Alessio Brugnoli's Blog, page 103

July 21, 2019

La Basilica di Santa Maria del Colle a Pescocostanzo (Parte II)








Perché visitare la Collegiata di Pescocostanzo ? Forse la motivazione più importante è data dalla descrizione presente sul portale della regione Abruzzo, che ne dettaglia tutte le peculiarità artistiche


Dalla posizione di rilievo in cui si trova, la chiesa sembra sorvegliare il paese ai suoi piedi attraverso le due imponenti facciate. Esse ricalcano il tipo abruzzese a terminazione orizzontale di origine tre-quattrocentesca, con terminazioni laterali rimarcate da lesene sporgenti in pietra in contrasto con il fondo ad intonaco. La facciata laterale, a nord, presenta uno schema a due ordini di aperture ricorrente in molte chiese pescolane, che vede al centro un portale tardomedievale sormontato da una finestra ad ovale e sui lati due ampie finestre rettangolari, di semplice fattura. Il portale deriva dai modelli delle principali chiesa aquilane della fine del Duecento. Esso è costituito da tre ordini di cornici semicircolari. A concludere la composizione è una cornice più grande, aggettante e decorata con rosette e girali di acanto. La facciata principale è più complessa. Essa ripete lo schema tripartito con portale e rosone al centro e finestroni rettangolari laterali, a carattere spiccatamente rinascimentale, ma in aggiunta presenta due finestre ovali di piccole dimensioni poste poco più in alto del rosone e simmetricamente ad esso. Il portale, datato 1558, è diviso in due ordini; quello in basso è costituito da due lesene scanalate con capitelli corinzi, quello in alto, di minore altezza, presenta due lesene che chiudono una lunetta con arco. Un’alta trabeazione in alto chiude e definisce il portale.


La collegiata, in linea con la maggior parte delle chiese pescolane, ha una struttura a pianta longitudinale a cinque navate di matrice rinascimentale, su cui si innestano gli interventi barocchi dei secoli XVII e XVIII. Si tratta di operazioni a carattere prevalentemente decorativo più che costruttivo. Unica eccezione è l’aggiunta della cappella del SS. Sacramento. E’ l’unica struttura barocca di grande originalità e si trova in corrispondenza della terza campata in prossimità del presbiterio. Posta in posizione frontale rispetto all’ingresso (quello della facciata laterale), ha la funzione di dare grandiosità allo spazio oltre che aumentarne la luminosità. Realizzata nell’ultimo decennio del Seicento presenta una pianta rettangolare con angoli smussati e copertura a cupola ovale che poggia su quattro archi in cui si aprono altrettanti finestroni. La cappella contiene tre altari, di cui uno in legno e due in marmo. Quello situato sulla parete di fondo, dedicato a Santa Maria del Colle, è in marmo ed è composto da un dossale realizzato tra il 1568 e il 1569 da maestri lombardi e da una mensa realizzata da maestranze pescolane, nel corso del Settecento. Il dossale inizialmente parte dell’altare maggiore della chiesa venne poi trasferito nella cappella in seguito alla traslazione da Roma nella chiesa di Pescocostanzo delle reliquie di San Felice. L’intero dossale è totalmente scolpito senza lasciare alcuna parte di superficie libera. Al centro è un bassorilievo raffigurante l’Assunzione della Vergine circondata da nuvole e putti alati. Incerto è l’autore dell’altare in marmo per il quale sono stati proposti i nomi di Panfilo Rainaldi e Nicodemo Mancini. Certi sono i termini cronologici che vanno dal 1751, inciso ai lati dell’altare, e 1754, sulla prima nicchia a sinistra. Cinquecentesco è anche l’altare del Rosario, in legno, che si trova a destra dell’ingresso. E’ costituito da una base marmorea su cui si innesta un’edicola in legno contenente una grande pala raffigurante la Madonna del Rosario, realizzata nel 1580 dal pittore aquilano Paolo Cardone. Ampia è la decorazione a stucco che arricchisce l’intera cappella. Si tratta di figure di Profeti e di Virtù attribuite alla mano di due artisti lombardi: Gian Battista Giani e Francesco Ferradini, che collaborarono anche alla realizzazione dell’Assunzione sulla parete di fondo dell’abside. Coeva all’edificazione della cappella è la decorazione della volta ad opera di Francesco Antonio Borsillo da Larino e poi rimaneggiata nel 1721 da Giambattista Gamba. A proposito di questo intervento qualcuno ne parla in termini di restauro altri come di un vero e proprio rifacimento reso necessario dal terremoto del 1706 cosicché del lavoro originario non resta quasi nulla. Il tema trattato è La Gloria del Paradiso che viene svolto in piena aderenza alla conformazione architettonica della cupola. Strati di soffici nuvole su cui si adagiano schiere di figure e di santi si susseguono in un andamento a spirale che si restringe verso l’alto. Al centro è l’immagine del Cristo benedicente circondato da angeli che trasportano la croce. L’intento dell’autore era quello di dare allo spazio un’apertura verso il cielo, verso l’infinito, che non trova espressione nella realizzazione delle figure troppo definite in contorni netti che le radicano nel mondo terreno.


