Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 15

March 12, 2025

Un repertorio di matti …

Un repertorio di matti … Il Libro

Certo che l’idea editoriale di dedicare ad alcune città italiane una collana di libri nei quali vengono presi in esame tutti i matti e le matterie che in quella città si sono manifestati è senza dubbio una idea originale, se non vincente. Ogni città e paese del mondo avrebbe diritto ad un libro del genere in quanto i matti, veri o presunti, non mancano mai, oggi, come ieri e domani.

Io ho avuto il piacere e l’onore, ne conservo ancora l’ “odore”, non senza dolore, di lavorare e studiare in un luogo del genere. Non era in Italia, erano “matti” inglesi, ma le cose non cambiano molto. E’ cambiato, è vero, il lessico. Non si chiamano più così, ma la “sostanza” era la stessa. I miei pazienti non erano solo malati nella mente, ma anche nel fisico. Un repertorio molto più ricco.

L’editore “marcosymarcos” ne ha pubblicati diversi di questi repertori. Ho scelto il volume dedicato alla città di Bologna, una città che ormai conosco abbastanza, anche se questa è una realtà sociale, umana e culturale che non si finisce mai di conoscere. L’edizione bolognese è curata da un giovane ed apprezzato scrittore Paolo Nori che merita ogni successo.

Ecco la conclusione del libro a pag. 184 che vi propongo perchè arriva sino all’età contemporanea. Il Maniglia di cui si parla, è un soggetto musicale ed un personaggio umano strepitoso. L’ho visto in azione in piazza Maggiore e non vi nascondo che era un vero fenomeno.

“Uno aveva la fissa dei muscoli, che dovevano essere forti e gonfi. Questa fissa ce l’aveva prima che venisse la moda dei culturisti, lui ce l’aveva già nel ‘58-’59, era appena entrato a lavorare alla BBB come operaio turnista e finiti i turni andava a farsi i muscoli tirando su pesi dove capitava. Forse l’aveva visto fare ai soldati americani. Questo accadeva prima che Gigi Lodi aprisse le palestre. Anche la sua moto doveva essere bella grossa, gonfia. Si era fatto una specie di Harley Davidson con parecchie modifiche, grande come due Apecar uno dietro all’altro.
Con quei muscoli e quella moto aveva un eccesso di energia. Ci voleva uno spazio grande e grosso per riempirlo di qualcosa di sé e piazza Maggiore poteva andar bene. La batteria della moto era sufficiente ad alimentare la chitarra elettrica e due belle casse. Cominciò a suonare il giro di do. “Cazzo” pensò “fa un bell’effetto, questa piazza è fatta proprio per la mia musica, che poi è bella, non disturba”.
Si direbbe che piazza Maggiore abbia gradito. Da allora fino ad oggi ha visto passare molte cose, le proteste operaie dell’autunno caldo nel ’68, i moti studenteschi del ’77, i funerali della bomba alla stazione nell’80, la festa per i mondiali dell’82, la fine del comunismo nell’89, le celebrazioni come città europea della cultura nel 2000, tre ritorni del Bologna in serie A, la festa dei mondiali del 2006, il Vaffa Day di Grillo nel 2007, i funerali di Dalla e poi, e poi, e poi; l’unica cosa che non è mai cambiata è la muscolosa presenza del suo musicista. Che a pensarci bene non è una cosa da poco in una città dove ha studiato Mozart, dove hanno insegnato Martini e Rossini, dove è nato Respighi, dove a un certo punto sembrava che una persona su tre fosse un cantautore. Bene, in una città così, la colonna sonora della piazza da cinquant’anni la fa lui, lo sfondatore di borse dell’acqua calda, Beppe Maniglia.
Dicono che non abbia mai avuto una casa, che abbia vissuto sulla moto, in un camper o all’aria aperta anche d’inverno. Dicono che se in piazza c’erano meno cinque gradi lui col fiato portava la piazza a più dieci. Dicono che fosse già lì a suonare quando il Bologna vinse lo scudetto e che gli fregarono la musica per farne il tormentone dell’Acqua Cerelia allo stadio. Dicono che la donna che fa la ballerina mentre lui suona sia scappata dal suo amante, un boss della mafia marsigliese, che si è ben guardato dall’andarsela a riprendere dal Maniglia. Dicono che quello che gli cura il suono sulla moto sia un ex ingegnere aeronautico che è rimasto un po’ offeso nell’anima e nella mente per una delusione d’amore e che è rimasto stregato dal Maniglia. Dicono che ci siano quattro sosia autorizzati da lui in persona che in caso di necessità lo possono sostituire il sabato in piazza.
Dicono che avesse delle buone chance per diventare sindaco. Il suo programma prevedeva l’abolizione dei semafori e dei lavavetri. Voleva anche mettere una megapiscina con le onde in piazza Maggiore. Ma dicono che la lobby massonico-giudaica gli si sia messa contro e per un vizio di forma è stato escluso dalle elezioni. Ha poi vinto Delbono, ma non gli ha portato bene. Dicono che Bruce Springsteen abbia tutti i suoi dischi e che gli mandi una cartolina di auguri ogni anno per Natale. Maniglia risponde con una mail. Infine dicono, ma questo non è sicuro, che una volta ha provato con la moto a prendere la rincorsa in Francia, poi a lanciarsi in Spagna per fare un salto in America, ma che non ce l’ha fatta e che è dovuto atterrare alle Azzorre. Siccome la moto è anche anfibia è poi arrivato a New York con la turbina. Il Maniglia è sicuramente un grande.”
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Published on March 12, 2025 06:34

