Alessio Brugnoli's Blog, page 96
September 9, 2019
Un bando pubblico per la street art di via Cappellini
Come sapete, nell’ottica del progetto di riqualificazione di via Giolitti 225, condiviso con gli abitanti di palazzo e con alcune delle principali associazioni del Rione, avevamo presentato il progetto di completare quanto già eseguito nel portico del palazzo, estendendo i murales a un lato di via Cappellini.
Il tema comune delle nuove opere sarebbe stato la celebrazione degli eroi della Resistenza dell’Esquilino, da Pilo Albertelli a don Pietro Pappagallo, da Sabato Martelli Castaldi a Roberto Lordi, sia per preservarne la memoria, sia per celebrarne i loro valori, sempre attuali in un momento in cui la barbarie sembra gridare più forte.
Sinceramente, ci aspettavamo più interesse da parte del Municipio, su questo tema… A dire il vero, il motivo del suo assordante silenzio è forse, ma parlo per sentito dire, dato che non è mai arrivata una conferma ufficiale, dovuto all’appoggio a un presunto progetto proposto da pochi abitanti del palazzo accanto, che sanno di street art quanto io so di sanscrito.
Persone che, con il loro ciarlare su FB, hanno convinto il Municipio a danneggiare parzialmente i murales di via Giolitti, citati in tanti articoli e libri a livello nazionale e internazionale. Ora, il muro vuoto e abbandonato di via Cappellini, oltre che a tag e scritte, ha convinto alcuni artisti romani, a mia insaputa, a intervenire con dei murales che celebrano la multiculturalità del nostro Rione, esaltando il dialogo rispetto al rifiuto.
Azione di cui non ho problemi a prendermi le responsabilità morali, perché è ovvia conseguenza del lavoro fatto negli anni scorsi, a riprova del fatto che le azioni vincono sempre sulle chiacchiere e che i semi che abbiamo seminato con pazienza possono spuntare.
Murales che ovviamente hanno provocato l’ira di tali vicini, che come loro solito, se ne sono usciti con accuse e insulti, di cui, a dire il vero, data la bassa stima che ho per chi vive solo per distruggere, non do eccessivo peso.
Però, la polemica ha riportato in luce, la questione dei muri di Via Cappellini, che a quanto pare, dovranno essere rifatti, per problemi di infiltrazioni: a questo punto, assieme alle numerose associazioni che in questi anni hanno sputato sangue per riqualificare l’area, proponiamo al Municipio, in ottica di trasparenza e legalità, di emanare un bando pubblico di concorso, al fine di valorizzare l’area con un progetto serio di street art, mettendo fine a tutte le chiacchiere di cortile di questi mesi.
September 8, 2019
La fortezza di Civitella del Tronto
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In corrispondenza del vecchio confine tra Regno di Napoli e Stato Pontificio, vi è una delle più grandi e importanti opere di ingegneria militare d’Europa caratterizzata da una forma ellittica con un’estensione di 25.000 mq ed una lunghezza di oltre 500 m.
Si tratta della fortezza di Civitella del Tronto, realizzata in prevalenza con blocchi squadrati di travertino, che si compone di architetture di varie epoche articolate su diversi livelli, collegate tra loro da rampe ottocentesche, che ricoprono l’intero colle.
La sua origine risale probabilmente all’anno 1000, quando vi era un castrum, di cui non abbiamo evidenze archeologiche: tuttavia, in un atto di donazione sottoscritto da Raterio, figlio di Giuseppe, che descrive la «curtis» di «Tibitella», posta a guardia del confine del Salinello, tra il comitato ascolano e quello aprutino. A questo segue, nel 1069, un altro atto di donazione sottoscritto da Siolfo, figlio di Trasmondo e nipote di Trasmondo, che destina la proprietà del castello di «Civitellae» a Stefano, vescovo di Ascoli.
Dati i limitati interessi degli Altavilla per l’Abruzzo, che permisero la nascita delle tendenze centrifughe dell’area, probabilmente il castrum non fu soggetto a lavori di ampliamento e ristrutturazione; le cose cambiarono con gli Svevi, che cercarono di riportare sotto il controllo regio i numerosi potentati locali. Vi sono quindi una serie di testimonianze scritte sui lavori eseguiti a Civitella, culminati con l’atto in cui, Il 30 gennaio dell’anno 1255, papa Alessandro IV confermò il potere sulla rocca a Teodino, vescovo di Ascoli ed esortò gli ascolani a fortificare e risarcire il castello di Civitella.
Con la conquista angioina del napoletano, Carlo I d’Angiò ordinò una completa ristrutturazione della fortezza: ordinò di aggiungere le torri circolari di fiancheggiamento alle angolature e lungo le mura rettilinee,forse merlate e dotate di apparati sporgenti come era in uso nel tardo medioevo,con funzione di rompitratta.
Verso la metà del XV secolo, nel 1442 il dominio del castello passò dagli Angioini agli Aragonesi. Alfonso I d’Aragona dispose il potenziamento e l’ampliamento della fortificazione e già nel 1450 il complesso difensivo aveva le sue cinque torri.In questi anni furono realizzate modificazioni con la messa in opera di strutture protettive erette all’estremità orientale del forte, conferendo al sito l’aspetto di una «cittadella fortificata del primo Rinascimento».
Negli anni che seguirono il popolo di Civitella non ebbe sempre rapporti ottimali con i castellani. Del comandante Leone Gazull chiesero la rimozione al re Ferrante I d’Aragona con una formale istanza nel 1475. Nel 1481, l’Università di Civitella procedette a reperire fondi per restaurare le mura della Terra, mentre nel 1485 Alfonso I d’Aragona, duca di Calabria, si recò ad ispezionare la ortezza. Quattro, delle cinque torri della fortezza, furono distrutte dai civitellesi nell’anno 1495 per il diffuso malcontento e «per non patire le insolenze de’ i castellani».
Odet de Foix, al comando di truppe francesi, occupò Civitella nel febbraio del 1528 quando la fortificazione aveva una sola torre idonea alla difesa, avendo le altre quattro non ancora ricostruite. Visto il precedente e il timore che i francesi replicassero l’impresa, il governo spagnolo decise di riparare in fretta e furia la fortezza.
La decisione fu provvidenziale: nel 1556, a causa della decisione di Paolo IV di aumentare il dazio sul sale proveniente dalla Sicilia, scoppiò la guerra tra Spagna e Stato Pontificio. Inizialmente, le truppe iberiche, guidate dal Duca d’Alba e appoggiate dai Colonna, misero a ferro e fuoco la Ciociaria, finché, a causa di una rivolta popolare, fu costretto a scappare con le pive nel sacco a Napoli; a peggiorare la situazione fu l’intervento francese, in cui il contingente francese, guidate dal Duca di Guisa, tentò l’invasione dell’Abruzzo.
Così nel 1557, cominciò il grande assedio di Civitella, che cominciò il 24 aprile e si concluse il 16 maggio; la guerra del sale tra l’altro, benché vedesse gli spagnoli in difficoltà, fu decisa della vittoria di San Quintino. Vedendo il tercio minacciare Parigi, Enrico II diede l’ordine al Duca di Guisa di tornare in patria e quindi il Papa, privo del forte alleato, fu costretto a firmare la Pace di Cave, i cui unici beneficiari furono i Colonna, che si vedevano restituiti i feudi sequestrati negli anni precedenti.
Grazie ai francesi, abbiamo almeno tre piante che rappresentano la Rocca di Civitella dell’epoca: la fortezza appare cinta su tre lati da una muraglia merlata scandita, a distanze regolari, dalla presenza di cinque torri merlate con opere in aggetto, in perfetto stato. Il lato orientale presenta mura di cinta, in parte prive di merlatura, camminamenti, un torrione con basamento a scarpa e un bastione che proteggeva l’ingresso. Oltre la porta d’ingresso sono rappresentati i corpi di fabbrica più antichi, racchiusi tra le mura.