A chiudere il cappellone è lo splendido cancello in ferro battuto progettato da Norberto Cicco, architetto e scultore pescolano, realizzato dal fabbro Santo di Rocco tra il 1699 e il 1705 e completato nel 1717 dal nipote Ilario di Rocco. Esso poggia, ai lati, su una balaustra in marmo di stile fanzaghiano e, nella parte centrale corrispondente all’ingresso, sul pavimento. Si compone di tre parti divise da fasce di legno dorato: la cancellata, il fregio e il fastigio. La parte bassa è costituita da trentatrè barre di ferro battuto a sezione quadrata con basi, capitelli ed elementi in bronzo. La parte inferiore delle due ante presenta un motivo di balaustrini che ricalca quello della balaustra laterale in marmo. Il fregio svolge una narrazione sul piano orizzontale. Al centro si trova, al di sotto di un tralcio, un putto disteso su un cuscino mentre abbraccia un cagnolino. Ai lati due scene simmetriche ed uguali con due figure mostruose dal busto umano che sorreggono due piccoli mostri marini. Dalle code di queste due figure si diramano tralci vegetali su cui si arrampicano dei putti che sembrano voler sfuggire all’agguato di due scimmie, anch’esse intrecciate nei girali. Il fastigio ha una composizione triangolare e simmetrica che parte dalle estremità con due anfore contenenti un tralcio fiorito. Si articola in quattro ordini. Il primo vede al centro la lotta tra due demoni antropomorfi dotati, a differenza di quelli del fregio, di arti inferiori e due leoni. Lateralmente si sviluppa un ampio motivo di girali fioriti. Il secondo ordine vede due angioletti scherzare con due figure femminili alate, fitomorfe nella parte inferiore del corpo, che possono essere identificate come due angiolesse. Al terzo ordine due angeli sostengono un ostensorio e con le braccia chiaramente invitano all’adorazione. Infine, in alto, trionfa l’ostensorio incoronato. L’idea che la rappresentazione vuole esprimere è la lotta tra il bene e il male e la conseguente vittoria sul male che, in termini strettamente cattolici, si può rendere nella lotta dell’uomo col peccato che viene vinto dalla forza del Sacramento. L’ostensorio rappresenta la Divinità, il bene, che riesce ad affermarsi sulle forze del male, demoni, mostri marini, fiere in continua contesa con le forze del bene, il bimbo, i putti, gli angeli. Un programma iconografico ricco e originale che va riferito alla fervida immaginazione di Norberto Cicco e alla realizzazione pratica di due maestri del ferro, Santo e Ilario di Rocco. Al primo va riferita quasi tutta la composizione, al secondo i due vasi fioriti ai lati del fastigio, l’ostensorio ed alcune figure di angeli. Tra il progetto e l’esecuzione c’è uno scarto nel senso di una semplificazione. Il materiale duro come il ferro non permetteva la realizzazione di linee morbide o curve presenti nell’ideazione del progettista, così la realizzazione si presenta più scarna e più vuota del progetto ma ugualmente efficace. La straordinarietà dell’opera ha dato luogo a racconti e leggende popolari che hanno tentato di giustificarne la realizzazione. Si narra che i fabbri utilizzassero una particolare erba della Maiella per rendere il ferro più morbido e malleabile per la lavorazione e che, non volendo rendere noto il loro segreto, non vollero mai discepoli o assistenti. Addirittura Ilario si faceva aiutare dalla moglie solo perché cieca.


Abbiamo detto che la maggior parte degli interventi barocchi nella chiesa pescolana sono di tipo decorativo. Partendo dall’ingresso la prima opera settecentesca che incontriamo è il battistero. A sinistra della gradinata interna si apre un piccolo vano rettangolare coperto da una cupola ovale e chiuso da un cancello in ferro battuto. Questo fu realizzato probabilmente da Ilario di Rocco nel 1753 e si ispira ai caratteri rococò che gli conferiscono un tono elegante e raffinato. Al centro dello spazio interno spicca il fonte battesimale, un tempietto circolare in marmo, realizzato da Filippo Mannella intorno al 1753 con marmi di provenienza napoletana. La base, costituita da un tripode, regge un fonte circolare costituito da intarsi marmorei colorati e arricchito da putti alati tutt’intorno. Sulla sommità è posto un gruppo scultoreo in legno policromo raffigurante il Battesimo di Cristo. Ai lati della gradinata interna sono due acquasantiere di grande originalità e creatività realizzate nel 1621-22. Due sono gli elementi componenti: la vasca in marmo e l’aquila in bronzo. Da notare è l’accostamento di due materiali diversi e di due oggetti di natura diversa, un essere animato e naturale e un elemento inanimato e creato dalla mano dell’uomo. Sicuramente all’opera hanno partecipato due specialisti: l’artista-ideatore e l’esecutore. Dei due non abbiamo certezza circa l’identificazione.