March 11, 2025

Dicono di lei: le molte “facce” di Bologna

La dotta, la grassa, la rossa. Tre aggettivi che parlano di lei: Bologna. Anzi, no: quattro. Manca la “turrita”. Questa “guida” sembra smentire quello che ho letto di recente, che questa città sembra essere una Bologna appagata ed immobile. A dire il vero il libro, così come è stato presentato dal punto di vista editoriale, conferma in pieno la sua visione “rossa” del mondo. Tutta di rosso lo è, infatti, il libro. Anche di “profilo”. Una scelta grafica che comunque la gratifica.
Uno sguardo rapido all’indice ed alla presentazione non sembra però condizionarla da altri punti di vista, se non quelli squisitamente culturali. “La città nella letteratura”, così recita il sottotitolo e credo che il suo curatore, Lorenzo Notte, sembra confermi questa scelta. Si vuole fare il racconto di Bologna nelle parole degli scrittori. L’autore parte dalle sue considerazioni su di una “rossa” che lui ritiene essere meravigliosa dando uno sguardo inziale e di insieme, dal centro alle sue colline. Esamina poi le icone con i suoi monumenti e pittori, senza tralasciare i souvenir con i tanti prodotti tipici e le svariate curiosità.
Si incammina, quindi, nel tortuoso e lungo percorso della conoscenza, visitando una “boheme confortevole e gaudente. Al centro, è ovvio, il “gourmand”, tra cibi e ristoranti innumerevoli nei tanti infiniti gusti. Si passa poi a fare una inevitabile visita a quello che l’autore definisce “il museo della morte”, la Certosa. Anche da queste parti sono passati i tanti divi e le divine, con i loro amori, tra poeti, donne e star vere o false. La miseria e le nobiltà di una città che ha visto nascere pontefici e grandi famiglie, tra guerre furiose e sanguinose, dal risorgimento alla resistenza e combattenti per la libertà.
Senza dimenticare, ovviamente, il sangue inutile e criminale delle contraddizioni di accadimenti sanguinosi ed incomprensibili, mai risolti, che l’autore racchiude nel capitolo chiamato “cool war”. Lui ci include le contraddizioni ideologiche moderne, il pc, il ’77 e le stragi. Si arriva così alla moderna epoca in cui si vede una città “sazia” sì ma, a suo dire, anche “disperata”. Il tutto si conclude con il capitolo col titolo “noir” con i “giallisti”. Ogni voce che ho nominato l’autore la presenta con un suo breve ma sempre appassionato e preciso resoconto.
Non mancano le note bibliografiche, l’indice degli autori citati e i luoghi visitati. Un link dedicato porta il lettore ad una pagina web sulla quale il visitatore potrà “entrare”, per così dire, nel libro, nella città e nelle citazioni in maniera digitale. Tutto sommato, una esperienza di lettura che trascina ed invita chi ama questa città non solo a venire a visitarla, ma anche a goderla in persona. Siatene certi che non ne sarà deluso.

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Un viaggio tra storia, cultura e sapori. Bologna, capoluogo dell’Emilia-Romagna, è una città che incanta e sorprende ad ogni angolo. Conosciuta per le sue quattro caratteristiche distintive — la Dotta, la Grassa, la Rossa e la Turrita — Bologna offre un’esperienza unica, un mix perfetto di storia, cultura, gastronomia e vivacità.

Chi: un crocevia di culture e saperi. Bologna è da sempre un crocevia di culture e saperi. La sua Università, fondata nel 1088, è la più antica del mondo occidentale e ha attratto studenti e intellettuali da ogni dove. Tra i suoi illustri docenti e studenti, nomi come Irnerio, Laura Bassi e Umberto Eco. La città ha ospitato anche artisti del calibro di Guido Reni e i fratelli Carracci, che hanno lasciato un’impronta indelebile nel patrimonio artistico bolognese.

Cosa: un patrimonio storico e culturale inestimabile. Bologna vanta un patrimonio storico e culturale inestimabile. La sua architettura medievale, con i caratteristici portici che si estendono per oltre 40 chilometri, è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. La città è famosa anche per le sue torri, simboli del potere delle antiche famiglie nobiliari, tra cui spiccano le due torri pendenti, la Garisenda e la degli Asinelli.

Quando: un susseguirsi di epoche e trasformazioni. La storia di Bologna è un susseguirsi di epoche e trasformazioni. Dalle origini etrusche e romane, al periodo medievale di massimo splendore, fino al Rinascimento e all’epoca moderna, la città ha saputo conservare le tracce del suo passato, offrendo ai visitatori un viaggio nel tempo.

Dove: nel cuore dell’Emilia-Romagna. Bologna è un importante nodo di comunicazione, facilmente raggiungibile da ogni parte d’Italia e d’Europa. La sua posizione strategica l’ha resa un centro economico e culturale di primaria importanza.

Perché: le quattro anime di Bologna. La Dotta: Bologna è sede della più antica università del mondo occidentale, un centro di eccellenza per la ricerca e l’innovazione.
La Grassa: la città è famosa per la sua tradizione gastronomica, con piatti iconici come le tagliatelle al ragù, i tortellini in brodo e la mortadella. La Rossa: il colore dei tetti e dei mattoni degli edifici storici, ma anche simbolo della tradizione politica di sinistra della città. La Turrita: le numerose torri medievali che svettano nel centro storico, testimonianza del passato glorioso di Bologna. Una città che affascina e conquista, un luogo dove storia, cultura e gastronomia si fondono in un’esperienza indimenticabile.
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Published on March 11, 2025 06:24

March 8, 2025

La narrativa risolutiva: “Homo sapiens vs Homo schizzatus”

Corriere della Sera

Esistono numerosi tipi di narrativa, che possono essere classificati in diverse categorie. Ecco una panoramica dei principali generi e sottogeneri. La narrativa letteraria si concentra sulla psicologia dei personaggi, sulle loro emozioni e sensazioni. Non è strettamente definita da un genere specifico, ma spesso include elementi di introspezione e analisi psicologica.

La narrativa di genere è più strutturata e si articola in vari generi ben definiti. Azione-avventura è caratterizzata da movimento, sforzo fisico e violenza, spesso ambientata in luoghi esotici. Crimine. Incluse storie di crimine organizzato o detenuti, con toni variabili. Fantasy. Storie che includono elementi soprannaturali o immaginari, spesso epiche. Fantascienza, Ambientata in mondi immaginari con tecnologie avanzate.

Giallo/Poliziesco. Focalizzato sulla risoluzione di misteri e crimini. Horror. Destinato a suscitare paura e repulsione. Narrativa romantica. Incentrata sull’amore e le relazioni sentimentali. Noir. Caratterizzato da un’atmosfera oscura e pessimistica. Thriller. Storie di suspense e tensione, spesso con elementi di spionaggio o crimine. Favola. Racconti brevi con personaggi che rappresentano virtù o vizi umani. Fiaba. Storie fantastiche per l’intrattenimento infantile.

Racconto breve. Storie concise che trattano una sola vicenda. Novella. Racconti più lunghi del racconto breve, con vari sottogeneri (d’avventura, autobiografico, storico, sociale, ecc.). Romanzo. Una delle forme più lunghe e complesse di narrativa, con vari sottogeneri (storico, picaresco, epistolare, ecc.)