Nel 1564, la struttura del forte subì modifiche e ampliamenti sino ad ottenere l’attuale configurazione, voluta dal re di Spagna e di Napoli Filippo II d’Asburgo. Nel 1798 la fortezza fu assediata dalle truppe napoleoniche, facendo una figura barbina, si arrese dopo un giorno di combattimento, mentre fu assai più aspro quello del 1806, contro le truppe murattiane.
Al comando della fortezza civitellese si trovava Matteo Wade, militare irlandese che prestava servizio nell’esercito del Regno di Napoli. Il maggiore aveva una dotazione di 19 cannoni, un mortaio, 323 uomini e viveri per resistere tre mesi. Respinse le richieste di resa dei generali francesi che mitragliarono il forte, conquistandolo dopo tre mesi di combattimento.
L’assedio del 1860/61 fu invece posto dal tenente colonnello Antonio Curci, che aveva al seguito 400 volontari garibaldini, e dal maggiore della marina Renzo Carozzi che guidava altri 400 uomini. A capo della fortezza vi era il maggiore Luigi Ascione con 430 uomini. Lo stato di assedio si prolungò dal 26 ottobre 1860 al 20 marzo 1861, quando le milizie borboniche, dopo la coraggiosa resistenza, si arresero tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia.
Nonostante la resa tardiva e onorevole riferita da Cavour alle corti inglese e francese il 21 marzo, nel giorno seguente il ministro della Guerra Manfredo Fanti ordina la distruzione della fortezza e della cinta muraria della città come monito per i briganti. La fortezza resterà in stato di abbandono per più di un secolo, finché, tra diverse polemiche, fu restaurata dal 1975 al 1985 dalla Sovraintendenza de L’Aquila, tra numerose polemiche.
Come è strutturata questa fortezza? La parte difensiva è collocata nella porzione est del Forte, perché è quella zona più esposta ai pericoli e dunque agli attacchi,e questa porzione presenta tre camminamenti coperti che sembrano degli imbuti che in teoria erano l’unica fonte di accesso per i nemici, e sotto questi camminamenti c’erano dei difensori che presidiavano tutta la rampa vicina ed il cui numero era variabile: man mano che si saliva diminuivano. La rampa presentava il fuoco di sbarramento dalle feritoie che aveva il compito di limitare il progredire degli assalitori verso l’interno.
l primo camminamento è coperto ed era caratterizzato da un fossato sovrastato da un ponte che in parte è un ponte levatoio e da un grande camino utilizzato per il riscaldamento delle sentinelle e da una scala a chiocciola che permetteva di ascendere velocemente verso la batteria dei cannoni che era posta sopra il bastione. Fra il primo ed il secondo sbarramento era posto il tipico “calabozo del coccodrillo” chiamato cosi proprio in memoria delle torture che venivano fatte al prigioniero , all’interno di questa cella : infatti egli si vedeva riempire d’acqua la stanza fino al collo secondo questa tortura , che però non veniva effettuata all’interno di questa Fortezza, ma era un modo per far capire che nei confronti dei prigionieri le torture erano davvero atroci e dunque questo era un modo per invitare la popolazione alla calma.
Il secondo camminamento coperto presenta l’ingresso in corrispondenza della prima piazza che s’incontra entrando all’interno della Fortezza e che viene chiamata “piazza del Cavaliere”, perché fino al 1861 nella sua area vi era situato il monumento funebre dedicato al maggiore irlandese Matteo Wade che fu a capo delle truppe durante l’assedio dei francesi nel 1806. L’opera marmorea, eretta per volere di Francesco I nell’anno 1829, eseguita da Tito Angelini, fu collocata dai piemontesi all’interno del paese di Civitella, dove si trova ancora oggi.
Questo piazzale veniva utilizzato per l’addestramento delle truppe in tempo di pace, mentre in caso di assedio, era proprio in questa piazza che il nemico che riusciva ad entrare veniva accerchiato con il fuoco.
Il terzo camminamento invece , anch’esso coperto difficile da raggiungere dai nemici, se attraversato, assicurava ormai la conquista della struttura da parte degli assalitori , ma è possibile dire che mai nessuno riuscì in questa impresa.
La vera e propria caserma invece, che fa parte della seconda sezione della Fortezza di cui si parlava all’inizio, presenta nella parte antistante e più precisamente sulla destra, una piccola cappella dedicata a Santa Barbara, che è appunto la protettrice degli artiglieri, mentre nella porzione di sinistra è possibile notare la Campana Faro, che è stata posta li in memoria dei caduti nelle due ultime guerre mondiali; da qui si giunge alla seconda piazza che è quella “d’armi”, dove ogni giorno avveniva l ‘ “alzabandiera”, ed è proprio l’architettura di questa zona della Fortezza che e mostra la sua origine spagnola visto che è dotata di una grande ingegneria del sistema idrico , infatti gli spagnoli erano sempre attenti all’approvvigionamento dell’acqua: qui infatti sono poste cinque cisterne che venivano utilizzate per la raccolta e la purificazione dell’acqua piovana.
Qui infatti c’è un enorme serbatoio ed il piazzale è suddiviso in due porzioni a forma di imbuto che permettono all’acqua di entrare nel sottosuolo attraverso due aperture che oggi sono protette con grate di ferro e nella porzione sottostante sono presenti due locali uno sull’ altro di cui quello superiore conteneva strati di ghiaia e carbone che servivano per filtrare la pioggia e farla scendere sul fondo attraverso del aperture che veniva poi purificata nel secondo locale dove si accumulava e cosi dal pozzo centrale si poteva prendere l’acqua necessaria. Oltre questa piazza invece ci sono gli uffici e le furerie oltre che i grandi magazzini, che però oggi sono ridotti in ruderi .
Il punto più alto della Fortezza si chiama “acropoli”, si trova a circa 650 metri ed osservando da questo punto si riesce perfettamente ad osservare tutt’intorno ed essendo la piazza più grande di tutta la struttura veniva chiamata appunto la “Gran Piazza”ed è proprio qui che si trova la seconda cisterna per la raccolta dell’acqua piovana e qui in un punto ulteriormente sopraelevato si trova il Palazzo del Governatore, affiancato dalla chiesa di San Giacomo.
In particolare, all’interno del Palazzo del Governatore vi è il Museo delle armi, con cimeli legati alle vicende della fortezza
September 7, 2019
Pietra di Palermo
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Molti lo ignorano, ma uno dei documenti più della storia dell’Antico Egitto, è a Balarm, nel Museo archeologico regionale “Antonio Salinas”; si tratta della Pietra di Palermo, il più grande grande e leggibile frammento, che misura 43 cm di altezza per 30,5 di larghezza, di una sorta di annale reale, che reca inciso su entrambi i lati l’elenco dei faraoni d’Egitto dalla periodo predinastico alla Quinta dinastia, che in età compresa tra tra il 2500 a.C. e il 2350 a.C. La collocazione originale della stele è sconosciuta, ma si ipotizza che sia stata ritrovata ad Eliopoli o nelle rovine del tempio di Ptah a Menfi. Si ritiene che in origine avesse una lunghezza di circa 2 metri ed una altezza di 60 centimetri; in età imprecisata fu distrutta.
Il 19 settembre del 1877, 140 anni fa, Antonino Salinas, allora Direttore del Museo, ringraziava l’avvocato Ferdinando Gaudiano per il dono fatto al Museo nazionale di Palermo di “un bel pezzo di basalto con geroglifici egiziani”. “di monumenti di tale genere difetta in qualche modo questo museo stante la difficoltà di ritrovarne in Sicilia, perciò il suo dono è stato più gradito”.
La sua provenienza è alquanto misteriosa: alcuni sostengono la stele sia stata acquistata sul mercato antiquario, altri ritengono che Ferdinando Gaudiano l’abbia ereditata dal padre. Molti indizi fanno pensare come questa possa provenire da Alessandria d’Egitto, in cui la famiglia Gaudiano aveva numerosi interessi commerciali.
