo. La luna è frequentemente associata all’energia femminile e alla figura materna. Essa rappresenta la fertilità, la vita e la protezione, evocando l’immagine della Grande Madre. In molte culture è vista come un simbolo di intuizione, emozioni e stati d’animo, riflettendo la parte più profonda e sensibile dell’individuo.
A differenza del sole, che emette luce propria, la luna riflette la luce del sole, simboleggiando l’idea di ricezione piuttosto che di azione. Questo aspetto riflette l’idea di passività, accoglienza e introspezione. Essa rappresenta anche l’inconscio e i sogni, evocando il mondo dei sentimenti e delle emozioni. La luna è un simbolo complesso che racchiude significati legati alla femminilità, alla ciclicità della vita, al mistero e alla magia.
La sua presenza continua a ispirare artisti, poeti e pensatori in tutto il mondo, rappresentando una connessione profonda tra l’umanità e l’universo naturale. Il mio ricordo legato alla luna ha un sapore inglese. Ero in Inghilterra, studente della lingua, per mantenermi lavoravo come infermiere in un ospedale mentale. Erano i ruggenti anni sessanta. I Beatles, la minigonna, la rivoluzione sessuale, la pubblicazione del libro “L’amante di Lady Chatterly”, proibitissimo.
Ero riuscito ad avere una copia clandestina. Tentai di leggerla con una collega infermiera anche lei. Il suo nome era Josianne, una incredibile ragazza francese con la francetta alla Bardot. Sfogliavamo una sera d’estate le pagine del libro in un campo di grano poco distante dal college che entrambi frequentavamo. Alle nove di sera da quelle parti c’e ancora luce al tramonto. Io leggevo in inglese i brani bollenti, lei mi indicava la luna che faceva brillare i suoi raggi sul campo di grano nel quale c’eravamo imboscati.
Ripeteva “ la lune, la lune, regarde la lune … Au clair de la lune”. Canticchiava una canzone popolare francese che non conoscevo e della quale poi ne ho scoperto il senso. Risaliva al XVIII secolo, l’origine avvolta nel mistero, spesso attribuito a Jean-Baptiste Lully. La canzone è caratterizzata da un testo semplice e melodioso che racconta una situazione di ricerca e desiderio. Ma quella di Josianne era solo una via di fuga dai miei tentativi che avevano poco di poetico.
Il testo narra di un personaggio che chiede al suo amico Pierrot di prestargli una penna per scrivere un messaggio, poiché la sua candela è spenta e non ha fuoco. Questo semplice scambio si trasforma in un viaggio notturno, dove il protagonista cerca aiuto presso i vicini, evocando un’atmosfera di comunità e amicizia. La luna, presente nel titolo e nel testo, rappresenta non solo l’illuminazione fisica ma anche quella emotiva.
Essa incarna un senso di romanticismo e malinconia, riflettendo i sentimenti dei personaggi che cercano conforto e connessione in una notte buia. La melodia è dolce e nostalgica, contribuendo a creare un’atmosfera incantevole che accompagna la storia. La melodia che canticchiava Josianne era delicata e dolce. Era come in trance. Io pensavo altre cose. La ritenevo una francese strana, alcuni amici mi avevano avvertito. Ma io pensavo a lady Chatterly 
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Published on September 21, 2024 12:51

September 20, 2024

Non puoi chiamare “boomer” un “dinosauro”

BOOM

Tutto inizia con un botto, una sorta di “big bang” della comunicazione umana. Senza tirare in ballo la distinzione tra lingua e linguaggio, basta questa onomatopea per capire di cosa intendo parlare. La chiamano così ed è un “boom”, un successo, ovvero una parola che imita il suono a cui si riferisce. In questo caso, riproduce il rumore di un’esplosione, di un forte colpo, profondo e potente. L’uso è originario della lingua inglese. Ha una diffusione rapida.

Per estensione, viene utilizzato per indicare una crescita rapida e improvvisa e clamorosa. Il boom può essere di molti tipi: economico, demografico, di edilizia, tecnologico, culturale, popolare, sonoro ed anche linguistico. Rientra nella famosa distinzione tra “langue” (lingua) e “language” (linguaggio).

Il celebre linguista svizzero de Saussure definì la lingua come un sistema sociale di segni condiviso da una comunità. Essa rappresenta un insieme di convenzioni necessarie che permettono la comunicazione. La lingua è quindi un prodotto sociale della facoltà del linguaggio, e non può esistere senza il consenso e l’uso collettivo degli individui. In questo senso, la lingua è vista come un’istituzione sociale, un “tesoro” che si sviluppa attraverso l’uso collettivo e che è essenziale per l’espressione di idee e significati.

D’altra parte, il linguaggio è inteso come la capacità umana di produrre segni e comunicare. Esso include tutte le forme di comunicazione verbale e non verbale e rappresenta una facoltà universale che trascende le specifiche lingue. De Saussure sottolinea che mentre esistono molte lingue diverse, il linguaggio come facoltà è comune a tutti gli esseri umani. Il legame tra significante (la forma del segno) e significato (il concetto a cui il segno si riferisce) è arbitrario. Non esiste una connessione naturale tra suono e significato; piuttosto, questa relazione è stabilita socialmente.

La “langue” si riferisce al sistema astratto delle regole linguistiche, mentre la “parole” è l’uso concreto della lingua da parte degli individui. La prima è una struttura stabile, mentre la seconda è dinamica e varia a seconda del contesto. De Saussure ha proposto la semiologia come scienza che studia i segni nella vita sociale.

La linguistica è vista come una branca della semiologia, focalizzandosi sui segni linguistici. La sua teoria ha rivoluzionato il modo in cui comprendiamo il linguaggio umano, ponendo l’accento sulla sua natura sociale e sulla complessità delle relazioni tra i segni e i significati all’interno delle lingue.