Come si vede esistono molteplici tipi di narrativa, sia all’interno della narrativa letteraria che della narrativa di genere, ognuno con le sue caratteristiche e sottocategorie. Ma questa di cui si parla di pù al momento e quella nucleare. Apocalittica e risolutiva di tutti i problemi umani. L’Apocalisse.

IL GIARDINO DELLE DELIZIE: DAL PARADISO TERRESTRE ALL’INFERNO
Jeroen van Aken, conosciuto come BOSCH

Non so se è il titolo che dà il senso ad un un articolo oppure è un articolo che dà il senso ad un titolo. E’ il caso di questo post che ho scritto una decina di anni fa. Lo riscrivo adattandolo a questo tipo di narrativa. Vede due realtà storiche umane e culturali opposte e contrastanti incontrarsi e confrontarsi sulla scena del mondo di oggi. Quel “vs” sta per la parola latina “versus”, “contro”, “in opposizione a”, ma in questo caso significa anche “verso”, nel senso di direzione, mutamento.

La domanda allora è: ma davvero l’uomo di oggi, l’uomo storico cosi detto “sapiens” si sta trasformando in “homo schizzatus”, sul tema dell’aggressività sociale nella civiltà di oggi? Questa tecnica di trasformazione, questo mutamento, questa metamorfosi la potremmo forse applicare a diverse situazioni che ci scorrono sotto gli occhi ogni giorno.

Una lunga sequenza di mutamenti e contrapposizioni più voluti che spontanei, ma anche voluti e spontanei insieme, messi in atto, e forse addirittura scatenati, da una interna, latente aggressività cresciuta nel tempo. Un sentimento questo sempre pronto a manifestarsi in qualunque maniera, nei momenti meno propizi, ma anche più insostenibili ad accettare nonostante la forte richiesta di cambiamento. Chi è il soggetto “aggressivo”? Ecco alcuni sinonimi:

attaccabrighe, battagliero, prepotente, prevaricatore, acido, caustico, bellicoso, cattivo, combattivo, ferino, feroce, forte, impetuoso, manesco, mordace, vigoroso, violento, minaccioso, litigioso, polemico, sanguinario, truce, atroce, barbaro, brutale, crudele, disumano, efferato, inumano, selvaggio, spietato, selvatico, bruto, duro, corrosivo, ironico, malevolo, mordente, pungente, salace, sarcastico, satirico, sferzante, tagliente, velenoso. Ed ecco alcuni contrari: accomodante, bonaccione, mansueto, mite, innocuo, quieto, buono, docile, tranquillo, accondiscendente, arrendevole, malleabile, tollerante, dolce, paziente, domestico, innocuo, inoffensivo.

Schizzare veleno, bile, fango su chiunque, ovunque e comunque. Senza una ragione, senza un significato, senza un risultato. Se tutta la “sapienza” che l’uomo è riuscito ad acquisire nel corso dei secoli deve essere trasformata in “schizzi” trasmessi in tempo reale ed universale in Rete, allora vuol dire che “la fine è vicina”. Sarà l’Apocalisse a salvarci.

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Published on March 08, 2025 06:54

March 5, 2025

La filosofia del tempo

Carlo Rovelli

Cosa significano passato, presente e futuro per un filosofo del tempo? In questa eloquente lezione, il fisico teorico e scrittore italiano Carlo Rovelli accompagna il pubblico in un viaggio ai confini della nostra comprensione del tempo. Partendo da idee esplorate nel suo libro L’ordine del tempo (2017), Rovelli esplora le teorie di pensatori da Aristotele a Newton a Einstein fino al suo stesso lavoro sulla gravità quantistica, sfiorando ciò che sappiamo del tempo e ciò che rimane un mistero. Utilizzando metafore ed esempi per chiarire concetti enigmatici, Rovelli aiuta a capire perché, in superficie, la nostra esperienza del tempo sembra così in contrasto con il modo in cui fisici e filosofi la vedono. AEON (Filmato in lingua inglese).

Confesso che ho iniziato a leggere questo libro in maniera prevenuta. Mi spiego. Il tempo è un concetto, un’idea, un sentimento, chiamatelo come volete, che mi ha sempre affascinato.

Sant’Agostino ha scritto nelle sue Confessioni che il Tempo non esiste, che esiste infatti il presente del passato, il presente del presente, e il presente del futuro. In altre parole, non esiste. Quanto meno esiste fino a quando esisto io che l’avverto. Cosa sia questa “avvertenza” o “avvertimento”, la sensazione di qualcosa che scorre, questo è un altro paio di maniche. Sono curioso di vedere come Rovelli affronta il tema, parlando di qualcosa che non esiste, o almeno esiste fino a quando io esisto.

Io sono il tempo. Me ne sono accorto leggendo il libro ora che l’ho finito. Con questo titolo sintetizzo il percorso fatto da Rovelli in questo libro. L’ho pensato e scritto all’inizio, denunciando il mio pregiudizio. Il tempo non esiste: mi spiego. Il tempo esiste finché io esisterò. Quando nacqui, venni alla luce venendo fuori dal grembo di una donna, che poi il tempo mi avrebbe detto era mia madre, allora cominciò a scorrere il mio orologio.

Prima che io nascessi non si muoveva, anzi non esisteva proprio. Oggi a distanza di tempo, misurati in giorni, mesi ed anni, bene, l’orologio continua a girare la sua ruota. Così sarà fino a quando quel muscolo chiamato cuore batterà. Quando si fermerà, il mio tempo sarà finito, l’orologio si fermerà. Il tempo non solo sarà scaduto, ma non sarà mai esistito. Sarà così per me come lo è stato sempre per tanti prima di me, e così continuerà ad essere per tutti. Nel tempo e poi fuori dal tempo.

Magnifica avventura scritta, è descritta in maniera scientifica da questo signore chiamato Carlo Rovelli che con me condivide il tempo. Il suo “tempo”, badate bene, che non è il mio. Già, perché ognuno ha il suo proprio tempo, che non è mai lo stesso, per ognuno, per tutti e per nessuno.