Pietra che all’epoca non era un inedito: aualche anno prima il celebre orientalista palermitano Michele Amari aveva ottenuto alcune copie dei testi e le aveva inviate all’egittologo francese Emmanuel de Rougé che le aveva utilizzate per un suo studio. A lui si deve la definizione di “Pietra di Palermo” con la quale è ancor oggi noto il monumento. Però al dire il vero, chi capì veramente l’importanza del reperto non fu né Salinas, né de Rougé, ma dall’ egittologo H. Scäfer, in collaborazione con L. Borchardt e K. Sethe, che formulò le prime ipotesi sull’origine.
Nel 1903 furono scoperti tre frammenti più piccoli: uno era stato usato come fermaporta e gran parte del suo testo fu così cancellato; il terzo fu rinvenuto in un sito archeologico a Menfi.Nel 1914 Flinders Petrie ne acquistò un quarto frammento sul mercato antiquario; il pezzo è esposto al Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra, e contiene informazioni sui sovrani Khasekhemui (II dinastia) e Nebmaat (IV dinastia). Nel 1963 un quinto frammento fu acquistato sul mercato antiquario, e si trova ora al Museo Egizio del Cairo.
Ma cos’era in origine la Pietra di Palermo ? Come dicevo, una sorta di annale reale, con valore sia sacrale, sia politico.
Sacrale, perché il faraone che l’aveva commissionata, fissando gli eventi su pietra, imponeva con la cronologia, un ordine nel caos degli eventi, rendendo il suo regno il fine ultimo del Tempo. Politico, perché, da una parte, selezionando una successione dinastica, evidenziava il suo diritto a regnare, in continuità con i re del passato; dall’altra, identificando gli eventi salienti dei precedenti regni a testimonianza della benevolenza divina, mostrava come la sua azione fosse degna del mandato concesso dagli Dei.
Ciò è in linea con le complesse e ancora poco chiare vicende della V dinastia, caratterizzata da numerosi passaggi di potere e successioni al trono poco chiare. Il suo fondatore, Userkaf, non sembra aver alcun legame con la dinastia precedente; altri sovrani pure sembrano ascesi al trono in condizioni poco chiare. Fra questi sicuramente vi era caratterizzata da numerosi passaggi di potere e successioni al trono poco chiare. Il fondatore della dinastia, Userkaf, non sembra aver alcun legame colla dinastia precedente; altri sovrani pure sembrano ascesi al trono in condizioni poco chiare. Fra questi sicuramente vi era Niuserra, sesto sovrano della V dinastia, che doveva essere poco più che un bambino quando salì al trono, dopo un periodo turbolento.
La sua ascesa al potere è probabilmente legata alla figura della madre, la regina Khentkaus II, la cui piramide affianca, nella parte centrale della necropoli di Abusir, quella del re Neferirkara, padre di Niuserra e ultimo sovrano menzionato nella Pietra di Palermo. Non è dunque da escludere che, ad un certo punto del suo regno, Niuserra abbia voluto consolidare le sue pretese dinastiche con un’operazione di legittimazione storico-politica, ossia facendo mettere per iscritto la storia delle dinastie precedenti, di cui lui, in ultima istanza, si considerava l’unico legittimo erede agli occhi degli dei.
Per coprire settecento anni, la stele era articolata in registri o fasce orizzontali a loro volta suddivise verticalmente in scomparti, ciascuno contenente un’iscrizione in caratteri geroglifici. La fascia superiore del recto conteneva un semplice elenco di nomi di sovrani predinastici dei quali è da presumere si ignorassero le imprese e la durata del regno. Molti di questi sono immaginari, tuttavia, gli archeologici sono riusciti ad associare alcuni dei nomi presenti con i re do almeno due dinastie predinastiche, la 00, corrispondente al periodo Naqada III a1 e a2 esteso dal dal 3500 a.C. al 3300 a.C., la 0, corrispondente al Naqada III b1 e b2, esteso tra 3300 a.C. al 3150 a.C., entrambi seppelliti nelle necropoli nei pressi di Adibo.
In tutti gli altri registri ogni scomparto era separato da quello alla sua sinistra non da una semplice linea verticale, ma dal segno geroglifico (simile a una f ma in questo caso rovesciata visto che il documento è scritto da destra a sinistra come si puo facilmente vedere dall’orientamento dei geroglifici) che significa «anno». Tra fila e fila una banda orizzontale reca sempre il nome del re cui si riferiscono gli scomparti inferiori, di solito accompagnato dal nome della madre; e sotto ogni scomparto è indicato il livello raggiunto dalla piena del Nilo in quel dato anno.
I geroglifici all’interno degli scomparti citano sempre uno o più fatti salienti di quel dato anno, qualcosa che serva a caratterizzarlo e a facilitarne il ricordo. Mentre dalla seconda alla quinta fila del recto ogni scomparto contiene una sola fitta colonna di scrittura, nella sesta gli scomparti sono abbastanza larghi da ospitare tre o quattro colonne. Nel verso le dimensioni degli scomparti aumentano ancora, cosicché gli avvenimenti registrati sono anche più numerosi. Il che è legato al fatto che a quei tempi, gli avvenimenti dei secoli più remoti fossero ormai caduti nell’oblio, anche se all’epoca era già presente la scrittura: nel 1998 un’équipe archeologica tedesca durante gli scavi ad Abydos (la moderna Umm el-Qa’ab) scoprì la tomba U-j di un sovrano predinastico, datato al 3200 – 3100 a.C circa, e rinvenne trecento tavolette d’argilla iscritte con proto-geroglifici…
September 6, 2019
Il Chrysotriclinus e il Tempio di Minerva Medica
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In questi mesi, tra una rogna e l’altra, sto scrivendo un breve romanzo ucronico, in cui si ipotizza che la bislacca “ipotesi del 1434”, formulata da Menzies, in cui si sostiene come una ambasciata cinese, organizzata nell’ambito delle spedizioni comandate da Zheng He, abbia raggiunto Venezia e Firenze, ove si trovava il Papa Eugenio IV, presentando doni e documenti concernenti svariate conoscenze astronomiche, nautiche e tecnologiche consolidate dalla civiltà cinese.
Secondo Menzies, questo immaginario e non documentato contatto avrebbe dato il via alla rivoluzione del Rinascimento; ipotizzando che sia avvenuto, sto immaginando un mondo con il Mediterraneo pieno di giunche cinesi, in cui Costantinopoli non è mai caduta, ma sta vivendo un boom economico per i traffici con l’Oriente e dove gli accrocchi immaginati da Leonardo sono realizzati nel concreto, dando origine a una sorta di protorivoluzione industriale.
In tale scenario, Niccolò Machiavelli e il maestro taoista Zhu Huocong indagano su una sorta di “Grosso guaio a Chinatown” nei bassifondi di Costantinopoli: ora, tutto ciò mi sta costringendo a leggere libri e articoli sul Grande Palazzo di Bisanzio, che nasce, è il caso di ricordarlo, come replica e reinterpretazione del Palatino, del Sessorianum e degli Horti Esquilini.
Per i paradossi della storia e in un gioco di specchi, a sua volta il Papa, per affermare la sua parità di ruolo con l’Imperatore dei Rhomanoi, modellerà il Patriarchio Lateranense secondo la pianta e le forme del Gran Palazzo di Costantinopoli.
Per cui, studiando tale Palazzo, mi è caduto l’occhio sul Chrysotriclinus, la sua principale sala di ricevimento, dalla sua costruzione, nel tardo VI secolo, fino al X secolo. Il suo aspetto è noto solo attraverso descrizioni letterarie, soprattutto del X secolo in De ceremoniis, il libro con cui il Basileus Costantino VII Porfirogenito descriveva e codificava il protocollo della sua corte.
La costruzione della sala è attribuita all’imperatore Giustino II, erede di Giustiniano, con il suo successore, Tiberio II Costantino che fece apportare le finiture e le decorazioni.
Giustino II, tra l’altro, soffriva di un disturbo borderline, che cominciò a peggiorare con l’età, ma ebbe la saggezza di abdicare e ritirarsi a vita privata, prima di combinare guai peggiore per l’Impero. Questo è il discorso che fece, passando le consegne al successore, che dovrebbe essere di modello anche a tanti politici contemporanei.
