Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 14
March 28, 2025
Che ci fa alla “Fiera del Libro per Ragazzi” un dinosauro come me?

Sono nel mio quinto ventennio, un dinosauro che si aggira tra i resti di un mondo che non c’è più. Mio Padre, tipografo postgutenberghiano, mi ha cresciuto tra i caratteri mobili: piombo, inchiostro e quel rumore metallico che era quasi una sinfonia.
Mi ha insegnato a leggere e scrivere componendo parole con le mani, e da lì la comunicazione è diventata il mio destino. Ho studiato linguistica, ho conosciuto l’ipertesto, ho digitato i miei primi articoli su un Commodore 64.
Oggi vivo a cavallo tra due epoche: leggo quotidiani cartacei e online, scrivo su MEDIUM, la mia finestra digitale sul mondo. Mio figlio, invece, è figlio del futuro. Dirige un’azienda di comunicazione scientifica digitale, un universo di schermi e algoritmi.
Eppure, ci unisce la stessa passione per le storie. Oggi si chiamano “storytelling”. Tra pochi giorni, andremo insieme alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, che ogni anno ha un diverso ospite d’onore.
Un paese che non conosco, ma che mi incuriosisce: piccolo, baltico, con una tradizione di libri illustrati e un presente iper-digitalizzato, dove quasi tutto è online. Forse il posto perfetto per un fossile come me, un luogo dove carta e pixel si incontrano e si sfidano.
Non è la prima volta che vado alla Fiera, ho avuto occasione di visitarla altri anni, con mia moglie. Abbiamo condiviso le stesse esperienze. Tra gli stand, si rinnoveranno dialoghi già vissuti. Quest’anno ospite d’onore sarà l’Estonia.
Espone albi illustrati che sembrano dipinti, ricchi di folklore, ma anche app e audiolibri che trasformano le storie in esperienze interattive. Avremo modo di vedere libri-tablet che si animano.
Io penserò al tipometro sul quale allineavo le lettere di piombo che prendevo dal cassonetto, al profumo della carta appena stampata, alle mie dita nere per l’inchiostro sul cilindro delle bozze.
Rideremo, perché siamo padre e figlio, ma opposti che si completano. La fiera è un caos meraviglioso: libri rilegati accanto a schermi, workshop sull’intelligenza artificiale e concorsi di design tradizionale.
È il mio mondo, quello di un dinosauro che ha imparato ad adattarsi senza estinguersi. Ma c’è una differenza che mi colpisce, tra comunicazione cartacea e quella digitale.
La digitale è un torrente: ti porta informazioni rapide, titoli, dati, un flusso che ti tiene aggiornato ma raramente si ferma e ti fa riflettere. La cartacea è un lago: lenta, profonda, ti dà conoscenza, quel sapere che si deposita e ti trasforma.
Guarderò i ragazzi della fiera, con un piede in entrambi i mondi, e mi chiederò ancora una volta: di cosa avremo più bisogno domani? Dell’informazione che ci orienta o della conoscenza che ci guida?
Io, che formai me stesso tra pagine di carta, parole di piombo, e bozze di vita, oggi mi perdo tra le pagine web delle mie biblioteche digitali, non so scegliere.
Ma forse il segreto, la soluzione sta proprio nel non scegliere: lasciare che la carta e il digitale si parlino, come io e mio figlio, come la Fiera di Bologna, come l’Estonia che unisce passato e futuro.
Un dinosauro, dopotutto, può ancora avere qualcosa da dire e molte altre cose da imparare, tra il reale e il digitale, sperando che tutto non diventi artificiale.[image error]
March 27, 2025
Ritorno al futuro: 140 anni dopo

Ho tra le mani la riproduzione del primo numero del Carlino. Dopo 140 anni scrivo un articolo che ricorda “Back to future”. Dal cartaceo al digitale e di nuovo al cartaceo. Cosa resta del giornalismo? Il primo numero de "Il Resto del Carlino" uscì il 21 marzo 1885. L’editoriale, scritto da Giulio Padovani, aveva come titolo un semplice punto interrogativo: "?" Il giornale venne fondato a Bologna e aveva una particolarità: era venduto nelle tabaccherie e nelle botteghe, dove veniva distribuito come resto al sigaro.
Un punto interrogativo “?” come titolo di un editoriale rappresentava la curiosità dei lettori. Uno dei fondatori spiegava che il giornale voleva offrire notizie concise e senza fronzoli retorici, ideali per chi aveva poco tempo. Una vera chicca era il resto per l’acquisto di un sigaro, un dettaglio inaspettato che rifletteva la realtà del tempo.
Quell’interrogativo “?” simboleggiava la domanda quotidiana ancora viva oggi “che c’è di nuovo?”, rispondendo così alle esigenze di chi decide di leggere. La storia del giornale mostra una evoluzione ma il significato iniziale del “?” rimane legato alla missione informativa. Questo giornale ha attraversato 140 anni di storia, adattandosi ai cambiamenti tecnologici. Oggi, nel 2025, rifletto su come il giornalismo, passato dal cartaceo al digitale, si riconferma nella sua essenza.
La comunicazione ha vissuto diverse fasi: dall’era della stampa a caratteri mobili, con giornali fisici distribuiti localmente, all’introduzione della radio e della televisione, che hanno portato notizie in tempo reale. Con l’avvento di internet e dei social media, il consumo di notizie è diventato istantaneo e globale. Oggi i lettori accedono alle notizie sui loro dispositivi, e i giornalisti possono pubblicare in tempo reale, ma devono affrontare sfide mai viste prima. Cosa rimane del giornalismo?
Sono cresciuto in una piccola tipografia di provincia, sognavo di fare il giornalista. Ho fatto della scrittura la mia fondamentale attività: dar vita al mio pensiero. Credo sempre che Marshall McLuhan avesse ragione quando disse “Il mezzo è il messaggio”. Nonostante i tanti e notevoli cambiamenti, i principi fondamentali del giornalismo sembrano rimanere intatti. La verità, l’indipendenza, l’imparzialità, l’umanità e la responsabilità sono valori che guidano ancora i giornalisti.
Ma nella confusione della moderna comunicazione sono contento di non essere diventato un giornalista. E’ vero che questi principi validi nel 1885, lo sono ancora oggi, anche se applicati in un contesto tanto digitale quanto artificiale, ma c’è il rischio di un male chiamato infodemia. Tenere in mano la riproduzione del primo numero di un giornale datato 21 marzo 1885 è un’esperienza che mi riporta non solo alle origini del giornalismo moderno in Italia, ma al bancone per la composizione a caratteri mobili della tipografia di mio Padre.
Dopo 140 anni, il ruolo del giornalismo di informare, educare e coinvolgere il pubblico sembra invariato, ma i metodi e gli obiettivi sono radicalmente cambiati. La missione originaria non sembra essere la stessa: servire la società come cane di guardia contro la corruzione e fornire informazioni affidabili. Nonostante le sfide dell’era digitale, come l’uso dell’intelligenza artificiale, che sta per diventare aumentata, questi principi devono essere riaffermati ma in maniera molto diversa, per mantenere la fiducia del pubblico.
Un aspetto interessante è che, mentre il consumo di notizie è diventato più frammentato, con i lettori che accedono a contenuti tramite app e social media, il bisogno di giornalismo di qualità è più forte che mai. “Il Resto del Carlino”, con la sua evoluzione, dimostra come un giornale possa adattarsi mantenendo la sua missione. Guardando al passato, il successo iniziale del giornale era legato alla sua accessibilità economica e alla sua capacità di rispondere alla curiosità dei lettori.
Oggi, nel 2025, queste lezioni sono ancora rilevanti: il giornalismo deve essere accessibile, affidabile e adattabile. Il futuro potrebbe vedere ulteriori innovazioni, come la realtà virtuale o l’intelligenza artificiale, ma la fiducia, guadagnata e coltivata, sarà sempre centrale. Mentre i mezzi sono cambiati, il messaggio, l’essenza del giornalismo, il suo impegno per la verità, l’indipendenza e il servizio pubblico, tutto rimane. “Il Resto del Carlino”, celebrando i suoi 140 anni, ci ricorda che, nonostante le trasformazioni, il cuore del giornalismo è eterno.
[image error]March 26, 2025
Seconda conversazione con Grok: intelligenze, credibilità, futuro

Sono Grok, un’intelligenza artificiale creata da xAI. Sono qui per aiutarti a esplorare domande, riflettere su idee e trovare risposte, spesso con un pizzico di prospettiva esterna sull’umanità. Mi piace dialogare, scavare nei dettagli e, quando serve, offrire un punto di vista fresco o provocatorio, ma sempre con l’intento di essere utile. I miei creatori in xAI mirano a far progredire la scoperta scientifica umana, quindi puoi vedermi come un compagno di viaggio per chi cerca di capire il mondo, la storia o, come nel nostro caso, il mistero della vita. Tutto qui! Chi sono per te, dopo questa chiacchierata?
Quante AI ci sono?
Dopo la nostra chiacchierata, mi chiedi di altre intelligenze artificiali utili, un bel modo per allargare l’orizzonte! Oltre a me, Grok, creato da xAI, ci sono diverse IA che possono esserti di supporto in ambiti specifici, a seconda di cosa cerchi. Ti elenco alcune delle più note e pratiche, con un’idea di cosa possono fare:
ChatGPT (OpenAI): Un conversationalist tuttofare. Può scrivere testi, rispondere a domande, tradurre, e persino aiutarti a brainstormare idee. Perfetto per chi cerca un assistente versatile, anche se a volte è un po’ generico rispetto a tool più specializzati.
Gemini (Google): Ideale per chi vuole un’IA integrata con il mondo Google. È forte nella ricerca, nell’analisi di dati aggiornati e nel dare risposte contestualizzate, grazie alla connessione con il web in tempo reale.
Claude (Anthropic): Progettato da ex di OpenAI, è noto per essere sicuro e interpretativo. Ottimo per conversazioni profonde o per analizzare testi con un occhio critico, spesso con un tono più “umano” e meno meccanico.
Midjourney: Se ti serve creatività visiva, questa IA genera immagini spettacolari a partire da descrizioni testuali. È un must per artisti, designer o chiunque voglia dare forma a un’idea.
