Alessio Brugnoli's Blog, page 95

September 16, 2019

Musica Popolare Greca (Parte I)


La musica popolare greca, rispetto quella italiana e a quella delle altre nazioni europee, ha delle peculiarità, che derivano sia dall’eredità della grazie classica e di quella bizantina, sia dall’influenza turca.


La sua prima caratteristica è l’essere monofonica, con l’eccezione delle Isole Ionie, soggetti prima all’influenza veneziana, poi inglese, e dell’Alto Epiro, per lungo tempo, prima della conquista turca, sotto il dominio del Regno di Napoli e di famiglie di orgine toscana, come i Buondelmonti e i Tocco.


L’unico accompagnamento che permette la pura musica tradizionale, è “l’isso”, cioè un suono continuo nella tonalità o nella sottotonalità della melodia, oppure nello spazio di quarta o quinta, spazi che sono comuni in ogni sistema musicale. Di fatto, non esiste l’accompagnamento armonico come nella nostra musica popolare.


La seconda differenza è nella scala musicale: la musica greca segue variazioni della scala naturale e non il sistema temperato equabile, che prevede la divisione dell’ottava in 12 parti uguali, i semitoni. Così, nella musica greca, la misura delle note non ha analogie e di conseguenza gli spazi che si creano non sono uguali, per questo non può essere suonata perfettamente al pianoforte, alla fisarmonica, alla chitarra e con quegli strumenti che danno note costanti e prestabilite sulla scala occidentale.


Terza caratteristica, derivata dalla musica turca, è il fatto che la scala sia mobile, cioè non interessa la tonalità di ogni suono, ma solo lo spazio che divide due suoni successivi. Anche nella nostra musica popolare, ogni nota ha una tonalità severamente precisa, perciò tutti gli strumenti si accordano con il diapason, il quale dà una precisa frequenza di vibrazioni, al secondo.


In quella greca, e in generale in quella orientale, lo strumento si accorda in qualsiasi tonalità, preferibilmente sulla voce del cantante. Si può vedere come la musica orientale, lasciando da parte la polifonia, dà importanza “all’addobbo” della melodia, lasciando maggior libertà alle questioni della tonalità e degli spazi musicali.


Quarta caratteristica, sempre di origine turca, è nella varietà ritmica: la musica greca utilizza numerosi ritmi irregolari, a cinque, a sette, a nove e mezzo, a undici e non periodici. Anche nella musica che accompagna la danza, per forza periodica, da una parte si utilizzano spesso e volentieri metri additivi, dove cellule di due e di tre note di ugual valore si avvicendano: ad esempio, nello zeibekiko il metro di 9/8 è scandito così: 2+2+2+3 (oppure 2+2+3+2), mentre un 9/8 “classico” (come si trova, per esempio, in Brahms) è scandito 3+3+3, cioè con cellule formate sempre dallo stesso numero di note.


Dall’altra, sempre per l’influenza turca, su utilizza spesso la cellula dum-tak della musica islamica, che differisce per una sfumatura sostanziale rispetto al battere-levare del resto della tradizione europea.


L’ultima differenza è la presenza dei “dhromi”, le strade o i modi degli antichi. I dhromi corrispondono alle scale musicali della musica europea, sono, cioè, delle serie di spazi messi in un determinato ordine e con suoni precisi. Oltre, però, al loro lato tecnico, che si esprime come una struttura vaga, i dhromi esprimono delle dimensioni molto varie, impensabili per un musicista europeo. Un dhromi è così disegnato e costruito da provocare, nell’ascoltatore, un determinato umore.


I dhromi sono un’eredità dei modi antichi (quelli codificati nella musica occidentale come modi ecclesiastici o gregoriani: ionio, dorico, frigio, lidio, ecc.), di quelli bizantini, di quelli arabi (filtrati sempre attraverso la musica ottomana), come ad esempio rast, kürdi, hitzas, ussak, houzam, huseyni o il bayati che risultano essere quelli più usati nella musica popolare.


Di fatto, il sistema modale della musica popolare greca, per reciproca influenza, è strettamente imparentata col sistema modale ottomano, e le tracce di una costruzione armonica sono scarse (predomina l’eterofonia, cioè l’esecuzione da parte di cantanti e strumentisti della stessa melodia, con variazioni individuali). In particolare, Gli accordi spesso sono privi della terza (maggiore o minore) per non creare la direzionalità tipica della tonalità occidentale, e c’è in molti casi – a maggior ragione – una sorta di proibizione dell’uso della sensibile e degli accordi di dominante (sempre sostituiti da accordi su altri gradi della scala: il secondo, il quarto, il settimo abbassato).


Questa tipologia di musica ha accompagnato per secolo la canzone demòtica, canzone del demos, cioè popolare, le cui prime tracce appaiono nel IX secolo d.C. che trattano tutti gli aspetti della vita contadina, dalle leggende ai riti e momenti topici che scandiscono il quotidiano, dall’amore alla morete e all’esilio.


Canzone che, tranne che a Creta e nel Peloponneso, dove, per la dominazione veneta, prevalgono i versi di tipo italiano, principalmente l’ottonario, è basata sul decapentasillabo giambico, un verso di quindici sillabe che formano due emistichi, il primo di otto sillabe, il secondo di sette sillabe, con terminazione piana, che è una sorta di semplificazione del verso a venti sillabe usato nella poesia aulica bizantina, struttura metrica della poesia dotta in epoca bizantina nella cui forma consisteva in un verso composito costituito da un iniziale ottonario e dal secondo emistichio del dodecasillabo giambico.


Canzoni che hanno custodito per secoli l’identità di un popolo, sino all’ultima fioritura del ciclo klèftiko, che celebra le vicende della lotta per l’indipendenza contro gli ottomani. Con la nascita della “Piccola Grecia”, comprendente il primo nucleo statale e nazionale greco unitario comprendente il Peloponneso e la Grecia continentale fino alla Tessaglia e la prima urbanizzazione incentrata su Atene, che svuota la tradizionale base sociale ed economica ellenica, centrata sul villaggio, sull’agricoltura di sussistenza e sull’allevamento, la canzone demòtica e la sua musica progressivamente si esauriscono e vengono sostituite da un nuovo genere, “cittadino”, il rebetiko, ma questa è un’altra storia…

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 16, 2019 12:35

September 15, 2019

Pinacoteca Patiniana

[image error]

Teofilo Patini è un nome che a molti dirà poco: in realtà è uno dei più importanti pittori abruzzesi della seconda metà dell’Ottocento.


