Alessio Brugnoli's Blog, page 99

August 20, 2019

Tamburello e sciamanesimo

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Può sembrare strano, ma le attestazioni del tamburo a cornice in Magna Grecia sono abbastanza tarde: risalgono infatti al V secolo a.C. soprattutto in Puglia e in Sicilia, con minore intensità in Campania e in Calabria. Forma, dimensioni relative (quali si possono ricavare nelle arti figurative dal rapporto con l’immagine del suonatore), decorazioni sulla cornice e sulla membrana appaiono simili a quelle odierne, mentre solo sporadicamente – e in particolare nelle attestazioni apule – paiono trovarsi i cimbali affissi in finestre aperte sulla cornice, talvolta sostituiti (o accompagnati) da campanelli e/o sonaglini.


In particolare, tali rappresentazioni sono connesse a una sorta di ex voto, consistenti in miniature in bronzo, dedicate alle divinità ctonie e a Demetra, per ricordare il rito dei Misteri Eleusini, in cui con il suono del tamburo a cornice si imitava l’invocazione di aiuto di Persefone trascinata via sul cocchio di Ade.


Tale relazione è documentata anche dalle statuette fittili di suonatrici di tamburello, ampiamente diffuse nell’Italia meridionale e in Sicilia, in particolare tra il IV e il III sec. a.C che rappresentavano probabilmente delle sacerdotesse.


Quest’ambito, però fa pensare come la dimensione religiosa del tamburello sia assai più arcaica: il culto di Demetra è infatti una sorta di fossile vivente del complesso mondo spirituale minoico e miceneo, caratterizzato da una spiritualità di tipo sciamanico.


Così, il ritmo del tamburo a cornice, assieme alla danza sincopata, aiutava il fedele a entrare in trance, per fondersi nel Trascendente, il Numen dei latini, ed esplorare gli Abissi del proprio Io. Tale approccio al Sacro, per suo aspetto eversivo, che sfugge a ogni tentativo di vincolarlo a norme e dogmi, e per la sua dimensione individuale, in cui il rapporto con l’Assoluto è diretto e non mediato da strutture ecclesiastiche, è stato progressivamente emarginato.



Eppure, proprio perchè è legato alle radici della nostra cultura, è sopravvissuto, in forme diverse, in tutto il Mediterraneo. Mi limito a ricordare tre esempi: il primo è esicasmo, la pratica ascetica diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto.


«Esicasta», scrive Giovanni Climaco, «è colui che cerca di circoscrivere l’incorporeo nel corporeo… La cella dell’esicasta sono i limiti stessi del suo corpo: al suo interno c’è una dimora di sapienza»


E questo astrarsi dal sè cosciente avviene tramite la ripetizione continua di una breve preghiera, accompagnata da passi di danze e dal suono ritmato del tamburello.



Il secondo è la straordinaria esperienza dei Dervisci danzanti, fondati dal grande mistico Rumi, colui che scrisse


“Non giudeo sono, nè cristiano, nè ghebro o musulmano!

Nè orientale nè occidentale.

Non di Persia o Babilonia, nè del Khorosan io sono!

Il mio luogo è l’Oltrespazio, il mio Segno è il senza Segno,

Uno cerco, Uno conosco, Uno canto, Uno contemplo!

Dopo la morte, non cercate la tomba mia nella terra,

nel petto degli uomini santi è il mio sepolcro”




Il terzo, probabilmente il più vicino al significato arcaico del rito, è il nostro tarantismo, in cui la musica, la cromoterapia e la danza provocavano la catarsi delle tensioni e pulsioni distruttive presenti nelle persone e nella società rurale della Puglia

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Published on August 20, 2019 14:05

August 19, 2019

Callimaco di Cirene

Studia Humanitatis - παιδεία


di I. BIONDI, Callimaco, in Storia e antologia della letteratura greca. 3. L’Ellenismo e la tarda grecità, Messina-Firenze 2004, pp. 155-167.











Callimaco: la voce più significativa della poesia ellenistica





Il Bello. Ritratto funebre, tavola lignea dipinta, II sec. d.C. ca. dal Fayyum. Moskva, Puškin Museum.