Guarda le insegne del potere supremo. Ora stai per riceverle, non dalla mia mano, ma dalla mano di Dio. Onorale, e da esse riceverai onore. Rispetta l’imperatrice tua madre: ora sei suo figlio; prima, eri il suo servo. Non provare piacere nel sangue; astieniti dalla vendetta; evita queste azioni a causa delle quali ho suscitato l’odio pubblico; e prendi l’esperienza, e non seguire l’esempio, del tuo predecessore. Come uomo, ho peccato; come peccatore, anche in questa vita, sono stato severamente punito: ma questi servi, (e noi ci riferiamo ai suoi ministri) che hanno abusato della mia confidenza, e infiammato le mie passioni, appariranno con me davanti al tribunale di Cristo. Sono stato abbagliato dallo splendore del diadema: si saggio e modesto; ricorda quello che sei stato, ricorda chi sei adesso. Sei intorno a noi tuoi schiavi, e tuoi figli: con autorità, assumi la tenerezza, di un genitore. Ama il tuo popolo come ami te stesso; coltiva gli affetti, mantieni la disciplina, dell’esercito; proteggi le fortune del ricco, soddisfa le necessità del povero.
Tuttavia, le fonti bizantine presentano resoconti contrastanti: l’enciclopedia bizantina Suda, però nota per la sua scarsa affidabilità, attribuisce la costruzione a Giustino I, mentre la Patria Costantinopolitana, una sorta di antologia di guide turistiche dell’epoca, all’imperatore Marciano. Lo storico Giovanni Zonara scrisse che Giustino II aveva ricostruito un precedente edificio, ovvero la Sala ottagonale di Giustiniano I.
In seguito all’iconoclastia bizantina fu arricchita di nuovo sotto gli imperatori Michele III e Basilio I. A differenza dei precedenti edifici quali il Palazzo Dafne del Gran palazzo, aventi scopo unico, questa univa insieme le funzioni della sala del trono, delle udienze pubbliche e di sala dei banchetti ufficiali; a seguito dei lavori di ristrutturazione eseguiti da Niceforo II Foca, la sala divenne il nucleo centrale del Palazzo del Bucoleon.
Dalla fine dell’XI secolo però, gli imperatori bizantini cominciarono a preferire il palazzo delle Blacherne, nell’angolo nord-occidentale della città, come loro residenza. Gli imperatori latini (1204-1261) usarono principalmente il Bucoleone, e così fece, per un certo tempo dopo la riconquista della città nel 1261, Michele VIII Paleologo mentre il Palazzo delle Blacherne era in fase di restauro. Successivamente il Gran Palazzo venne usato raramente e, poco a poco, cadde in rovina. Il Crisotriclinio è menzionato per l’ultima volta nel 1308, anche se le imponenti rovine del Gran palazzo rimasero al loro posto fino alla fine dell’impero bizantino, per essere poi demolite dagli Ottomani.
Nonostante la sua importanza e la menzione frequente nei testi bizantini, nessuna descrizione completa di esso è pervenuta. Da testimonianze letterarie frammentarie, la sala sembra essere stata a forma di ottagono coronata da una cupola.
Al suo interno, il trono imperiale era posto nell’abside orientale (il bimah), dietro una ringhiera di bronzo. L’abside nord-orientale era nota come l'”oratorio di San Teodoro”. Conteneva la corona imperiale e una serie di reliquie, tra cui l’asta di Mosè, ed era anche uno spogliatoio per l’imperatore. L’abside meridionale portava alla camera da letto imperiale (koitōn), attraverso una porta d’argento realizzata dall’imperatore Costantino VII.L’abside settentrionale era conosciuta come il Pantheon, ed era una sala d’attesa per i funzionari, mentre l’abside nord-occidentale, il Diaitarikion, serviva da camera per un amministratore, ed era dove il papias (dignitario bizantino) del palazzo depositava le sue chiavi, simbolo del suo ufficio, dopo la cerimonia di apertura della sala ogni mattina. La sala principale del Crisotriclinio era circondata da un certo numero di annessi e sale: i vestiboli noti come Tripeton, Horologion (chiamato così in quanto custodiva una meridiana), la sala del Kainourgion (“Nuova [Sala]”) e le sale Lausiakos e Justinianos, entrambe attribuite a Giustiniano II. La chiesa della Vergine del Faro (Theotokos of the Pharos), cappella principale del palazzo, era situata nei pressi, a sud o a sud-est.
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Ora di solito, gli studiosi collegano il Chrysotriclinus, per la sua pianta, alle Basilica di San Vitale a Ravenna e alla Chiesa di San Sergio e Bacco a Costantinopoli. Tuttavia, questi due edifici ecclesiastici derivano probabilmente da una tradizione architettonica parallela, che parte dall’Ottagono Aureo di Antiochia, ricchissima chiesa fatta erigere da Costantino in tale città, così descritta da Eusebio di Cesarea
Costantino in Antiochia, quasi fosse stata la capitale di tutte le province del luogo, consacrò una chiesa unica nel suo genere per le proporzioni e la bellezza. All’esterno fece costruire intorno all’intero tempio una grande cinta muraria, ed all’interno fece innalzare l’edificio vero e proprio, di altezza notevole, costruito su pianta ottagonale, circondato tutto intorno da edicole, poste su due ordini, superiore ed inferiore, che fece generosamente rivestire con ornamenti d’oro massiccio, bronzo ed altri materiali preziosi
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In realtà, nei Palazzi Imperiali romani, che ricordiamolo, costituiscono il modello di riferimento di quelli di Costantinopoli, esiste una struttura assai simile al Chrysotriclinus, ossia il Tempio di Minerva Medica, che consisteva in vasta sala a pianta decagonale coperta da una cupola sostanzialmente emisferica ma con centro ribassato.
Su nove lati del perimetro si aprivano delle absidi semicircolari, mentre sul decimo lato, a nord, si trova l’ingresso sovrastato da un arco a tutto sesto. In tal modo la cupola appoggiava sostanzialmente su dieci pilastri posti ai vertici del decagono. I collegamenti con il resto del complesso, come a Costantinopoli, avvenivano tramite alcune delle nicchie che in origine erano aperte da colonnati
Per cui è possibile che, direttamente, a seguito della conquista di Belisario, o tramite la mediazione del cosiddetto edificio di Gülhane, il Tempio di Minerva Medica abbia svolto il ruolo di modello per il Chrysotriclinus e che sia stata una sorta di sala del trono per il Palatium degli Horti Liciani, a seguito della ristrutturazione intrapresa da Massenzio e terminata dai Secondi Flavi.
A supporto di tale ipotesi, vi è anche un edificio di poco precedente al Tempio di Minerva Medica, l’aula ottagona del Palazzo di Galerio a Tessalonica, rivestita di lastre di marmo bianco incorniciate da porfido rosso e verde, con la superficie interna scandita da lesene che culminavano con capitelli figurati, 4 dei quali ritrovati all’interno.
Nell’aula ottagona, preceduta da un largo vestibolo a forma ellittica si aprivano sette nicchie di cui quella di fronte alla porta era notevolmente più ampia, mentre altre due comunicavano con piccoli ambienti cruciformi.
Il rinvenimento al suo interno di capitelli raffiguranti divinità pagane ha reso plausibile l’ipotesi che l’edificio rivestisse la duplice funzione di aula di culto e di rappresentanza dove l’imperatore, dominus et deus, riceveva le ambascerie e i dignitari, venerato come Giove, Cabiro, la Tyche di Tessalonica e le altre divinità raffigurate.
La stessa che, in un ambito cristianizzato, svolgevano sia il Chrysotriclinus, sia il Tempio di Minerva Medica.
September 5, 2019
Breve Storia della Tratta Atlantica (Parte IV)
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Dopo avere sintetizzato la storia e le motivazioni economiche della tratta atlantica, diamo un poco di numeri, tenendo conto che, come fenomeno non episodico, si svolge dalla dalla fine del XV secolo fino agli anni 1860.