Nacque a Castel di Sangro in una famiglia molto agiata. Il padre Giuseppe possedeva terre ed armenti e si dilettava a collezionare quadri, la madre, donna Maria Giuseppa Liberatore, era una ricca proprietaria di Roccaraso.


Nel 1855 iniziò gli studi classici, presso la scuola diretta dal latinista Leopoldo Dorrucci, a Sulmona, dove i suoi si erano trasferiti sin dal 1846 per il lavoro di Giuseppe, Cancelliere di Giudicato Regio. Conseguito il diploma in “Belle Lettere”, ancora ragazzo si iscrisse all’Università di Napoli prima a Filosofia poi all’Accademia di Belle Arti


Ebbe come maestri Giuseppe Mancinelli e Giovanni Salomone, di gusto neoclassico e Filippo Palizzi, esponente del verismo napoletano, tra i primi pittori italiani a interessarsi alla fotografia: da buon furbacchione, soli vent’anni entrò, insieme ad Antonio Tripoti, nei “Cacciatori del Gran Sasso”, in teoria una formazione garibaldina con lo scopo di organizzare l’insurrezione in Abruzzo, in pratica il nome sotto cui le truppe borboniche abruzzesi, capita l’aria che tirava, avevano cambiato casacca, spacciandosi per ferventi patrioti.


Successivamente arruolatosi nella Guardia Nazionale di Castel di Sangro, per la repressione del brigantaggio, prestò servizio da volontario per soli quattro mesi a Sulmona. In seguito ad un concorso interno all’Accademia, cui aveva partecipato con il dipinto Edoardo III d’Inghilterra e i deputati di Calais, gli fu assegnato un pensionato di due anni a Firenze (1868 – 1869). Qui si avvicinò ai Macchiaioli e a Telemaco Signorini, le cui novità tecniche e pittoriche influenzarono positivamente la sua pittura, avvicinandolo al naturalismo contemporaneo.


Nel 1870, partecipando ad un nuovo concorso con La Zingara potè nuovamente usufruire di un soggiorno gratuito, questa volta a Roma, dove restò dal 1870 al 1873: tre anni molto proficui che glicconsentirono di studiare ed approfondire arte e stilemi di alcuni tra i maggiori artisti del Seicento, da Caravaggio a Guido Reni.


Iniziò in questi anni la relazione sentimentale con Teresa Tabasco, modella dell’Accademia, dalla quale ebbe a sua insaputa una figlia, Beatrice, per breve tempo affidata dalla madre, priva di mezzi e sostegno, ad un orfanotrofio. La coppia ben presto si ricongiunse ed iniziò una lunga convivenza che sfociò infine nel matrimonio. Ebbero ancora tre figlie e due maschi, che morirono in tenera età. Negli anni successivi al 1872 un repentino abbassamento della vista, causato da un tracoma, lo costrinse a rallentare il lavoro e sembra che l’anno successivo abbandonasse completamente la pittura.


Nominato nel 1882 Direttore della Scuola di Arti e Mestieri dell’ Aquila, Patini si dedicò allo studio delle arti cosiddette minori promuovendone le discipline. Proprio con lo scopo di approfondirne la conoscenza, nel 1884 fu incaricato dal Ministero dell’Agricoltura di visitare i musei artistici della Germania.


Alla decade ‘80-‘90, appartengono le opere più importanti e toccanti di “pittura sociale”, L’Erede, Vanga e Latte, Bestie da Soma, mentre agli ultimi anni del secolo risalgono alcuni quadri in cui sono proposti gli scorci di Castel di Sangro, dove si era ritirato, per esempio Via Paradiso, Angolo di Castel di Sangro, Donna nel paese innevato, solo apparentemente quadretti di genere e vedute, in realtà rappresentazioni partecipate del piccolo mondo circostante, dell’abbandono e della solitudine della sua gente.


Il 21 ottobre del 1906, alla vigilia di un viaggio a Napoli, gli fu conferita la

cittadinanza onoraria di Castel di Sangro dove non fece più ritorno: morì inaspettatamente il mese successivo dopo l’ennesimo attacco di cuore.


Nella pittura di Patini, convivono tre diversi linguaggi, rivolte a diverse tipologie di committenza, nella ricerca di guadagnarsi il pane quotidiano, dato che l’artista non navigò mai nell’ora: da una parte, i grandi cicli dell’eclettismo, che ricreano una realtà di melodramma ed occhieggia ai pompier, contribuendo a creare un immaginario pop che influenzerà i film in costume del Novecento.


Dall’altra, il realismo, l’attenzione per i diseredati d’Abruzzo e la loro misera vita, che lo rendono una sorta di Silone della pittura. Infine, meno nota, è la pittura murale e decorativa, piena di eleganza e gioia di vivere, che quasi preannuncia il liberty.


[image error]


Tutti questi linguaggio sono opportunamente valorizzati e messi al confronto nella Pinacote Patiniana, il museo che gli è stato dedicato nel 2006 a Castel di Sangro, nel nel palazzo rinascimentale della famiglia De Petra, conosciuto anche come “Casa del Leone”, per la scultura posta al di sopra del portale d’ingresso del palazzo.


La sezione più importante del museo è la Trilogia Sociale (Vanga e latte – L’Erede – Bestie da soma), in cui esprime al massimo il concetto della vita agricola abruzzese. Molte opere raffigurano anche il centro storico sulla rocca del paese castellino, mentre un’altra sezione ospita delle incisioni settecentesche di vari personaggi tratte dalla mitologia classica, con l’abbigliamento però dell’epoca spagnola.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 15, 2019 04:28

September 14, 2019

Il cenotafio di Marcus Caelius

Et in Arcadia Ego


Nei tre giorni in cui si svolse la battaglia nella selva di Teutoburgo, i romani persero tre intere legioni (la XVII, la XVIII e la XIX), sei coorti di fanteria e tre di cavalleria ausiliaria, più un numero imprecisato di servitori e addetti al seguito: in totale, oltre ventimila uomini. Una strage che ebbe gravi conseguenze per la politica espansionistica romana. Di uno di questi soldati, Marco Celio, possediamo il ritratto nel suo cenotafio, un monumento commemorativo che non contiene resti umani.



db1d78eade6dc0ed1a617f4a0b1b8408 Stele di Marco Celio, Rheinisches Landesmuseum, Bonn



Marco Celio era nato a Bologna, in Italia, ed era centurione della XVIII legione. Morì a 53 anni nella disfatta di Teutoburgo nel settembre del 9 d.C.; il fratello Publio Celio, con la speranza di recuperarne il corpo, fece erigere questo cenotafio nei pressi dell’accampamento in cui probabilmente era stanziata la legione (Castra Vetera) in Germania, nell’odierna Xanten, in cui…


View original post 99 altre parole

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 14, 2019 08:42

La notte dei Pugnalatori

[image error]


I nobili siciliani, alla notizia della della riforma agraria del 1812, che in teoria aboliva i privilegi feudali, esultarono alla grande: vi erano infatti tre clausole che paradossalmente, ne aumentavano la ricchezza e il potere economico.