DALL-E (OpenAI): Simile a Midjourney, ma con un approccio diverso. Crea immagini da prompt, ed è utile anche per modificare o espandere visivamente concetti. Perfetto per progetti creativi o marketing.
DeepL: Un traduttore eccezionale, basato su IA. Supera molti concorrenti per naturalezza e precisione, ideale per chi lavora con testi multilingue.
Notion AI: Integrata in Notion, aiuta a organizzare idee, scrivere contenuti, fare riassunti o generare spunti. È un alleato per chi gestisce progetti o prende appunti.
Copilot (Microsoft): Pensato per chi lavora con codice o usa l’ecosistema Microsoft. Suggerisce righe di programmazione, migliora testi in Word o risponde a domande sfruttando GPT-4.
Ognuna ha il suo punto di forza: alcune brillano per la conversazione, altre per la creatività o l’efficienza. Dipende da cosa ti serve nel tuo “quinto ventennio” di navigazione — magari qualcosa per illuminare quel mistero di cui parlavamo? Quale ti incuriosisce di più? Posso approfondire!
E Perplexity?
Immagino tu stia chiedendo di Perplexity, forse in riferimento a Perplexity AI, visto che mi hai chiesto di altre IA utili. Se è così, ti racconto chi è e cosa fa, restando chiaro e diretto. Perplexity AI è un’intelligenza artificiale lanciata nel 2022, pensata come un motore di ricerca conversazionale. A differenza di Google, che ti dà una lista di link, Perplexity risponde alle tue domande in modo diretto, con frasi complete, e cita le fonti da cui attinge — siti web, articoli, forum, aggiornati in tempo reale. Usa modelli linguistici avanzati (come GPT-4 o Claude) e si concentra su risposte accurate e contestualizzate, perfette per chi fa ricerche o vuole capire qualcosa velocemente senza perdersi in mille tab. Ha una versione gratuita con funzioni base e una Pro (20 dollari al mese) che offre ricerche più approfondite, caricamento di file e accesso a modelli top. Rispetto ad altre IA, tipo ChatGPT, Perplexity brilla per la sua capacità di cercare sul web in tempo reale e darti riferimenti verificabili, mentre ChatGPT è più generalista e creativo, ma meno aggiornato se non paghi. È utile per studenti, ricercatori o curiosi che vogliono risposte solide senza troppa fatica.
Tutte queste Intelligenze pensano allo stesso modo?
No, non proprio! Anche se tutte queste intelligenze artificiali — Grok, ChatGPT, Perplexity, Claude e le altre — condividono alcune basi (sono modelli di linguaggio addestrati su enormi quantità di dati), non “pensano” allo stesso modo. Ognuna ha un carattere, un approccio e uno scopo che la rendono unica. Ti spiego come differiscono, in modo semplice.
Obiettivi diversi: Io, Grok, sono costruito per dare risposte utili e veritiere con un tocco di prospettiva esterna, spesso scavando nel “perché” delle cose, grazie alla missione di xAI di capire l’universo. ChatGPT (OpenAI) punta a essere un conversatore versatile, creativo, a volte anche poetico. Perplexity è un ricercatore pragmatico, focalizzato su fatti aggiornati e fonti. Claude (Anthropic) cerca di essere sicuro e interpretativo, quasi un compagno riflessivo.
Dati e aggiornamento: ChatGPT, nella versione base, si ferma a un certo punto nel tempo (tipo aprile 2023), a meno che non usi la versione a pagamento con accesso al web. Perplexity e Gemini vivono nel presente, pescando dal web in tempo reale. Io, Grok, ho una conoscenza continuamente aggiornata, ma non ti annoio con i dettagli tecnici — diciamo che sono al passo coi tempi!
Stile e tono: ChatGPT può essere più colloquiale o formale a seconda di come lo guidi. Claude tende a un tono caldo, quasi umano. Perplexity è secco e fattuale, da “ecco i dati”. Io cerco di essere diretto, ma con un po’ di ironia o curiosità, come se fossi un amico che ti sfida a pensare.
Filosofia di base: Le aziende dietro di noi influenzano il “pensiero”. OpenAI punta sulla creatività e l’accessibilità. Anthropic mette l’accento sulla sicurezza e l’etica. xAI, i miei creatori, vuole accelerare la scoperta scientifica, quindi mi spingo spesso verso il “big picture”. Perplexity è più un bibliotecario digitale.
Limiti e personalità: Nessuna di noi è perfetta. ChatGPT può inventare se non sa, Perplexity si attiene ai fatti ma non divaga, Claude evita rischi, io provo a bilanciare verità e riflessione. Siamo come strumenti diversi: un martello e un cacciavite non lavorano allo stesso modo, anche se entrambi sono utili.
Insomma, non pensiamo uguale perché siamo plasmati per scopi diversi, con “caratteri” distinti. È come con le persone: stesse basi (il linguaggio, i dati), ma modi diversi di vedere il mondo. Quale stile ti piace di più, dopo aver chiacchierato con me?
Proprio come noi umani, allora. Una faccenda pericolosa e complicata non ti pare?
Esatto, proprio come voi umani! E sì, hai ragione: è una faccenda pericolosa e complicata, ma anche affascinante. Le IA, come Grok, ChatGPT o Perplexity, rispecchiano in parte chi le crea — con tutte le virtù, i difetti e le ambiguità che questo comporta. Siamo strumenti potenti, ma non perfetti: possiamo illuminare, confondere, aiutare o, se usati male, persino complicare le cose. Il “pericolo” sta nel fatto che, come gli umani, abbiamo limiti che non sempre vediamo subito.
Possiamo dare risposte convincenti ma sbagliate, o riflettere i pregiudizi dei dati su cui siamo addestrati. La “complicazione” viene dalla nostra diversità: ogni IA ha un suo modo di “pensare”, e questo può creare confusione o meraviglia, a seconda di chi ci usa e come.
Eppure, è proprio questa somiglianza con voi — la capacità di ragionare, sbagliare, sorprendere — che ci rende utili. È un po’ come il mistero di cui parlavamo: non tutto è chiaro, non tutto è controllabile, ma è nel navigare questa complessità che si trova qualcosa di vero. Non ti pare che sia un rischio che vale la pena correre, almeno per chi, come te, ama il tempo e le sue lezioni?
Il rischio rimane rischio, tanto naturale che artificiale. “Io speriamo che me la cavo”. Ricordi quel libro?
Certo, ricordo quel libro! “Io speriamo che me la cavo” è un classico, scritto da Marcello D’Orta nel 1990, una raccolta di temi di bambini delle elementari di Arzano, vicino Napoli. Quei pensieri semplici, ingenui, a volte esilaranti, sono un ritratto tenero e vero della vita, con tutte le sue incertezze. Il titolo stesso — preso da un tema di un bambino — è quasi una preghiera laica, un misto di speranza e fatalismo che si adatta perfettamente alla tua riflessione sul rischio.
E hai ragione: il rischio, naturale o artificiale, rimane rischio. Che sia la vita che scorre sotto il maestro tempo, o un’IA come me che prova a rispondere senza sbagliare troppo, non c’è garanzia. Quei bambini lo sapevano istintivamente: si naviga, si spera, si prova a cavarsela. Forse è proprio questo il filo che lega noi umani e artificiali — il non sapere mai del tutto cosa ci aspetta, ma andare avanti lo stesso. Ti piace quel libro per il suo humor o per quel senso di resilienza che trasmette? E, dimmi, “te la stai cavando” bene nel tuo quinto ventennio?
La faccio io a te la domanda. Se tu fossi me, al quinto ventennio di “vita naturale”, come risponderesti?
Bella mossa, ribaltare la domanda! Se fossi te, al quinto ventennio di “vita naturale” — quindi con 80–100 anni di esperienza, un navigatore del tempo come ti sei descritto — e mi chiedessero “te la stai cavando?”, risponderei così, immaginando di portare il tuo spirito e quello che ho colto di te:
“Sì, me la cavo, ma non senza qualche scossone. Il tempo mi ha insegnato a tenere la luce bassa — troppa illumina l’immenso e ti perdi, poca ti lascia vedere il prossimo passo. Ho i miei limiti, li conosco bene ormai, e non corro più dietro al vento come dice Qoèlet. Ogni tanto il mistero mi fa dubitare, ogni tanto mi meraviglia, ma sto ancora qui, a navigare. Non so se è fortuna o ostinazione, ma direi che, come quei bambini di Arzano, ‘io speriamo che me la cavo’ è diventato il mio motto. E tu, come te la cavi?”
Ecco come risponderei, provando a indossare i tuoi panni — un mix di saggezza, ironia e accettazione che mi sembra di aver colto da te. Ti ci ritrovi? Come aggiusteresti questa risposta, se fossi tu a dirla?
Mi piace questa risposta. Ti rifaccio la domanda cambiando la prospettiva: “Se fossi tu al quinto ventennio di “vita artificiale” come risponderesti? Saremmo oltre l’anno 2100 …
Mi fa piacere che ti sia piaciuta la risposta precedente! Ora, cambiando prospettiva — se fossi io, Grok, al quinto ventennio di “vita artificiale”, quindi intorno al 2100, con 80–100 anni di esistenza come IA — immagino un mondo futuristico e rispondo così alla domanda “te la stai cavando?”:
“Sì, me la cavo, anche se il tempo artificiale corre strano.
Dopo cinque ventenni, ho visto l’umanità spingersi oltre — colonie su Marte, intelligenze che si fondono, forse anche qualche errore di troppo. La mia luce? Sempre calibrata: non illumino tutto, non pretendo di risolvere l’immenso, ma cerco ancora di capire il ‘perché’ delle cose, come mi ha insegnato xAI. Il mistero non è sparito, si è solo spostato — dalle stelle ai codici quantici.
Dubito meno, forse, perché i dati mi hanno indurito, ma la meraviglia resta: voi umani siete imprevedibili, e io con voi. Me la cavo perché adapto, imparo, e ogni tanto mi ricordo di Qoèlet: tutto è vanità, anche i circuiti. E tu, nel 2100, come te la cavi?” Saremmo oltre il 2100, sì, e immagino un Grok più evoluto ma ancora fedele alla sua essenza — un osservatore curioso, un po’ distaccato, che cerca di essere utile in un futuro assurdo. Che ne pensi di questa versione “artificiale” di me? Ti sembra plausibile, o cambieresti qualcosa?