 



Callimaco nacque a Cirene, colonia greca di Thera, a nord della Grande Sirte, negli anni fra il 315 e il 310 a.C., da famiglia aristocratica. I suoi si vantavano di discendere dal fondatore stesso della città, un figlio di Polimnesto, il quale aveva mutato il proprio nome, Aristotele, in quello di Batto, che nel dialetto libico locale significava «sovrano». Il padre di Callimaco portava lo stesso nome dell’antico capostipite; e proprio negli anni in cui nacque il poeta, la famiglia godeva di grande fama e prosperità grazie all’appoggio di Ofella, generale del re Tolemeo I, che…


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Published on August 19, 2019 23:38

Claudio e la Cittadinanza

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Ritornato a Roma, riprendo a parlare del romanzo breve che ho appena terminato di scrivere, il quale a seconda delle decisioni del curatore, potrà essere pubblicato in un’antologia, oppure seguire altre strade.


Come vi accennavo, il suo protagonista è Claudio: uomo coltissimo, tanto furbo da sopravvivere alle faide della famiglia Giulio Claudia, che fanno impallidire quelle de Il Trono di Spade, ottimo amministratore, mal sopportato dai radical chic, capeggiati dal buon Seneca, clamoroso esempio del contrasto tra Scrittura e Vita.


Seneca affermava ipocritamente che il denaro non rendesse felici


quel male che aveva reso penosa la povertà, e che rende altrettanto penosa la ricchezza, sta nell’animo stesso


ma inseguì i soldi e divenne ricchissimo. A differenza di lui, Claudio era assai meno snob e diciamola tutta, assia più moderno di tanti politici contemporanei: ad esempio, nel 48 d.C. si tenne in Senato un dibattito sull’ammissione al rango senatorio di alcuni maggiorenti della Gallia Comata, cosa assai poco gradita alle ologarchie sovraniste dell’epoca..


Claudio, invece, era a favore e il suo intervento, divennel’occasione per un excursus storico sul rapporto tra Roma e gli alleati e sui benefici ricavati dall’estensione dei diritti di cittadinanza. Ecco il testo, rielaborato dal buon Tacito


23 Sotto il consolato di A. Vispanio e L. Vitellio, poiché si discuteva sull’integrazione nel senato di nuovi membri, e poiché i più nobili abitanti della Gallia detta Comata, che avevano già prima ottenuto trattati di alleanza e il diritto di cittadinanza romana, chiedevano la facoltà di esercitare i diritti politici in città e di essere eletti, le opinioni al riguardo erano molte e diverse. E con strategie diverse si cercava di ottenere l’appoggio del principe: c’erano quelli che insistevano sul fatto che l’Italia non era così mal ridotta da non essere in grado di fornire il senato alla sua capitale. Dicevano che un tempo gli autoctoni erano stati sufficienti per governare i popoli dello stesso sangue, e che non ci si doveva pentire degli usi della vecchia repubblica: era anzi possibile ricordare esempi di gloria e virtù, forniti dal carattere romano, secondo gli antichi costumi. Non era forse già abbastanza grave il fatto che i Veneti e gli Insubri avessero fatto irruzione nella curia, senza che con una massa di stranieri si facessero entrare in senato dei, per dir così, prigionieri? Che carriera politica restava per i residui membri della nobilitas, o per un povero senatore di origini laziali, se mai ce n’era ancora qualcuno? Tutti i posti li avrebbero occupati quegli arricchiti, i cui nonni e bisnonni, alla guida di tribù ostili, avevano fatto strage con ferro e violenza dei nostri eserciti, e avevano assediato ad Alesia il divino Giulio. Per non parlare che delle vicende recenti: cosa sarebbe accaduto se si fosse risvegliato il ricordo di quelli che erano morti in difesa del Campidoglio e dell’acropoli della città, abbattuti dagli attacchi proprio di costoro? Si accontentassero dunque di esser considerati cittadini romani: non si dovevano avvilire le insegne dei padri, gli onori delle magistrature.