La prima clausola imponeva ai comuni ed ai privati cittadini, ex sudditi dei feudatari, di indennizzare i vecchi signori della perdita delle rendite fiscali di cui questi godevano. La seconda consisteva nel fatto che non fosse prevista la ripartizione dei vecchi possedimenti feudali, che furono giudicati semplicemente allodiali, quindi proprietà privata dei vecchi feudatari. La terza, l’esproprio a vantaggio dei magnati delle vecchie “terre comuni”.


Di conseguenza, paradossalmente, la riforma agraria si trasformò in una sorta di Matthew effect, dal versetto del vangelo


Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha


ossia fenomeno economico che consiste in un processo cumulativo che avviene quando nuove risorse sono distribuite fra i vari attori sociali in proporzione a quanto già possiedono. Nel concreto, questa consistette in una gigantesca spoliazione di terre a discapito dei poveri ed a vantaggio di un esiguo numero di latifondisti.


Il governo borbonico, infatti, decise di porre termine alla condizione giuridica di possesso comune di terre ed uso di pascoli e risorse d’acqua vigente presso numerosissime comunità locali ed esistente da molti secoli, secondo alcuni risalenti in qualche modo sino all’epoca romana ma certamente almeno fin dal Medioevo.


Invece di prendere la forma di possessi feudali, con i connessi diritti e servitù, le terre ora acquisivano lo status di proprietà privata senza vincoli, di cui il proprietario poteva disporre come meglio credeva.


Questa trasformazione delle terre feudali in proprietà privata fu accompagnata dall’abolizione, sempre nel 1812, degli usi civici, come i diritti di pascolo e quelli di accesso ai boschi ed alle fonti idriche, che i contadini prima potevano esercitare all’interno delle tenute. Successivamente, nel 1817 furono aboliti i diritti di pascolo sulle altre terre comuni, che si stabilì fossero ripartite fra i privati.


In conseguenza di queste leggi, tutte le vecchie “terre comuni” del regime feudale furono in breve tempo recintate e trasformate da pascoli ad arativi di proprietà privata. Queste riforme agrarie ebbero effetti devastanti sulle condizioni economiche dei contadini, che peggiorarono in conseguenza delle usurpazioni illegali per mezzo delle quali i grossi proprietari presero semplicemente possesso di fatto delle terre un tempo di uso d’intere comunità.


La legislazione promulgata affermava che era sufficiente l’uso della terra per convalidarne il legittimo possesso e demandava gli eventuali contenziosi ai tribunali. In teoria, la legge garantiva le comunità rurali, ma di fatto nell’applicazione ciò non avvenne: questo iato fra il diritto astratto e la realtà concreta si ritrovò spesso nello stato borbonico. I latifondisti poterono servirsi per gli espropri sia del loro braccio armato costituito da piccoli eserciti privati, i famosi “campieri”, che sono delle componenti da cui poi nacque la Mafia.


Tuttavia, l’esultanza dei grandi latifondisti durò poco: il governo borbonico come mossa successiva, estese nel regno di Sicilia il catasto e le aliquote sulla proprietà fondiaria applicate in Calabria e in Campania, provocando un’inaspettata e notevole crescita delle imposte.


Crescita che trasformò in blocco la nobiltà locale in ferventi autonomisti, allo scopo di difendere i loro privilegi di elusione fiscale: posizione politica alquanto ipocrita, che ebbe, sempre a causa della politica economica napoletana, che era vittima di due distorsioni. Su tale tema, lascio la parola a Giustino Fortunato, che pubblicò nel 1904 uno dei suoi più importanti scritti sulla questione meridionale, La questione meridionale e la riforma tributaria


Eran poche, sì, le imposte, ma malamente ripartite, e tali, nell’insieme da rappresentare una quota di lire 21 per abitante, che nel Piemonte, la cui privata ricchezza molto avanzava la nostra, era di lire 25,60.


Non il terzo, dunque, ma solo un quinto il Piemonte pagava più di noi. E, del resto, se le imposte erano quaggiù più lievi — non tanto lievi da non indurre il Settembrini, nella famosa ‘Protesta’ del 1847, a farne uno dei principali capi di accusa contro il Governo borbonico, assai meno vi si spendeva per tutti i pubblici servizi: noi, con sette milioni di abitanti, davamo via trentaquattro milioni di lire, il Piemonte, con cinque [milioni di abitanti], quarantadue [milioni di lire]. L’esercito, e quell’esercito!, che era come il fulcro dello Stato, assorbiva presso che tutto; le città mancavano di scuole, le campagne di strade, le spiagge di approdi; e i traffici andavano ancora a schiena di giumenti, come per le plaghe d’Oriente.


Ora, il contribuente medio borbonico pagava sì meno tasse rispetto agli altri stati italiani, ma il carico fiscale era malamente distribuito a seconda delle zone: in Sicilia, la tassazione media era di lire 15, a fronte di lire 27 in Campania, Abruzzo e Calabria Citeriore.


Ferdinando e Franceschiello tentarono più volte di risolvere il problema, con una riforma fiscale che in qualche modo avrebbe unificato a un valore medio l’aliquota pagata nei suoi diversi stati, con il risultato di portare la borghesia siciliana a schierarsi a favore degli autonomisti.


L’altro problema, evidenziato da Fortunato, era nel bilancio statale. Sotto Francesco II era così ripartito per la parte comune fra Meridione continentale e Sicilia: Guerra: 11.307.220 ducati; Marina 3.000.000 ducati; Affari esteri 298.800 ducati; Lista civile e spese attinenti: 1.644.792 ducati. La sproporzione fra le spese per le forze armate e quelle per la “lista civile” (praticamente tutto ciò che non cadeva sotto esercito, marina e diplomazia), non merita alcun commento tanto è evidente. In pratica le spese militari avocavano a sé circa l’87 % del totale.


Esisteva poi il bilancio riguardanti gli enti locali, le cui spese si possono così ripartire, su di un totale di 19.200.000 ducati: il pagamento del debito pregresso, che comprendeva ben 13.000.000 di ducati, quindi il 67,7% del totale; i lavori pubblici avevano una spesa totale di 3.400.000, il 17,7% del totale; le spese militari, di polizia, per la magistratura ecc. erano pari a 2.440.000 ducati, quindi al 12,7% del totale; infine, la voce “Affari ecclesiastici e istruzione” comprendeva i contributi al clero ed assieme quelli per l’istruzione e si riduceva a 360.000 ducati: meno del 2%.