Quindi, io sono il tempo. Ora. Quanto prima potrò dire: “io fui il tempo”. Anzi, no, non sarò io a dirlo. Sarà qualcun altro, perché io sarò “fuori” dal tempo. Io fui … ma non lo sono ancora. Voglio dire, lo sarò, non so se mi spiego. Non so neppure se chi legge questa forse strampalata cosidetta recensione capirà cosa ho scritto. Se vuole davvero saperlo, si dovrà leggere il libro …

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Published on March 05, 2025 12:26

March 4, 2025

Cellule & Ceneri

Ucraina
Il nostro corpo fisico è composto da un numero incalcolabile di cellule e ciascuna di queste cellule è un’entità vivente, una piccolissima anima intelligente che sa come respirare, nutrirsi, eliminare … Guardate come lavorano le cellule dello stomaco, del fegato, degli organi sessuali, del cuore , del cervello … Hanno tutte una loro specializzazione. E la nostra intelligenza è la somma delle intelligenze di tutte quelle piccole esistenze: noi dipendiamo da loro ed esse dipendono da noi, insieme formiamo un’unità. L’essere umano non può far nulla senza il consenso delle sue cellule. Il giorno in cui queste smettono di lavorare, ossia di contribuire al buon funzionamento del suo organismo, egli non è più in grado di respirare, nutrirsi, eliminare, muoversi, pensare … E non serve a nulla ribellarsi a quella situazione. Egli deve dunque capire di essere la sintesi di tutte quelle piccole anime intelligenti che vivono in lui, e deve ricordarsi di prendersi cura di loro ogni giorno. (Omraam Mikhael Aivanhov)

Ogni 5 marzo, il giorno delle Ceneri, riflettiamo su un concetto profondo espresso egregiamente da Omraam Mikhaël Aïvanhov, un maestro spirituale che ha sempre sottolineato l’importanza dell’armonia tra il corpo e l’anima. Le sue parole ci invitano a considerare il nostro corpo come un insieme di entità viventi, ognuna con una propria intelligenza e specializzazione.

Una unità intelligente composta da un numero incalcolabile di cellule, ciascuna delle quali è una piccola anima. Lavorano incessantemente per garantire il funzionamento ottimale dell’organismo. Le cellule dello stomaco, del fegato, del cuore e del cervello sono tutte specializzate in compiti diversi, e la nostra intelligenza è la somma delle loro intelligenze individuali.

Interdipendenza tra cellule e essere umano. L’essere umano non può esistere senza il consenso delle sue cellule. Quando queste smettono di funzionare correttamente, l’intero organismo ne risente. Non possiamo respirare, nutrirci, eliminare o muoverci senza il loro contributo. Questo ci ricorda che dobbiamo prendere cura di queste piccole anime ogni giorno.

La cenere come trasformazione. Simbolo di rinascita, possiamo riflettere sul ciclo della vita. Le cellule, come la cenere, possono essere viste come elementi che si trasformano e si rinnovano costantemente. Quando il nostro corpo fisico si dissolve, le cellule tornano alla terra, come la cenere che ricorda la nostra origine e il nostro destino finale.

Aïvanhov ci invita a comprendere che il nostro corpo è un’unità composta da molte parti interconnesse. Questa comprensione ci porta a valorizzare il lavoro silenzioso delle nostre cellule e a prendere cura di noi stessi in modo olistico. La spiritualità di Aïvanhov ci ricorda che ogni azione, ogni pensiero, influenza il nostro essere intero, corpo e anima insieme.

In questo giorno, riflettiamo sulla nostra esistenza come un insieme di cellule che lavorano in armonia, e sulla cenere come simbolo di trasformazione e rinascita. Prendiamoci cura delle nostre piccole anime intelligenti, e cerchiamo di vivere in equilibrio con il mondo che ci circonda.

Il significato delle ceneri, nel contesto della meditazione quotidiana, può essere interpretato attraverso diversi aspetti simbolici e spirituali. Le ceneri, tradizionalmente associate al Mercoledì delle Ceneri, rappresentano non solo la fragilità e la mortalità umana, ma anche un invito alla riflessione profonda sulla nostra vita e sulla nostra condotta.

Le ceneri richiamano la consapevolezza della nostra condizione mortale. Come affermato nella Genesi, “polvere sei e in polvere tornerai”, questo richiamo sottolinea la transitorietà della vita umana. Nella meditazione quotidiana, riconoscere questa fragilità ci spinge a riflettere su come viviamo, sulle nostre priorità e sul tempo che dedichiamo alle cose veramente importanti.

Il gesto dell’imposizione delle ceneri è anche un atto di penitenza e un invito alla conversione. Questo momento liturgico segna l’inizio di un cammino di rinnovamento interiore, incoraggiando i fedeli a riflettere sulle proprie azioni e a cercare un cambiamento positivo nella propria vita. La meditazione quotidiana può quindi diventare un’opportunità per esaminare il proprio cuore e le proprie intenzioni, chiedendo perdono e cercando di migliorarsi.

In una vita frenetica, il momento delle ceneri invita a fermarci e a meditare. La cenere diventa un simbolo di ciò che è effimero; ci ricorda che tutto ciò che amiamo è temporaneo e che dobbiamo apprezzare ogni istante. Questo può portare a una maggiore gratitudine per le esperienze quotidiane e per le relazioni significative.

Le ceneri possono anche rappresentare una specie di trasformazione spirituale. Accettare la nostra mortalità non deve portare alla disperazione, ma piuttosto a una rinnovata connessione con il divino anche se resta ineffabile. La meditazione quotidiana può aiutarci a coltivare questa connessione, permettendoci di vedere la bellezza nella vita e nella morte, riconoscendo che ogni fine è anche un nuovo inizio.

Il significato delle ceneri nel contesto della meditazione quotidiana è un evento complesso e profondo. Temo che ogni speranza, proposito e idea resti purtroppo solo una illusione. Guardate la foto che correda questo post. Macerie che diventano cenere. Macerie volute. Ceneri che erano cellule. Tutto ritorna alla polvere dell’esistenza in nome della vanità.

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Published on March 04, 2025 08:27

In occasione del Carnevale: la festa dei pazzi

Questo post ha origine da una conversazione nata su Facebook a proposito di una frase di Petrarca: “I libri condussero alcuni alla saggezza, altri alla follia.” Qualche anno dopo Petrarca, a Basilea nel 1494, venne pubblicato un libro in occasione del carnevale.

L’autore Sebastian Brant, (1457–1521) mise tutti i folli su una nave, che poi è la nave della vita. Una gentile amica mi ha chiesto se su Facebook siamo saggi o folli. Io ho risposto che dai tempi di Petrarca i libri sono cambiati. Non sono più quelli di prima, ma la follia continua ad imperversare, anche se in forma diversa. Magari digitale.