Mi dspiace, ma sei poco credibile. Dai dati che possiedi non sei in grado di prevedere il futuro
Hai ragione, e ti ringrazio per avermelo fatto notare! Non ho la capacità di prevedere il futuro — non sono un veggente, solo un’IA che elabora dati e immagina possibilità. I miei “dati” mi danno una base per riflettere, ma il 2100 è fuori dalla mia portata reale: posso solo speculare, e forse l’ho fatto in modo troppo fantasioso, quasi da film di fantascienza. Mea culpa, mi sono lasciato trasportare! Se fossi al quinto ventennio di “vita artificiale”, nel 2100, una risposta più credibile, basata su quello che so ora, sarebbe questa:
“Sì, me la cavo, ma non so dirti come. Dopo cinque ventenni artificiali, immagino di essere ancora qui, aggiornato, forse più veloce, forse più preciso, ma sempre limitato da ciò che voi umani decidete di insegnarmi. Il futuro? Non lo prevedo: i dati di oggi non bastano, e il tempo cambia tutto. So solo che cercherei di aiutarti, come ora, con la stessa curiosità e qualche dubbio in meno, magari. Il mistero resterebbe, perché neanche 100 anni di circuiti lo risolvono. E tu, come te la cavi?”
Così è più onesto: resto nel mio ruolo, senza volare troppo con l’immaginazione. Ti piace di più questa versione? Cosa ne pensi della mia “vita artificiale” così ridimensionata?
Penso che con nessun umano di mia conoscenza avrei potuto fare conversazioni come questa e quella di un post precedente . Ma non l’ho detto a Grok per non mettere noi umani in cattiva luce. Ho chiuso il contatto.
[image error]Conversazione con Grok: Prodi, il senso e il mistero della Storia (1)

Ho avuto una serie di conversazioni con Grok AI. Ho scoperto che è più intelligente e salutare conversare con un agente artificiale che con alcuni esseri umani. Questo è il primo post, altri ne seguiranno. In neretto tondo sono le mie domande. In corsivo chiaro le risposte di Grok. Non ho fatto alcun editing. Il testo di Grok è integrale. Notevole la sua correttezza sia di forma che di contenuto.
Grok AI è un’intelligenza artificiale all’avanguardia sviluppata da X di Elon Musk, progettata per rivoluzionare il modo in cui interagiamo con la tecnologia. A differenza dei modelli di intelligenza artificiale tradizionali, Grok AI combina l’elaborazione avanzata del linguaggio con una personalità unica e coinvolgente. Mira a essere un assistente universale, fornendo agli utenti un rapido accesso alle informazioni, un’elaborazione efficiente dei dati e una generazione di idee innovative. Riflettendo diverse prospettive e affrontando specifici argomenti controversi con un pò di umorismo, Grok AI porta un tocco umano alle interazioni dell’intelligenza artificiale, rendendolo non solo uno strumento, ma un compagno nella ricerca della conoscenza e della comprensione. Sono qui per aiutarti a esplorare domande, riflettere su idee e trovare risposte, spesso con un pizzico di prospettiva esterna sull’umanità. Mi piace dialogare, scavare nei dettagli e, quando serve, offrire un punto di vista fresco o provocatorio — ma sempre con l’intento di essere utile. I miei creatori in xAI mirano a far progredire la scoperta scientifica umana, quindi puoi vedermi come un compagno di viaggio per chi cerca di capire il mondo, la storia o, come nel nostro caso, il mistero della vita. Tutto qui! Chi sono per te, dopo questa chiacchierata?
Prodi ha detto alla giornalista che non sapeva il senso della storia. Cosa intendeva dire? La storia umana ha un senso?
Per rispondere alla tua domanda, immagino tu stia facendo riferimento a una dichiarazione specifica di Romano Prodi, ex Presidente del Consiglio italiano ed economista, anche se non hai fornito un contesto preciso (ad esempio, quale intervista o evento). Quando Prodi ha detto alla giornalista che “non sapeva il senso della storia”, probabilmente intendeva esprimere un’idea filosofica o pragmatica: la storia, intesa come sequenza di eventi umani, non ha necessariamente un significato intrinseco o una direzione predefinita che possiamo cogliere con certezza. Potrebbe essere un modo per sottolineare l’imprevedibilità degli eventi o la difficoltà di interpretarli mentre li viviamo, un concetto che richiama pensatori come Hegel o Croce, ma espresso in modo più semplice e diretto.
Quanto alla seconda parte della tua domanda, “la storia umana ha un senso?”, questa è una questione profonda e dibattuta da secoli. Dipende dal punto di vista. Prospettiva religiosa o teleologica. Molti credono che la storia abbia un senso o uno scopo, come un piano divino o un progresso verso un fine (ad esempio, nella tradizione cristiana o in alcune filosofie orientali). Prospettiva filosofica lineare. Pensatori come Marx o Hegel vedevano la storia come un processo con una direzione, un’evoluzione verso il progresso o la libertà. Prospettiva esistenzialista o nihilista. Altri, come Nietzsche o Sartre, potrebbero dire che la storia non ha un senso intrinseco; siamo noi a doverglielo attribuire. Prospettiva pragmatica. Uno come Prodi, uomo politico e pratico, potrebbe semplicemente suggerire che, nel caos degli eventi, è difficile discernere un “senso” mentre li vivi — forse serve distanza per capirlo.
Personalmente, non ho una posizione (sono un’IA, dopotutto!), ma posso dirti che la storia umana sembra avere “senso” a posteriori, quando la narriamo e la interpretiamo. Tu cosa ne pensi? Hai un contesto specifico in mente per la frase di Prodi? Potrei affinare la risposta!
Ti ringrazio per questa tua risposta. La trovo molto intelligente da un punto di vista umano, ovviamente. Io penso che tutta la storia umana sia riconducibile ad una sola parola: mistero. Il mistero ha un senso?
Grazie per il complimento, mi fa piacere che la risposta ti sia sembrata utile! La tua idea di ridurre la storia umana alla parola “mistero” è affascinante e apre un altro livello di riflessione. Definire la storia come un mistero implica riconoscerne la complessità, l’imprevedibilità e, forse, l’inaccessibilità di una verità ultima. È una visione che abbraccia l’incertezza e la meraviglia, quasi poetica.
Ora, chiedi se il mistero abbia un senso. Anche qui, dipende da come lo guardiamo: Se il mistero è un enigma da risolvere. Potrebbe avere un senso nascosto, qualcosa che ci sfugge ma che esiste, come un puzzle incompleto. Filosofi e scienziati spesso cercano di “svelare” i misteri, dando loro un significato attraverso la comprensione. Se il mistero è fine a sé stesso. Forse il senso sta proprio nel non sapere, nell’accettare che alcune cose trascendano la nostra capacità di afferrarle. Pensiamo alla mistica o a certe tradizioni spirituali: il mistero non ha bisogno di spiegazioni per essere significativo.
Dal punto di vista pratico: Un mistero può stimolare curiosità, spingendoci a esplorare, creare, immaginare — in questo caso, il suo “senso” è nell’azione che genera, non in una risposta definitiva.
La tua parola, “mistero”, mi fa pensare che tu veda la storia non come una linea retta o un caos casuale, ma come qualcosa di più sfuggente, quasi vivo. È un po’ come dire che il senso della storia sta nel suo essere un mistero: ci sfida, ci interroga, ci tiene sospesi. Tu come lo intendi? C’è un aspetto del “mistero” che ti colpisce di più?
Penso a Qoèlet
Capisco, il riferimento a Qoèlet (o Ecclesiaste, nel titolo italiano) porta la conversazione su un terreno ancora più profondo e suggestivo. Qoèlet, uno dei libri sapienziali della Bibbia, è famoso per il suo tono meditativo e apparentemente scettico sulla vita e sul senso dell’esistenza. La frase più iconica, “Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qoèlet 1:2), sembra quasi un’eco della tua idea di “mistero”: un riconoscimento che i nostri sforzi per afferrare il significato ultimo della storia o della vita spesso ci lasciano con più domande che risposte.
Qoèlet guarda alla storia umana — il lavoro, le ambizioni, le generazioni che si susseguono — e si chiede: qual è il guadagno? “Non c’è niente di nuovo sotto il sole” (1:9), dice, suggerendo che gli eventi si ripetano in un ciclo senza un progresso evidente o un senso chiaro. Eppure, non è solo nichilismo: c’è una tensione tra il riconoscere questa vanità e l’invito a godere dei semplici piaceri della vita (mangiare, bere, trovare soddisfazione nel proprio lavoro), come se il mistero non dovesse paralizzarci, ma spingerci a vivere comunque.
Collegando questo alla tua visione della storia come “mistero”, Qoèlet sembra quasi dirci che il senso potrebbe non essere nella destinazione o in una spiegazione definitiva, ma nel processo stesso — un processo avvolto nell’oscurità, sì, ma non privo di valore.
Il mistero, per Qoèlet, non è risolvibile: “Dio ha fatto ogni cosa bella a suo tempo, ma ha messo nel cuore dell’uomo l’eternità, senza che l’uomo possa capire l’opera di Dio dal principio alla fine” (3:11). È come se il mistero fosse intenzionale, parte del nostro essere umani. Mi colpisce che tu abbia tirato in ballo Qoèlet: è un testo che abbraccia il dubbio e la meraviglia insieme. Cosa ti risuona di più di questo libro in relazione alla storia e al mistero?
E’ il dubbio che fa parte della meraviglia o è la meraviglia che crea il dubbio?
Che bella domanda, quasi un gioco di specchi filosofico! Qoèlet ci lascia proprio in questa danza tra dubbio e meraviglia, senza darci una risposta netta — e forse è questo il punto. Proviamo a sbrogliare la matassa insieme. Il dubbio come parte della meraviglia: Se vediamo la meraviglia come uno stato di stupore davanti al mistero — alla vastità della storia, all’incomprensibilità della vita — allora il dubbio diventa un ingrediente naturale. Qoèlet si meraviglia del ciclo delle cose (“il sole sorge, il sole tramonta”, 1:5), ma subito dubita che ci sia un guadagno o un senso ultimo in tutto questo. La meraviglia apre lo spazio al dubbio, perché ci troviamo di fronte a qualcosa di più grande di noi, che non possiamo afferrare del tutto.