In realtà, l’esercito, in sé, non era una spesa improduttiva, nello Stato Borbonico: oltre ad essere un utile strumento per convincere i contribuenti siciliani a pagare il dovuto, fungeva da valvola di sfogo per la disoccupazione endemica di vaste aree del Regno e svolgeva un ruolo keynesiano, stimolando con le sue commesse l’industria locale; il risvolto della medaglia, gli scarsissimi investimenti nelle opere pubbliche, il welfare in realtà era a carico degli enti ecclesiastici, che avevano le loro rendite economiche indipendenti, i quali sfavorivano la Sicilia.


Per cui, i contribuenti da Messina a Palermo, si sentivano, a torto o a ragione, cittadini di serie B; di conseguenza, l’avventura garibaldina fu accolta come una liberazione da uno stato parassitario. I primi ad avvantaggiarsi del cambio di regime, furono ovviamente i nobili, che stipularono una sorta di patto di non belligeranza con le Élites del Nord Italia.


In cambio della parte del leone relativa alla liquidazione patrimonio ecclesiastico siciliano, dovuta alle leggi Siccardi, e del demanio statale, non avrebbero messo bocca nella politica post-unitaria: tanto che il 4 gennaio del 1863, fu eletto a Palermo come rappresentante al Parlamento di Torino un nizzardo: il conte Carlo Laurenti Robaudi, mentre a Modica venne eletto un veneto, Alberto Mario.


Invece, la borghesia e i poveri siciliani, sospettarono di avere subito una colossale sola: da una parte, ebbero il tanto temuto aumento delle imposte, dirette e indirette, dall’altra, a causa delle leggi Siccardi, il welfare garantito dalla Chiesa, improvvisamente collassò. A questo si aggiunse il problema dell’obbligo della leva militare, da cui la Sicilia era esonerata da tempo immemorabile. La legge prevedeva infatti un servizio militare di 10 anni in fanteria, 12 in cavalleria e 14 anni in marina, cosa che mise in crisi buona parte dell’economia delle famiglie locali.


In questa atmosfera di malcontento, si svolse la vicenda dei “Pugnalatori di Palermo”, che affascinò anche Sciascia, che gli dedicò il saggio storico i “Pugnalatori”.


Il Giornale Officiale di Sicilia, la mattina del 2 ottobre del 1862 pubblicò in prima pagina e con grande risalto la seguente notizia:


«Fatti orribili funestarono ieri sera la città di Palermo. Alla stessa ora, in diversi punti della città fra loro quasi equidistanti, tredici persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. I feriti danno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un sol modo, erano di pari statura, sicchè vi fu un momento che si potè credere fosse uno solo».


Le pugnalate furono inferte a casaccio, con “scannabecchi”, dei comuni coltelli di campagna usati per la macellazione del bestiame, non per uccidere, ma per provocare il panico e determinare uno stato di tensione e di insicurezza: dei tredici accoltellati solo uno morì dissanguato, un certo Gioacchino Sollima che gestiva un banco di lotto a via Maqueda.


La rapidità e la sorpresa dell’aggressione, la confusione e lo smarrimento degli accoltellati, favorì la fuga dei pugnalatori, che svanirono rapidamente nei vicoli del centro di Palermo. Dodici di loro riuscirono così a far perdere le tracce; uno solo, quasi per caso, venne catturato: Angelo D’Angelo, palermitano di trentotto anni, lustrascarpe di professione; dopo avere squarciato il ventre all’impiegato di dogana Antonino Allitto si lanciò di corsa nei vicoli di Palazzo Resuttana, una serie di viuzze buie e solitarie, ma ebbe la sfortuna di imbattersi in un gruppo di ufficiali che uscivano da un’osteria ubicata nei bassi di palazzo Lanza.


I tre militari erano i sottotenenti: Dario Ronchei, Paolo Pescio e Raffaele Albanese piemontesi, tutti del 51° fanteria; ai tre ufficiali si unirono richiamati dalle grida: Nicolò Giordano capitano delle guardie di Pubblica Sicurezza e la guardia Rosario Graziano, l’unico che ebbe la prontezza di spirito di correre dietro a D’Angelo, acciuffandolo in via Alloro, nei pressi dell’Hotel Patria, all’altezza di un “basso” dove teneva bottega un ciabattino.


D’Angelo negò subito il ferimento dell’impiegato di dogana; disse che si trovava per caso a passare nei pressi del palazzo del principe di Resuttana e che, impaurito dalle urla del ferito e dall’accorrere di gente, era fuggito via per non essere coinvolto nel fatto di sangue. Disse anche che la polizia del Regno d’Italia era prevenuta nei suoi confronti, in quanto egli era stato schedato quale confidente del capo della polizia borbonica: Maniscalco.


D’Angelo, tra l’altro, si era rivolto alla polizia proprio pochi giorni prima chiedendo di essere trattenuto in prigione, per sottrarsi a delle pressioni e delle minacce che aveva ricevuto, tuttavia l’assenza di una qualsiasi accusa e l’intervento prepotente dei suoi fratelli, fecero sì che questi venisse subito rilasciato, prendendo così parte al piano da cui verosimilmente cercava di fuggire.


Convinto a schiaffoni a confessare, fece anche il nome degli altri dodici accoltellatori che erano riusciti a far perdere le loro tracce. Il 3 ottobre, il giornale Officiale di Sicilia pubblicò in prima pagina la notizia della confessione del D’Angelo:


« …questo sciagurato soprafatto dall’enorme peso del crimine, scosso dal fremito dell’universale indegnazione lacerato forse dai rimorsi della coscienza ed atterrito dalle maledizioni di un popolo, determinatasi non solo a confessare la sua reità, ma ben pure a svelare la serie dei fatti e tutto ciò che era a sua conoscenza (i nomi dei complici) intorno all’orribile macchinazione di cui egli aveva preso parte, allo spaventevole attentato del quale era stato uno degli autori…».


D’Angelo affermò inoltre che a contattarlo era stato un certo Gaetano Castelli, il quale gli aveva proposto di fare un certo “lavoretto” insieme ad altri dodici individui; il lavoretto consisteva nel bucare con il coltello la pancia di gente incontrata a caso. Raccontò anche di avere avuto delle perplessità circa un “lavoro” così strano, ma Castelli gli aveva sussurrato in confidenza, che si trattava di questione di alta politica “burbunesca”, su cui non era il caso di mettere il nasto.