Se vogliamo scendere nei dettagli, nel XVIII secolo si concentra il il 60% delle spedizioni, il XIX – periodo nel quale la tratta era diventata illegale – quasi il 33%, mentre i secoli XVI e XVII raggiungono a malapena il 7% del totale. Eppure la massima intensità della tratta atlantica, si è in realtà concentrata su un periodo molto più breve, poiché il 90% degli schiavi africani deportati verso le colonie europee delle Americhe e dell’Oceano Indiano lo sono stati fra il 1740 e il 1850, ovvero in poco più di un secolo. Proprio questo carattere di brutalità, circoscritto a un lasso di tempo molto corto, ha profondamente segnato gli spiriti e urtato le coscienze di molti contemporanei, dando il la al movimento abolizionista: fra il 1780 e gli anni ’20 del 1800, circa 100.000 africani furono comperati ogni anno, cifra che nessun’altra tratta negriera, come quella araba, ben più lunga temporalmente, ha mai raggiunto e cui neppure si è mai avvicinata.
La graduatoria delle potenze negriere si stabilisce sulla base delle statistiche della tratta stessa: il Portogallo ha effettuato il trasferimento alle Americhe di più di 4,6 milioni di schiavi. Dopo aver inaugurato questo triste commercio a partire dalla metà del XV secolo, ha svolto la parte essenziale della tratta illegale nel XIX secolo. La Gran Bretagna viene in seconda posizione, con più di 2,6 milioni di deportati, una parte dei quali fu venduta nelle colonie spagnole e anche francesi, malgrado il divieto legale. La Spagna, malgrado l’immensità del suo impero americano, arriva soltanto al terzo posto, soprattutto nel XIX secolo a causa dell’attività di Cuba, punto di partenza di un buon numero di navi della tratta clandestina. Gran parte dell’approvvigionamento in schiavi delle colonie spagnole fu eseguito dai britannici. La Francia occupava il quarto posto, con circa 1,2 milioni di deportati sulle proprie navi, dei quali circa l’80% furono destinati a Santo Domingo (Haiti), primo produttore mondiale di zucchero alla fine del XVIII secolo.
Questa statistica è confermata, con un’eccezione, che vedremo poi, dalla distribuzione dei principali porti da cui partivano le navi negriere dirette in America: questi, per il 95%, si concentravano in un triangolo che andava da Bordeaux a Liverpool e all’Olanda. In ordine d’importanza i grandi porti della tratta sono stati Liverpool, con 4.894 spedizioni identificate, seguito da Londra (2.704), Bristol (2.064), Nantes (1.714), Le Havre-Rouen (451), La Rochelle (448), Bordeaux (419), Saint-Malô (218).
E’ evidente la mancanza di Lisbona: questo perché il commercio degli schiavi portoghese si svolgeva direttamente fra il Brasile – di gran lunga la principale destinazione – e le coste dell’Angola, della Guinea o del Mozambico, attraverso l’Atlantico meridionale, senza passare per l’Europa.
Base della tratta, era il cosiddetto commercio triangolare: le navi degli europei partivano dall’Europa, cariche di merci: tessuti, ferramenta, stoviglie, armi bianche e da fuoco, alcol, bigiotteria. queste merci dette da tratta non erano affatto – come sovente si è detto – di cattiva qualità o di valore irrisorio: corrispondevano invece alla domanda dei venditori, che non avrebbero accettato a lungo di essere ingannati dagli europei. Rappresentavano la voce più dispendiosa nell’organizzazione del viaggio: costavano persino più della nave stessa e dei salari dell’equipaggio messi insieme.
In cambio di prigionieri (il più sovente in seguito a guerre o razzie), i re africani che controllavano la tratta a monte ottenevano strumenti di prestigio che garantivano loro un potere spesso molto esteso. Questa sorta di tra manodopera e merci, però, dal punto di vista dei capitalisti europei, evitava l’uscita di metalli preziosi, a differenza del famoso commercio con le sedi commerciali in India, che esportavano in Europa tessuti pagandoli con monete dell’argento proveniente dal Perù.
Gli schiavi venivano quindi caricati su navi progettate per essere veloci, per ridurre al minimo i costi del viaggio e le morti tra gli schiavi: questo non per spirito umanitario, ma per bieco conto economico. Meno sarebbero giunti in America, minore sarebbe stato il profitto per la società armatrice ricavato dalla loro vendita.
Lo scafo era ricoperto di placche di rame per ridurre manutenzione e tempi di sosta e la portata raggiunse in media le 250 tonnellate con una percentuale di trasportati di 1/2 per tonnellata. La funzione doveva essere polivalente, consentire cioè il trasporto di persone ma, capace di imbarcare grandi quantità di merci. Doveva stivare, inoltre, cibo ed acqua a sufficienza.
Calcolando, ad esempio, un bisogno giornaliero di 2,8 litri d’acqua per un carico medio di 600 persone più l’equipaggio di 40/45 persone, occorrevano 140.000 litri di acqua, sufficienti a coprire una viaggio di 2/3 mesi. Acqua che veniva stivata in botti da 1.600 litri poste tra il dritto di prua e la paratia centrale, sotto l’albero maestro. Dietro la paratia veniva conservato anche il cibo.
Circa 40 kg a persona sotto forma di biscotti, fave, fagioli, riso, igname, banane,….. Gli alloggi erano ricavati con una serie di interponti, con altezza minima di 1,40 metri dove trovavano sistemazione gli uomini e separatamente le donne e i bambini. La distribuzione migliore era il “testa-piedi” che consentiva di ottimizzare gli spazi. I posti erano larghi circa 45/50 cm e lunghi 1,50/2,00 metri.
I prigionieri venivano incatenati due a due e, dormendo nudi, erano soggetti ad escoriazioni anche se queste erano il danno minore che si poteva ricavare dalla navigazione (dissenteria, febbri e scorbuto minacciavano la vita stessa di tutti a bordo), risultavano visibili a lungo al punto da abbatterne il prezzo al momento della vendita. In caso di tempesta venivano stese delle reti nei sottoponti con lo scopo di limitare i bruschi spostamenti e i conseguenti danneggiamenti fisici. Reti venivano poste fuori bordo per prevenire disperati tentativi di fuga.
Una serie di tavole aguzze separava questi ambienti dal ponte superiore, con l’evidente scopo di difesa da eventuali ribellioni che erano rare e comunque drasticamente represse. L’igene era grossolanamente garantita con controllati, periodici accessi al ponte superiore, lavaggi con acqua di mare, rasature e tonsure. Gli ambienti venivano disinfettati con aceto o fumi di polvere da sparo.
La mortalità durante le traversate era molto variabile secondo le spedizioni, ma il numero dei morti nel corso delle traversate – accuratamente registrati sui libri di bordo – si è elevato a circa il 15% del totale degli schiavi imbarcati, facendo dell’Atlantico il «più grande cimitero della storia»; ai quali devono essere aggiunte le vittime – quasi altrettanto numerose in termini assoluti – fra i membri degli equipaggi. Dal livello di circa il 30% nel XVII secolo, la mortalità degli schiavi è scesa al 12% alla fine del XVIII grazie alla minore durata delle traversate e all’incontestabile miglioramento dell’igiene e dell’alimentazione degli schiavi, per risalire a più del 15% nel XIX secolo durante il periodo della tratta illegale.
Come risultato, la redditività della tratta negriera, in sè, era intorno al 10%; molto più redditizio era il viaggio di ritorno dall’America all’Europa, con il carico di zucchero e altri beni coloniali. Di fatto, però, a trarre i maggiori vantaggi economici non furono i trafficanti, ma i grandi latifondisti delle colonie…
Domestication and early agriculture in the Mediterranean Basin
In this post we present selected parts of the paper titled “Domestication and early agriculture in the Mediterranean Basin: Origins, diffusion, and impact“, by Melinda A. Zeder, 2008.
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September 4, 2019
Breve Storia della Tratta Atlantica (Parte III)
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Se fosse stato per gli spagnoli, la schiavitù nera in America sarebbe stato un fenomeno secondario, noto a pochi eruditi, come il suo equivalente in Europa.