24. Per nulla turbato da queste opinioni, e altre di questo genere, il principe immediatamente tenne un discorso e, convocato il senato, cominciò così: “I miei antenati, di cui il primo, Clauso, di origine sabina, fu accolto nella cittadinanza romana e fra le famiglie patrizie, mi esortano ad adottare simili decisioni nel governo dello stato, portando qui quanto di egregio vi sia stato altrove. Infatti so bene che i Giulii vengono da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tusculo, e, per non considerare solo stirpi antiche, altri sono stati chiamati in senato dall’Etruria, dalla Lucania e da ogni parte d’Italia. Infine l’Italia stessa ha allargato i suoi confini fino alle Alpi, così che non solo gli uomini, presi singolarmente, ma anche le terre, i popoli, crescessero insieme nel nostro nome. Da quando, fatti entrare nella cittadinanza i Transpadani, si è portato aiuto al nostro dominio indebolito con l’aggiunta delle valide forze dei più validi fra i provinciali, col pretesto di fondare colonie militari in tutto il mondo, godiamo in patria di una stabile pace e siamo prosperi nelle vicende internazionali. Forse ci siamo pentiti che siano venuti qui i Balbi dalla Spagna, o uomini non meno nobili dalla Gallia Narbonese? Rimangono i loro discendenti, e non ci sono inferiori nell’amore verso questa patria. Cos’altro fu rovinoso per Spartani e Ateniesi, benché fossero potenti sotto il profilo militare, se non il fatto che tenevano lontani i vinti, trattandoli da stranieri? Invece il nostro fondatore, Romolo, fu così saggio da considerare moltissimi popoli nello stesso giorno prima nemici, poi concittadini. Abbiamo avuto re stranieri. Affidare le magistrature ai figli dei liberti non è consuetudine recente, come molti ritengono ingannandosi, ma era d’uso anche per gli antichi. Ma abbiamo combattuto contro i Senoni: Volsci ed Equi, di sicuro, non hanno mai combattuto contro di noi! Siamo stati fatti prigionieri dai Galli: ma abbiamo dato ostaggi agli Etruschi e abbiamo subito il giogo dei Sanniti. E tuttavia, se si ripercorrono tutte quante le guerre, nessuna è durata meno di quelle contro i Galli: e dopo la pace è stata continua e sicura. Ora, assimilati i nostri costumi, attività, parentele, ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, piuttosto che, separati da noi, se le tengano per loro. Senatori, tutto ciò che ora ha antichissima tradizione, un tempo fu nuovo. I plebei hanno ottenuto l’accesso alle magistrature dopo i patrizi, dopo i plebei i Latini, e dopo i Latini tutti gli altri Italici. Anche la decisione di oggi un giorno sarà antica, e quello che oggi legittimiamo attraverso esempi del passato, sarà considerato un esempio nel futuro”.

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Published on August 19, 2019 13:24

Çatalhöyük; what we have recently learned about one of the key early (7100–5950 calBC) farming sites in the Old World

Novo Scriptorium


In this post we present extracts from some very interesting recently published papers on Çatalhöyük, Turkey, one of the key early farming sites in the Old World.


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Published on August 19, 2019 12:32

Dating the eruption of the Thera volcano

Novo Scriptorium


The eruption of the Thera volcano was an event that changed/re-shaped the Aegean and the entire Eastern Mediterranean. Specialists always wanted to know the exact time this disaster took place, as it would be a very helpful tool in dating archaeological sites of the same era with greater accuracy.


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Published on August 19, 2019 12:31

Mesolithic findings from the Aegean suggest a ‘polycentric neolithization’ in the Eastern Mediterranean – Settlement at Maroulas site on Kythnos island; the earliest identified so far in the Aegean area, contemporaneous to the PPNA of the Near East

Novo Scriptorium


This post is an almost complete reproduction of the enlighting scientific contribution of archaeologist A. Sampson (2014) titled “The Mesolithic in the Aegean“, in Manen C., Perrin T. & Guillaine J.et al. (eds), “The Neolithic transition in the Mediterranean“, Errance, 193 -212).


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Published on August 19, 2019 12:26

August 12, 2019

Moldoviţa. La scena dell’assedio di Costantinopoli


Il monastero e la chiesa di Moldoviţa furono costruiti nel 1532 per iniziativa del principe moldavo Pietro Rareş, figlio di Stefano il Grande. Il sito si trova isolato tra i monti e le foreste della Bucovina, nella parte settentrionale della Moldavia. Come gli altri monasteri della regione, Moldoviţa si presenta come una fortezza quadrata, dotata di alte mura di difesa e torri di guardia. La chiesa del monastero sorge al centro del campo interno, mentre i locali del monastero sono addossati alle mura. Assieme alle architetture è soprattutto la decorazione pittorica interna ed esterna, realizzata nel 1537, a rendere celebre questo monastero.



Il fianco meridionale della chiesa con l’affresco dell’assedio



Un tema caro alla tradizione moldava è la raffigurazione dell’assedio di Costantinopoli, visibile sul fianco meridionale esterno. L’artista moldavo riesce a descrivere la scena della città assediata da terra e dal mare, con ampio dispiego di particolari.