“Si sentì un forte boom e la finestra si frantumò. — Negli anni ’60 si assistette a un vero e proprio boom economico. — Il nuovo film è stato un boom al botteghino. — Il boom dell’esplosione scosse le finestre. Si sentì un forte boom e poi il silenzio. — L’aereo superò la barriera del suono con un boom assordante. — Il suo nuovo romanzo è stato un vero e proprio boom editoriale. — Il mercato dei videogiochi ha vissuto un boom negli ultimi anni. — La sua carriera ha avuto un boom improvviso dopo la vittoria al talent show. — Il boom delle startup ha rivoluzionato il mondo del lavoro”.

Una parola che fa il boom genera non solo forza ma crea anche altre parole come boomerang. Conferisce l’idea di potenza, rapidità e intensità. Così mi sono scoperto di essere oltre che un dinosauro, anche un boomer. Leggendo un libro di recente pubblicazione mi sono ritrovato nella sua varia e mutevole evoluzione di significato. Vediamo come.

Il Libro

E’ innanzitutto una questione di generazioni e di come queste usano la lingua e il linguaggio. Il tempo gioca un ruolo importante nella comunicazione linguistica. Le generazioni possono essere classificate in base a periodi di nascita e caratteristiche socioculturali.


La Grande Generazione, i nati tra il 1901 e il 1927. Questa generazione ha affrontato la Grande Depressione e ha combattuto nella prima Guerra Mondiale.

I Tradizionalisti (o Veterani) detti anche Generazione silenziosa, i nati tra il 1925 e il 1945. Hanno vissuto eventi storici significativi come le due guerre mondiali e tendono a mantenere valori tradizionali legati alla famiglia e al lavoro. Sono stati protagonisti del secondo dopoguerra e hanno una scarsa preparazione tecnologica.

Baby Boomers: nati tra il 1946 e il 1964. Hanno vissuto un periodo di crescita economica e sono caratterizzati da un forte individualismo.

Generazione X: nati tra il 1965 e il 1980. Questa generazione ha assistito a significativi cambiamenti sociali ed è stata la prima a utilizzare Internet.

Generazione Y (Millennials): nati tra il 1981 e il 1996. Sono cresciuti con Internet e tendono ad essere ottimisti, ambiziosi e competitivi.

Generazione Z: nati tra il 1997 e il 2012. Sono nativi digitali, aperti a diverse culture e hanno un concetto di genere meno rigido rispetto alle generazioni precedenti.

Generazione Alpha: nati dal 2013 in poi. Crescono immersi nella tecnologia avanzata, inclusa l’intelligenza artificiale.

Queste classificazioni aiutano a comprendere le differenze nei comportamenti, valori e aspettative tra le varie generazioni. Appare il termine boomer, è un termine informale che deriva dall’inglese “baby boomer”, che letteralmente significa “esplosione di nascite”.

In italiano, si usa principalmente per indicare le persone nate durante il periodo di forte crescita demografica che seguì la Seconda Guerra Mondiale. Se ne occupa anche la Crusca e lo tratta come un neologismo, anche se scrive di non ufficializzare la parola, ma di fornire solo strumenti di comprensione e approfondimento.

Lingua e parola, dunque e boomer diventa uno stereotipo associato ai tanti bias cognitivi legati ad ogni generazione. La resistenza al cambiamento, la nostalgia del passato, la disconnessione dalla tecnologia, i boomers diventano anche conservatori. Il termine arriva fino ad essere usato in modo ironico e talvolta dispregiativo dalle giovani generazioni per indicare atteggiamenti percepiti come fuori moda o superati. L’espressione “Ok, boomer” è diventata un meme molto popolare.

Nel Dizionario per boomer di Beatrice Cristalli, vengono trattati vari termini comuni dello slang della Generazione Z alla quale appartiene anche mia nipote. Ecco alcuni dei più significativi:

Amïo: Pronuncia in “corsivo” della parola “amore”, usata per riferirsi a una persona cara, come un fidanzato o un amico intimo.
Amo noi: Un’espressione che combina “amore” e “noi”, utilizzata per descrivere un gruppo affiatato di amici o persone speciali.
AFK: Acronomo di “Away From Keyboard”, significa essere lontani dal computer o dalla console.
Bae: Acronomo di “Before Anyone Else”, si riferisce alla persona più importante nella vita di qualcuno.
BFF: Acronomo di “Best Friend Forever”, indica un migliore amico.
Binge-watching: Guardare molti episodi di una serie televisiva consecutivamente.
Blastare: Significa umiliare o sconfiggere qualcuno in modo schiacciante.
Cringe: Riferito a situazioni imbarazzanti o sgradevoli.
Drama: Si riferisce a situazioni drammatiche o conflittuali.
Stan: Un fan eccessivo di qualcuno o qualcosa, derivato dalla fusione di “stalker” e “fan”.

Questi termini evidenziano come la Gen Z utilizzi un linguaggio innovativo, spesso influenzato dalla cultura digitale e dai social media, rendendo la comunicazione tra generazioni diverse più complessa. Io che faccio parte insieme a mia moglie della Generazione Silenziosa, tra Veterani e Tradizionalisti, le ricordiamo sempre che il mezzo è il messaggio, particolare molto rilevante nell’era digitale. I social media non solo diffondono informazioni ma modellano anche le interazioni sociali e le dinamiche di potere nella società.

La consapevolezza del potere dei mezzi di comunicazione richiede una responsabilità da parte di chi li usa, poiché questi strumenti possono influenzare profondamente la vita quotidiana e la percezione della realtà. Un invito a considerare come le tecnologie di comunicazione non solo veicolano informazioni, ma plasmano anche la nostra comprensione del mondo e le nostre relazioni sociali. Non puoi chiamare “boomer” un “dinosauro”.

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Published on September 20, 2024 07:51

September 18, 2024

Il mondo delle falsità: “blaterare”, “gossippare”, “fake news”. Non è il mondo di Alice.