Il tutto però cambiò per colpa di Portogallo, Gran Bretagna e Francia. I Lusitani, dopo avere perso il monopolio del commercio con l’Estremo Oriente a favore di Olandesi e Inglesi, dovette ristrutturare la sua economia coloniale; per cui, si impegnarono, a fine Cinquecento, a cercare di rendere produttivo il Brasile, sino a quel momento era alquanto trascurato.
La questione fu risolta replicando in grande stile quanto già sperimentato a Madeira e nelle Azzorre, ossia puntando sulle grandi piantagioni della canna da zucchero: dal 1600 al 1650 lo zucchero rappresentò ben il 95% dell’export totale della colonia portoghese.
Come detto in nei post precedenti, tale piantagione richiedeva l’impiego di numerosa manodopera: per risparmiare sul suo costo, i portoghesi si rivolsero alla schiavitù. Le prime vittime di tale modello di produzione non furono gli africani, ma gli indigeni locali. I grandi latifondisti, comprese le missioni gesuite, organizzavano delle spedizioni militari nel pieno dell’Amazzonia, che strappava gli indios dai loro villaggi, per costringerli a lavorare nelle piantagioni.
Ad esempio, nel 1629 Antonio Raposo Tavares condusse una “Bandeiras” composta da 2.000 alleati fedeli indios, 900 meticci e 69 bianchi, con lo scopo di rinveniere metalli e pietre preziose, oltre che per catturare un buon numero di schiavi. Solo questa spedizione risultò essere responsabile della schiavitù di oltre 60.000 persone indigene.
Tuttavia, l’alta mortalità dovuta alle malattie di origine europea, decimò questa riserva di forza lavoro a basso costo: in più, la scoperta di ampi depositi d’oro e diamanti nelle zone montuose di Minas Gerais poco dopo il 1690, aumento esponezialmente la richiesta di schiavi. La soluzione fu quindi di rivolgersi all’Africa, svuotando gli attuali Stati del Ghana e della Guinea; processo che continuò anche dopo il declino delle attività minerarie, a causa della crescita delle piantagioni di caffè e degli allevamenti di bestiame.
Un processo simile avvenne nelle colonie inglesi del Nord America: ai primordi, in cui l’agricoltura locale era di sussistenza, la forza lavoro a basso costo era costituita da servitori in debito che non venivano pagati, ma sotto contratto, per saldare il prezzo del viaggio che era stato loro concesso per lasciare la terra di origine. I servitori erano solitamente giovani che aspiravano a poter diventare residenti permanenti nel nuovo mondo, e le loro condizioni di vita non erano paragonabili a quelle degli schiavi, trattati come merce di proprietà senza alcun diritto. Si stima che oltre metà dei bianchi immigrati nelle colonie inglesi del nuovo mondo fossero servitori in debito,e i primi coloni si rapportarono agli schiavi africani con lo stesso approccio di chi era sotto contratto come servitù debitoria, lasciandoli liberi dal loro impegno dopo un certo periodo di tempo.
Le cose cambiarono per colpa di John Rolfe, il secondo marito di Pocahontas, quella del cartone animato, per capirci, che introdusse la coltivazione del tabacco in Virginia, che crebbe vigoroso e divenne la principale fonte di coltivazione e di ricchezza della colonia.
La nuova coltivazione, però, richiedeva manodopera specializzata, cosa che andava a cozzare con il meccanismo della servitù in debito, poiché il contratto dei lavoratori scadeva proprio nel momento in cui questi avevano cominciato ad essere dei lavoratori esperti e dunque di maggiore valore. La trasformazione dello status di servitori in schiavi veri e propri non fu una cosa graduale. Non vi era alcuna legislazione in materia nei primi anni della storia della Virginia, ma nel 1640 la corte della colonia condannò almeno un nero alla schiavitù.
Nel 1654 John Casor, africano, diventò il primo schiavo legale nelle colonie. Nella sua difesa dichiarò che egli aveva lo status di servitore in debito e avrebbe dovuto essere trattato come tale, ma una corte della contea di Northampton si pronunciò contro la sua richiesta, dichiarandolo proprietà privata, a vita, di Anthony Johnson, nativo dell’Angola anch’esso, ex servo, divenuto libero alla scadenza del contratto. A causa del fatto che le persone di origini africane non erano inglesi di nascita, erano considerati generalmente soggetti non tutelati dalle leggi inglesi. Elizabeth Key Grinstead, nata da matrimonio misto, ottenne invece la sua libertà facendo valere la sua linea paterna, soggetto del diritto al quale si applicavano le leggi inglesi.
Ma per impedire che altri potessero ottenere la libertà nello stesso modo, in Virginia nel 1662 fu votata una legge, chiamata Partus sequitur ventrem, che affermava il principio secondo il quale qualunque individuo, nato da madre schiava, avrebbe ereditato la stessa condizione, a prescindere da chi fosse stato il padre. Questa legge liberò anche gli individui bianchi che avessero avuto un figlio con una schiava dal dovere di mantenerli e dai doveri legali quali il riconoscimento della prole.
Il Codice degli schiavi varato in Virginia nel 1705 definiva come atte ad essere assoggettate in tale condizione tutte le persone importate da paesi non cristiani, inclusi gli stessi nativi americani. Iniziò dunque ad essere legale la schiavizzazione di qualunque straniero che non fosse cristiano.
Di conseguenza, se nel 1665, vi erano poco più di 500 africani in Virginia, per la maggior parte liberi, nel 1750 invece gli schiavi totali nelle colonie erano 250.000, arrivando a costituire anche il 40% della popolazione statunitense negli stati a Sud. Processo che crebbe poi a causa della Rivoluzione Industriale e del relativo aumento delle esportazioni di cotone.
Diversa fu la questione nelle colonie francesi: i Caraibi spagnoli, dove era stata sperimentata l’economia delle piantagioni nel Nuovo Mondo, incentrata sulla canna da zucchero, entrano in profonda crisi sia per la concorrenza portoghese, sia per il disinteresse di Madrid nei confronti dell’area, ritenuta secondaria e assai meno redditizia rispetto al Messico e al Perù.
Nel 1697, con il trattato di Ryswick la Spagna non ebbe particolari rimorsi nel cedere una parte di Santo Domingo alla Francia; Parigi, visto che l’economia brasiliana si stava riconvertendo dalle piantagioni di zucchero alle miniere, decise di occupare questa nicchia del mercato, creando dal nulla enormi piantagioni di zucchero, affiancate da quelle di caffè, cacao e indigo, dalle cui figlie di otteneva un colorante.
A partire dagli anni ’30 del Settecento, dei genieri francesi costruirono un complesso sistema di irrigazione per incrementare la produzione di canna da zucchero. Dagli anni ’40 del medesimo secolo, Santo Domingo assieme alla Giamaica era divenuta uno dei principali fornitori di zucchero al mondo. Ciò generò un’immensa richiesta di schiavi africani, anche per l’enorme mortalità dovuta alla febbre gialla.
Dato che il 50% degli schiavi moriva entro un anno dallo sbarco ad Haiti, i padroni francesi preferivano sfruttarli al massimo per quanto possibile col consumo minimo di cibo; in più, temendo sempre il rischio di una ribellione generale, li trattavano con enorme crudeltà.
Nel 1789 Santo Domingo produceva il 60% del caffè nel mondo e il 40% di zucchero nel mondo, importato prevalentemente da Francia e Gran Bretagna. La colonia era il possedimento più profittevole dell’impero coloniale francese. Santo Domingo era inoltre la più ricca e prospera colonia di tutte le colonie dei Caraibi. All’epoca bianchi ammontavano a 40.000; i mulatti e i neri liberi a 28.000, mentre gli schiavi neri erano 452.000.
Il mix tra boom economico e discriminazione sociale, ebbe due grandi conseguenze: l’epopea della Rivoluzione Haitiana e della nascita della Repubblica Nera e la ripresa delle importazioni di schiavi a Cuba e negli altri Caraibi spagnoli, desiderosi di imitare il modello di sviluppo economico francese.