Un’analisi attenta dei caratteri permette di ipotizzare che l’artista fosse Cosimo Fanzago. A lui riconducono il naturalismo espressivo, l’originalità dell’idea e un’analogia con il pulpito degli Evangelisti nel duomo di Milano. Ulteriore conferma di quest’ipotesi è data dalla presenza di questo motivo in area napoletana, dove è presente in fontane, lavabi, altari e nelle acquasantiere del San Ferdinando. Il motivo dell’aquila portante ha avuto particolare fortuna nell’Italia meridionale; esso torna nella certosa di Padula, nella cattedrale di Monopoli e nella reggia di Caserta. Dall’ingresso è immediatamente visibile il pulpito addossato ad uno dei pilastri della navata centrale. Fu realizzato probabilmente nei primi del ‘600 ad opera di Bartolomeo Balcone, romano di nascita ma vissuto a Sulmona, dove ha realizzato il coro della SS. Annunziata. In legno di noce, è composto da pannelli intagliati e decorati a motivi vegetali ed antropomorfi, delimitati da lesene a carattere ionico. In basso, quasi a sostegno dell’intera struttura, è un putto alato che sostiene varie cornici lavorate. A copertura del pulpito è un baldacchino posto più in alto, che ne ricalca la forma. Esso presenta, in linea con tutte le coperture della chiesa, un motivo a lacunari. Sulla sommità, in posizione dominante, è la figura di una Madonna. L’effetto dorato con cui si presenta oggi il pulpito è il risultato di interventi successivi. Affini al pulpito sono due altre opere barocche, il badalone e la cantoria. Il badalone, posto al centro del coro, è un leggio di grande importanza. Composto da un parallelepipedo di legno liscio con angoli smussati, presenta un fregio decorato a intaglio e figure di telamoni e cariatidi sugli spigoli. Analogie stilistiche e compositive portano ad attribuire questo pezzo alla mano dello stesso Bartolomeo Balcone o al massimo ad un autore locale influenzato dal maestro.


La cantoria, di notevole dimesione, occupa tutta la parete di controfacciata della navata centrale. Come attesta la data riportata nella parte centrale in basso la sua realizzazione risale al 1612. Una struttura lignea intagliata, dorata e colorata contiene un organo costituito da dodici registri articolati in tre torri, di cui quelle laterali più basse, quella centrale più alta si eleva fino al soffitto. I fornici laterali sono delimitati da semicolonne decorate e scanalate e chiusi in alto da trabeazioni riccamente lavorate a girali Il fornice centrale è contenuto da una struttura lignea affiancata da volute laterali e culminante in un timpano circolare spezzato a causa della mancanza di spazio. Anche gli spazi vuoti intorno alle canne sono stati abilmente riempiti con motivi vegetali intagliati nel legno. La balconata dell’organo presenta forti affinità stilistiche con il pulpito e con il badalone tanto da attribuire l’intera opera allo stesso autore, Bartolomeo Balcone. Essa risulta divisa in sei pannelli simmetrici e in una mostra di legno, al centro, che ripropone un organo in miniatura scolpito nel legno. I pannelli, separati da figure di telamoni e cariatidi che sostengono un fregio con motivi vegetali, sono decorati all’interno da figure antropomorfe da cui partono tralci . I motivi sono gli stessi del pulpito e del badalone ma diverso è il modo in cui sono trattati.


Alla rigidità e compostezza del pulpito si contrappone uno stile più libero ed una composizione più ricca anche grazie all’uso di perline, dentelli e ovuli. Queste osservazioni inducono ad ipotizzare che la realizzazione della cantoria sia successiva e legata alla maturità dell’artista. I soffitti sono una delle caratteristiche principali della chiesa, distinti in tre tipologie. Il più ricco e scenografico è certamente quello della navata centrale realizzato tra il 1670 e il 1682; il progetto e la direzione dei lavori appartiene a Carlo Sabatini; le dorature sono attribuite ai fratelli Gioacchino e Giuseppe Petti da Oratino; gli oli appartengono a Giovannangelo Bucci. L’architetto Carlo Sabatini mostra chiaramente le influenze dell’ ambiente napoletano, dove avvenne la sua formazione, e di quello romano. Si tratta di una complessa struttura in legno intagliato, laccato e dorato suddivisa in lacunari, scomparti rientranti. Questi, nel numero di ottantacinque, hanno forme diverse, tonda, rettangolare o mistilinea, e sono stati concepiti come contenitori di tele dipinte ad opera di Giovannangelo Bucci. Ricche sono le cornici che chiudono questi spazi, lavorate a ovuli e foglie. Emergono dall’insieme otto grandi cassettoni mistilinei disposti trasversalmente in quattro coppie che rompono la successione dei riquadri rettangolari. I cassettoni sono molto profondi e questo crea l’impressione che i dipinti sprofondino al loro interno. Non è casuale la scelta del colore di fondo, il celeste, che allude all’apertura del soffitto verso il cielo, verso una dimensione sovrumana abitata da angeli. Tra gli altri colori prevalente è il rosso. I dipinti rappresentano angeli gioiosi nell’atto di cantare, suonare o spargere fiori. L’intero soffitto sembra voler rappresentare il Paradiso. Il carattere barocco dell’illusorietà dello spazio si fonde al gusto classico e agli effetti scenografici della tradizione tardo-manieristica. Unico precedente è dato dal soffitto della cappella del Rosario nella chiesa di San Domenico a Penne, realizzato circa trent’anni prima.