Se mai doveste incontrare qualcuno che si abbandona a un balbettìo insensato, potreste accusarlo di blaterare. Il verbo è noto, è in uso e sempre più diffuso. Si può può blaterare intransitivamente (ciarlare all’infinito), oppure su nozioni specifiche.
La pratica della blaterazione nacque come “balbettio vano, lusinghiero nel parlare”, poi l’esercizio è andato sempre più a crescere e peggiorare.
Nella realtà sociale contemporanea le cose si sono amplificate. C’è tutto un mondo da scoprire. Blaterando e gossippando non si arriva nel Mondo di Alice, il Paese delle Meraviglie, ma nel Paese delle falsità.
La parola deriva dal latino blaterare, che ha un’origine onomatopeica, richiamando il suono del “bla bla bla ”, tipico delle chiacchiere. Sebbene sia una voce dotta, non è entrata nel linguaggio popolare fino al XIX secolo, quando ha cominciato a essere usata in italiano. Il significato implica un parlare in modo prolisso e a vanvera, con una connotazione negativa.
Ad esempio, se qualcuno blatera di politica, si intende che sta parlando in modo molesto e privo di sostanza. In letteratura, il termine è attestato in opere di autori come Orazio e Apuleio, evidenziando la sua lunga storia nell’uso della lingua.
A differenza di sinonimi come “chiacchierare” o “cianciare”, che possono avere un’accezione più leggera, blaterare è sempre associato a un discorso fastidioso o insensato. Esempi si possono rintracciare in diverse opere letterarie e contesti culturali, dove il termine viene utilizzato per descrivere discorsi prolissi e privi di sostanza.
Giovanni Verga nel suo romanzo “I Malavoglia”, fa spesso blaterare i suoi personaggi riguardo a questioni quotidiane e pettegolezzi, evidenziando la loro incapacità di affrontare i problemi reali. Altri esempi sono in Italo Calvino in “Le città invisibili”, quando lo scrittore utilizza il dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan per esplorare concetti complessi attraverso descrizioni di città immaginarie. Sebbene i personaggi non “blaterino” nel senso tradizionale del termine, le loro conversazioni possono essere interpretate come un esempio di “blaterare sociale”, in quanto riflettono discorsi che, pur essendo ricchi di dettagli, spesso si allontanano dalla realtà oggettiva. Umberto Eco, in “Il nome della rosa”, i monaci blaterano su questioni teologiche e filosofiche, spesso perdendosi in discussioni che non portano a conclusioni concrete.
Questi esempi mostrano come il termine venga utilizzato per descrivere conversazioni che, pur essendo verbosamente ricche, risultano sostanzialmente sterili o irritanti. Il concetto diventa “sociale” con discorsi superficiali e privi di sostanza che caratterizzano le interazioni.
In questo contesto, il termine viene utilizzato per descrivere come le persone tendano a comunicare in modo frenetico e spesso insignificante, attraverso brevi post e messaggi, replicando un’oralità che ambisce a essere infinita.
Nei social network, il blaterare sociale si manifesta attraverso la condivisione di pensieri e opinioni che possono risultare più come rumore di fondo che come comunicazione significativa.
Questo fenomeno è analizzato in relazione all’interazione tra oralità e scrittura, evidenziando come la scrittura nei social media possa riprodurre l’oralità senza la profondità e la riflessione tipiche di conversazioni più sostanziali.
Il blaterare sociale crea una cultura della superficialità, le informazioni vengono consumate rapidamente e senza un’adeguata elaborazione critica. Questo porta a una forma di comunicazione che risulta alienante o disorientante per gli individui, specialmente in un contesto in cui il valore della comunicazione autentica è spesso messo in discussione.
Un impatto significativo sulla nostra percezione della realtà, influenzando come interpretiamo e reagiamo agli eventi e alle informazioni che ci circondano.
Una percezione distorta della realtà. Le informazioni vengono semplificate, contribuendo a una comprensione errata degli eventi e delle situazioni. Gli individui tendono a conformarsi alle interpretazioni dominanti all’interno di un gruppo sociale.
Questo fenomeno di imitazione sociale fa sì che le persone accettino passivamente le narrazioni prevalenti, anche se queste sono basate su discorsi blateranti e privi di sostanza.
Il blaterare sociale può generare un contagio psichico, dove le emozioni e le opinioni si diffondono rapidamente, influenzando la percezione collettiva della realtà. Ciò può portare a stati di effervescenza collettiva, dove le emozioni condivise superano la razionalità.
Si ottiene una costruzione sociale della realtà attraverso false interazioni sociali e critiche comunicazioni. Le norme sociali e i modelli di comportamento sono influenzati dalle interpretazioni condivise, il che significa che il blaterare sociale può modificare ciò che è considerato normale o accettabile nella società.
Il concetto di “un mondo blaterale” può essere interpretato in vari modi, anche se non sembra avere un significato specifico. Ma è la realtà dei fatti a segnalarlo. Una comunicazione sempre più superficiale che descrive una realtà in cui le interazioni sono dominate da conversazioni futili e chiacchiere vuote e banali.
Le informazioni importanti vengono trascurate a favore di contenuti più leggeri e meno significativi. Le relazioni interpersonali si basano su scambi verbali superficiali piuttosto che su interazioni profonde e significative.
Nasce una società che privilegia il rumore e la superficialità rispetto alla sostanza e alla riflessione critica. “Un mondo blaterale” in cui blaterare diventa sinonimo di “gossippare” sebbene ci siano alcune sfumature diverse.
Mentre blaterare indica un parlare in modo prolisso, insensato o a vanvera. Ha una connotazione negativa e implica che il discorso sia privo di sostanza e può riferirsi a qualsiasi tipo di conversazione che risulta fastidiosa o irritante, anche non necessariamente legata a pettegolezzi.

Gossippare si riferisce specificamente alla pratica di discutere o diffondere pettegolezzi, spesso riguardanti la vita privata di altre persone ma è più focalizzato su chiacchiere su altre persone, spesso con l’intento di intrattenere o suscitare curiosità.