September 3, 2019
Breve Storia della Tratta Atlantica (Parte II)
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Ad essere sinceri, immediatamente dopo la scoperta, in America gli schiavi di origine africana si potevano contare sulla punta delle dita: la maggior parte di loro, poi, erano nati in Spagna e svolgevano il ruolo dei domestici dei vari conquistadores. E alcuni di loro vissero delle vicende che, un secolo dopo, sembrerebbero uscite da romanzi.
Penso a Nuflo de Olano, che accompagnò Vasco Núñez de Balboa nelle sue esplorazioni e di certo fu il primo africano ad avvistare l’Oceano Pacifico.
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Oppure Pedro Alonso Niño, soprannominato El Negro, che ha avuto il merito di introdurre il tacchino in Europa, che nacque a Moger, Andalusia.
Dopo essere stato liberato dai propri padroni, divenne un capitano di una caravella e si dedicò alle grandi esplorazioni geografiche, prima in Africa, dove si dedicò alla tratta degli schiavi con l’Europa, poi accompagnando Cristoforo Colombo nel suo terzo viaggio che portò alla scoperta delle coste del Sud America.
Dopo il ritorno in Spagna, Niño si preparò ad esplorare le Indie per conto suo, alla ricerca di oro e perle.Sostenuto dal Consiglio di Castiglia, l’equivalente del nostro Consiglio dei Ministri, nella sua ricerca di nuove terre, evitando quelle già scoperte da Colombo, accettò di concedere il 20% dei suoi guadagni alla corona Spagnola. Assieme ai fratelli Luis e Cristóbal de la Guerra, rispettivamente un ricco mercante ed un pilota, lasciò San Lucas nel maggio del 1499 e, dopo 23 giorni, arrivò a Maracapana. Durante la visita delle isole di Margarita, Coche e Cubagua, scambiarono oggetti di poco valore con grandi quantità di perle prima di salpare per la costa di Punta Araya, dove scoprirono miniere di sale.
Dopo due mesi tornarono a Baiona, Spagna, carichi di tesori, ma Niño dimenticò causualmente di tracciarne metà sul registro di bordo, tentando poi di corrompere gli ispettori della dogana. Questi, dopo avere preso la tangente, lo denunciarono al Tribunale delle Indie, che lo arrestò con l’accusa di avere truffato il tesoro reale. Arrestato, e con le sue proprietà confiscate, Nino morì prima che il processo fosse concluso.
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Ancora più affascinante è la storia di Estebanico, Mustapha Zemmouri, che non sarebbe sfigurata in un film di Herzog; Nacque ad Azemmour, nella costa Atlantica del Marocco che tra il 1513 ed il 1541 era una enclave portoghese. Nel 1513, in giovane età, Estebanico venne fatto schiavo dai portoghesi e forzato alla conversione al cattolicesimo romano. Venne venduto nel 1520 ad Andrés Dorantes de Carranza, un nobile spagnolo col quale allacciò un rapporto d’amicizia.
Estebanico viaggiò con Dorantes verso la Florida prendendo parte alla spedizione del 1527 di Pánfilo de Narváez per conquistare la regione; nel fare questo, fu il primo africano ad aver messo piede in quelli che sono oggi gli Stati Uniti. Il gruppo, inizialmente composto da 700 uomini, si ridusse a 300 a causa di tempeste e diserzioni. Naufragarono nelle coste della Florida, a Rio de las Palmas (vicino a Tampa), dove vennero costruite delle zattere di fortuna con l’intento di raggiungere il Messico. Estebanico e Dorantes rimasero alla fine due dei quattro superstiti. Il resto degli uomini infatti morì affogato, di fame o ucciso dai nativi. Estebanico venne dunque fatto schiavo dalla tribù degli Ananarivo nella costa del Golfo del Messico, assieme agli altri sopravvissuti Dorantes, Álvar Núñez Cabeza de Vaca e Alonso del Castillo Maldonado. Dopo qualche anno, i quattro riuscirono a scappare e a dirigersi verso l’interno e, grazie anche alle conoscenze mediche di Cabeza de Vaca, vennero aiutati dalle altre tribù che incontrarono lungo la strada. Il gruppo attraversò l’odierna parte sudest dell’Arizona, il Deserto di Sonora e raggiunse, dopo ben otto anni dalla spedizione, la regione di Sinaloa nella Nuova Spagna (l’odierno Messico), dove si riunì ai compagni spagnoli.
Una persona normale, dopo tutte queste peripezie, si sarebbe ritirata a vita provata: ma Estebanico era di tutt’altra pasta. In più ebbe la sfortuna di incontrare un immenso ciarlatano, il francescano Marco da Nizza, la versione locale di Fra’ Cipolla, che aveva preso parte alla spedizione di Francisco Pizarro in Perù che portò alla distruzione dell’Impero Inca.
Nel 1536 fu incaricato dal viceré Antonio De Mendoza indagare su tutte le presunte ricchezze contenute nelle città nel nord del Messico, che secondo l’esploratore spagnolo Alvar Nunez Cabeza de Vaca, che a causa del viaggio precedente era uscito parecchio di testa, superavano di gran lunga quelle delle città azteche conquistate da Cortes.
Marco da Nizza convinse ad accognarlo in questa bislacca impresa un suo confratello, il povero fra Onorato ed Estebanico, deciso a saccheggiare le ricchezze indigene. Così nel 1539, questo strampalato trio lasciò la frontiera di Compostela e si diresse verso le terre inesplorate a Nord, viaggiando per alcuni mesi.
A un certo punto, stanco di sopportare i frati, Estebanico decise di proseguire da solo: gli indigeni, per toglierselo dalle scatole, gli raccontarono la balla. Eccitato dalla notizia, Estebanico mandò un messaggero a Marco Da Nizza, mentre lui decise di proseguire per le città, scortato dagli Zuni, gli indigeni locali. Man mano che l’esploratore e il frate passavano di villaggio in villaggio, per arrivare alla strada di Cibola, ricevevano dagli indigeni indicazioni contrastanti. Quando infatti venne chiesto ai locali se ci fosse oro in quella zona, essi risposero che l’oro si trovava in realtà ad est, cosa tra l’altro vera, visto che era riferita alla California, cosa che venne anche riportata per iscritto nella “Relacion” che Da Nizza consegnò al viceré spagnolo,terminata la spedizione.
La cosa che però non spinse a desistere Estebanico e Da Nizza furono le dichiarazioni di altri indigeni e il ritrovamento di turchesi incastonati nelle porte di alcuni villaggi. Il viaggio continuò senza intoppi fino a quando Estebanico non fu ucciso dagli Zuni a seguito di una lite. Da Nizza, che era comunque rimasto indietro di alcuni giorni rispetto al berbero, riuscì a giungere fino alle porte della fatidica città, ma preferì non entrarvi, limitandosi ad osservarla da una collina non troppo lontana.
Tornato a Città del Messico, Marco da Nizza riferì della storia di Cibola al vicerè, il quale incaricò poi Francisco Vazquez De Coronado di organizzare una spedizione militare per appropriarsi delle ricchezze della città, ovviamente accompagnato dal francescano. Una volta giunti però sul posto, De Coronado e i suoi uomini riscontrarono che non vi era alcuna città colma di preziosi e lastricata in oro, ma solo dei villaggi abitati dagli Zuni. Gli uomini di De Coronado, furiosi con il frate, cercarono di ucciderlo, e così De Coronado decise di rispedirlo in Messico con disonore.
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Più fortunato fu Juan Valiente, una sorta di conquistador in subappalto; era ra nato in Africa Occidentale ed ebbe un nome diverso fino al 1505, quando giunse come schiavo in Messico. Qui fu comprato da uno spagnolo di nome Alonso Valiente, il quale lo battezzò e lo portò in Spagna.
Nel 1533 firmò un contratto col proprietario in base al quale gli veniva concesso di cercare fortuna come conquistador, ed in cui si diceva che dopo quattro anni di profitti avrebbe dovuto tornare. Juan giunse in Guatemala partecipando alla spedizione di Pedro de Almagro. Andò in Cile con Almagro, unendosi poi alla compagnia di Pedro de Valdivia.