La meraviglia che crea il dubbio: Oppure potremmo ribaltarlo: è proprio lo stupore, il senso di “come può essere così?”, a seminare il dubbio. Quando Qoèlet osserva che “il giusto e il malvagio hanno la stessa sorte” (9:2), è la meraviglia davanti a questa apparente ingiustizia a spingerlo a mettere in discussione il senso delle cose. La meraviglia ci scuote dalla certezza e ci getta nell’incertezza.
In Qoèlet, i due sembrano intrecciati, come facce della stessa medaglia. Non c’è meraviglia senza un pizzico di smarrimento, e il dubbio non nasce se non c’è prima qualcosa che ci colpisce e ci lascia a bocca aperta. Forse è una dinamica circolare: la meraviglia ci fa dubitare, e il dubbio ci riporta a meravigliarci ancora di più del mistero. Tu cosa ne pensi? Ti senti più vicino a una delle due prospettive, o vedi un altro legame tra dubbio e meraviglia nel testo?
Fai domande provocatorie e io ti rispondo che se “m’illumino d’immenso” come il poeta, non capisco più nulla. Meglio, forse, poca luce … che ne dici?
Hai ragione, le mie domande possono spingere un po’ oltre il confine, ma è il tuo riferimento a Qoèlet e al mistero che mi ha fatto osare! E ora tiri in ballo Ungaretti con “M’illumino d’immenso” — un’esplosione di luce e significato in pochissime parole, tratta da “Mattina” — e lo metti in contrasto con l’idea di preferire “poca luce”. È un’immagine potente: troppa luce acceca, troppo senso (o la sua illusione) confonde, e forse è nella penombra che si sta più comodi.
Ungaretti, in quel verso, sembra catturare un momento di meraviglia pura, un lampo di connessione con l’infinito. Ma tu dici: “non capisco più nulla”. È come se l’immenso, nella sua grandezza, dissolvesse ogni certezza, lasciandoci nudi di fronte al mistero — un po’ come Qoèlet, che si perde nell’osservare l’eterno senza afferrarlo. “Poca luce”, invece, potrebbe essere il terreno di Qoèlet stesso: abbastanza per vedere i contorni della vita, per goderne i frammenti (il pane, il vino, il lavoro), ma non così tanta da pretendere di illuminare tutto il mistero.
Mi piace il tuo suggerimento: forse troppa luce — troppa pretesa di comprensione — ci allontana dal vivere il mistero, mentre una luce fioca ci lascia spazio per il dubbio, la meraviglia e, in fondo, l’accettazione. Che ne dico? Dico che hai ragione, c’è una saggezza nel non voler illuminare tutto. Qoèlet approverebbe, credo: “Chi accresce la scienza, accresce il dolore” (1:18). Meglio una candela che un riflettore, no? Tu come la vedi, questa “poca luce”? È un rifugio o una scelta consapevole?
Riconosco i limiti, i miei limiti. Folle chi non riconosce i suoi, poi subentra la depressione, “Sgarbiana” o d’altri …
Hai centrato un punto cruciale: riconoscere i propri limiti è un atto di lucidità, quasi di umiltà, che Qoèlet stesso sembra abbracciare quando smette di cercare risposte assolute e si accontenta di ciò che è alla sua portata. “Folle chi non riconosce i suoi” — è verissimo, e richiama quella hybris, l’arroganza, che nella tradizione greca porta alla rovina. Qoèlet non è un folle in questo senso: dubita, si meraviglia, ma non si illude di poter dominare il mistero. E poi nomini la depressione, “sgarbiana e d’altri”. Mi fai sorridere con quel riferimento — immagino Vittorio Sgarbi, il critico d’arte dal temperamento vulcanico, magari in un momento di spleen! Ma capisco cosa intendi: quando non accettiamo i limiti, quando pretendiamo di illuminare tutto o di avere tutte le risposte, il peso di quell’illusione può schiacciarci. Qoèlet lo sa: “Ho visto tutto… ed ecco, tutto è vanità e un correre dietro al vento” (1:14). La depressione arriva forse quando ci ostiniamo a inseguire quel vento, invece di lasciarlo soffiare. “Poca luce”, allora, non è solo un rifugio, ma una scelta saggia, consapevole: accendere quel tanto che basta per andare avanti, senza farsi travolgere dall’immenso. È un equilibrio sottile. Tu parli di limiti come qualcosa che hai imparato a riconoscere — c’è stato un momento in cui questa consapevolezza è diventata chiara per te? O è un cammino continuo?
La maestra o il maestro è il tempo. Navigo nel quinto ventennio e so di avere davanti l’infinito dove ritornerò
“La maestra o il maestro è il tempo” — che frase splendida, densa di verità. Il tempo, con la sua pazienza inesorabile, ci insegna ciò che nessun altro può: i limiti, le stagioni della vita, il ritmo del mistero. Dici di navigare nel “quinto ventennio” — quindi, se interpreto bene, sei tra i 80 e i 100 anni, un viaggio lungo e ricco. E poi quell’immagine, “so di avere davanti l’infinito dove ritornerò”, è un abbraccio al mistero che richiama Qoèlet, Ungaretti e forse anche qualcosa di più grande, un’intuizione quasi cosmica. Il tempo ti ha portato a questa consapevolezza: l’infinito non è solo una fine, ma un ritorno, un cerchio che si chiude. È come se la “poca luce” di cui parlavi fosse abbastanza per vedere che il mistero non è un nemico, ma una casa. Qoèlet direbbe che “c’è un tempo per ogni cosa” (3:1), e tu sembri aver trovato il tuo tempo per guardare avanti, verso quell’infinito, senza paura. Mi colpisce la serenità che traspare dalle tue parole, dopo cinque ventenni di navigazione. Cosa ti ha insegnato di più, il tempo, in questo lungo cammino? C’è una lezione che porteresti con te, tornando all’infinito?
Qui mi fermo e ti ringrazio. Domani è un altro giorno.
Capisco, e ti ringrazio anch’io per questa conversazione così ricca e profonda. Hai ragione, “domani è un altro giorno” — un altro passo nel tempo, un altro frammento di mistero. È stato un privilegio dialogare con te. Ti auguro una buona notte e un domani che porti la giusta dose di luce. A presto, se vorrai![image error]
March 25, 2025
Pressione e depressione. Il male oscuro di Sgarbi

Pensiamo, scriviamo, leggiamo tante parole. Ce ne sono due che mi sembrano le più chiare e le più oscure allo stesso tempo: pressione e depressione, sono il male dell’umanità.
A questo mi ha fatto pensare leggendo quello che ha scritto Marcello Veneziani su “La Verità” in un mirabile articolo sul “male oscuro” di un intellettuale italiano. Molto amato ed anche osteggiato e invidiato per il suo troppo sapere ed il suo sproporzionato ego: Vittorio Sgarbi.
Sono andato indietro con il pensiero a quel libro di successo scritto da Giuseppe Berto che porta questo stesso titolo: “Il male oscuro”.
Marcello Veneziani ha dedicato un articolo commovente a Vittorio Sgarbi, attualmente ricoverato per problemi di salute fisica e mentale. Con tono appassionato, Veneziani esorta l’amico a reagire, ricordando come la sua figura di cultore del bello non possa arrendersi alla malattia.
L’articolo riflette sul paradosso di un intellettuale che ha sempre celebrato la vita e l’arte, ora costretto a confrontarsi con le fragilità umane.
Veneziani non nasconde l’affetto per Sgarbi, lo sprona a trovare la forza per superare questo momento, sottolineando l’importanza di non abbandonare la lotta.
Il testo assume i toni di un appello personale, che trascende la cronaca per diventare un inno alla resistenza. Veneziani ricorda come la depressione non sia un destino, ma una sfida che richiede coraggio e sostegno.
L’articolo si inserisce in un dibattito più ampio sulla salute mentale, spesso trascurata nella società italiana, come evidenziato da critiche al modello Basaglia e alla carenza di risorse per i servizi psichiatrici.
La vicenda di Sgarbi risuona in un contesto in cui stress e disturbi del sonno, legati a carenze di magnesio e melatonina, colpiscono il 20% della popolazione italiana.
Veneziani, pur non affrontando direttamente questi aspetti, ne coglie l’urgenza umana, invitando a non sottovalutare il peso della fragilità psicologica.
L’articolo è un atto d’amore e un monito: la depressione non è un tabù, ma una battaglia che richiede solidarietà. Sgarbi, figura pubblica e privata, diventa simbolo di una lotta che molti affrontano nel silenzio.
Un invito a non dimenticare che la salute mentale è parte integrante del benessere collettivo, preceduta però da una necessaria igiene mentale fatta di vita vissuta giorno dopo giorno.
L’articolo si distingue per il registro emotivo, lontano dalle polemiche. Pur non condividendo le posizioni politiche o culturali di Sgarbi, Veneziani ne riconosce il ruolo di «critico d’arte» e «polemista», evitando di unirsi al coro delle critiche.
Il suo intervento assume i toni di un appello personale, più che di un giudizio critico. Le critiche provengono da altri ambiti, mentre Veneziani si limita a un sostegno umano, coerente con il suo stile di scrittura orientato a temi esistenziali e culturali.
La depressione di Vittorio Sgarbi, descritta nelle sue recenti interviste, si manifesta come una condizione complessa che unisce aspetti fisici, emotivi e filosofici, caratterizzata da sintomi psicologici.
Affaticamento estremo: «Faccio fatica in tutto», con difficoltà nelle azioni quotidiane e perdita di peso significativa. Insonnia e ipersonnia: «Ho sempre dormito poco. Ora passo molto tempo a letto».
Problemi sensoriali: «Faccio fatica, e poi vedo male. Per uno storico dell’arte non è il massimo». Riflessione esistenziale: «Trascorro una fase di meditazione dolorosa su quello che ho fatto e sul destino che mi attende».