Se il soffitto pescolano non rappresenta una novità, è certo che mette a punto una tipologia che troverà ampia applicazione nel Settecento, come nel caso della chiesa di San Bernardino a L’Aquila. I soffitti delle navate laterali adiacenti a quello centrale furono iniziati negli stessi anni ma portati a termine solo nel 1742. L’attribuzione del progetto spetta allo stesso Carlo Sabatini con qualche riserva per quanto riguarda quello di destra. Presentano la stessa impostazione architettonica e compositiva di quello centrale: una successione ordinata di lacunari delimitati da cornici dorate che racchiudono dipinti su tavola a motivi vegetali e zoomorfi. Anche il fondale esterno agli scomparti presenta gli stessi motivi floreali. A spezzare questa omogeneità sono quattro grandi pannelli rettangolari, disposti nel senso della lunghezza, che ospitano tele dipinte ad olio, raffiguranti scene bibliche. A separare i vari scomparti sono inserite delle piccole rosette dorate. Nel complesso questi due soffitti si presentano più sobri di quello centrale e questo testimonia sia le difficoltà economiche sia i cambiamenti di gusto intervenuti nel tempo. I soffitti delle navate estreme presentano differenze evidenti che fanno supporre che siano stati realizzati in epoche diverse. Dalle fonti risulta che in parte già esistevano nel 1697. Quello di sinistra, nell’insieme piuttosto omogeneo, si avvicina ai caratteri del soffitto della navata centrale e per questo viene assegnato alla scuola del Sabatini. In quello di destra si distinguono due fasi di lavoro; la parte nella zona dell’abside è vicina stilisticamente, nell’organizzazione dei lacunari e delle cornici, al soffitto della navata centrale e perciò viene datata alla fine del Seicento; l’altra è articolata in ampi scomparti lignei privi di decorazione e di tele ed attribuita solo di recente ad un altro componente della famiglia Sabatini, un certo Remigio, che lo realizzò nel 1718.


Entrambi i soffitti presentano scomparti in legno al naturale, per i quali dovevano essere previste dorature e laccature mai realizzate o anche tele mai dipinte. Una cupola ottagonale definisce la composizione che risulta formata da affreschi attribuiti alla mano di Giambattista Gamba, lo stesso autore degli affreschi della cappella del SS. Sacramento. I dipinti che coprono la volta sono disposti all’interno di spazi di varia forma, tondi, ovali o mistilinei e rappresentano Episodi di vita della Vergine. Al centro, in uno spazio che ricalca nella forma quello ottagonale della cupola, è rappresentata l’Ascesa della Vergine al cielo tra schiere di angeli. Le figure presentano una maggiore morbidezza e vivacità di quelle della cappella, l’intera composizione risulta più equilibrata e leggera. La parete di fondo dell’abside è decorata nella parte alta da un altorilievo a stucco raffigurante l’Assunzione, realizzato dagli artisti lombardi Gian Battista Giani e Francesco Ferradini, autori anche degli stucchi del cappellone.


Gli altari Barocchi sono anche i molti altari distribuiti su tutta la chiesa, realizzati tra il XVI e il XVII secolo. Lungo la navata di destra sono l’altare della Madonna di Loreto, quello di San Paolo, quello di Sant’Anna e quello della Madonna di Pompei, tutti realizzati da maestri pescolani nel corso del Settecento. L’elemento più caratteristico di questi altari è il paliotto che racchiude in sé gran parte della loro ricchezza. Nell’altare di S. Paolo il paliotto originario è stato sostituito da un’arca marmorea. Particolarmente raffinato è il paliotto dell’altare di Sant’Anna. Su uno sfondo scuro si delineano motivi prevalentemente vegetali di colore molto chiaro in netto contrasto col fondo. Il paliotto dell’ex altare della Madonna di Pompei fu realizzato da Panfilo Rainaldi nel 1717 e sembra avere come modello l’opera di Norberto Cicco, in particolare l’altare di S. Antonio nella chiesa di Gesù e Maria. Su un fondo scuro dei girali arricchiti da perline si intrecciano tra loro, nelle parti laterali. Al centro una cornice a stucco racchiude un disegno geometrico. L’altare della Madonna del Colle si trova nel capo della navata laterale destra adiacente a quella centrale. Appartiene ai secoli XVI e XVII. Il paliotto in marmo commesso è settecentesco ed attribuito a Panfilo Rainaldi. Il dossale è seicentesco ed è opera di Palmerio Grasso. E’ un imponente struttura in legno intagliato e dorato in cui è possibile distinguere due parti. La zona inferiore, che spicca per la maggiore doratura, forma nella parte centrale un’edicola avanzata chiusa da un timpano curvo e spezzato. All’interno dell’edicola è una nicchia rettangolare destinata ad ospitare la statua della Madonna del Colle (vd. sezione Scultura lignea, prov. AQ), ai lati due nicchie, poste più in basso, che hanno forma a catino. La parte superiore presenta un’edicola con timpano triangolare e viene raccordata all’altra mediante due enormi volute laterali. L’altare maggiore, dedicato a San Felice, fu realizzato da Giuseppe Cicco nel 1668.


Il paliotto, in marmo, presenta decorazioni vegetali disposte simmetricamente intorno ad un’apertura centrale (fenestella confessionis), in cui sono custodite le reliquie del santo, delimitata da una cornice di cherubini. La parte superiore dell’altare è costituita da un capoaltare, piuttosto basso, definito in alto da una cornice e sui lati da due teste di cherubini. In questo altare torna il motivo tipicamente fanzaghiano dei cherubini, particolarmente sviluppato nella chiesa di Gesù e Maria. A sinistra dell’altare maggiore è quello della Trinità, di cui va ricordato il paliotto che, nel disegno, ricorda sia quello dell’altare di S. Anna nella chiesa di Gesù e Maria sia quello del cancello del cappellone. Nella navata destra, a sinistra della cappella del Sacramento, è l’altare del Crocifisso, voluto dalla comunità e realizzato da Panfilo Rainaldi tra il 1738 e il 1739. Si tratta di una struttura complessa e composita che nella parte inferiore risente degli influssi del Barocco romano, e nella parte superiore di influenze napoletane. Al centro è un grande Crocifisso, di cui parleremo più avanti, posto all’interno di uno spazio concavo in contrasto con il quale sono le parti laterali convesse che ospitano edicole e nicchie contenenti le statue di San Biagio e Santa Barbara. Questo gioco di alternanza tra concavità e convessità ha il suo riferimento nello stile borrominiano.