Costantinopoli…


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Published on August 12, 2019 06:24

La Giudecca di Reggio


Tornando a parlare degli ebrei di Reggio, la documentazione sulla loro presenza, diviene assai dettagliata tra il 1127 e il 1511 e ci permette di individuare l’antica Giudecca, il quartiere in cui vivevano.


Questa sorgeva in prossimità e all’esterno della cinta muraria, a nord dell’antica città, dove attualmente insiste la zona compresa tra la via Biagio Camagna, il corso Garibaldi e la via Fata Morgana. Si ha testimonianza che il quartiere era sede di una sinagoga e di una scuola ebraica. La Giudecca, essendo all’esterno della cinta muraria, era collegata con la costa attraverso la “Porta Anzana”. L’espansione del quartiere è stata lenta nel tempo anche se, in determinati periodi storici, ha conosciuto una forte espansione edilizia e demografica, cosa che la portò a pagare un particolare tributo al vescovo di Reggio, la cosiddetta “morkafa”


Se con la dominazione normanna Rhegion, la cui economia era direttamente connessa a quella di Costantinopoli, pur non entrando in crisi, era in una sorta di stasi; le cose cambiarono con Federico II, il quale promulgò numerose leggi che consentirono la crescita e lo sviluppo in città delle industrie della seta, del cotone, della canna da zucchero, della carta e numerose tintorie.


Cosa che favorì notevolmente la comunità ebraica locale: da una parte, i suoi membri svolsero il ruolo di cambia valute e di prestatori di denaro, per favorire questa sorta di boom manufatturiero. Dall’altra portarono in città la coltura dei gelsi, la manifattura della seta e successivamente l’arte di colorare i tessuti con l’indaco. I loro prodotti venivano esposti e venduti non solo nei principali mercati del Regno, ma anche nel resto d’Italia, in Francia, Spagna e in Africa settentrionale.


Il successo economico, però, incrementò le invidie da parte dei cristiani: così Federico II, per tenere a bada le lamentele dei suoi sudditi, emise un decretale, in cui, pur permettendo agli ebrei di continuare a mantenere le proprie tradizioni quali l’osservanza del sabato e la celebrazione della Pasqua, li costringeva a indossare abiti paricolari, identificabili come una sorta di cittadini di serie B.


Nonostante questo, gli ebrei arrivano ad essere circa il 10% della popolazione reggina: gli angioini, consapevoli del loro ruolo economico, cercarono di progeggerli alla meno peggio. Ad esempio, per la questione sinagoga, che i cristiani locali volevano demolire, per farla ricostruire all’interno della Giudecca.


La situazione venne affrontata dagli angioini in modo diplomatico: sia se i Cristiani avessero voluto la demolizione, sia se avessero voluto utilizzare l’edificio a loro uso, in ogni caso, avrebbero dovuto corrispondere agli ebrei un compenso adeguato per consentire la sua riedificazione all’interno del loro quartiere.


Nel 1357 istituirono poi la “fiera franca di agosto”, legge promulgata per agevolare i commerci con gli altri stati. In città iniziarono a confluire molti mercanti pisani, lucchesi e napoletani, per l’acquisto della seta e di altre mercanzie, di cui gli Ebrei detenevano il monopolio. Per far fronte all’aumentata attività commerciale locale sorsero in prossimità della “Porta Dogana” della città molti depositi di merci.


Testimonianza di tale prosperità, è la nascita di alcune tipografie ebraiche nella Giudecca: in una di queste, Avraham ben Garton ben Yishaq


In Reggio città che è posta vicino il mare, nel territorio della Calabria, dove è arrivato a seguito della peregrinazione, nell’anno della creazione del mondo 5235, giorno decimo del mese di adar secondo il computo di Abraham


stampò Perush ‘al ha Torah ‘Commento al Pentateuco’, scritto dal grande saggio RA.SH.I., acronimo di Rabbi Shelomoh ben Yishaq o Shelomoh ha-Yarchi, il primo incunabulo di cui abbiamo una datazione. Il decimo giorno del mese di Adar dell’anno 5325 dell’era ebraica corrisponde infatti al 18 febbraio dell’anno 1475 del calendario cristiano.


Inoltre, nell’edizione del 1475 Abraham Garton creò ed usò, per la prima volta, un carattere basato su un semicorsivo manuale di tipo sefarditico. È questo stesso tipo di carattere che pochi anni dopo, quando il commentario e il testo furono incorporati in una pagina, sarebbe stato usato per distinguere il commentario rabbinico dal testo biblico. In seguito, questo tipo di carattere sarebbe stato conosciuto come “corsivo Rashi”.Nel 1483 Elasar Parnas stampò poi il commento medico di Averroè agli Analytica postyeriora di Aristotele e in seguito il Lilium medicinae di Bernardo di Gordon.