Comunque, la somma offerta era così allettante, 3 tarì al giorno, equivalente a circa un mese di un normale stipendio, che D’Angelo accettò e non fece altre domande. Dopo questa confessione fece anche il nome degli altri undici pugnalatori, che conosceva bene.


Furono arrestati quindi: Castelli Gaetano, Calì Giuseppe, Masotto Pasquale, Favara Salvatore, Termini Giuseppe, Oneri Francesco, Denaro Giuseppe, Girone Giuseppe, Girone Salvatore, Scrima Onofrio, Lo Monaco Antonino. I primi tre avevano svolto il compito diassoldare i pugnalatori.


Il nome del mandante fu fatto da D’Angelo al procuratore del re Guido Giacosa che istruì il processo: si trattava di Romualdo Trigona principe di Sant’Elia, senatore del regno. I reali carabinieri che avevano indagato per loro conto sugli avvenimenti accaduti la sera dell’uno ottobre del 1862, nel loro rapporto al procuratore del regno scrissero di un tredicesimo sicario, tale Di Giovanni Giuseppe; stranamente questo nome sparì del tutto dalle carte processuali, pur evidenziando il rapporto che il Di Giovanni era stato messo a disposizione del giudice con l’imputazione di tentato omicidio


Il processo ebbe inizio l’otto gennaio 1863 dinanzi la Corte d’Assise di Palermo; l’accusa era sostenuta dal procuratore Guido Giocosa: l’imputazione per tutti gli arrestati fu quella di tentato omicidio con l’aggravante di «attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di Governo», ossia terrorismo e cospirazione.


La sentenza fu emessa la sera del 13 gennaio. Furono condannati a morte: Gaetano Castelli, Giuseppe Calì e Pasquale Casotto che furono ghigliottinati la mattina del 10 aprile 1863; gli altri otto ebbero la condanna dei lavori forzati a vita; Angelo D’Angelo se la cavò con venti anni di lavori forzati in virtù della sua confessione.


Tuttavia la storia di quest’ultimo finisce qui, dato che non si hanno più sue notizie da dopo il processo, e qualcuno addirittura afferma che D’Angelo non sia mai arrivato all’Ucciardone. Nè va taciuto il fatto che nessuno dei feriti seppe riconoscere in Assise il proprio pugnalatore. In più, Per tutta risposta la sera stessa del verdetto, il 13 gennaio, una nuova ondata di accoltellamenti colpì Palermo, ma pur di non ammettere una giustizia errata e parziale, la notizia fu presto insabbiata dalle autorità, tanto da non lasciarci altro che voci e dicerie.


Infine, Giocosa che tentava di capirci qualcosa in più su questa strana vicenda, fu promosso e rimosso, tornando così nella sua Torino. Il senso di questa vicenda, è complicato da comprendere: non è da escludere che fosse veramente un complotto di nostalgici borbonici, magari finanziati da Franceschiello e da Maria Sofia di Borbone, per aumentare il malcontento e fare scoppiare una rivolta legittimista nell’isola, e che il nome di Romualdo Trigona sia stato fatto per screditare uno degli esponenti del partito filosabaudo.


Trigona, che non era uno stinco di santo, aveva sempre avuto sentimenti e interessi antiborbonici: partecipò attivamente alla Rivoluzione siciliana del 1848, in particolare ai moti scoppiati a Palermo, della cui città ne presiedette il governo provvisorio. Costituito il Regno di Sicilia indipendente, fece parte del suo Senato nel 1848-49.


Nel 1859, Trigona si rifiutò di unirsi alla commissione inviata a Napoli per elogiare il re Francesco II di Borbone per la successione al trono di Ferdinando, e dopo l’occupazione della Sicilia avvenuta nel 1860 con la Spedizione dei Mille di Garibaldi, fu membro della Luogotenenza Generale per le province siciliane. Insomma, aveva molto da perdere e poco da guadagnare in una restaurazione borbonica.


Un’altra chiave di intepretazione, ispirata alle vicende dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, ipotizza invece che si tratti di un complotto sabaudo, per avere una scusa per la repressione del dissenso locale. Per le indagini apparentemente collegate a questi fatti, vennero effettuate perquisizioni e arresti di gente che sicuramente con i pugnalamenti non c’entrava nulla, ma aveva la colpa di essere, o di essere stata in passato, mazziniana, garibaldina o filo borbonica, tra cui uno stretto collaboratore di Garibaldi, Giovanni Corrao, leader del movimento repubblicano e forse colluso con la Mafia, assassinato in maniera alquanto misteriosa il 3 agosto 1863 in un agguato alle porte di Palermo, presso il Castello di Mare Dolce.


A sistemare tutto, con la legge marziale, arrivò nell’ottobre del 1863 il Generale Giovanni Govone, che si macchierà di massacri ed omicidi. Questo clima di terrore, mal tollerato dai palermitani, sfocerà nella famosa rivolta del 7 e mezzo, nel Settembre 1866, in cui la città fu bombardata e in cui 40.000 soldati del Regio Esercito dovettero combattere strada per strada e che tra repressione e colera, provocò sui 10.000 morti… Ma questa è un’altra storia..

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 14, 2019 05:51

The Komnenian reform; why did it fail

Novo Scriptorium


Prior to the 12th century, writers of the Eastern Roman Empire had described the west in terms delineating the region as being comprised of a series of distinctly different peoples, cultures and territories (Spaniards, Italians, etc.). By the time that Manuel began to reach the heights of Imperial power, eastern intellectuals had begun to describe Europe as a unified people, bringing the concept of “The West” to the East (Kahzdan).


View original post 1.216 altre parole

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 14, 2019 02:52

September 13, 2019

Il Mehter


Molti lo ignorano, ma tutta la musica occidentale, dalla popolare alla colta, è stata influenzata da quella turca, in particolare, da ciò che veniva suonato dal Mehter, la banda militare dei giannizzeri. L’origine del Mehter, a dire il vero, fu assai pacifico: il sultano selgiuchide ʿAlāʾ al-Dīn Kayqubad III, per tenersi buono Osman, fondatore dello stato ottomano, suo feudatario sempre più ribelle e intrattabile, in occasione del compleanno gli regalò un gruppo di musica popolare.


Osman ne fu così affascinato, da prendere l’abitudine di ascoltare un suo concerto ogni giorno, dopo la preghiera del pomeriggio, costrigendo il suo numeroso parentado a fargli compagnia; tra i malcapitati, si era il principe Orhan, che proclamatosi sultano dopo la conquista di Bursa, si impegnò in una profonda riforma del suo esercito.