Sulla controfacciata della navata destra è l’altare di Santa Caterina che ospita un importante dipinto dedicato alla Santa, realizzato da Tanzio da Varallo, di cui parleremo in seguito. Sulla controfacciata sono altri due altari, quello di Santa Rita e di San Pietro. Quest’ultimo va ricordato perché riferibile alla produzione locale e databile all’inizio del Seicento; è quindi precedente alle influenze di carattere nazionale che si riscontrano in altari successivi e più elaborati, mentre risente del linguaggio manierista locale. Presenta una struttura articolata in due parti, inferiore e superiore. Quella in basso risulta divisa, nel senso dell’altezza, in tre parti delimitate da quattro colonne corinzie poggianti su un alto basamento; al centro è una nicchia grande che ospita la statua di San Pietro, ai lati sono quattro nicchie disposte su due piani contenenti immagini di Santi. La parte alta dell’altare è composta da tre edicole separate, di cui quella centrale, più grande delle altre, risulta in secondo piano rispetto alle due laterali. Quasi identiche tra loro, esse sono chiuse in alto da timpani curvilinei e contengono all’interno dipinti.


La tela di Tanzio da Varallo è l’opera pittorica più importante della chiesa e ricopre la pala dell’altare di Santa Caterina. La tela viene oggi con certezza attribuita a Tanzio da Varallo, un pittore lombardo attivo a Roma e a Napoli, che si trovò ad operare in Abruzzo intorno al 1614. La sua permanenza in territorio abruzzese è supportata da un’altra sua opera presente a Fara San Martino, la Circoncisione, e dalla presenza a Pescocostanzo, nello stesso periodo, di molti artisti lombardi, attivi per lo più nella collegiata. La tela descrive un fatto realmente accaduto, un incendio di un edificio pescolano. Al centro del quadro è raffigurato un piccolo angelo che versa acqua sulle fiamme. Intorno sono rappresentati tre Santi e ai loro piedi è ritratta la committente, probabilmente Pompa de Mattheis, moglie del barone Tommaso D’Amata. In alto è la Madonna col Bambino tra angeli musicanti. Si suppone che durante l’incendio sia intervenuto un miracoloso temporale a salvare la struttura in fiamme e per devozione e ringraziamento sia stato commissionato il dipinto. Sull’edificio in questione non si hanno certezze; potrebbe trattarsi del convento francescano di Gesù e Maria che era in costruzione proprio in quegli anni e che si trovava sotto il patronato della famiglia D’Amata. A supporto di questa ipotesi è la presenza di tre Santi appartenenti all’ordine francescano, S. Bernardino da Siena, S. Francesco e Santa Chiara ai quali si affianca Santa Margherita di Antiochia, cui era molto devota la committente. La struttura rappresentata, apparentemente in rovina, è in realtà un edificio in costruzione che presenta caratteri, quali il portico, diversi da quelli dell’attuale chiesa di Gesù e Maria. L’intera rappresentazione è improntata ad un forte realismo che si manifesta nelle vesti dei Santi che sono abiti semplici e popolani oltre che nelle espressioni dei volti segnati dal dolore e dalla sofferenza e rapiti dall’immagine della Madonna. Significativo è il volto della committente, rugoso, segnato dal tempo e dalla durezza dei luoghi, asciutto e indurito come la corteccia di un albero. L’analisi stilistica dell’opera mostra la forte influenza esercitata sul pittore dal Caravaggio al quale egli rimase legato nella prima fase della sua produzione che precede le opere della maturità.


A Pescocostanzo, in contrasto con il resto della regione, la scultura ha una stagione felice anche in epoca barocca grazie a diversi fattori quali il benessere economico, il profondo sentimento religioso e la presenza delle maestranze lombarde. Al Seicento vanno ascritte le statue lignee policrome dei Santi Pietro e Paolo, poste ai lati dell’altare principale della cappella del Santissimo e quelle delle Sante Margherita ed Apollonia, poste nelle nicchie laterali dell’altare della Madonna del Colle. In questi quattro esemplari è evidente la fluidità dei movimenti, sottolineata dalla accentuata gestualità, dai ricchi panneggi e da una comune prominenza del ginocchio. Una raffinata e dosata decorazione accompagna il movimento e la scioltezza delle figure senza appesantirle. Al Settecento appartiene la scultura del Cristo Crocifisso, datata precisamente al 1711 e realizzata da un artista anonimo. Il corpo del Cristo è completamente coperto da vene, nervi e rivoli di sangue che stanno a sottolineare e ad amplificare il dolore e la sofferenza che accompagnano l’agonia. L’opera appartiene a quel filone realistico che nell’intento di rappresentare autenticamente la realtà finisce per esasperala. Dello stesso secolo sono le due statue laterali dell’altare del Crocifisso raffiguranti Santa Barbara e San Biagio, realizzate dall’artista pescolano Pietro Paolo Palmeri rispettivamente nel 1756 e nel 1766.