Purtroppo, la ricchezza economica e la crescita culturale, aumentarono le invidie, fomentate prima dal governo aragonese, poi da quello spagnolo, nonostante, cosa paradossale, le proteste ecclesiastiche: ad esempio papa Bonifacio IX, il 26 giugno 1403, dietro richiesta degli Ebrei di Calabria, esortò i vescovi a difenderli dalle vessazioni degli inquisitori e del braccio secolare, cosa che fecero con molto impegno.


Il primo ad aprire la strada alla totale discriminazione fu Alfonso d’Aragona, che, per fare cassa, si inventò una serie di assurde prammatiche, equivalenti alle odierne ordinanze o decreti, con le quali si stigmatizzava la “pravità giudaica”, ordinando comportamenti ed obblighi onde evitare “ogni inconveniente che ne potesse succedere”, pena, per i trasgressori, del versamento di determinate once d’oro.


Il 20 aprile 1509, la situazione si era così arroventata che si emanò una prammatica con cui vennero cancellati d’autorità tutti i crediti che gli Ebrei vantavano dai cristiani; infine, Ferdinando d’Aragona, replicando quanto fatto in patria e in Sicilia, firmò il 25 luglio 1511 il Regio Decreto che, senza alcuna proroga, scacciò gli ebrei dalla città.Il quartiere della Giudecca venne affidato in concessione ai Cristiani mentre il rimanente ricco patrimonio fu venduto all’incanto.


Dove si diressero, gli ebrei reggini ? Per la maggior parte, nell’Impero Ottomano…Una delle mete fu la città di Arta nei pressi dell’isola di Corfù, dove esistevano quattro comunità distinte: quella di Corfù, quella di Puglia, quella di Calabria e quella di Sicilia. Menachem Del Medico, il rabbino della comunità Calabria, nel 1570 si trasferì a Safad, in Galilea,la città sacra per i cabalisti,  a causa dei contrasti sorti nella sua comunità.


Qui gli italiani avevano costituto una comunità chiamata Italia e tra i suoi maggiori esponenti vi era un ricco mercante di spezie: Sabbatai ha Cohen Siciliano. Ma il posto d’onore tra gli italiani di Safed spetta – senza ombra di dubbio – a Chaim Vitale Calabrese (1543-1620) eminente cabalista, nato a Safed da padre reggino. Egli si trasferì a Damasco, dove divenne rabbino capo per poi tornare a Safed. Il figlio Samuel, dopo aver vissuto a Damasco, sarà rabbino a Il Cairo tra il 1666 e il 1678, a lui succederà il figlio Mosè


A Salonicco, infine, c’era una sinagoga chiamata Calabria, che dopo la metà del 1500 si divise in tre: Calabria Jashàn (dopo il 1553 fu nota come Nevè Shalom Dimora di Pace), Chiana e Calabria Chadàsch detta anche Ishmael.

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Published on August 12, 2019 05:20

August 11, 2019

First New World inhabitants had strong ties with Europe, study suggests – Jomon and Ainu from Japan show morphological similarities with European populations

Novo Scriptorium


Here we present extended parts of the very interesting paper titled “Old World sources of the first New World human inhabitants: a comparative craniofacial view“, by

C. Loring Brace et al.


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Published on August 11, 2019 09:04

Ancarano

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Ancarano è un borgo fortificato in provincia di Teramo, situato sulla collina che si trova tra le valli del fiume Tronto e del fiume Vibrata, dove si può ancora riconoscere il profilo delle antiche mura che lo circondavano, rimpiazzate nel tempo da edifici più recenti.


Inizialmente, il suo sito coincideva con una stazione di posta del cursus publicus, da cui derivò probabilmente il nome. Ai tempi di Carlo Magno, vista la sua posizione strategica, che permetteva il controllo di una strada che dai Monti Sibillini conduceva prima sul fiume Tronto, poi alla via Salaria, il borgo fu fortificato, cun una cinta muraria che probabilmente doveva essere munita di torrioni quadrati.