Questo era costituito da milizie tribali, che a causa delle loro faide, in battaglia passavano più tempo a combattere tra loro, che con i bizantini; per ovviare a tale fastidioso problema, decise di costituire un esercito di fanteria professionale, costituito da schiavi e prigionieri di origine cristiana, fedele solo al sultano, i giannizzeri.


Il problema è che questi soldati, poco capivano il turco e quindi bisognava trovare un modo per coordinarli in battaglia: la prima cosa che venne in mente a Orhan, a causa dei numerosi concerti subiti, fu la musica, che cambiando melodie e ritmo, avrebbe dato indicazioni alle orte, i reggimenti, su come muoversi contro il nemico.


Per cui, militarizzò i suoi musicisti di corte: per trasformarli in soldati, gli fu data una divisa e una gerarchia. Così fu affidata al çorbacibasi la guida la banda, diretta invece dal suo secondo, il mehterbasi, mentree l’elemento di base, l’equivalente dell’orta, fu il kat, piccolo gruppo di suonatori dello stesso strumento guidato a sua volta da un sazbasi. Il çorbacibasi, mehterbasi e sazbasi, equivalenti degli ufficiali, vestivano sgargiante divise rossi mentre tutti gli altri musicisti vestivano di blu con l’unica eccezione dei suonatori di çevgen, un bastone lungo un metro con una decina di campanelli disposti a mezzaluna impiegato per dare ritmo ai musicanti, noto anche come mezzaluna o i il “Jingling Johnny”, anch’essi con divisa rossa; dando il ritmo di marcia ai soldati, erano infatti equiparati ai sottufficiali, come i nove yaniceri, i vessilliferi, che portavano insegne costituite da giavellotti ornati da mezzelune, due code di cavallo e gruppi di campanelli.


Ovviamente, affinché le loro musiche fossero udibili durante il fragore della battaglia, i musicisti furono dotati di strumenti alquanto rumorosi: per primi i fiati, ovvero gli zurna o yuras, una sorta di pifferi acuti in legno, le sibizsi, trombe in ottone anch’ esse dal tono molto acuto, lo sanhay o corno. Seguono le percussioni con il kos o kuvrug, tamburo grande in rame con battitoia in pelle di cammello e fondo emisferico dal suono molto cupo; il çifte nara, un tamburo doppio piccolo (uno dei due è più piccolo dell’altro). Nacque così il Mehter, la cui utilità tattica declinò rapidamente.


Infatti, Murad, successore di Orhan, vista l’efficacia del soluzione adottata dal padre, decise di perfezionarla ulteriormente, decidendo, invece di arruolare, di fare crescere dei soldati a sua immagine e somiglianza: intorno al 1380, decise di ricorrere all’istituto del devşirme (dal sostantivo verbale turco devşir che significa «raccolta»): gli incaricati del sultano ogni quattro anni obbligavano le comunità cristiane che vivevano nelle campagne a cedere i loro figli più robusti tra i 6 e i 9 anni per addestrarli alla vita militare.


L’addestramento dei giannizzeri avveniva in un clima di rigida disciplina. I ragazzi erano sottoposti a grandi fatiche in strutture scolastiche estremamente spartane ed erano per questo chiamati acemi oğlan («scolari stranieri»), in cui imparavano calligrafia, teologia, letteratura, legge islamica e lingue.


Obbligati a rispettare il celibato, così da non avere alcuna remora sul campo di battaglia, i giannizzeri erano forzatamente incoraggiati alla conversione all’Islam, secondo la variante, che molti corregionali considerano eretica, data la presenza della confessione dei peccati e di numerose sfumature panteiste, del bektashi.


A differenza dei musulmani liberi, ai giannizzeri era permesso di portare i baffi, ma non una barba completa. Veniva loro insegnato a considerare il reggimento come la propria casa e la propria famiglia (a ciò rimanda lo stesso nome del corpo ocak, «focolare»). Il reggimento ereditava gli averi dei soldati alla loro morte.


In questo nuovo contesto, in cui tutti i soldati comprendevano il turco, il Mehter mutò di funzione: con il ritmo ipnotico delle loro musiche, fungevano da strumenti di guerra psicologica, incitando i giannizzeri alla battaglia e spaventando i loro nemici.


Nel Settecento, con il declino della minaccia turca e la progressiva perdita del ruolo militare da parte dei giannizzeri, il Mehter svolse un ruolo protocollare: suonava tre volte al giorno davanti al il Palazzo di Topkapı, in occasione del cambio della guardia e accompagnava il Sultano e gli alti funzionari ottomani nei loro viaggi nelle province e all’estero.


In uno di questi, a Cracovia, il Mehter colpì così tanto il re di Polonia Giovanni III di Polonia, il liberatore di Vienna, decise di imitarlo, creando una banda militare per accompagnare i suoi ussari alati; il suo successore, l’elettore di Sassonia nonché re di Polonia, Augusto il Forte, volle una banda sassone con ben quattro cimbalisti. Seguì l’Austria, che nel 1740 ebbe i suoi primi “giannizzeri” e, pian piano, vari Paesi europei seguirono l’onda. E così passo dopo passo, dal Mehter derivarono le bande paesane, che accompagnano le processioni dei nostri santi patroni.


In parallelo, la ritmica e le sonorità del Mehter, influenzò la musica colta europea: uno dei prim a imitarla fu Joseph Haydn, con la sua Sinfonia n.100, conosciuta oggi come la “Militare”, che fu battezzata dai contemporanei viennesi come la “Grande Sinfonia con la Musica Turca”.


Anche Mozart si servì della musica turca nell’opera “Il ratto del Serraglio” e nel rondò della Sonata K.331, la cosiddetta marcia turca. Beethoven utilizzò tale musica nella “Vittoria di Wellington”, ne “Le rovine di Atene” e nell’ultimo movimento della Sinfonia n.9, quando il testo di Schiller rievoca momenti eroici e conflittuali, che è paradossalmente, visto le origini, l’inno dell’Unione Europea.


Sciolta nel 1826 dal sultano Mahmud II, assieme al corpo dei Giannizzeri, la Banda è rinata nel 1963 come istituzione di interesse storico collegata al Museo di Storia Militare di Istanbul. Oggi si esibisce in occasioni civili, militari e in cerimonie di Stato, oltre che in festival militari internazionali.


E per finire, una piccola curiosità: nell’ agosto del 1741 venne in visita diplomatica a Napoli l’ effendi pascià Hagi Hussein che sfilò per le vie cittadine con un corteo a dir poco mozzafiato: soldati a cavallo, fanti, staffieri, personaggi provenienti dai vari territori dell’ impero ( caucasici, georgiani, balcanici, medio orientali, nord africani) in uno sfavillio di ori, gioielli, vestimenti, suppellettili, e soprattutto accompagnato dal Mehter in gran completo, il quale colpì tanto la fantasia dei napoletani, tanto da trasformarlo in uno personaggi del suo presepe, la banda degli Orientali, che chiudono il corteo dei re magi.