Blaterare e gossippare possono sovrapporsi nel contesto di conversazioni superficiali e prive di significato, blaterare ha un uso più ampio e può riferirsi a qualsiasi tipo di discorso insensato, mentre gossippare è specificamente legato alla diffusione di pettegolezzi.
Entrambi i termini condividono una connotazione negativa quando si tratta di comunicazione non costruttiva. Fanno appello alla “pancia” di chi legge, sente o scrive, piuttosto che al cervello e al buon senso.
Il blaterare sociale può effettivamente portare a fenomeni come il gossip e la diffusione di fake news. Il termine inglese sta per falsità. Le piattaforme social sono utilizzate per condividere pettegolezzi su celebrità o eventi pubblici.
Questo tipo di comunicazione, caratterizzato da affermazioni non verificate, può diffondersi rapidamente, influenzando la percezione pubblica e creando false narrazioni. Così nascono le fake news virali.
La viralità dei contenuti facilita la falsità. Spesso, informazioni ingannevoli vengono condivise senza verifica, contribuendo a una cultura del blaterare dove la sostanza è sacrificata per il sensazionalismo.
Questo fenomeno è evidente durante eventi significativi, come le elezioni politiche o le crisi sanitarie, dove le fake news hanno influenzato l’opinione pubblica e le decisioni politiche.
Le interazioni sui social media tendono a essere brevi e poco approfondite. Gli utenti spesso rispondono con emoji o frasi fatte, evitando discussioni significative. Questa superficialità nella comunicazione alimenta un ambiente in cui il gossip e le notizie false prosperano, poiché gli utenti non si prendono il tempo per verificare le informazioni.
La ricerca di approvazione attraverso “like” e commenti spinge gli utenti a condividere contenuti che generano reazioni immediate, piuttosto che contenuti informativi o veritieri. Questo porta a una comunicazione egocentrica e superficiale, contribuendo alla diffusione di messaggi vuoti e potenzialmente fuorvianti ed anche pericolosi.
I media possono manipolare la percezione della realtà mostrando solo le migliori versioni delle vite altrui. Questo porta a confronti irrealistici e alla diffusione di messaggi che non riflettono la verità, alimentando sentimenti di inadeguatezza tra gli utenti e contribuendo ulteriormente al blaterare sociale.
Vale sempre il consiglio di Marshall McLuhan: attenzione al mezzo, è sempre il messaggio.
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Published on September 18, 2024 08:50

September 17, 2024

Il tarlo …

Il tarlo …foto@angallo
La lettura ha sempre avuto molti nemici. Uno in particolare mi ha recentemente attaccato. Non il tarlo della lettura che ho sin dalla nascita, eredità di famiglia. Mi riferisco al tarlo vero, quello animale. Per secoli il tarlo della lettura è stato sempre cartaceo. Oggi a questo tipo di tarlo si è affiancato il tarlo digitale.
Non sono la stessa cosa. Il tarlo digitale “tarla” chi legge in maniera diversa. Questa foto risale a dieci anni fa. Avevo tra le mani un libro pubblicato da una piattaforma dedicata ai libri che ho poi abbandonato, ma ancora in vita, che pubblicò quel libro. Il titolo parla chiaro ed è sempre attuale. Sono continuamente “tarlato” sia in cartaceo che in digitale.
Ma cos’è un tarlo innanzitutto ? E’ un coleottero la cui larva si nutre di legno, scavando gallerie all’interno del materiale, indebolendolo progressivamente. Esistono diverse specie di tarli, ognuna con caratteristiche diverse e preferenze per tipi di legno specifici.
Il ciclo vitale del tarlo comprende più fasi: uovo, larva, pupa e adulto. La larva è la fase più dannosa, in quanto è durante questo stadio che si nutre del legno.
La parola “tarlo” ha origini etimologiche che risalgono al latino. Essa deriva dal termine latino “teredo”, che indicava un verme marino noto per nutrirsi di legno. In italiano, il termine è stato adattato per riferirsi a insetti xilofagi, come gli anobi, che danneggiano il legno.
Inoltre, si trova una connessione con il latino “tarmes” e il termine classico “tărmu(m)”, che significa “tarma”, evidenziando ulteriormente la relazione tra il tarlo e i vermi o insetti che rovinano i materiali lignei.

Giorni fa mia moglie mi ha costretto a liberarci di uno scaffale di legno per i libri che un falegname mi fece nello studio. Da diverso tempo, da tanti buchini quasi invisibili, filtrava una sottile polvere, piccoli fori rotondi. Un chiaro segnale di infestazione. Polvere fine sotto i mobili. Mia moglie era esasperata.

Lei sosteneva, addirittura, di sentire anche dei leggeri rumori provenire dal legno infestato, causati dalle larve che scavano le gallerie. Avrebbero attaccato anche i libri. Me ne sono liberato ed è arrivata una scaffalatura in ferro via Amazon. Made in China, ovviamente. Spero che non esistano tarli in ferro, magari cinesi! Ma torniamo in argomento.

La lettura, sia essa cartacea che digitale, ha subìto trasformazioni significative nel corso dei secoli, influenzando il modo in cui gli individui si approcciano ai testi. Il “tarlo della lettura” si manifesta in modi diversi a seconda del supporto utilizzato. La lettura cartacea offre un’esperienza sensoriale unica: il tatto delle pagine, l’odore della carta e l’atto fisico di sfogliare un libro sono elementi che molti lettori apprezzano.

Questa modalità di lettura favorisce una maggiore immersione e concentrazione. Studi dimostrano che i lettori tendono a ricordare meglio i dettagli e a comprendere più profondamente i testi quando leggono su carta rispetto ai dispositivi digitali.

Al contrario, la lettura digitale è spesso accompagnata da distrazioni. I dispositivi come smartphone e tablet possono interrompere l’esperienza di lettura con notifiche e contenuti multimediali che distolgono l’attenzione dal testo principale. Inoltre, la navigazione tra collegamenti ipertestuali e altre funzioni interattive può portare a una lettura più superficiale.

Le risultanze dei due tipi di lettura sono differenti: i libri cartacei invitano a una fruizione lineare e strutturata, mentre i libri digitali offrono la possibilità di interazione immediata e accesso a informazioni supplementari. Tuttavia, questa interattività può anche ridurre la capacità di concentrazione e comprensione profonda.