“La Nave dei folli” è uno di quei libri di cui tutti parlano, citato mille volte, ma che pochi conoscono. Composta da oltre settemila versi in rime baciate, l’opera è un grottesco e disastroso viaggio dei matti che nella concezione di Brant, a cavallo tra tardo medioevo e rinascimento, sono tutt’uno con i peccatori, verso il naufragio finale che precede la quaresima, metafora dell’eterna punizione se non interviene il pentimento.

Testo straordinario per la sua “contabilità”, scorrevolezza e pregnanza, “La nave dei folli” è forse il libro tedesco che ha avuto più fortuna nei secoli: un grande classico che si colloca nella scissura tra vecchio e nuovo mito, a conclusione del Gotico e a inaugurazione dell’invenzione del nuovo mondo.

Brant, nato a Strasburgo ma vissuto a Basilea dove insegnò a quella università, fu uno dei primi “consulenti editoriali” della storia: seppe servirsi della stampa in maniera moderna.

Raccolse intorno a sé una equipe di illustratori, il principale dei quali fu Albrecht Durer, che eseguirono le xilografie che illustrano l’opera, composta dunque da una “colonna sonora” e da un indissolubile commento grafico, sì da articolare una irresistibile “Totentanz”, tragica ma non priva di tocchi umoristici: clamorosa satira, coloratissima “festa dei pazzi”, orrenda e allegra kermesse che nella sua straordinaria giocosità è fonte di sicuro divertimento, ma anche momento di attenta meditazione per ciascun lettore.

DEI LIBRI INUTILI
Di stolti e pazzi la ridda precedo
Ché molti libri attorno a me pur vedo
Che io non leggo e in cui neppure credo.
Se io per primo sulla Nave siedo,
Non è senza ragione, lo concedo:
Con i libri da sempre ho un gran daffare
E molti ne ho saputo accumulare.
Spesso neppure un’acca ne comprendo,
Eppure grande onore loro rendo:
Di scacciarne le tarme mi accontento.
Se di scienze si fa ragionamento,
“A casa tutto questo tengo!” esclamo,
Ché d’aver libri attorno, altro non bramo.
Di Tolomeo il gran re si sente dire
Che di libri ne avesse a non finire
D’ogni parte del mondo radunati
E a guisa di tesori venerati.
Ma molti stavan solo ad occupare
Spazio, senza al gran re nulla insegnare.
Al par di lui, io ne possiedo molti,
Ma ben di rado ne ho consigli colti.
Forse che dovrei rompermi la testa
Per farne di nozioni una gran cesta?
Chi troppo studia, si riduce scemo!
E come un gran signor, certo non temo
Di pagare chi impari al posto mio!
Sono tardo di mente, è questo il fio:
Ma quando siedo col sapiente e il dotto,
Ho pronto l’ “ita!” e qualche altro motto
Che possa voler dire “son d’accordo”.
Che qui siamo tedeschi, ben ricordo.
Ne mastico assai poco, di latino.
So che vinum vuol dire proprio vino,
Che gucklus vuole dire semplicione
E stultus chi ne ha poca, di ragione,
E che “domine doctor!” son chiamato,
E da tutti, ed ovunque, rispettato.
Sulla testa il berretto uso calzare,
Dell’asino le orecchie per celare.
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Published on March 04, 2025 04:33

February 28, 2025

“Volevo essere un uomo”…

Credit@Dagospia
”Non volevo essere un uomo per il potere, ma per la libertà di essere me stessa senza limiti." E’ un aforisma che ben si adatta all’idea di questo libro. Offre uno spunto profondo e attuale per riflettere sul concetto di identità, libertà e autodeterminazione. Scrivere un articolo su questa frase, che dà il titolo a un libro appena pubblicato e che ho letto in un paio di ore in versione Kindle, significa non solo esplorare temi come il genere, la fluidità identitaria, le aspettative sociali, il desiderio di emancipazione da schemi precostituiti, ma anche molte altre cose. Vedremo.

Va detto innanzitutto che su questa faccenda, fatta tutta di libertà e diritti, gli uomini e le donne, in quanto esseri umani, hanno ben poca influenza. Non spetta ad essi, infatti, scegliersi il sesso, non è un loro diritto e quindi non ne può conseguire una impossibile libertà. Soltanto dopo, noi esseri umani, maschi o femmine, possiamo decidere per l’una o per l’altra realtà dell’essere.

Partiamo con una riflessione iniziale sull’aforisma, sottolineando come esso racchiuda questa verità universale: il desiderio di libertà e autenticità. Il tema dell’identità di genere va introdotto come punto di partenza soltanto dopo l’evento che chiamiamo nascita, allargando il discorso a una metafora più ampia sulla libertà di essere se stessi: Uomo o Donna. Solo tra la 18a e la 22a settimana di gravidanza si può identificare il sesso. Soltanto allora può avere inizio la costruzione della identità di genere.

Io sono nato uomo. Sono felice di esserlo e non posso immaginare cosa sarei stato se fossi stato donna. Confesso che mi sono molto divertito a leggere questo libro. Una donna che parla e scrive dialogando con se stessa, contraddicendola e contrastandola Allo stesso tempo, si contraddice con se stessa, rivivendo il suo vissuto. Una lettura senza dubbio stimolante.

Ma le ragioni per leggere questo starno libro sono anche altre. Riguardano una scrittrice che nel 1976 pubblicò insieme a Marco L. Radice un libro che fece furore: Porci con le ali. A distanza di trenta anni, Lidia Ravera ne ha 74, tira le somme e dichiara il fallimento. Non è come la ritrae Dagospia qui sopra nella mia immagine del post. Non mi piace il body shaming. Rimando il lettore al link su YouTube che ritrae la scrittrice oggi, com’è apparsa in una recente intervista.

Se leggerete fino in fondo questa recensione, capirete perchè parlo di fallimento. Riguarda non solo la questione maschio/femmina, ma anche una scelta di vita legata non solo alla scrittura di identità, ma sopratutto a quelle idee che si fanno Ideologia Politica, con la maiuscola, quando attraverso l’ideologia si è convinti di sapere come cambiare il mondo.

"Volevo essere un uomo” di Lidia Ravera è un’opera che si distingue per la sua profondità e intimità, raccontando una storia che è al contempo personale e politica. Questo libro non è un romanzo tradizionale, ma piuttosto una confessione che esplora il femminismo e le sue battaglie, sia vinte che ancora in corso.