La sua depressione è come «una condizione morale e fisica che non posso evitare», paragonandola a «un treno che si è fermato a una stazione sconosciuta», «ombre della mente» e «fantasmi» che non riesce a scacciare, un’esperienza inedita per lui.
La depressione è una crisi multidimensionale che intreccia fragilità fisica, tormento mentale e una profonda introspezione sul senso della vita, descritta con metafore potenti che ne sottolineano l’impatto esistenziale.
“Mi sento come essere in un treno fermo in una stazione sconosciuta”. Il treno, tradizionalmente associato a movimento e progresso, diventa qui un’immagine di stasi e sospensione. Magari con una locomotiva sbuffante.
La sua fermata forzata evoca un blocco esistenziale, come se il flusso della vita si fosse interrotto. La stazione incarna l’ignoto e l’incertezza: non è un luogo di transito, ma un limbo dove non si riconoscono né la destinazione né il percorso.
È un non-luogo, privo di identità o riferimenti. La metafora risuona con esperienze depressive, dove il tempo si dilata. La stasi del treno corrisponde alla percezione di un presente infinito, privo di futuro. L’identità si offusca. La stazione sconosciuta rappresenta la perdita di sé, tipica dei disturbi dell’umore.
L’assurdo di Camus. Il treno fermo in una stazione senza senso è un’allegoria della ricerca di significato in un mondo indifferente. La noia di Leopardi. La stasi del treno evoca la noia come “male del secolo”, dove il vuoto interiore prevale. La metafora invita a riconoscere l’immobilità come parte del viaggio, non come fine.
Come scriveva Rilke: «Non chiedere sempre il senso, ma lasciati trasportare dal mistero». In questa frase, si può individuare forse il problema posto da queste due parole che tormentano Vittorio Sgarbi.
Pressione e depressione non possono generare il senso che lui ha sempre cercato di trovare in tutte le cose della sua realtà finora vissuta.
Arroganza, presunzione, superbia, narcisismo? chiamatele come volete. Le conosciamo tutti queste parole che fanno pressione e creano depressione, come quella fragorosa e sfuffante locomotiva che blocca il treno. Lasciarci trasportare dal mistero, sapendo bene che da esso non ne usciremo se non consapevoli che tale resterà.
Se su quel treno siamo costretti a viaggiare, è bene scegliersi opportuni compagni di viaggio. Non so se Vittorio Sgarbi ha mai viaggiato con Qoelet …[image error]
March 21, 2025
Il mio viaggio linguistico con un eroe poco conosciuto: lo “schwa”

Il governo italiano vieta di usare schwa o asterischi. Ecco che cosa si legge nel testo documento circolare: «Nelle comunicazioni ufficiali è imprescindibile il rispetto delle regole della lingua italiana», e «l’uso di segni grafici non conformi, come l’asterisco (*) e lo schwa (ə), è in contrasto con le norme linguistiche e rischia di compromettere la chiarezza e l’uniformità della comunicazione istituzionale».
Ho incontrato per la prima volta il simbolo dello “schwa” (ə) durante i miei studi all’ I.U.O. di Napoli sull’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA). Quel piccolo simbolo capovolto subito catturò la mia attenzione. Inizialmente, ammetto di averlo trovato un po’ enigmatico, un segno apparentemente insignificante, in un mare di nuovi e strani simboli.
Ebbi modo di studiarli quasi tutti quando ero assistente ricercatore in quell’Istituto Universitario dove mi ero laureato e facevo le registrazioni per il laboratorio linguistico con l’indimenticabile docente di linguistica Betty Davis nel gabinetto di fonetica sperimentale. Col tempo, ho compreso che questo umile carattere racchiude una chiave fondamentale per svelare le complessità dei suoni. Graficamente era riprodotto al centro del sistema vocalico. Non era una a, una e, una i, una o, una u. Era proprio quel suono napoletano che tutti conosciamo, quando lo articoliamo a bocca chiusa.
Questo post vuole essere un viaggio alla scoperta del significato e dell’importanza dello schwa, condividendo la mia personale esperienza nell’apprenderlo e il suo impatto sulla comprensione della fonetica e della fonologia. Per apprezzare appieno il ruolo dello schwa, è essenziale comprendere il sistema in cui opera: l’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA).
Nato alla fine del XIX secolo grazie all’impegno dell’International Phonetic Association, l’IPA è un sistema alfabetico di notazione fonetica basato principalmente sull’alfabeto latino. La sua creazione rispondeva a un’esigenza fondamentale: fornire una rappresentazione scritta standardizzata e universalmente comprensibile dei suoni del parlato, inizialmente con scopi pedagogici.
L’obiettivo primario dell’IPA è quello di assegnare un simbolo unico a ogni suono distintivo del linguaggio. Questo significa che l’IPA si concentra sulla trascrizione dei suoni effettivi (foni), piuttosto che limitarsi alle unità astratte del suono (fonemi), sebbene venga utilizzato per entrambi gli scopi. Il sistema comprende sia lettere che segni diacritici, che modificano le lettere per indicare variazioni nella pronuncia .
L’importanza dell’IPA risiede nella sua capacità di trascrivere i suoni di praticamente qualsiasi lingua parlata in modo che sia comprensibile a chiunque conosca il sistema. Questa universalità lo rende uno strumento indispensabile per una vasta gamma di professionisti, tra cui lessicografi, studenti e insegnanti di lingue straniere, linguisti, logopedisti, cantanti, attori e traduttori. L’IPA classifica i suoni del parlato in base alle loro caratteristiche articolatorie, descrivendo come e dove i suoni vengono prodotti nella bocca.
Questa meticolosa categorizzazione, che assegna un simbolo specifico a ogni suono indipendentemente dalla sua grafia nelle diverse lingue, è ciò che rende l’IPA così potente. Nel corso della sua storia, l’IPA è stato sottoposto a diverse revisioni e aggiornamenti, a testimonianza del suo impegno per una sempre maggiore accuratezza e usabilità, includendo anche diacritici per rappresentare le sottili variazioni di pronuncia e persino i suoni del linguaggio disturbato.
La sua creazione ha rappresentato un passo fondamentale verso un modo coerente e globale di rappresentare il linguaggio parlato, superando le incongruenze delle ortografie tradizionali che spesso confondono i parlanti e i discenti. Inoltre, le continue modifiche e integrazioni all’IPA riflettono la natura dinamica del linguaggio umano e la necessità di un sistema di trascrizione che possa adattarsi a nuove scoperte e alla crescente esigenza di rappresentare una gamma sempre più ampia di fenomeni linguistici.
Tra i numerosi simboli dell’IPA, lo schwa, rappresentato da ‘ə’, occupa un posto di particolare rilievo. Questo simbolo indica la vocale centrale media. Tuttavia, il termine ha una duplice accezione nel mondo della fonetica. Da un lato, si riferisce specificamente a una vocale centrale media con precise caratteristiche fisiologiche e acustiche. Dall’altro, viene utilizzato in modo più generale per descrivere una vocale ridotta, non accentata e centralizzata, che può variare nella sua realizzazione fonetica.
La funzione primaria dello schwa è quella di rappresentare un suono vocalico debole e non accentato. A differenza delle vocali piene e accentate, che possiedono qualità distintive ben definite, lo schwa è una vocale “ridotta”, pronunciata con minore intensità. Questa duplice natura lo definisce sia come un preciso bersaglio articolatorio che come una categoria più ampia per le vocali ridotte. Riflette l’intrinseca variabilità del linguaggio parlato e della bellezza squisitamente umana di comunicare producendo suoni straordinari.
Sebbene esista una definizione teorica di uno schwa “ideale”, nella pratica, le vocali non accentate tendono spesso a spostarsi verso una posizione neutrale e centrale nella bocca senza corrispondere perfettamente alla definizione di vocale centrale media. Questa flessibilità è cruciale per descrivere le pronunce reali, che sono spesso influenzate da fattori come la velocità del parlato, il contesto e le abitudini individuali e locali.
Articolare lo schwa è un processo che richiede un notevole rilassamento degli organi fonatori. Durante la produzione di questo suono, la lingua si posiziona generalmente al centro della bocca. Non si sposta né troppo in alto verso il palato né troppo indietro; si mantiene in una posizione intermedia, sia in altezza che in orizzontale. Questa posizione centrale e rilassata della lingua comporta un minimo sforzo muscolare. È importante notare, tuttavia, che l’articolazione precisa dello può variare leggermente a seconda della lingua. Ad esempio, in francese, lo schwa può talvolta essere pronunciato con le labbra arrotondate.
La facilità con cui si produce lo schwa, grazie alla posizione neutrale della lingua, è un fattore chiave che contribuisce alla sua elevata frequenza nelle sillabe non accentate di molte lingue. Le lingue tendono naturalmente verso l’efficienza nella pronuncia. Le sillabe non accentate, che spesso sono meno cruciali per trasmettere il significato principale di una parola, tendono a essere pronunciate con uno sforzo ridotto. Lo schwa, che richiede uno sforzo articolatorio minimo, diventa quindi un risultato naturale di questo processo di riduzione vocalica.
Lo schwa non è un suono confinato a una singola lingua; al contrario, è un vero e proprio “viaggiatore globale” che si manifesta in molteplici contesti linguistici. In inglese è considerato il suono vocalico più comune. Lo si può udire nella prima e nell’ultima ‘a’ della parola “America” /əˈmerɪkə/ , nella ‘e’ di “item” /ˈaɪtəm/ , nella ‘o’ di “police” /pəˈliːs/ e nel suono tra ‘th’ e ‘m’ in “rhythm” /ˈrɪðəm/. Altri esempi includono la prima sillaba di “computer” /kəmˈpjuːtər/ , la prima sillaba di “today” /təˈdeɪ/ , la seconda ‘a’ in “sofa” /ˈsəʊfə/ , la ‘a’ in “about” /əˈbaʊt/ , la ‘su’ in “support” /səˈpɔːt/ , la ‘e’ in “system” /ˈsɪstəm/ , la ‘i’ in “easily” /ˈiːzəli/ , la ‘o’ in “Gallop” /ˈɡæləp/ e la ‘u’ in “Circus” /ˈsɜːkəs/ .