Le nuove tecnologie hanno modificato le abitudini, specialmente tra i giovani. Sebbene la lettura su schermi sia diventata comune, molti ragazzi continuano a preferire i libri cartacei per motivi come il desiderio di disintossicazione digitale e il comfort visivo. La pandemia ha accelerato l’adozione della lettura digitale in ambito educativo, ma ci sono preoccupazioni riguardo alla sua efficacia rispetto ai materiali stampati.

Mentre il tarlo della lettura cartacea ha una lunga storia caratterizzata da un’interazione profonda e sensoriale con il testo, il tarlo digitale introduce nuove dinamiche che possono arricchire o impoverire l’esperienza di lettura. Entrambi i formati hanno i loro vantaggi e svantaggi, e la scelta tra carta e digitale dipende dalle preferenze personali e dal contesto in cui avviene la lettura. Io continuo ad essere “tarlato” …

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Published on September 17, 2024 08:57

September 16, 2024

Chi vive nella “Torre di Babele” si dissolve nel “nulla” della sua “alta cultura”

Corriere della Sera
Questa è l’ultima domanda, con risposta, in una intervista pubblicata sul Corriere ad un signore intellettuale di 89 anni il quale ha dichiarato che la sua “sfida è di portare in TV argomenti alti di cultura”.
Lui vive nella “Torre di Babele”. Ne parla, infatti, da tempo in una tv che gli dà tutto lo spazio possibile. Se lo merita. A quanto pare, ha molti affezionati ascoltatori, anche “followers”. Spero anche attenti lettori dei suoi libri.
Chi ha letto questa intervista potrà dare il suo giudizio. Sia ben chiaro, io scrivo quello che penso senza pregiudizi. L’uomo vale davvero, anche in considerazione della sua lunga esperienza di cultura, di studi, di libri scritti e letti, e per gli anni vissuti.
Ciò che mi colpisce sono queste sue parole che riporto in apertura del post e che chiudono l’incontro con il giornalista che l’ha intervistato. Nella discussione c’è per intero il quadro della sua personalità che annunzia con enfasi la ripresa del suo programma: “la sfida di portare in tv argomenti di alta cultura”.
Al link si può leggere quello che ha detto e farsi le proprie idee al riguardo. A me basta riflettere, nella mia infinita ignoranza, sulle 15 parole che formano il suo pensiero definitivo, in attesa della sua “uscita dal mondo” che gli auguro quanto più tardi possibile.
Ci separano pochi anni, ne ha qualcuno in più dei miei. Mi permetto di pensare che, nonostante questo, non ha capito granchè. Anche io voglio essere cremato e credo, come lui, che mi dissolverò in quello che lui chiama cosmo.
Ma non penso che ritornerò nel “nulla”, come lui dice. Un “nulla” dal quale, egli sostiene, di provenire. In questa parola si nasconderebbe, a suo modo di pensare, la ragione umana dell’essere e del non essere.
Non è, ovviamente, una “insostenibile leggerezza”, come la pensa Milan Kundera, nè tanto meno un “problema”, come disse William Shakespeare per bocca di Amleto, ma è un “fatto” dal quale nessuno può sfuggire.
C’è un inizio e c’è una fine, il tutto si realizza in maniera ciclica e circolare: si chiama divenire. Un “fatto”, una “creazione”, perchè “creato”, appunto, da due esseri umani che l’hanno voluto e “fatto”. Nasce una “creatura”.
Quando si afferma che “la vita è un fatto di creazione”, si vuole sottolineare che l’esistenza umana è una realtà concreta, eventi tangibili e voluti, non semplici astrazioni.
La vita è qualcosa che accade nella realtà, non un’idea o una teoria, ma un’esperienza pratica che ognuno di noi vive. Tuttavia, il fatto che la vita sia un dato di “fatto” non può implicare che gli uomini vengano dal nulla e ritornino nel nulla dopo la fine, chiamata “morte”. Fine non è. Ma “divenire” .
Diverse culture e filosofie hanno elaborato concezioni più articolate sull’origine e il destino dell’essere umano. L’uomo come discendente di Dio, secondo alcune visioni, non ha origine da una “massa caotica di materia”, ma è un figlio di Dio, fatto a sua immagine.
Possiede in sé una “scintilla di quella fiamma eterna” proveniente dal mondo divino. In questa prospettiva, l’uomo è un “Dio in embrione” destinato a maturare e diventare perfetto come il Padre celeste.
Che dire poi dell’idea dell’uomo come essere dotato di destino? Altre concezioni lo vedono inserito in un ordine cosmico governato, appunto, dal destino o dalla necessità, a cui anche gli dei devono sottostare.
In questa visione, il destino concatena gli eventi in una sequenza inevitabile, per cui nulla accade per caso, ma tutto è legato a precise cause e finalità. Non manca l’idea dell’uomo come essere chiamato a trascendere la realtà fisica.
Alcuni pensatori, come il filosofo e scienziato francese Pierre Lecompte du Noüy, sostengono che la complessità e il significato della vita umana non possano essere spiegati solo in termini materialistici. Secondo du Noüy, è necessario trascendere la pura realtà fisica verso il suo fondamento divino per comprendere pienamente l’esistenza dell’uomo.
Insomma, anche se la vita è un fatto concreto, si tratta sempre di “creazione”, le riflessioni sull’origine e il destino dell’uomo vanno oltre la semplice idea di un’esistenza che inizia e finisce nel nulla.
Nella filosofia greca antica, il concetto di destino era spesso associato al “fato”, un potere ineluttabile che determinava il corso della vita degli individui.
Gli stoici, ad esempio, credevano in un ordine naturale dell’universo governato dal Logos, dove ogni evento era parte di un disegno più grande.
Alcune correnti moderne, come quelle esistenzialiste, enfatizzano la libertà individuale e la responsabilità personale nel determinare il proprio destino.
Secondo pensatori come Jean-Paul Sartre, gli individui sono condannati a essere liberi e devono creare il proprio significato e scopo nella vita. In molte tradizioni orientali, come l’induismo e il buddismo, il destino è legato al concetto di reincarnazione.
Le azioni compiute in una vita influenzano le esperienze nelle vite future, creando un ciclo di causa ed effetto che determina il progresso spirituale dell’individuo.
Il relativismo culturale suggerisce che le interpretazioni del destino umano sono influenzate dalle specifiche tradizioni culturali e storiche.
Ogni cultura sviluppa le proprie narrazioni e credenze riguardo al destino, riflettendo le esperienze collettive e le memorie storiche dei suoi membri.
Molti ostengono che la complessità della vita umana non può essere intesa solo attraverso spiegazioni materialistiche, tanto meno rinchiuderla in una “gabbia del nulla”, ma richiede una riflessione sul legame tra l’esistenza fisica e una dimensione spirituale.
Il destino umano è un concetto complesso che varia significativamente tra culture e tradizioni filosofiche. Mentre alcune visioni enfatizzano la predestinazione divina o il fato ineluttabile, altre pongono l’accento sulla libertà individuale e sulle responsabilità personali nel plasmare il proprio futuro.
Indubbiamente le possibilità sono tante. Si capisce perchè Corrado Augias, si tratta proprio di lui, uno dei più grandi intellettuali contemporanei italiani, avendo scelto di vivere nella “Torre di Babele” della sua sconfinata cultura, sostiene quello che, in sintesi, ma con grande enfasi, ha voluto dire con questa frase.
Ha chiuso la sua intervista facendo planare il sapere nel “nulla”. Tutto si riduce ad una Babele, con la sua “dissolvenza nel cosmo”.
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Published on September 16, 2024 13:02