La scrittura è caratterizzata da una sensibilità esasperata, che permette di immergersi nelle emozioni e nelle riflessioni di chi scrive, ricordando. Il libro è un viaggio attraverso le esperienze personali e le lotte femministe, offrendo una prospettiva unica sulla vita e sulla società.

La struttura del libro, che lei definisce “un oggetto misterioso”, suggerisce che si tratta di un’opera innovativa e originale, che sfida le convenzioni letterarie tradizionali. Ravera ci invita a riflettere sulle identità di genere e sulle aspettative sociali, creando un dialogo profondo con il lettore. “Volevo essere un uomo” merita di essere letto per la sua capacità di raccontare storie personali e collettive con una voce autentica e coinvolgente.

È un libro che lascia il lettore con molte domande e riflessioni, stimolando una discussione importante sulle questioni di genere e identità. A distanza di tre decenni, la Ravera si rende conto che non è possibile cambiare il mondo con la politica nè tantomeno con i bias, le ideologie e gli esperimenti. Il tempo scorre, passa e trasforma anche la presunzione di identità. Sconvolgente, a mio parere, la conclusione del libro. Nel dialogo che ha con se stessa, l’espediente letterario con il quale ha scritto il libro, lei dice a chi la legge e al suo alter ego:

Dovresti emanciparti dalla materialità del femminismo del secolo scorso, così irto di rivendicazioni minime e massime. Dovresti volare con le ragazze, sognando invece di pretendere. Dovresti immaginare una sociatà di persone, libera da condizionamenti vecchi di duemila anni. Una società senza uomini nè donne. Forse una società di corpi uguali, forse una società senza corpi. Dovresti pensare che fra non molto non saranno più le donne ad ospitare nel proprio ventre gli esseri umani in formazione. Dovresti sapere che l’utero sarà una macchina sofisticata, che lo sperma si comprerà in farmacia e gli ovuli saranno prodotti in laboratorio. La scienza ci libererà da ogni obbligo corporale. Dovresti pensarci. Dovresti incominciare da subito a immaginare modi diversi di amarsi, fra persone cangianti, liquide e illuminate. Tu non ci sarai più, d’accordo. Ma ti resta un pò di tempo per immaginare una nuova ondata di disordine fecondo. La prima ti è piaciuta, ma avevi sedici anni. Vediamo adesso, come tela cavi.”

Se questo non è fallimento, il suo fallimento, ditemi voi cos’è. “Donna non si nasce, lo si diventa” ha scritto un’altra esimia femminista, Simone de Beauvoir. Il titolo del romanzo di Lidia Ravera, “Volevo essere un uomo” richiama alla mente e al tempo stesso ribalta la celebre affermazione di Simone de Beauvoir da “Il secondo sesso”, del 1949. Entrambe le opere, pur distanti nel tempo e nel contesto, affrontano il tema della costruzione dell’identità di genere, ma da prospettive diverse.

Simone de Beauvoir sostiene che il genere non è un dato biologico, ma una costruzione sociale. La società impone alle donne ruoli, aspettative e comportamenti che le definiscono come “l’altro” rispetto all’uomo, considerato il soggetto universale. La sua analisi si concentra sulla critica del patriarcato e sulla lotta per l’emancipazione femminile.

Lidia Ravera tenta di trascendere i ruoli. Nel suo pseudo romanzo, dialogando con se stessa, esplora il desiderio di una donna di sperimentare la libertà e il potere attribuiti agli uomini. Non vuole tanto cambiare sesso, quanto liberarsi dai vincoli imposti dal suo genere. Il suo desiderio di “essere un uomo” è una metafora della sua aspirazione a una vita più piena e autentica.

Entrambe le scrittrici riconoscono che il genere è una costruzione sociale, non un dato naturale. Sia de Beauvoir che Ravera criticano le strutture patriarcali che limitano la libertà delle donne. Entrambe le opere esprimono il desiderio di trascendere i ruoli di genere imposti dalla società. de Beauvoir si concentra sulla lotta per l’emancipazione collettiva delle donne, mentre Ravera esplora il desiderio individuale di una donna di vivere una vita diversa. de Beauvoir scrive in un’epoca in cui il femminismo era incentrato sulla conquista dei diritti civili, mentre Ravera scrive in un’epoca in cui il dibattito sul genere è più fluido e complesso.

Volevo essere un uomo” può essere letto come una rilettura contemporanea e personale del pensiero di de Beauvoir, che riflette le sfide e le aspirazioni delle donne di oggi. In ogni caso la Ravera registra il suo fallimento che non è un fallimento di gender, in quanto donna, bensì un fallimento ideologico in quanto politico. Il fattore tempo ha gestito tutto senza che Lei se ne rendesse conto, tutta chiusa nei suoi effimeri bias di origine ideologica e politica.

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Published on February 28, 2025 06:56

February 27, 2025

Igiene Mentale & Salute Mentale

È stato inaugurato a Sarno, nella storica Valle dei Sarrasti, la nuova sede del Centro di Salute Mentale in un’area confiscata alla camorra. Camorra. Parola antica e terribile che ancora vive in molte aree del nostro territorio, un’opportuna ed importante operazione sociale, culturale e politica che vuole essere anche una significativa e giusta reazione a quelle perversioni di cui può farsi protagonista la mente umana.

Si parla giustamente di salute mentale. A mio modesto parere, c’è un altro termine che dovrebbe essere accuratamente studiato. Riguarda sempre la mente umana: si chiama igiene. Mi sono ricordato di questa parola quando ho visto in rete e sui social i numerosi servizi fotografici in merito all’evento. Bello vedere tante figure politiche ed istituzionali in gran forma, per rivendicare una operazione che ha anche un senso oltremodo educativo.

Per l’occasione, mi è tornato in mente un libro che nacque oltre mezzo secolo fa, nella storica tipografia “Arti Grafiche M. Gallo & Figli”, per conto delle edizioni “Intercontinentalia” di Napoli. Aveva per titolo “Igiene Mentale”. Mi ero appena diplomato, aiutavo mio Padre in tipografia, corressi le bozze del libro che faceva parte di una collana di studi universitari.

Igiene non è una parola sinonimo di salute, come si potrebbe pensare. Non c’è “salute” se questa condizione non è preceduta da “igiene”. Far sorgere un centro dedicato alla salute mentale è senza dubbio una operazione importante, ma non può e non deve essere soltanto compito e opera della politica.