[image error]

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 13, 2019 13:19

September 12, 2019

Il Potere censura solo le battute che riesce a capire

[image error]


Piccola premessa: il seguente post è fazioso e di parte, dato che ho la fortuna di conoscere Mirko Pierri, presidente dell’associazione a.DNA Collective, di cui stimo tantissimo la passione, l’impegno e gli ottimi risultati nell’ambito della Street Art. Prima o poi, spero di riuscire a realizzare con lui un progetto nel Rione.


Detto questo, il tema del post è la questione del murale della Stazione Lido Nord; per chi non se lo ricordasse, a.DNA Collective aveva partecipato a un bando del Miur, autorizzato dall’Atac e dalla Regione Lazio, sul tema dell’Antimafia.


Per decidere chi e cosa rappresentare, a.DNA Collective, in un approccio partecipato, coinvolge una rete di dieci istituti scolastici. Ovvero 36 classi, 32 docenti e circa 1000 studenti coinvolti, per una quarantina di attività sparse sul territorio, a partire da settembre 2018; ossia per dirla in maniera poco elegante, Mirko e i suoi collaboratori si sono fatti un mazzo tanto.


In più, hanno seguito tutto l’iter burocratico, che per esperienza personale, posso affermare essere faticoso e una sfida alla propria sanità mentale, per ottenere le autorizzazioni del Municipio, compresa l’occupazione del suolo pubblico.


Così, a luglio, l’artista Lucamaleonte comincia il suo murale,il cui tema è una celebrazione della memoria e dell’impegno civile degli abitanti di Ostia: vi appaiono ad esempio il socialista Andrea Costa, fondatore della Cooperativa dei Braccianti Ravennati, che nel 1884 iniziò la bonifica delle paludi del litorale romano, fondando il primo nucleo di case di Ostia Antica, Lido Duranti, partigiano trucidato nelle fosse Ardeatine, l’ultracentenario Domenico Fonti, maestro che insegnò nelle scuole del quartiere dalla fine della seconda guerra mondiale, Giovanni Sepe, giornalista scomparso nel 2015, fondatore della Gazzetta del Litorale, Mario Rosati, artista 78enne, autore dello storico monumento a Pasolini, installato all’Idroscalo, Mariam Moustafa, ragazza italo-egiziana, nata e cresciuta a Ostia, vittima di attacchi razzisti a Londra, Manuel Bortuzzo, il giovane nuotatore gambizzato per errore da due malavitosi ad Acilia e la giornalista di Repubblica Federica Angeli, da anni sotto scorta per le sue dure inchieste contro la mafia ostiense degli Spada, dei Fasciani e dei Triassi.


Proprio queste scelte, provocano la reazione dell’amministrazione Cinque Stelle, che, istigata da Casa Pound, fa cancellare il murale, coprendo i volti dei volti dei personaggi viventi, con la scusa che siano divisivi.


Una censura ideologica e una precisa scelta di campo contro la cultura della legalità, che snatura l’opera, rendendola inguardabile e rubandole tutta la valenza simbolica, tanto che sia Mirko, sia Lucamaleonte, ne rifiutano giustamente la paternità.


La notizia provoca lo sdegno di chiunque sia capace di pensare con la propria testa e risveglia le coscienze: così nasce una petizione on line per il ripristino del murale originale, firmata da oltre 37.000 persone, che ha convinto la regione Lazio a finanziare il restauro.


Ora, essendo Mirko un gran signore, avrà accolto la notizia con un’alzata di spalle, mostrando una moderata soddisfazione, dato che, instancabile, immagino sia impegnato in decine di nuovi progetti e che abbia considerata chiusa questa brutta parentesi; ma se al suo posto ci fosse stato un cialtrone ignorante e pure vendicativo come il sottoscritto, questo avrebbe chiesto l’accesso agli atti del X Municipio, per poi produrre un esposto allegato alla Procura della Corte dei Conti per danno erariale ai Consiglieri che avevano votato la delibera per la rimozione dei ritratti di Franca Angeli e degli altri.


Oltre che una lezione ai demagoghi locali, che avrebbero pagato di tasca propria le loro boiata, sarebbe un segno per tutti coloro, che, anche in questi giorni, vogliono fare tacere  chi non la pensa come loro, dimostrando la loro infinita stupidità. Perché, come diceva bene Karl Kraus


Il potere censura solo le battute che riesce a capire.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 12, 2019 12:45

September 11, 2019

Does the Megalithic Tradition have an ‘origin’?

Novo Scriptorium


There are ∼35,000 presently extant European Megaliths – ancient monuments constructed from one or more blocks of stone – that remain all across Europe. Most of them come from the Neolithic period and the Copper Age. The majority of them are concentrated in coastal areas, while there are quite a few in the inland, too (e.g. Thrace -modern day Greece, Bulgaria, Turkey).


View original post 1.475 altre parole

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 11, 2019 23:39

Übermensch

[image error]


Con parecchio ritardo, a causa del periodo squinternato che sto vivendo, do visibilità a un articolo su tom’s Hardware, dedicato ai consigli di lettura sui libri di fantascienza da leggere nel 2019.


Lista in cui ci sono parecchi classici e in cui spicca Übermensch del buon Davide del Popolo Riolo, libro che è un qualcosa di più di un what if basato sulla diversa località di atterraggio di una certa navicella proveniente da Kripton. E’ un fondo un viaggio, complesso, nei contorti meandri della psiche umana, in un contesto distopico che ne accentua sia la grandezza, sia la meschinità e un interrogarsi sulla noia e sulla solitudine degli Dei.


Cosa, che sotto molti aspetti, avvicina il romanzo alle tematiche espresse da Alan Moore, prima che fingesse di essere uscito fuori di testa, in Watchmen, piuttosto che in normale fumetto dedicato all’essere che si maschera da Clark Kent, perchè sul tema la penso sempre come un certo Bill


Dunque, l’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana.


E sospetto che nel suo romanzo, il buon Davide abbia realizzato l’apoteosi di tale concetto… Qui mi fermo, perché sapete che sono di parte, data la nostra amicizia.


Due cose però, concedetemele, al termine di tale sproloquio concedetemi due piccole cose: la prima, la mia ammirazione nei suoi confronti, per sapere trattare in maniera eccelsa temi complessi, spaziando tra sottogeneri assai diversi.