September 13, 2024

“Nexus”: un “nesso”, con “annessi e connessi”

La presentazione editoriale del libro
La storia di come le reti di informazione hanno fatto e disfatto il nostro mondo, dall’autore del bestseller mondiale Sapiens. Negli ultimi centomila anni, noi Sapiens abbiamo accumulato un enorme potere. Eppure, nonostante tutte le nostre scoperte, invenzioni e conquiste, oggi ci troviamo in una crisi esistenziale. Il mondo è sull’orlo del collasso ecologico. La disinformazione dilaga. E ci stiamo buttando a capofitto nell’era dell’intelligenza artificiale, una nuova rete di informazioni che minaccia di annientarci. Perché siamo così autodistruttivi? Nexus ci porta a guardare attraverso la lente della storia umana per considerare come il flusso di informazioni ha plasmato noi e il nostro mondo. Partendo dall’età della pietra, passando per la canonizzazione della Bibbia, la caccia alle streghe della prima età moderna, lo stalinismo,il nazismo e la rinascita del populismo di oggi, Yuval Noah Harari ci chiede di considerare il complesso rapporto tra informazione e verità, burocrazia e mitologia, saggezza e potere. Esplora come le diverse società e i sistemi politici nel corso della storia hanno utilizzato le informazioni per raggiungere i loro obiettivi, nel bene e nel male. E ci consente di affrontare con maggior consapevolezza le scelte urgenti che ci attendono oggi che l’intelligenza non umana minaccia la nostra stessa esistenza. L’informazione non è la materia prima della verità né una semplice arma. Nexus esplora la via di mezzo tra questi estremi e, nel farlo, riscopre la nostra comune umanità.
L’etimologia del termine “nexus” deriva dal latino, dove “nexŭs” significa “connessione”, “nodo” o “vincolo”. In particolare, il termine implica un legame o una concatenazione di elementi, suggerendo un’interazione complessa tra diverse parti.
Nel contesto del nuovo, straodinario libro di Yuval Noah Harari, il titolo riflette l’idea di interconnessione tra le reti informative e il loro impatto sulla storia umana. Lo scrittore utilizza il concetto di nexus per esplorare come le informazioni abbiano plasmato le società, influenzando eventi storici e dinamiche di potere.
Questo legame tra informazione e potere è centrale nella sua analisi. Egli invita i lettori a riflettere su come le reti di informazione, dall’età della pietra all’era dell’intelligenza artificiale, continuino a influenzare le nostre vite e le sfide contemporanee. E’ un libro di oltre seicento pagine, da leggere, masticare e digerire.
In italiano, la parola “nesso” richiama alla mente l’espressione “annessi e connessi” ed è spesso utilizzata per riferirsi a tutto ciò che è collegato o correlato a un argomento principale, inclusi dettagli, implicazioni e conseguenze.
L’espressione deriva probabilmente dal linguaggio giuridico e amministrativo, dove “annessi” si riferisce a beni o proprietà che sono legalmente collegati a un’entità principale, mentre “connessi” implica un legame più generale di interdipendenza o associazione.
Questioni che sono parte integrante di una situazione o di un problema più ampio, per comprendere o affrontare situazioni in modo completo, andando oltre la superficie.
Sia la parola che l’espressione sono spesso usate per sottolineare che un argomento o una questione non possono essere considerate isolatamente, ma esaminate nel loro contesto più ampio, tenendo conto di tutti gli elementi correlati.

Yuval Noah Harari fa esattamente questo nel suo nuovo libro “Nexus: Breve storia delle reti informative dall’età della pietra all’IA”, esplora il complesso rapporto tra informazione, potere e progresso umano.
Analizza come le reti di informazione abbiano influenzato la storia umana, partendo dalla preistoria fino all’era dell’intelligenza artificiale.
Utilizza esempi storici significativi, come la caccia alle streghe e i regimi totalitari, per illustrare come il controllo dell’informazione possa plasmare le società. Il libro affronta le sfide moderne, come la disinformazione e l’impatto dell’intelligenza artificiale.
Egli invita i lettori a riflettere su come navigare in un mondo saturo di dati e a considerare le conseguenze delle tecnologie emergenti.
Propone una riflessione profonda sul potere dell’informazione e sulla sua capacità di influenzare le decisioni politiche e sociali. Sottolinea l’importanza di discernere tra verità e manipolazione in un’epoca di fake news.
Le recensioni di Nexus sono state generalmente positive. Critici e lettori lodano la capacità di Harari di sintetizzare complesse tendenze storiche e di offrire spunti di riflessione pertinenti per il presente e il futuro.