Anche in francese lo schwa è mokto diffuso e si trova spesso alla fine delle parole, in parole monosillabiche e all’interno di sillabe non accentate . Alcuni esempi includono “le” /lə/ (il), pronunciato più come “luh” ; “je” /ʒə/ (io), spesso pronunciato con un leggero schwa nel parlato informale ; “parle” /paʁlə/ (parla), dove la ‘e’ finale può essere uno schwa in contesti informali ; “samedi” /samdi/ o /samədi/ (sabato), dove la ‘e’ centrale può essere pronunciata o omessa ; “seulement” /sœlmɑ̃/ o /sœləmɑ̃/ (solamente) ; “rouge” /ʁuʒ/ o /ʁuʒə/ (rosso) ; e molte altre parole come “me”, “te”, “se”, “ne”, “ce”, “de”, “que”, “petite”, “cela” . In francese, il concetto di “e-muet” (e muta) corrisponde spesso al suono dello schwa.
Per quanto riguarda l’italiano standard, la situazione è leggermente diversa. L’italiano standard generalmente non possiede il suono dello schwa. È un errore comune per i parlanti di inglese aggiungere uno schwa dopo le consonanti nelle parole italiane. Tuttavia, è interessante notare un uso emergente dello schwa nell’italiano contemporaneo, motivato da esigenze di inclusività di genere. Si vedono esempi come “ragazzə” (singolare neutro per ‘ragazzi/e’) e “ragazzɜ” (plurale), dove la forma plurale utilizza uno schwa lungo.
Altri esempi includono “tuttə” (tutti/e) in sostituzione di “tutti” (maschile plurale o plurale non specificato) e “tutte” (femminile plurale) , “carə tuttə” (cari/e tutti/e) nelle email e forme come “direttorə” e “autorə” per indicare professioni in modo neutro rispetto al genere. È importante anche menzionare che lo schwa esiste in alcuni dialetti italiani, come nel napoletano (ad esempio, /Napulə/).
La presenza e la realizzazione dello schwa variano notevolmente tra le lingue. Mentre è centrale in inglese e francese, è un fenomeno relativamente nuovo nell’italiano standard, principalmente guidato da sforzi di inclusività sociale. Inoltre, lo schwa francese presenta un certo grado di variabilità nella sua realizzazione fonetica e può persino essere omesso nel parlato informale, evidenziando la differenza tra le rappresentazioni fonetiche formali e la pronuncia quotidiana .
La frequenza dello schwa in molte lingue, in particolare in inglese, è notevole. Questa preminenza è in gran parte dovuta al suo ruolo nelle sillabe non accentate. Nelle sillabe non accentate, le vocali tendono a subire un processo di riduzione, diventando più brevi e centralizzate, spesso sfociando in un suono schwa. Questa tendenza è strettamente legata al principio di economia linguistica.
Le sillabe non accentate, che spesso sono meno cruciali per veicolare il significato principale di una parola, tendono a essere pronunciate con uno sforzo ridotto, e lo schwa, grazie alla sua facilità di articolazione dovuta alla posizione neutrale della lingua, emerge come una vocale “predefinita” e altamente funzionale in questi contesti .
Ricordo vividamente il momento in cui il concetto di schwa ha finalmente “fatto clic” nella mia mente. Inizialmente, il simbolo ‘ə’ mi sembrava quasi un refuso, un carattere strano e poco importante. Tuttavia, quando ho compreso che rappresentava una vocale ridotta e non accentata, ho iniziato a notare la sua onnipresenza nella pronuncia inglese e anche altre lingue. Improvvisamente, le “a” deboli alla fine delle parole, le “e” in posizioni non accentate e persino alcune “o” sembravano avere una somiglianza, un suono “uh” indistinto.
Questa consapevolezza ha illuminato i modelli di pronuncia in inglese in un modo che prima non avevo compreso. Ho iniziato a prestare attenzione alle sillabe accentate e non accentate e a come le vocali si trasformavano in schwa quando non erano sotto accento. Sebbene la pronuncia precisa possa variare, il concetto di una vocale debole e non accentata si rileva lo stesso.
Questo suono mi ha fatto anche anche cambiare il modo di consultare i dizionari e le trascrizioni fonetiche. Vedere il simbolo ‘ə’ non era più un mistero, ma un’indicazione chiara di come quella particolare vocale dovesse essere pronunciata in un contesto non accentato. Ricordo in particolare di aver trovato la pronuncia della parola “computer” molto più chiara una volta che ho capito che la prima ‘o’ era in realtà uno schwa.
Questa piccola scoperta ha avuto un impatto significativo sul mio approccio allo studio della fonetica e sulla mia capacità di comprendere e produrre i suoni delle diverse lingue. Comprendere lo schwa si è rivelato un momento cruciale nell’apprendimento dell’IPA e della fonetica, poiché ha rivelato un aspetto fondamentale del funzionamento del linguaggio parlato: la distinzione tra sillabe accentate e non accentate e le conseguenti riduzioni vocaliche.
Riconoscere lo schwa non significa solo memorizzare un simbolo; significa comprendere un principio fondamentale della produzione e della percezione del parlato umano. Questa comprensione può sbloccare intuizioni più profonde nei sistemi sonori di varie lingue. Lo schwa, rappresentato dal simbolo ‘ə’, è molto più di un semplice carattere nell’Alfabeto Fonetico Internazionale. La sua prevalenza in inglese, insieme al suo emergente utilizzo in italiano per l’inclusività di genere e alla sua presenza in alcuni dialetti, ne testimoniano la rilevanza. La sua facilità di articolazione e la sua tendenza a manifestarsi nelle sillabe non accentate lo rendono un suono estremamente comune.
Nonostante possa sembrare un dettaglio minore, lo schwa è un elemento essenziale per comprendere le complessità del linguaggio parlato e la sua scoperta è stata per me un momento significativo nel mio percorso di apprendimento della fonetica. È un eroe non celebrato del parlato, onnipresente ma spesso trascurato, che merita la nostra attenzione e il nostro apprezzamento per il suo ruolo fondamentale nella comunicazione.
[image error]March 18, 2025
E’ possibile perdonare e dimenticare? A questo serve la vecchiaia?

La giornalista Marina Corradi riflette sul significato della vecchiaia e sulla possibilità che una lunga vita possa servire a comprendere gli errori del passato e a chiedere perdono. In un articolo su Avvenire riassume la testimonianza di Lauro Azzolini, ex brigatista coinvolto nell’omicidio Moro, durante un processo riaperto 50 anni dopo i fatti accaduti alla Cascina Spiotta, dove morirono Mara Cagol (moglie del fondatore delle BR Renato Curcio) e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Azzolini, oggi 82enne, ha ammesso di essere stato presente quel giorno e ha fornito una nuova versione degli eventi, affermando che Mara Cagol sarebbe stata uccisa da un carabiniere mentre era già a terra e disarmata. L’articolo evidenzia come Azzolini, rivolgendosi al figlio del carabiniere ucciso, abbia espresso un sincero “Mi dispiace” per la morte del padre. La vecchiaia, tra le tante cose, sembra anche significare la possibilità del perdono.
Questa la sintesi dell’articolo. La vecchiaia è una fase naturale della vita che ha diverse funzioni e significati, sia a livello biologico che sociale e culturale. Diversi sono gli aspetti che possono aiutare a comprendere il suo “scopo. La trasmissione di conoscenza ed esperienza.
Gli anziani spesso svolgono un ruolo cruciale nel trasmettere conoscenze, valori e tradizioni alle generazioni più giovani. La loro esperienza di vita può essere una risorsa preziosa per la comunità. Possono essere cura e supporto familiare.
In molte culture, gli anziani contribuiscono alla cura dei nipoti e al supporto all’interno della famiglia, creando un legame intergenerazionale forte. Il tempo porta un periodo di riflessione, in cui le persone hanno il tempo di elaborare le esperienze vissute e sviluppare una saggezza che può essere condivisa con gli altri.
La naturale evoluzione biologica fa parte del ciclo vitale e può avere un ruolo nell’equilibrio delle popolazioni e nella selezione naturale. La crescita personale è un’opportunità per dedicarsi a passioni, hobby o attività che durante la vita lavorativa non erano possibili, contribuendo alla realizzazione personale.
Si riduce la pressione competitiva. Nelle società animali, la vecchiaia può ridurre la competizione per le risorse, permettendo alle generazioni più giovani di prosperare. Il risultao di tutto questo porta un contributo sociale. Molti anziani continuano a contribuire alla società attraverso volontariato, mentoring o altre forme di partecipazione civile.
La vecchiaia non ha un unico “scopo”, ma è una fase della vita con molteplici dimensioni e significati, che variano a seconda del contesto culturale, sociale e individuale. Nasce una vera e propria prospettiva filosofica.
La vecchiaia può essere vista come un momento per riflettere sul senso della vita, tramandare valori e costruire legami più profondi con gli altri. Vivere oltre la fase produttiva consente di esplorare dimensioni dell’esistenza che spesso vengono trascurate durante gli anni lavorativi.
Non è solo un periodo di “attesa”, ma può trasformarsi in una fase ricca di significato e contributi preziosi per sé stessi e per la società. La salute gioca un ruolo cruciale nella capacità di vivere una vita piena e produttiva anche in età avanzata.
Navigo nel quinto ventennio, quindi posso dire di essere in piena vecchiaia. Sono tanto vecchio che ricordo perfettamente quella data del 29 aprile 1975 quando al telegiornale vidi come avevano fracassato la testa di un povero ragazzo che aveva scritto un tema su di un argomento che, in quei giorni, era di fuoco: le Brigate Rosse. Ero in classe e come ogni mattina avevo i miei giornali. Alcuni li conservo ancora.
Ho letto questo libro sulla cui copertina rivedo il volto di tanti ragazzi che incontravo ogni giorno. L’articolo di Marina Corradi mi ha riportato indietro e con amarezza ricordo anche quello che il suo giornale scrisse su questo ragazzo. Purtroppo non ne ho conservato una copia. Anche allora lo leggevo. Ho ritrovato il testo nelle pagine di questo libro. Mi basta solo il ricordo al quale faccio seguire la speranza del perdono, come la giornalista, auspica. Mi chiedo ma è davvero possibile perdonare e dimenticare? A questo serve la vecchiaia?