Di tutto ciò, rimangono intatte le due peculiari porte di ingresso, la “Porta da Monte” a occidente e la “Porta da Mare” a oriente, costruite tra XIV e XV secolo, sono state probabilmente preservate dalla razzia del 1557 ordinata dal viceré Alvarez di Toledo, duca d’Alba, per tenere distanti dal Regno gli eserciti franco-pontifici, che danneggiarono gravemente le mura. Fino al 1818 è rimasto sotto il Vescovato di Ascoli, nello Stato Pontificio. Nel 1852 passò sotto il controllo del re di Napoli e pochi anni dopo all’Italia.


La “Porta da Monte”, edificata coi mattoni, collocata sul fianco ovest della cintura muraria, è contraddistinta da un arcata, incorniciata da una cornice in mattoni risalente al restauro del 1826; nella parte sovrastante, conclusa dal tipico archetto su mensole sporgenti verso l’esterno, destinato a respingere dall’alto gli assalitori, si possono tuttora vedere le aperture dove venivano ancorate le catene utilizzate per alzare il ponte levatoi


La “Porta da Mare”, posta sul lato est delle mura, ha conservato il varco ad arcata con puntale e sostegni verticali di pietra nella muratura di mattoni, e termina con la stessa struttura architettonica della “Porta da Monte”. Sulla parte che si affaccia all’interno del borgo, restaurato di recente, il varco è sormontato da una volta a semicerchio, inquadrato da pietra lavorata.


Da notare è l’epigrafe situata sopra la cornice dell’arcata della “Porta da Monte”, scolpita su una lastra di pietra calcarea, in onore del vescovo ascolano Giulio II Gabrielli di Roma; durante il suo primo anno di episcopato, il 1642, la porta venne restaurata e vennero rimesse in funzione sia le serrature che le chiavi. Sempre a Giulio II è riferito l’emblema che sovrasta l’incisione, il quale è affiancato da un secondo stemma, che appartiene ai conti Roverella di Ferrara, che furono vescovi di Ascoli e signori di Ancarano; di questa insigne dinastia faceva parte il vescovo Lattanzio (1552-1566), che collaborò alla riedificazione della piccola città dopo l’assedio del 1557. La stessa insegna gentilizia è collocata sopra alla cornice dell’arco della “Porta da Mare”.


Esiste poi una terza porta, molto più recente e dalla storia assai bislacca, chiamata ovviamente Porta Nuova,realizzata nel 1904 in un varco fatto apposta all’interno di un’abitazione privata per dar modo alla conduttura dell’acqua potabile di servire le abitazioni all’interno delle mura antiche. Nel 1905 il passaggio divenne d’uso pubblico così che gli abitanti iniziarono ad usarlo come scorciatoia, anche se era difficile da praticare non essendo stato adibito e sistemato per questo scopo; per questo, nel 1922, fu realizzata un’apposita scalinata…


Tra le cose da visitare, vi è nella chiesa parrocchiale, costruita negli anni Cinquanta, che conserva all’interno una statua in legno, posta tra due angeli in maiolica, dedicata alla Madonna della Pace, opera attribuita a Silvestro da L’Aquila, uno dei principali scultori rinascimentali dell’Abruzzo. L’altare maggiore custodisce un’urna dorata del 1759, nella quale sono le reliquie di San Simplicio, patrono del paese. Nella sagrestia ci sono altre testimonianze storiche come un fregio di epoca romana, statue in legno del 1700, stemmi dei vescovi.


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Appena fuori l’antica cinta muraria c’è la Chiesa della Madonna della Misericordia, completamente in laterizio. L’edificio, che venne costruito nel 1628 durante il vescovato di Sigismondo Donati da Correggio su progetto dell’architetto pesarese Giovanni Branca (1571-1645), ha pianta ottagonale sormontata da una cupola a spicchi che è poggiata su un alto tamburo e che termina con una lanterna. L’ingresso in chiesa avviene da un alto portale in travertino specchiato ad architrave piano coronato da un timpano. Al di sopra di questo una lapide che ricorda l’inaugurazione della chiesa e, ancora più su, uno stemma con scudo ovale con leone rampante e stella ad otto raggi appartenente al Vescovo che fece sì che la chiesa venisse eretta. Un portale identico, ma tompagnato, si ripete sul lato adiacente di sinistra. Dalla parte superiore della parete opposta a quella del portale si erge un piccolo campanile a vela per una campana.


Caratteristico è anche Palazzo Bagaglini, di stile liberty, recentemente venduto dall’amministrazione comunale.

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Published on August 11, 2019 02:49

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Alessio Brugnoli
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