Nexus si presenta come un’opera fondamentale per chiunque desideri comprendere le dinamiche attuali della comunicazione e dell’informazione.

Harari non solo analizza il passato, ma offre anche una guida per affrontare le sfide del futuro, rendendo il libro un must-read per lettori interessati alle scienze umane e alla filosofia contemporanea.
Nel libro Yuval Noah Harari esplora in particolare il ruolo dell’intelligenza artificiale (IA) in un contesto storico e contemporaneo, evidenziando sia le opportunità che le sfide che essa presenta.
Egli sottolinea come l’IA può essere utilizzata per raccogliere e analizzare enormi quantità di dati, influenzando così le dinamiche di potere.
Egli avverte che, mentre l’IA promette di migliorare la vita umana, può anche essere sfruttata per manipolare informazioni e controllare le persone, creando un ambiente di disinformazione e conflitto.
L’autore discute il fenomeno del sovraccarico informativo, dove l’abbondanza di dati può portare a confusione e disorientamento.
Questo è aggravato dall’uso dell’IA, che può amplificare la diffusione di notizie false e contenuti manipolati, mettendo in discussione la nostra capacità di discernere la verità.
Una prospettiva incerta, Harari si interroga su come l’IA influenzerà il nostro futuro, ponendo domande provocatorie su cosa significhi veramente “intelligenza” in un’era in cui le macchine possono apprendere e agire autonomamente.
Egli invita i lettori a riflettere sulle implicazioni etiche e sociali dell’IA, suggerendo che la nostra comprensione di questa tecnologia potrebbe cambiare radicalmente le nostre società.

Harari sostiene l’idea che l’intelligenza artificiale sia una forza ambivalente, capace di generare sia progressi significativi che rischi considerevoli.
La sua analisi invita a una riflessione critica su come gestire e integrare l’IA nella vita quotidiana, sottolineando l’importanza di un approccio etico e consapevole.
A distanza di oltre mezzo secolo rimane sempre valida l’intuizione di Marshall McLuhan: il mezzo rimane il nesso per trasmettere il messaggio.
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Published on September 13, 2024 09:03

September 9, 2024

Elogio della patafisica. La scienza delle soluzioni immaginarie

Foto@angallo
Addio problemi, benvenuta Patafisica! Cari amici, oggi ho una confessione da fare: ho deciso di abbracciare la patafisica e di dedicarmi a questa scienza delle soluzioni immaginarie. Perché questa scelta? Semplice, perché gli uomini non risolvono i problemi, anzi ne creano sempre di più, senza trovare soluzioni efficaci.
La patafisica, come diceva il suo inventore Alfred Jarry, di cui l’8 settembre 1873 ricorre la nascita, esplora le leggi che governano le eccezioni e si spinge oltre la fisica e la metafisica tradizionali.
È un approccio che accoglie l’assurdo, il nonsenso e le contraddizioni come parte integrante dell’esperienza umana. Non più distinzioni rigide tra ciò che è serio e ciò che non lo è, ma un abbraccio di tutte le possibilità.
Da oggi in poi, di fronte a ogni problema che la vita ci porrà davanti, non cercherò soluzioni razionali e convenzionali. No, mi immergerò nell’universo patafisico, esplorando soluzioni immaginarie, paradossali e assurde.
Perché, come diceva Jarry, “la patafisica è necessaria per comprendere il mondo in modo diverso”. Quindi, addio problemi, benvenuta patafisica! Insieme, esploreremo le eccezioni, rideremo delle contraddizioni e celebreremo l’assurdo.
Perché, in fondo, non è l’assurdo che rende la vita così interessante? Nei ruggenti anni sessanta del secolo scorso, conobbi in Inghilterra, (la terra dell’assurdo), con Tom Stoppard “il teatro dell’assurdo”. Non conoscevo ancora Samuel Beckett. Ha detto bene un eminente politico contemporaneo:
“Io non accetterò mai di vivere in una comunità in cui c’è un soggetto SOPRAELEVATO rispetto alla comunità stessa. È un principio antidemocratico. Se passa questo principio — e non vedo come possa passare — io non potrei esserci.”
Oggi, ricordo il grande predecessore dell’assurdo: Alfred Jarry. Viva la patafisica, viva le soluzioni immaginarie! Ma come? Apertura mentale. La patafisica incoraggia ad abbracciare l’assurdo, il nonsenso e le contraddizioni come parte integrante dell’esperienza umana.
Questo approccio permette di vedere il mondo da una prospettiva diversa, liberandosi dai condizionamenti e dalle visioni limitate dall’abitudine. Essere aperti alle infinite interpretazioni dei fenomeni, invece di cercare spiegazioni univoche, favorisce una mente più flessibile e creativa.
Accettazione dell’incertezza. La patafisica rifiuta le verità assolute e le costruzioni chiuse con pretese totalitarie. Non esiste una “verità superiore” definitiva, ma piuttosto una pluralità di simboli dal significato frammentario e provvisorio, aiuta ad abbracciare l’incertezza come parte naturale della vita.
Questo atteggiamento può ridurre l’ansia e la frustrazione derivanti dalla ricerca di risposte definitive. Distacco e serenità. Grazie al sufficiente distacco praticato verso le cose e gli accadimenti, i patafisici mantengono una certa serenità, al di là del riso e del sorriso.
La capacità di non prendersi troppo sul serio e di non farsi travolgere dalle emozioni può essere un antidoto efficace allo stress e all’ansia della vita moderna. Eliminare tutte le “elevazioni”, creando altre “sovraelevazioni”.
Imparare a ridere delle contraddizioni e a non prendere tutto troppo sul serio è un’abilità preziosa. Creatività e immaginazione. La patafisica è la “scienza delle soluzioni immaginarie”.
Incoraggiare l’immaginazione e la capacità di pensare fuori dagli schemi può portare a soluzioni creative per i problemi della vita quotidiana. Anziché affidarsi a risposte convenzionali, un approccio patafisico stimola l’esplorazione di possibilità insolite e originali.
L’etimologia della parola “patafisica” è stata spiegata dallo stesso Alfred Jarry nel libro “Gesta e opinioni del dottor Faustroll, patafisico”. Ecco cosa scrive Jarry:
“La patafisica, la cui etimologia deve scriversi épi (metà tà pausicà) e l’ortografia reale patafisica preceduta da un apostrofo, per evitare confusione.”
Quindi, secondo Jarry, la parola “patafisica” deriva dal greco “épi” (μετὰ), che significa “oltre”, e “tà pausicà” (τὰ φυσικά), che significa “le cose fisiche” o “la fisica”.
L’apostrofo iniziale è stato aggiunto da Jarry intenzionalmente per evitare un facile gioco di parole con “pas ta physique” (che in francese significa “non la tua fisica”) e “pâte à physique” (che significa “impasto di fisica”).
“Patafisica” significa letteralmente “la scienza di ciò che si aggiunge alla metafisica”, estendendosi oltre la fisica e la metafisica tradizionali. Jarry la definisce come “la scienza delle soluzioni immaginarie”.
Nel “Padre Ubu”, Alfred Jarry utilizza la figura di Ubu per esplorare e illustrare i principi della patafisica, creando una satira del potere e delle convenzioni sociali. Alcuni aspetti chiave su come la patafisica è descritta in quest’opera sono la satira del potere. Ubu, il protagonista, è un personaggio meschino e tirannico che rappresenta una critica al potere politico e alla sua insensatezza. La sua insaziabile brama di controllo e il suo comportamento irrazionale incarnano l’assurdità delle strutture di potere, suggerendo che la vera natura del potere è spesso ridicola e priva di logica. Jarry, attraverso Ubu, rifiuta l’idea di una verità assoluta, evidenziando come il potere tenti di definire una realtà univoca che la patafisica rigetta.
La Patafisica come necessità. Nel dialogo di Ubu, si afferma che “la patafisica è una scienza che abbiamo inventato, perché se ne sentiva generalmente il bisogno”. Questa affermazione sottolinea l’importanza della patafisica come risposta alle contraddizioni e alle ingiustizie della vita quotidiana. La patafisica diventa così un mezzo per affrontare le complessità della realtà, proponendo soluzioni immaginarie e alternative.
Categorizzazioni. Jarry, attraverso Ubu, rifiuta ogni categorizzazione rigida e la razionalizzazione dei concetti. La patafisica si propone come una scienza delle eccezioni, dove l’irrazionale e l’assurdo hanno un posto legittimo. Questo approccio invita a considerare le esperienze umane come un insieme di fenomeni complessi e interconnessi, piuttosto che come eventi ordinati secondo leggi stabili e conoscibili.
Non mancano gli elementi iconografici. Nell’opera, Jarry introduce simboli patafisici, come la Giduglia, che rappresenta la pancia di Ubu, e altri elementi che riflettono l’assurdità e la complessità della vita. Questi simboli servono a enfatizzare l’idea che la patafisica è un modo di vedere il mondo che va oltre le convenzioni e le aspettative.
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Published on September 09, 2024 00:09