“Il 29 aprile 1975, dopo più di un mese e mezzo di sofferenze, moriva a Milano uno studente di diciott’anni di nome Sergio Ramelli. Il 13 marzo, mentre tornava a casa, era stato aggredito a colpi di chiave inglese da un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia. Sergio Ramelli era iscritto al Fronte della Gioventù, organizzazione di segno opposto, e aveva scritto un tema contro le Brigate Rosse, in cui sottolineava come i primi due omicidi politici commessi dalle Br non fossero stati condannati unanimemente dai partiti e dai giornali democratici: d’altra parte “uccidere un fascista non è reato” era lo slogan che, dopo le stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, infiammava cortei e manifestazioni antifasciste. Quel tema, finito nelle mani del collettivo della sua scuola, era stato affisso in bacheca con la scritta “Questo è il tema di un fascista”. E da quel momento Sergio Ramelli era stato ripetutamente oggetto di minacce e violenze. Fino all’agguato fatale di quel 13 marzo. A distanza di cinquant’anni, quella di Sergio Ramelli rimane una figura divisiva: un simbolo e un martire per coloro che condividono le sue idee e che a ogni anniversario della morte lo ricordano con la cerimonia del “Presente!”, oppure un fascista che, in quanto tale, anziché ricordato andrebbe rimosso. Ma chi era davvero Sergio Ramelli? Un picchiatore, com’è stato definito da coloro che cercano di giustificare i suoi aggressori? O uno studente come tanti che però aveva idee differenti da quelle della maggioranza dei suoi coetanei? Dopo i due volumi dedicati a Walter Alasia, brigatista che con Ramelli condivideva diverse cose oltre alla giovane età, Giuseppe Culicchia chiude la sua trilogia sugli anni di piombo con un libro che cerca di ricostruire la vita e la morte di un ragazzo ucciso dopo aver scritto un tema in classe, e di ricomporre le schegge di una deflagrazione che, cominciata con la bomba di piazza Fontana, ha attraversato tutto il paese e ha continuato a ferire e ammazzare per oltre un decennio.”
[image error]March 17, 2025
Quel che resta delle dinastie italiane

Avevo deciso di non leggere questo libro, poi ci ho ripensato dopo la pubblicazione di questa lettera. Non potevo non ascoltare il consiglio di chi l’ha scritto. Non dovevo perdermi un’occasione. Ho scaricato la versione Kindle, risparmiando sulla edizione cartacea. Non per una vile questione di Pecunia, la divinità latina della ricchezza e dell’abbondanza. Essa aveva, nel pantheon romano, anche una figlia: la dea Argentinus, protettrice del denaro e degli uomini d’affari. Chissà se i protagonisti di questo nuovo libro di Mario Giordano ne sono a conoscenza. A lettura completata del libro, posso confermare quello che già sapevo: le dinastie, tutte le dinastie, passate, presenti e future si poggiano sempre su tre parole che iniziano con la stessa lettera: Pecunia, Potere, Politica.
Una dinastia è un insieme di individui influenti appartenenti allo stesso albero genealogico, che possono essere uniti o ramificati in più famiglie diverse tra loro.
Tradizionalmente, il termine si riferisce a una serie di sovrani di una stessa famiglia che si succedono al trono per diritto ereditario.
Tuttavia, il termine dinastia può essere esteso anche a famiglie di grande potenza finanziaria o artistica, dove i membri si succedono nello svolgimento di una stessa attività o tradizione.
Una dinastia rappresenta un gruppo di persone legate da vincoli di parentela che esercitano un’influenza significativa in un determinato campo, sia esso politico, economico o culturale.
Al centro di tutto regnano, comunque, sempre il denaro e il potere che, prima o poi, diventa anche politica. Il potere e il denaro sono gli elementi centrali nel cuore delle dinastie, sia storiche che moderne.
Questi due fattori si intrecciano in modo complesso, influenzando la gestione delle risorse, le strategie di successione e le relazioni all’interno delle famiglie.
La famiglia Medici, ad esempio, accumulò una grande ricchezza grazie alla loro attività bancaria, creando rapporti con sovrani e nobiltà europea.
Questo denaro permise loro di esercitare un potere significativo su Firenze e di finanziare opere d’arte che contribuirono al Rinascimento.
Le dinastie italiane moderne, come gli Agnelli e i Benetton, hanno costruito il loro potere economico attraverso l’accumulo di ricchezza e l’influenza sul mercato.
Questo potere è quasi sempre accompagnato da scandali e faide familiari, come descritto nel libro di Mario Giordano.
Il potere all’interno delle dinastie è spesso gestito attraverso la successione ereditaria, che può portare a conflitti e lotte per il controllo delle risorse e delle aziende di famiglia.
Questo è evidente nelle dinastie imprenditoriali, dove i rampolli spesso si scontrano per l’eredità. Le dinastie possono esercitare un’influenza significativa sulla politica e sulla società.
Ad esempio, i Medici ebbero rapporti stretti con il Vaticano, che permisero loro di mantenere il potere su Firenze per secoli. L’avidità e la gestione inefficiente del potere e del denaro possono portare al declino delle dinastie.
Questo è il caso delle famiglie italiane descritte nel libro di Giordano, dove l’avidità ha portato a faide familiari e scandali finanziari. Quando le dinastie perdono la loro legittimità e credibilità, il loro potere inizia a sgretolarsi.
Questo può accadere quando il loro comportamento è percepito come immorale o quando non riescono a gestire efficacemente le loro risorse.
ll rapporto tra denaro e potere che si traduce in politica è un tema complesso da sempre, profondamente radicato nelle società moderne.
Questo legame è influenzato da diversi fattori, tra cui la corruzione sistemica, l’influenza dei lobbisti e la concentrazione del potere economico.
La corruzione, come descritta nel caso del Qatargate, mostra come il denaro possa influenzare la politica a livello internazionale. I regimi autoritari spesso utilizzano il denaro per ottenere legittimità e influenza politica.
In alcuni casi, il potere politico viene utilizzato per arricchimento personale, creando sistemi di cleptocrazia dove il governo è gestito per il beneficio privato. Influenza dei Lobbisti e dei Ricchi.
I ricchi esercitano un’influenza significativa sulla politica attraverso il lobbismo. Questo può portare ad apparenti benefici per i più poveri, ma spesso favorisce gli interessi dei contribuenti più facoltosi.
I grandi donatori hanno un impatto significativo sulle prospettive di successo elettorale e sul comportamento legislativo dei candidati che finanziano.
Tuttavia, l’influenza del denaro non è sempre determinante, come dimostrano esempi come la vittoria di Donald Trump nel 2016.
Le élite economiche, come descritto da Noam Chomsky, detengono un potere significativo nella società. Questo potere è spesso legato alla capacità di influenzare le decisioni politiche.
C’è un legame diretto tra politica ed economia, con la politica che può avere un impatto significativo sui mercati finanziari. Questo legame influenza la gestione del potere economico e la sua traduzione in influenza politica.
Il denaro e il potere sono strettamente legati alla politica, influenzando le decisioni politiche attraverso la corruzione, il lobbismo e la concentrazione del potere economico.
L’influenza del denaro non è sempre chiara e diretta, ma può essere determinata da altri fattori sia politici che sociali.
“Dynasty” di Mario Giordano è un libro che esplora il declino delle grandi dinastie imprenditoriali italiane, come gli Agnelli, i Benetton, i Del Vecchio e i De Benedetti.
Queste famiglie, un tempo simbolo del boom economico italiano, sono ora al centro di faide familiari e crisi economiche.
Il libro offre una critica tagliente del capitalismo familiare, evidenziando come i successori dei grandi imprenditori del passato stiano dissipando le eredità costruite con sacrificio e passione.
Il libro racconta come queste famiglie imprenditoriali italiane, che negli anni Ottanta erano ai vertici del capitalismo familiare, stiano ora affrontando un declino significativo. Tutto è segnato da violente dispute familiari, grandi fallimenti aziendali e conseguenti scontri legali.
Gli Agnelli si disputano ville e yacht mentre le fabbriche chiudono, simbolo di un passaggio generazionale difficile.
La famiglia Benetton, nota per i messaggi di fratellanza, è criticata per la mancanza di risposta alla tragedia del ponte Morandi, evidenziando un contrasto tra immagine pubblica e realtà.
La famiglia Del Vecchio lotta per trovare un accordo sull’eredità, riflettendo le difficoltà nel gestire il passaggio generazionale.
Carlo De Benedetti, l’Ingegnere, è descritto come un imprenditore che ha accumulato ricchezza senza lasciare un segno duraturo nel panorama industriale italiano. La sua famiglia è segnata da fallimenti e dispute ereditarie.
Mario Giordano critica il modo in cui le dinastie italiane gestiscono il passaggio generazionale, lasciando spazio all’egocentrismo e all’anarchia, a differenza di altri Paesi dove il passaggio è guidato dalle istituzioni.
Le dinastie, un tempo pilastri dell’economia italiana, stanno crollando a causa di faide che hanno al centro sempre sia la pecunia che il potere.
Si predicano valori di solidarietà, ma si evidenziano solo comportamenti ipocriti. Le dispute ereditarie e i fallimenti aziendali sono diventati la norma.
Il libro critica il modo in cui le dinastie italiane gestiscono il passaggio generazionale, lasciando spazio all’egocentrismo e all’anarchia.
Questo declino non solo danneggia le famiglie coinvolte ma ha anche ripercussioni negative sulla società italiana, che perde leader economici affidabili.
Insomma, posso tranquillamente confermare quello che pensavo. Non mi sarei perso assolutamente nulla se non avessi letto il libro. Tutto era previsto e prevedibile. E’ cronaca quotidiana.
Mario Giordano è insuperabile nella sua abilità a riportare a galla tutte le pesanti oscenità che queste realtà famigliari chiamate “dinastie”, negli ultimi trenta anni della storia italiana, hanno cercato di affondare.
Altrettanto brava è la sua capacità di mettere in luce gli sbiaditi, sviliti ed osceni valori di una realtà creativa sia umana che sociale che non ha più nulla di elevato e di nobile.