Tutto ciò è figlio sia dell’origine lombarda di molti degli abitanti del borgo abruzzese, che vi portò a lavorare molti artisti milanesi, dall’altra al benessere economico, dovuto al suo essere un snodo importante sia delle rotte commerciali tra nord e sud, sia dell’allevamento ovino.

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Published on July 21, 2019 04:10

July 20, 2019

La cripta dei Cocchieri

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Una delle più importanti sodalizi di Palermo è la Venerabile Confraternita di Santa Maria dell’Itria dei Cocchieri, protagonista sin dal 1598 di una straordinaria processione del Venerdì Santo, in cui i fercoli, in dialetto “vare”, sono portati a spalle da fedeli e confratelli, trasportando le statue della Madonna Addolorata e del Cristo morto in giro per le antiche strade e vicoli della Kalsa, costeggiando antichi palazzi nobiliari.


Caratteristica particolare e originale di questa processione che attrae cittadini e turisti, è la sfilata di “personaggi” che sfoggiano le antiche livree dei nobili casati dai variopinti colori, una volta datori di lavori dei confrati.


Apre il corteo una grande croce di legno, accompagnata ai lati due membri in marsina, seguita dai i confrati con livree azzurro ed oro in rappresentanza della casa Branciforte di Trabia e di Butera, marrone e argento per la casa Settimo di Fitalia e Giarratana, giallo e verde per la casa Valdina, giallo e azzurro per la casa Baucina, rosso e giallo per il Municipio, nonché altre di casa Galati, Mazzarino, Scalea.


Nel Seicento, infatti, In segno di rispetto, lutto e devozione il Venerdì Santo vigeva il divieto di spostarsi in carrozza, “pirchì ‘u Signuri è ‘nterra”, quindi i cocchieri godevano un giorno libero e potevano partecipare numerosi a questo sacro evento. Circostanza che consentiva ai nobili di ingraziarsi il consenso delle autorità religiose ottenendo inoltre l’indulgenza plenaria per resa devozione.


Tornando alla storia della Confraternita, questa nacque inizialmente come Compagnia di San Riccardo, vescovo inglese, protettore dei carrettiere, per il lavoro che faceva da giovane. Nel 1596 i cocchieri “Maiuri” che prestavano la loro opera presso le case aristocratiche della città, si aggregarono in quella che più che un sodalizio religioso, appariva una sorta di sindacato di categoria, trasformandola nella “Venerabile Confraternita di Santa Maria dell’Itria dei Cocchieri”, dedicata alla patrona della Sicilia.


Il riconoscimento ufficiale, con atto rogato dal notaio Vincenzo Donato, avviene in data 22 settembre 1596. Il sodalizio religioso si pose quindi la finalità di perseguire la pratica delle virtù cristiane, di venerare e promuovere il culto di Maria SS. Addolorata e del Cristo morto, di assistenza tra i confrati, e di fornire una sorta di welfare ai poveri della Kalsa. In più fu data a tutti gli impiegati delle case nobilieri, come staffieri, stallieri, palafrenieri e camerieri, di iscriversi alla Confraternita


Il 22 ottobre del 1614 furono approvati dall’Arcivescovo di Palermo Giannettino Doria, colui che rese Santa Rosalia patrona di Palermo, i primi Capitoli, ossia la raccolta di norme che regola la vita delle confraternite.


Intanto i fondatori del sodalizio si autotassarono della somma di “Dodici once di Sicilia” ciascuno, una cifra ragguardevole per i tempi, e con il patrocinio dei loro padroni iniziarono l’edificazione della loro chiesa, dedicata ovviamente a Santa Maria dell’Itria, sopra una cripta in precedenza utilizzata come ritrovo dalla Compagnia di San Riccardo.


Cripta che si trovava nella “ruga magistra” della Kalsa, la nostra via Alloro, che aveva il vantaggio di essere vicina ai luoghi di lavoro dei cocchieri, ossia i principali palazzi nobiliari dell’epoca. La chiesa molto semplice, fu terminata nel 1611.


Il complesso, però merita una visita proprio per la cripta, che come quella delle Repentite, era utilizzata per la mummificazione, tramite essiccazione, e per la sepoltura dei confrati. Tale cripta è a forma rettangolare, ampia circa 150 mq, si estende sotto la chiesa, il sovrastante sagrato e parte della strada ed è articolata su due livelli: il primo è costituito dal locale dedicato alla sepoltura, in cui sono presenti novanta loculi; destinazione d’uso che durò sino alla fine del XVIII secolo, quando il vicerè Domenico Caracciolo, anticipando di qualche anno l’editto napoleonico di Saint Cloud vietava di seppellire i morti dentro le mura della città e istituiva i cimiteri pubblici suburbani


Il secondo livello, in cui si scende tramite una scala, è il invece dedicato ai colatoi, dove si praticava la mummificazione dei cadaveri.