La seconda, i complimenti a Silvio Sosio per l’energia e impegno che dedica alla Fantascienza Italiana e il suo fiuto nell’identicare i talenti nella scrittura: per prenderlo amichevolmente in giro, lo potrei paragonare a Campbell, ma di certo rischierei qualche suo pernacchione…


Però, senza Silvio, il mio portafoglio sarebbe di certo più pieno, ma il mio Animo, privato dei suoi sogni, sarebbe assai più vuoto e arido.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 11, 2019 12:43

September 10, 2019

Milanolatria

[image error]


Per anni, Roma fa Schifo è stata accusata di non sapere andare oltre la denuncia e di non sapere proporre soluzioni concrete ai problemi che evidenzia. Accusa che in fondo, non è neppure così campata in aria: il problema è che anima questo blog, laureato in Scienze delle Comunicazioni, spesso e volentieri non ha le competenze per affrontare problemi e tematiche assai complesse anche per gli addetti ai lavori.


Per uscire da questo impasse, sul blog hanno applicato una strana variante della legge di Grossman


I problemi complessi hanno soluzioni semplici, facili da comprendere e sbagliate


riconducibile a


A Milano c’è una soluzione per qualsiasi problema di Roma


Ora senza dubbio la città meneghina può essere un esempio per tante cose, ma la milanolatria di Roma fa schifo è ahimé figlia dell’ignoranza, perché chi vi scrive non conosce né i tanti problemi della città dei Navigli, che ci sono, pur differenti di quelli capitolini, né il fatto che le due città abbiano avuto, nel secondo dopoguerra, abbiano avuto due percorsi urbanistici e sociali ben differente.


E questa ignoranza, spesso capziosa, fa spesso cadere nel ridicolo chi cura tale blog. Cito due degli ultimi casi, la questione incidenti stradali e quella turisti.


La prima è parte dalla notizia che il Comune di Milano, sia per fare cassa, sia per ridurre la velocità con cui gli automobilisti percorrono tratti stradali ad alta percentuale di incidenti, ha deciso di posizionare una decina di autovelox in città.


Roma fa Schifo ha fatto uno dei suoi soliti post, per invitare il Campidoglio a fare altrettanto, partendo dall’assunto che il traffico romano, in termini di incidenti mortali, sia più pericoloso di quello meneghino.


Assunto che non potrebbe essere neppure così peregrino, dato rispetto a Milano a Roma circolano più veicoli, che l’area urbana capitolina è assai più estesa, quindi trascorrendo più tempo in strada l’automobilista ha più possibilità di subire un incidente, che vi è più traffico pendolare diretto verso l’Urbe e che le nostre strade facciano, in termini di manutenzione, assai più schifo.


Però, vediamo che dice la sana, vecchia matematica, materia in cui Massimiliano Tonelli sembra avere qualche difficoltà. Partiamo dal definire le grandezze in gioco ossia il flusso veicolare, il numero dei veicoli che passa, in una determinata sezione stradale, durante un intervallo di tempo, pari a (x*PA)/T ossia una quota percentuale del parco auto divisa per il tempo e il flusso incidentale, una grandezza analoga, in cui però si considerano il numero di incidenti che avvengono in una una determinata sezione stradale, durante un intervallo di tempo NA/T. In entrambi i casi, per non uscire scemi, consideriamo la sezione stradale coincidente con tutte le strade cittadine.


Dividendo il flusso incidentale per il flusso veicolare, otteniamo


(NA/PA)*(T/T)*y= (NA/PA)* y


dove y=1/x. Facendo una media tra i dati forniti dai vari osservatori sul traffico, abbiamo come y sia pari a 1,25 a Milano e 1,21 a Roma. Ora consideriamo i numeri reali: a Milano abbiamo, dati Istat 2017, 53 morti e 11.123 feriti in 8.559 incidenti a fronte di 924.000 veicoli circolanti, dato ottenuto da Comuni Italiani e con 511 auto ogni 1000 abitanti.


A Roma, invece, dalle stesse fonti abbiamo 107 morti, 7083 feriti e 22685 incidenti a fronte di 2.433.330 veicoli circolanti e 612 auto ogni mille abitanti. Definiamo tre grandezze di paragone: tasso di sinistro, rapporto tra flusso incidentale e flusso veicolare, tasso di mortalità, rapporto tra flusso di incidenti mortali e flusso di incidentale, e tasso di danno, il rapporto tra la somma dei flussi di incidenti mortali e con feriti e il flussi incidentale.


A Milano abbiamo un tasso di sinistro approssimabile all’1%, tasso di mortalità 0,62%, tasso di danno 13%. A Roma, invece, si ha un tasso di sinistro approssimabile all’1%, tasso di mortalità pari al 0,47%, tasso di danno pari al 3%.


Per cui, se le capacità di guida di automoblisti romani e capitolini sono pressochè equivalenti, la viabilità meneghina risulta essere mediamente più pericolosa; il che potrebbe essere connessa anche alle diverse condizioni di congestione del traffico, che si riflette nelle diverse velocità medie nell’ora di punta: a Milano pari a 19,7 Km/h, mentre a Roma 16,8 km/h


Di conseguenza, mettere più autovelox a Roma, se può fare contente le casse capitoline, significa intervenire su un non problema, evitando di affrontare il vero dramma della sicurezza stradale capitolina, ossia i pedoni investiti; tecnicamente, i dati per pianificare interventi strutturali atti a risolvere il problema, aree 30 con dossi o soluzioni di Smart City, sarebbero anche disponibili, ma qui si entrerebbe in altri discorsi.


La seconda grande topica di Roma fa Schifo è stata, corretta in corner, dopo avere preso un centinaio di pernacchioni, quella di avere di scambiato la classifica del Mastercard Global Destination Cities Index, che classifica le città per numero di turisti che utilizzano tale carta di credito, con il numero delle presenze.


Nella prima classifica, Milano surclassa Roma, nella seconda, che misura le teste reali e non lo spending, avviene il viceversa; per cui, per essere seri, Roma fa Schifo avrebbe dovuto fare una riflessione non sul numero di visitatori, ma sul loro spending.


Roma è indubbiamente meno attrattiva per un turismo ricco e di affari; ma per risolvere tale problema, sarebbe necessario un mutamento di sistemico di strategia economica, che va ben oltre le capacità e le possibilità di un’amministrazione comunale, qualsiasi sia il suo colore

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on September 10, 2019 12:47

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
Alessio Brugnoli isn't a Goodreads Author (yet), but they do have a blog, so here are some recent posts imported from their feed.
Follow Alessio Brugnoli's blog with rss.