September 7, 2024

Una nuova era: “enshittocene”

Enshittification
Stiamo tutti vivendo l’enshittocene, un grande enshittening, in cui i servizi che contano per noi, su cui facciamo affidamento, si stanno trasformando in enormi mucchi di merda.
In inglese la parola è shit. È frustrante. È demoralizzante. È persino terrificante. Il quadro dell’enshittificazione illustra bene la situazione nella quale il mondo sta per entrare.
Se ci spostiamo fuori dal misterioso regno delle grandi forze della storia e ci trasferiamo nel mondo materiale di decisioni specifiche prese da persone nominate, intravediamo situazioni che non possiamo cambiare, non sappiamo come bloccare azioni e persone di cui non condividiamo le decisioni.
L’enshittificazione nomina il problema e propone una soluzione. Non è solo un modo per dire: “le cose stanno peggiorando”. È una parola inglese, la lingua più libera e più creativa al mondo. Esaminiamo come funziona.
Un processo in tre fasi: prima, le piattaforme sono buone con i loro utenti; poi abusano dei loro utenti per migliorare le cose per i loro clienti aziendali; infine, abusano di quei clienti aziendali per riprendersi tutto il valore. Poi, muoiono.
Per mezzo di un prefisso e un suffisso nasce “enshittocene”: “en + shit + t + o + cène”, (en- dal gr. καινός «nuovo, recente»). Il secondo elemento -cene fa parte dei termini composti della cronologia geologica (come Eocene, Miocene, Oligocene, Pleistocene, ecc.), con il significato di «recente».
In italiano diventerebbe “in+merda+cene”, oppure anche “immerdamento”, un neologismo creato per descrivere una fase della società contemporanea caratterizzata da un deterioramento delle condizioni sociali e ambientali a causa dell’uso eccessivo delle tecnologie digitali e dei social media.
Il termine “shittocene” è stato coniato dal critico e teorico dei media Cory Doctorow, il quale lo utilizza per evidenziare come le piattaforme digitali abbiano contribuito a una cultura della superficialità e della disinformazione.
La parte “en-” serve a formare un verbo che implica un’azione o un processo, suggerendo quindi una transizione verso questa nuova era, un periodo in cui la qualità delle interazioni sociali e delle informazioni è in declino.
A causa della predominanza di contenuti tossici e della manipolazione dei dati, dobbiamo metterci in guardia contro le conseguenze negative dell’era digitale.
La “enshittocene” diventa quindi una riflessione critica sulla direzione in cui la società sta andando. Sottolinea l’importanza di una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’uso delle tecnologie digitali.

Fonte: FINANCIAL TIMES

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Published on September 07, 2024 07:14

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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