I confrati non badarono a spese, pur di decorare la loro ultima dimora: nella cripta sono presenti elementi architettonici di un certo pregio, come l’arco trionfale ribassato sostenuto da due piloni quatrangolari, che introduce all’altare dove si celebravano le messe in suffragio delle anime defunte; i soffitti presentano volte a botte e a crociera e il pavimento conserva ancora dei brani originali di cotto bicromo consumati dal tempo e dal calpestìo.


Nel 1729 la confraternita dei cocchieri cominciò a ospitare nella cripta la Confraternita di Gesù e Maria, che poteva celebrare le sue cerimonie religione, in cambio dell’aiuto alla sepoltura dei confrati e alla condivisione delle spese di manutenzione della cripta. La Confraternita di Gesù e Maria decorò l’ambiente con un ciclo di affreschi, raffiguranti le anime purganti che attraverso l’intercessione dei santi acquisivano la salvezza.


Nella seconda metà del Settecento, accusata di simpatie massoniche, assia comuni nella Palerma dell’epoca, la patria di Cagliostro, la Venerabile Confraternita di Santa Maria dell’Itria, fu soppressa perché dichiarata eretica.


I confrati se ne fecero una ragione, continuando le loro attività in segreto: però, anche per i decreti di Caracciolo, la loro cripta fu progressivamente abbandonata e se ne perse memoria, per essere riscoperta nel 1980 e progressivamente restaurata.


Secondo una leggenda, comune a tutte le cripte e i sotterranei di Palermo, dalla cripta dei cocchieri partivano un tempo, dei camminamenti sotterranei che la mettevano in comunicazione con altre chiese e palazzi della zona…

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Published on July 20, 2019 05:35

July 19, 2019

Le tombe dei due Guglielmi

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Secondo la leggenda, Guglielmo II il Buono, succeduto al padre sul trono di Sicilia, si sarebbe addormentato sotto un carrubo, colto da stanchezza, mentre era a caccia nei boschi di Monreale. In sogno gli apparve la Madonna, a cui era molto devoto, che gli rivelò il segreto di una “truvatura” con queste parole:


“Nel luogo dove stai dormendo è nascosto il più grande tesoro del mondo: dissotterralo e costruisci un tempio in mio onore”.


Dette queste parole, la Vergine scomparve e Guglielmo, fiducioso della rivelazione in sogno, ordinò che si sradicasse il carrubo e gli si scavasse intorno. Con grande stupore venne scoperto un tesoro in monete d’oro che furono subito destinate alla costruzione del Duomo di Monreale, cui furono chiamati per la realizzazione maestri mosaicisti greco-bizantini (“i mastri di l’oru”) dell’interno


La realtà, in verità, è assai più prosaica: le polemiche seguite alla sepoltura di Ruggero II, in cui la volontà dell’arcivescovo Gualtiero Offamilio si era imposta sugli ultimi desideri del re normanno si erano trasformate in un grave vulnus per l’autorevolezza della dinastia Altavilla.


In qualche modo, tale onta doveva essere lavata: per cui Guglielmo II il Buono provvide alla fondazione nel 1174 di una chiesa dinastica, con funzione di sepolcreto reale: Santa Maria la Nuova; anch’essa in una sede diversa da Palermo, ma questa volta limitrofa alla capitale, a Monreale. Concepito come chiesa dell’annessa abbazia territoriale benedettina, indipendente dalla cattedra di Palermo, nel 1178 l’abate Guglielmo ottenne da Papa Lucio III che fosse costituita l’arcidiocesi metropolitana di Monreale e la chiesa abbaziale elevata al rango di cattedrale, in modo da potersi contrapporre al clero panormita


Iniziativa appoggiata da Guglielmo, che sin dall’inizio, omaggiò la chiesa una sequenza infinita di privilegi e concessioni reali, anche perchè con la costruzione di tale complesso sacro, riprendere un tema propagandistico assai caro ai suoi antenati: quello dell’equiparazione tra gli Altavilla e gli imperatori di Bisanzio, andando anche oltre quanto fatto da Ruggero II, che si era limitato a replicare i Santi Apostoli di Costantinopoli.


Concependo un complesso costituito da la chiesa dinastica, il convento dei benedettini e palazzo reale, ripropone quanto è presente a Bisanzio, con il Sacro Palazzo costantinopolitano e la cattedrale di Santa Sophia. E se Santa Sophia viene considerata la «Grande Chiesa», anche Monreale funge da grande chiesa di Stato, sostituendosi alla cattedrale di Palermo. La fondazione di Monreale duplica il polo civile, costituito dal “Palazzo dei Normanni”, e si opponeall’unico polo del potere religioso della capitale, sminuendo il ruolo del suo ambizioso arcivescovo.


In più, Guglielmo, che era unanimente stimato, così lo definisce una cronaca dell’epoca


Nel tempo, in cui quel re cristianissimo, al quale nessuno fu secondo, teneva le redini di questo regno, fra tutti i principi egli era il più grande; copioso di ogni bene, era chiaro di stirpe, bello della persona, forte, avveduto, ricchissimo. Era il fiore dei re, la corona dei principi, lo specchio dei guerrieri, il decoro dei nobiii, fiducia degli amici, terrore dei nemici, vita e forza del popolo, salvezza dei miseri, dei poveri, dei viandanti, fortezza dei lavoratori. Vigeva al suo tempo il culto della legge e della giustizia. Ciascuno nel regno era pago della sua sorte. Per ogni dove era pace e sicurezza; il viandante non temeva le insidie dei masnadieri, né il nocchiero quelle dei pirati


doveva esaltare il ruolo della sua famiglia, dando degna sepoltura al padre, come dire, alquanto controverso, nel nuovo mausoleo dinastico. Per fare questo, replicò quanto fatto dal nonno Ruggero II a Cefalù, per sottolineare come Guglielmo I il Malo fosse, nonostante tutto, degno figlio di tale padre.