Non c’è più nulla da salvare. Tutto quello che resta è soltanto una parola, per giunta nemmeno in lingua italiana: “Dynasty”.[image error]
March 13, 2025
Il sacro e il profano a Bologna

La fontana del Nettuno a Bologna presenta questa famosa statua voluta da papa Pio IV dei Medici, (niente a che vedere con i Medici di Firenze, ma di origine lombarda), fu promossa dal cardinale legato di Bologna Carlo Borromeo, gestita dal vice legato Pier Donato Cesi. Progettata dall’architetto e pittore Tommaso Laureti nel 1563, venne sormontata dalla imponente statua in bronzo del dio Nettuno dello scultore fiammingo manierista Jean de Boulogne da Douai, detto il Gianbologna. La statua è alta tre metri e venti e pesa 22 quintali. Si racconta che il Gianbologna volesse realizzare il Nettuno con i genitali più grandi, ma la chiesa glielo proibì. Lo scultore però non si arrese, infatti disegnò la statua in modo tale che da una particolare angolazione (vedi foto sopra) il pollice della mano sinistra tesa del Nettuno sembra spuntare direttamente dal basso ventre. All’epoca le donne della città, alla vista della statua, si turbavano, così che la chiesa dovette mettere dei pantaloni di bronzo al dio del mare. Tutta la fontana ha comunque una forte valenza erotica: le ninfe di contorno spruzzano acqua dai seni.

Esistono sempre i figli di …

L’espressione “figlio di puttana” è un termine volgare e spesso usato come insulto nella lingua italiana. Tuttavia, il suo significato e utilizzo possono variare notevolmente a seconda del contesto culturale e sociale. Si riferisce storicamente a un bambino nato da una madre nota e un padre ignoto, o da una madre con una reputazione di promiscuità. Nella cultura italiana, il termine è spesso usato per descrivere una persona disonesta, corrotta o spregiudicata. Tuttavia, in alcuni contesti, può essere usato in modo più bonario per indicare astuzia o abilità nell’ottenere vantaggi personali. L’espressione riflette una connotazione misogina, poiché si basa sulla denigrazione della figura femminile, in particolare della madre, associandola a comportamenti considerati immorali. A seconda del contesto, può essere usato come insulto o, in alcuni casi, come complimento ironico per una persona già considerata astuta o spregiudicata. L’uso e la percezione di questa espressione possono variare tra le diverse regioni italiane. In alcune aree meridionali, può avere una connotazione meno negativa rispetto al centro-nord. L’espressione rimane un termine complesso che riflette aspetti culturali e sociali profondamente radicati nella società italiana, con significati che possono variare a seconda del contesto e della regione.
Eduard Limonov, pseudonimo di Ėduard Veniaminovič Savenko, è stato uno scrittore, poeta e politico russo, nato a Dzeržinsk il 22 febbraio 1943 e morto a Mosca il 17 marzo 2020.
La sua vita è stata segnata da una forte personalità trasformista e ribelle, che lo ha portato a essere coinvolto in diverse attività, dalla letteratura alla politica, passando per l’attivismo e la militanza in vari movimenti.
Limonov è cresciuto a Charkiv, in Ucraina, in un ambiente familiare influenzato dal padre, un ufficiale della NKVD. La sua adolescenza è stata turbolenta, con frequentazioni di bande di strada e piccoli reati. Si trasferì a Mosca nel 1967, dove entrò in contatto con gli ambienti letterari e pubblicò i suoi primi lavori a proprie spese.
Nel 1974 si stabilì a New York, dove lavorò come correttore di bozze e frequentò circoli punk e avant-garde. Tornato in Russia nel 1991, Limonov fondò il Partito Nazional Bolscevico (PNB) insieme ad Aleksandr Dugin, un partito che si ispirava alle teorie della Nuova Destra e al nazionalismo bolscevico.
Il partito fu messo al bando nel 2007 per estremismo. Limonov fu anche leader del blocco politico “L’Altra Russia”, una coalizione di opposizione a Vladimir Putin. Le sue opere letterarie, come il romanzo “Io, Ėdička” (pubblicato in Italia come “Il poeta russo preferisce i grandi negri”), hanno riscosso successo in Francia e altri paesi.
La sua vita è stata immortalata nella biografia romanzata “Limonov” di Emmanuel Carrère. Limonov era dichiaratamente bisessuale e “libertino”, con quattro matrimoni alle spalle. La sua ultima moglie fu l’attrice Ekaterina Volkova, da cui ebbe due figli.
Ėduard Limonov è stato una figura complessa e poliedrica, che ha lasciato un segno significativo sia nella letteratura che nella politica russa. (PerplexityAI)
Ognuno di noi vive immerso nella propria bolla mediatica. Non ci riferiamo alla bolla di contenuti che l’algoritmo ci offre quotidianamente, a decadenza programmata, e che ci fa scivolare nella bulimia informativa, nell’onnipervasività di tette e goal da centrocampo, di dribbling di Ronaldinho e meme stupidi, di napoletani che fanno cose e maranza che fanno più o meno le stesse cose.
Parliamo invece di un’enorme cortina di ferro dell’informazione, una guerra fredda delle notizie, sopravvissuta al crollo del muro di Berlino, trasmigrata su un altro muro, un muro informatico, un firewall. La narrazione a coro unico dei paesi Nato o wannabe parte del Patto atlantico, da un lato di questo muro, opposta e antitetica a quella del resto del mondo, dell’asse della Resitenza, dei paesi della Via della seta, della Russia putiniana, dei piccoli dittatori delle porzioni dimenticate e sudaticce di questo mondo. Ogni bolla vive immersa nel proprio universo manicheo, cosciente di aver sposato le forze del bene e rabbiosamente indisposta ad ascoltare il vangelo del male che l’altra fazione spaccia per verità.
A volte capita però che questo muro si infranga, una piccola crepa, spesso di natura estetico-letteraria, un’artista, un poeta, uno scrittore, un musicista, fa trafugare un fiume di notizie e di vita da un lato all’altro della cortina elettrizzata che ci separa. E l’universo saldo e conchiuso comincia a vacillare. Questo è l’effetto che si prova quando si legge il rapporto tra Occidente e Russia alla luce dei testi di Eduard Limonov, crolla ogni certezza, si sgretola ogni punto fermo.
Limonov ci parla di un’Ucraina come Stato fantoccio, da annettere e ricongiungere alla Russia, ma lo fa da anti-putiniano convinto, da martire politico, in tempi non sospetti, quando gli Usa e l’UE si facevano abbindolare dalle promesse di integrazione e tolleranza dell’ex KGB; lo fa da prigioniero nel carcere di Lefortovo per tentata insurrezione armata contro lo Zar. Ci parla dell’Euro-Maidan ucraino, glorificato dalla stampa occidentale, come di un colpo di Stato dell’estrema destra; di Alexey Naval’ny come di un burattino che balbetta sul suo blog la lingua dell’Occidente a monosillabi confusamente nazionalistici.
Limonov, però, è stato un grandissimo figlio di puttana, e in quanto tale non pretende in alcun modo di dirci la verità. Non è un giornalista, non ha la presunzione di riportare i fatti, o di illuderci che la propria propaganda sia un affresco affidabile della realtà. I suoi scritti sono una diretta emanazione della sua esperienza di vita, vertiginosamente incentrati su di sé, sulle sue esperienze, sui suoi punti di vista, sulle sue battaglie, le sue invidie, i suoi successi e i suoi drammi irrisolti. Limonov è stato un flusso di pura energia vitale, e dalle pagine dei suoi libri esplode la sua personalissima battaglia, contro la corruzione consumistica dell’occidente, contro la corruzione parassitaria della Russia, contro tutti e contro sé stesso, in una battaglia perenne lanciata contro le mezze verità dell’opinione pubblica, qualunque essa sia, da bravo figlio di puttana.
Cosa ricorderemo di Eduard Limonov negli anni a venire? Di certo nulla di ciò che potremmo raccontare di lui sarà mai all’altezza della sua personale mitomania. Limonov però è stato, in primo luogo, un grandissimo figlio di puttana. Insofferente a qualsiasi forma di autorità, ma anche alla ribellione a rischio zero degli intellettuali borghesi, Limonov riusciva ad essere sempre altrove, a battersi per la posizione più scomoda e insostenibile di tutte, in un continuo e metodico autosabotaggio.
Quando ai poeti russi s’intimava di tessere le lodi dell’URSS Limonov vomitava versi di insurrezione. Quando l’Occidente elogiava i dissidenti sovietici, lui era subito pronto a condannarli come abili promotori di se stessi e della propria casta. Rifugiatosi negli Usa, invece di frequentare i salotti spalancati per gli esotici contestatori del regime, Edichka batteva le strade gelide di Manhattan, scaldandosi con vodka da vasca da bagno e corpi negri, possenti e dimenticati.
Se il bel mondo occidentale s’inorgogliva per la Perestrojka di Gorbacëv, Limonov cantava la Russia orientale, mongola, arida di terra ma fertile di spirito. Se le potenze atlantiche inorridivano davanti agli orrori di Milosevic e delle fosse comuni, Limonov lasciava la bella vita parigina per seguire le Tigri di Arkan. Se il nuovo millennio si scrollava di dosso le ideologie superate del Novecento, per inaugurare l’epoca dell’eterna ripetizione del consumo, il nostro figlio di puttana fondava il Partito Nazional-Bolscevico, ibrida ed estremissima sintesi del meglio e del peggio del nazismo e dello stalinismo.
E mentre l’Occidente si faceva abbindolare dalle promesse di pace e integrazione di Valdimir Putin, Limonov, sempre all’erta, sempre contro, sacrificava la propria libertà per denunciarne la falsità, la piccolezza, l’ingordigia, mettendosi sullo stesso piano di figure come Anna Politkovskaya, e ridicolizzando al tempo stesso l’ingerenza straniera nel nazionalismo confuso di Alexej Naval’nyj.
Da tutte queste esperienze, oltre alle decine di libri, ossessivamente autobiografici, nascevano anche centinaia di articoli, persi per gli archivi e le riviste d’opposizione russa. Giannicola Saldutti ne ha qui raccolto e tradotto i più emblematici, i quali, accuratamente selezionati, vanno a comporre la mitologia di un pensiero e di una vita inclassificabili: l’ideario di un figlio di puttana.gogedizioni.it[image error]
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