Valiente contribuì alla fondazione di Santiago del Cile nel 1546, e fu ricompensato con un ranch nei sobborghi. Quattro anni dopo ricevette una commissione e creò una propria famiglia con Juana de Valdivia, una schiava africana liberata, una volta appartenuta al governatore. In Cile fece una certa fortuna potendo vivere libero. Nonostante questo, Alonso Valiente non aveva dimenticato i propri interessi. Valiente gli concesse un nuovo insediamento e, nel 1541, mandò un nipote a negoziare con lo schiavo un prezzo per la liberazione delle proprietà.
Juan ricordava il suo passato da schiavo, ed avrebbe voluto pagare i debiti. A causa di un ufficiale corrotto, però, non fu in grado di farlo. Alonso Valiente insistette per recuperare il proprio denaro, ma era troppo tardi; Juan Valiente era morto ed i resti erano stati sepolti in Regione dell’Araucanía.
Tutto ciò cambiò a causa del vaiolo, che sterminò i poveri Taibo, già vessati dai coloni spagnoli, nei Caraibi: cosa che provocò una preoccupante carenza di mano d’opera nelle colonie spagnole, dato che gli hidalgos a tutto pensavano, tranne che a lavorare.
Per cui, per cercare di mettere una pezza al problema, i monarchi spagnoli concessero la possibilità di importare schiavi neri: inizialmente questi non vennero però dall’Africa, ma dalla Spagna. Si trattava infatti dei ladinos, gli schiavi di seconda e terza generazione, convertiti al cristianesimo. Il problema è che questo espediente, diminuiva la disponibilità di braccia nelle piantagioni iberiche. Di conseguenza, Carlo V autorizzò intorno al 1520 l’importazione diretta degli schiavi dall’Africa.
Ora, dato che per le finanze spagnole, le piantagioni di zucchero caraibiche avevano un ruolo minimale rispetto alle miniere del Perù e del Messico, il numero degli schiavi importati fu relativamente ridotto: solo nel 1650 il numero degli schiavi africani in America fu pari a quello in Europa.
Fu la colonizzazione francese e inglese a cambiare lo scenario…
September 2, 2019
Breve storia della Tratta Atlantica (Parte I)
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Contrariamente a quanto si pensa, anche da qualche presunto addetto ai lavori, il fenomeno della schiavitù e della relativa tratta dalle nostre parti non si interruppe con la fine del Medioevo: di fatto, l’Europa Mediterranea divenne uno dei nodi internazionale di un commercio che partiva dal Bilad as-Saqalibat, così chiamavano gli arabi l’insieme delle terre slave, ai paesi musulmani del Medio Oriente, dove sia i mercanti veneziani, sia quelli dele città campane, svolgevano un ruolo ruolo determinante e dove tra i principali mercati spiccavano Roma e Costantinopoli.
A latere di questo continuo flusso commerciale, una piccola quantità di schiavi, utilizzati come domestici e concubine, fungeva da status symbol nelle corti europee, in quella papale a Roma, presso l’arcivescovato di Magonza o nelle principali abbazie.
Schlette, ci dà un prezzo generico per il X sec. in area carolingia: 300 g d’argento che paragona a quello d’un cavallo che ne costava quasi altrettanto o d’una vacca, 100 g, o d’una spada, 125 g. Un altro autore, lo storico americano Y. Rotman, ci dà un prezzo (minimo) di 10 nomismi d’oro o due rotoli di seta in area bizantina nel IX sec. Una schiava negra invece costava soltanto 4 nomismi, sempre a Costantinopoli
I prezzi dati sopra sono comunque somme molto alte rispetto al tenore di vita del tempo della gente semplice (2 nomismi era il salario d’un intero anno di un uomo libero al lavoro dipendente!) che viveva dove questi schiavi venivano comprati e perciò solo un re o un signore di pari potenza economica poteva permettersi di averne o di usarne e soprattutto, che dato il costo, tendeva a trattarli con i guanti bianchi.
Con il passare dei secoli, le cose cambiarono progressivamente: da una parte, gli slavi, cristianizzati, non potevano più essere ridotti in schiavitù e furono sostituiti prima dai circassi, poi dai negri africani. Dall’altra lo sviluppo dell’industria saccarifera mediterranea, che sia per le piantagioni, sia per le relative manifatture, necessitava della presenza di una manodopera numerosa; questa nacque negli stati cristiani sorti in Palestina in seguito alle crociate (XI-XII secolo),poi, dopo la conquista araba di questi territori alla fine del XIII secolo, la produzione venne spostata a Cipro, Creta e in Sicilia.
Al contempo, ci furono anche i primi movimenti abolizionisti, che ottennero anche alcuni successi, come il Liber Paradisus con cui nel 1256 furono liberati a Bologna i servi della gleba e anche gli schiavi al cui traffico i comuni partecipavano.
La richiesta di manodopera servile in Europa però crebbe, a macchia di leopardo, con la Peste Nera. A fine Trecento, risultano 360 schiavi a Firenze, impiegati essenzialmente nei lavori domestici, 3000 a Roma, la maggior parte di proprietà pubblica e utilizzati nelle costruzioni edili, 10000 a Venezia e a Genova, in parte impiegati come rematori nelle galee e in parte nelle manifatture statali, 50000 nei latifondi siciliani, impiegati nella coltivazione.
Per gli effetti della fine dell’optimum climatico medievale, la coltivazione della canna da zucchero intorno agli anni Venti del Quattrocento, si trasferì nella Spagna orientale (Valencia e Malaga) e in Portogallo (Algarve). Come conseguenza, nella Penisola Iberica crebbe esponenzialmente la richiesta di schiavi, il cui commercio era monopolizzato dagli stati subsahariani. Le spedizioni geografiche di Enrico il Navigatore erano anche finalizzate a rompere tale monopolio, per rifornirsi direttamente alla fonte.
Commercio che fu ampliato dalla decisione spagnola e portoghese di esportare la canna da zucchero a Madeira, nelle Canarie e a Sao Tome; la produttività delle loro piantagioni fu tale da affossare definitivamente l’industria saccarifera mediterranea.
Il sistema di piantagione, e in particolare quello della canna da zucchero, costituisce il migliore esempio del processo di “europeizzazione” coloniale, ossia del trapianto di piante e animali del Vecchio Mondo in un ambiente in cui poterono prosperare e produrre grandi profitti. Le connessioni tra gli arcipelaghi atlantici e il Nuovo Mondo sono chiare: le Canarie, Madeira e le Azzorre furono i laboratori dell’imperialismo europeo e le lezioni apprese in queste terre influenzarono la storia mondiale per i secoli a venire. In più diedero orgine a una tratta atlantica degli schiavi, che anticipò di almeno sessant’anni la scoperta dell’America
Il mercato degli schiavi a Roma nel Medioevo, di Nicola Cariello
G. Boulanger, “Il mercato degli schiavi” (1886)
«Proprio in quel tempo» si legge nel “Liber Pontificalis” «accadde che giunsero a Roma parecchi mercanti veneziani, i quali organizzando fiere e mercati si misero ad acquistare una quantità di schiavi, sia maschi sia femmine, con l’intenzione di condurli in Africa presso il popolo pagano». Questo accadeva tra il 747 e il 748, all’epoca di papa Zaccaria, “vir mitissimus atque suavis” nato in Calabria ma di origine greca, salito al soglio pontifico nel 741. Ultimo dei papi greci, dotato di solida cultura (aveva tradotto in greco i “Dialoghi” di Gregorio Magno) e di un forte ascendente personale, Zaccaria fu un abilissimo diplomatico e un accorto uomo politico. Teoricamente il ducato romano, esteso da “Cemtumcellae” (Civitavecchia) fino a Terracina, era una provincia militare dell’Impero bizantino, come Napoli e Venezia sotto la giurisdizione di un duca che a sua volta dipendeva dall’esarca di Ravenna. In…
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