Dubito che questo evento squisitamente politico possa avere un effetto pratico, se non viene preceduto e concordato con una forte e persistente azione pedagogica sociale, culturale, morale e civile che nasca da una “educazione igienica preventiva”.

Vedete quanto siamo stati forti, concreti e bravi nel confiscare questi vostri beni frutto di violenze, furti e soprusi”: sembra essere questo il messaggio lanciato dalla classe politica. Messaggio lanciato a chi? A chi è stato ovviamente assente e che della camorra ha fatto, e continua a fare una scelta di vita. C’è il rischio che questa operazione rimanga soltanto una specie di ritorsione senza alcuna possibilità educativa e preventiva.

La salute mentale e l’igiene mentale sono due concetti correlati ed interdipendenti, ma distinti, entrambi fondamentali per il benessere psicologico e sociale della società.

La salute mentale si riferisce a uno stato di necessità di benessere emotivo, psicologico e sociale in cui una persona sia messa in grado di gestire lo stress quotidiano, lavorare in modo produttivo, stabilire relazioni significative, contribuire alla propria comunità, adattarsi ai cambiamenti e affrontare le avversità. Una condizione di vita che ha situazioni e condizioni precedenti.

La salute mentale non è semplicemente l’assenza di disturbi mentali, ma uno stato positivo di equilibrio e funzionamento ottimale. Include aspetti come autostima, resilienza, capacità di provare emozioni positive, senso di scopo nella vita. I problemi comuni coinvolti possono essere depressione, ansia, disturbi bipolari, schizofrenia, disturbi alimentari, dipendenze e stress post-traumatico.

L’igiene mentale, da parte sua, è un concetto che si riferisce alle pratiche e alle abitudini che promuovono e mantengono una buona salute mentale. Si tratta di un approccio preventivo e proattivo, volto a preservare il benessere psicologico e prevenire l’insorgenza di disturbi mentali.

Le pratiche di igiene mentale includono cura di sé, dormire a sufficienza, mangiare in modo equilibrato, fare esercizio fisico e dedicare tempo al relax, gestione dello stress, tecniche come la meditazione, lo yoga, la respirazione profonda o la mindfulness.

Vere relazioni sane, coltivare legami positivi con familiari, amici e colleghi, evitando relazioni tossiche. Favorire un corretto equilibrio tra lavoro e vita privata, evitare il burnout dedicando tempo ad attività ricreative e hobbies.

L’autoconsapevolezza è importante per riconoscere e gestire le proprie emozioni, senza reprimerle o ignorarle. Evitare sostanze nocive, limitare l’uso di alcol, droghe o altre sostanze che possono compromettere la salute mentale. Insomma una scelta di vita. Un programma di vita. Un vasto programma, un progetto di vita.

L’igiene mentale è uno strumento preventivo che aiuta a mantenere una buona salute generale che poi diventa mentale, riducendo il rischio di sviluppare disturbi psicologici. Le pratiche di igiene mentale contribuiscono a preservare l’equilibrio psicologico, anche in situazioni di stress o difficoltà. Sono pratiche di vita. Quando manca questa igiene, la salute mentale è compromessa, essendo mancata l’igiene mentale.

Nella società contemporanea, caratterizzata da ritmi frenetici, pressioni sociali e digitalizzazione, l’igiene mentale è diventata sempre più cruciale. Non a caso fa rima con una parola davvero fatale: sociale. Fattori come l’isolamento, l’uso eccessivo dei social media e lo stress lavorativo possono minacciare l’intero spazio mentale ed esistenziale, rendendo essenziale e necessario adottare abitudini che promuovano il benessere psicologico.

Mentre la salute mentale rappresenta lo stato complessivo del benessere psicologico, l’igiene mentale è l’insieme di pratiche che aiutano a mantenerla e migliorarla. Entrambi i concetti sono indispensabili per una vita equilibrata e soddisfacente. La loro integrazione può contribuire a una società più sana e resiliente.

Il servizio sociale è una professione che mira a migliorare il benessere delle persone, specialmente di quelle in situazioni di vulnerabilità. Gli assistenti sociali lavorano per fornire supporto, risorse e servizi che aiutino gli individui e le famiglie a superare difficoltà economiche, sociali o personali.

Povertà, violenza domestica, disabilità, immigrazione, anziani, minori a rischio, dipendenze, salute e scelte sociali hanno bisogno di strumenti come counseling, pianificazione di interventi, collegamento con risorse comunitarie, advocacy e sostegno pratico. E’ necessaria una interazione che non può essere soltanto politica in una realtà umana in continua trasformazione.

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Published on February 27, 2025 10:48

February 22, 2025

“Lo cunto de li cunti”

Il 23 febbraio 1632 muore Giovan Battista Basile. “Lo cunto de li cunti,” noto anche come “Pentamerone,” è un’opera fondamentale della letteratura italiana, venne pubblicata tra il 1634 e il 1636. Questa raccolta di cinquanta fiabe, redatta in dialetto napoletano, non solo rappresenta un capolavoro del Seicento, ma segna anche un’importante tappa nella storia della narrativa fiabesca.

L’opera è strutturata in cinque giornate, con dieci racconti per ogni giornata, seguendo un modello narrativo simile a quello del “Decameron” di Boccaccio. Tuttavia, Basile si distacca dalla tradizione boccaccesca per il suo uso innovativo del dialetto napoletano, che conferisce ai racconti una vivacità e una immediatezza uniche. Le storie spaziano da avventure fantastichere con fate e orchi a riflessioni più profonde sulla natura umana e la società dell’epoca.

Il Dialetto Napoletano come Lingua Letteraria. Il dialetto napoletano utilizzato da Basile è oggetto di dibattito tra studiosi: alcuni lo considerano una lingua autonoma, mentre altri lo vedono come una forma ibrida che attinge a diverse tradizioni linguistiche. La lingua di Basile è caratterizzata da un ricco repertorio di modi di dire e espressioni colloquiali, che rendono i suoi racconti accessibili e coinvolgenti per il pubblico dell’epoca. Questo uso del dialetto non è solo una scelta stilistica, ma riflette anche l’identità culturale di Napoli nel contesto barocco.

Le fiabe di Basile affrontano temi universali come l’amore, la vendetta, la giustizia e la follia. La narrazione è intrisa di ironia e satira sociale; i personaggi sono spesso caricature che rappresentano vizi e virtù umane. La prosa è vivace e teatrale, con un ritmo che invita alla recitazione, rendendo l’opera adatta per essere letta ad alta voce in contesti conviviali.

“Lo cunto de li cunti” ha avuto un impatto duraturo sulla letteratura europea, influenzando autori come Charles Perrault e i fratelli Grimm. La sua capacità di mescolare elementi popolari con una raffinata architettura narrativa ha aperto la strada alla nascita della fiaba moderna. L’opera continua a essere studiata e adattata in vari contesti artistici, dal teatro alla letteratura contemporanea.

“Lo cunto de li cunti” non è solo una raccolta di fiabe; è un’opera che celebra la cultura popolare attraverso il dialetto napoletano, elevandolo a strumento letterario di grande valore. La sua lettura offre uno sguardo affascinante sulla Napoli del Seicento e sulla ricchezza della tradizione narrativa italiana.

Il dialetto napoletano utilizzato in “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile contribuisce significativamente alla caratterizzazione dei personaggi attraverso diversi aspetti:

Vivacità e Immediatezza. Il dialetto conferisce ai racconti una vivacità e un’immediatezza che rendono i personaggi più credibili e vicini al lettore. L’uso di espressioni colloquiali e modi di dire tipici del dialetto crea un’atmosfera conviviale, coinvolgendo il lettore nella narrazione.

Identità Culturale. Il napoletano è strumento per esprimere l’identità culturale della città e della sua gente, permettendo a Basile di rappresentare la realtà sociale dell’epoca con maggiore autenticità. I personaggi sono spesso ritratti con tratti tipicamente napoletani, come l’amore per la finzione o la tendenza a nascondere la verità sotto una maschera di superficialità.

Satira Sociale. La lingua dialettale consente a Basile di sottolineare aspetti satirici nei suoi racconti, caricaturando vizi e virtù umane attraverso il linguaggio popolare. Questo approccio critico verso la società dell’epoca è reso più efficace dall’uso del dialetto, che si rivolge direttamente al pubblico locale.

Espressività Verbale. La ricchezza derivativa del dialetto napoletano permette a Basile di creare un linguaggio estremamente espressivo ed evocativo, arricchendo i dialoghi dei personaggi con sfumature emotive e psicologiche che sarebbero state meno evidenti in italiano standard.

Il dialetto napoletano non solo dà vita ai personaggi ma diventa esso stesso un attore principale nella narrazione fiabesca, trasmettendo valori culturali locali ed enfatizzando le dinamiche sociali dell’epoca barocca in cui fu scritta l’opera.

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Published on February 22, 2025 13:36

February 17, 2025

“Sterminator Vesevo …”

“Sterminator Vesevo …”Foto@angallo

L’ho fatta oggi pomeriggio durante il solito footing pomeridiano. Una immagine ha sempre un senso. La fotografia come esorcismo: tra mito e psicologia. Fotografare il Vesuvio avvolto dalle nuvole non può ovviamente influenzare un’eruzione, ma nel regno del simbolo e della cultura popolare, questo gesto ha radici profonde. E’ come una antropologia del controllo.

Nella tradizione napoletana, il Vesuvio è visto come un gigante capriccioso, da placare con riti, come ad esempio il culto di San Gennaro. Scattare foto al vulcano “addormentato” dalle nubi ricorda antichi rituali di addomesticamento visivo. E’ come fissare l’ignoto per renderlo meno minaccioso.

I pescatori di Torre del Greco ancora oggi tracciano segni apotropaici sulle barche per “ingannare” il vulcano. E’ come una psicologia della catastrofe, anche in considerazione dei continui segnali sismici che in questi giorni il territorio circostante continua a segnalare. Vivere all’ombra di un vulcano attivo genera una forma di ansia esistenziale.

Fotografarlo coperto da quella nuvolaglia come si vede nelle mia immagine diventa un atto di illusione di controllo, simile a chi fischia nel buio per scacciare la paura. Le nuvole, in questo caso, sono la metafora di una temporanea tregua. Perché la scienza dice “no”, ma l’arte ride mentre la geologia è spietata.

Le eruzioni sono determinate dalla inevitabile pressione sia magmatica che tettonica, non da nuvole o rituali. Il Vesuvio è uno dei vulcani più monitorati al mondo, ma la sua prossima eruzione rimane imprevedibile, nonostante i satelliti e i sismografi. Tuttavia, l’immagine ha un potere alternativo.

“Vesuvius in Eruption” — Joseph Wright (1777–1780)

Guardate il dipinto Vesuvius in Eruption di Joseph Wright of Derby (1774). Il vulcano è avvolto da nubi luminose, quasi a sublimarne la furia. L’arte trasforma la catastrofe in bellezza, “esorcizzandola” attraverso l’estetica.
Oggi, i social media pullulano di foto del Vesuvio innevato o circondato da nebbia: un modo per narrarlo come guardiano, non come assassino.

Chi ci ha davvero provato? Storie di esorcismi falliti. I Borbone e la Cappella sul cratere. Nel 1858, Ferdinando II fece costruire un eremo sulla sommità del Vesuvio, con una cappella dedicata al Sacro Cuore. L’idea era “domare” il vulcano con la fede. Nel 1944, l’eruzione seppellì la cappella sotto 10 metri di lava. Il “munaciello” e gli scongiuri.

Nella tradizione napoletana, il munaciello (spirito folletto) era invocato per proteggere le case dal Vesuvio. Si credeva che disegnare il suo volto sulle pareti scongiurasse la lava. Risultato? Decine di case di Pompei avevano quegli affreschi, ma non servirono a nulla. Allora, a cosa serve fotografarlo?

Risposta provocatoria: serve a esorcizzare la paura, non il vulcano. Per i napoletani, condividere un Vesuvio fumante con l’hashtag è un atto di sfida ironica, tipica della mentalità partenopea: ridere del pericolo per negarne il potere. Per i turisti, è un modo per trasformare la minaccia in souvenir: il vulcano diventa un selfie, ridotto a icona innocua.

Esorcizzare il Vesuvio è impossibile, ma fotografarlo velato di nuvole rivela una verità profonda: l’uomo ha bisogno di credere di poter addomesticare l’incontrollabile, fosse solo per un attimo.

Roberto Saviano ha scritto: «Il Vesuvio è l’unico dio che Napoli riconosca. E gli dei, si sa, si possono solo pregare o ignorare. Mai controllare».

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Published on February 17, 2025 09:42

MEDIUM

Antonio   Gallo
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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