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Per cui, fece costruire un mausoleo a baldacchino, andato perso nell’incendio del 1811, anche per ribadire le discutibili pretese della sua famiglia sul regno di Gerusalemme; tra l’altro, Guglielmo, dopo la sua conquista da parte di Saladino, provò a realizzare il colpo gobbo. Nella primavera successiva, inviò infatti la flotta normanna in Terrasanta: il suo ammiraglio Margarito di Brindisi, con 60 navi e 200 cavalieri, pattugliò la costa della Palestina impedendo costantemente a Saladino di occupare altri porti crociati; infine, nel luglio 1188 sbarcò a Tripoli, allontanando momentaneamente i musulmani dalla costa. La morte precoce e le vicende della III Crociata impedirono al re normanno di realizzare il suo sogno


Inoltre Guglielmo II, rispettando la tradizione di famiglia, seppellì il corpo paterno in un mausoleo di porfido, per ribadire il legame tra gli Altavilla e gli antichi imperatori romani. Per lui, invece ha in mente ben altro. Come disposizione testamentale, si fece seppellire ai piedi dell’altare maggiore del Duomo di Monreale, così che l’officiante della messa si dovesse inginocchiare sulla sua tomba.


Imitando quanto fatto da Costantino con i Santi Apostoli, anche Guglielmo immagina la chiesa di Santa Maria la Nuova come un sacrario, laddove il suo corpo si presenta come reliquia insigne. Una collocazione in verità ambigua, in verità: da una parte, il suo corpo mortale è partecipe della sacralità del luogo, ottenendo una sorta di viatico per Paradiso, costringendo il clero a venerarlo; dall’altra, essendo la tomba calpestata dal medesimo clero, è anche una dichiarazione di estrema umiltà


Ambiguità simbolica che viene risolta nella Controriforma: l’arcivescovo Ludovico I Torres, preso dallo spirito del Concilio di Trento, trasferisce il suo corpo in una più modesta sepoltura nei pressi del sepolcro del padre Guglielmo. Modesta per dimensioni e materiali: il comune marmo bianco, decorato con glifi dal sapore rinascimentale


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Published on July 19, 2019 12:52

July 18, 2019

Presentazione di Sulle tracce di Maria Graham

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Sabato 20 luglio, alle ore 18, sarà presentato nel salone degli Affreschi del Palazzo Conti, uno dei tanti luoghi dei miei romanzi, il libro


Sulle tracce di Maria Graham, tre mesi passati a Poli sulle montagne a est di Roma nel 1819


traduzione di un diario di viaggio di una donna eccezionale, che meriterebbe di apparire nella narrativa steampunk. Maria nacque a Cockermouth nella contea britannica di Cumberland il 19 luglio 1785. Era figlia di George Dundas, un capitano che succedette a Nelson nel comando dell’Elephant e che rimasto famoso per essere stato un nemico giurato dei pirati nel mare dei Caraibi.


George fu congedato nel 1808 e data la sua esperienza, fu nominato responsabile dei cantieri navali della British East India Company a Bombay: decise quindi di trasferirsi in India con tutta la famiglia, ma durante il viaggio Maria si innamorò di un giovane ufficiale navale scozzese, Thomas Graham, terzo figlio di Robert Graham, l’ultimo Laird of Fintry.


I due si sposarono in India nel 1809. Nel 1811, la giovane coppia ritornò in Inghilterra, dove Graham pubblicò il suo primo libro, Journal of a Residence in India , seguito poco dopo da Letters on India. Alcuni anni dopo suo padre fu nominato responsabile del cantiere navale di Città del Capo, dove morì nel 1814, all’età di 58 anni, essendo stato promosso contrammiraglio appena due mesi prima.


Come molte mogli di ufficiali della Marina, Maria passava il suo tempo ad annoiarsi a terra; per ammazzare il tempo, invece di dedicarsi alle faccende domestiche, si improvvvisò un lavoro come traduttrice ed editrice. Cominciò a scrivere libri per bambini, in cui curava anche le illustrazioni.


Nel 1819 visse in Italia per un certo periodo, lasciando ricordo della sua permanenza in un libro che pubblicò l’anno successivo a Londra: “Tre mesi trascorsi nelle montagne a est di Roma”.


Maria, assieme al marito Thomas e a un amico pittore, si stabilì a Poli, dove visse diverse avventure, avendo un soggiorno molto movimentato. Ad esempio, i briganti che stazionavano su Monte Guadagnolo, venuti a sapere della loro presenza, tentarono in tutti i modi di rapirli per ottenerne poi un riscatto.


Nel libro, Maria si comporta come una moderna reporter: segue gli accadimenti in prima linea, intervista i locali e anche gli zingari di passaggio. La narrazione è intervallata da aneddoti e digressioni storiche, riflessioni sociologiche e descrizioni paesaggistiche. Il suo peregrinare era, infatti, alimentato dallo stesso interesse che ha motivato Byron e tanti altri a viaggiare in Italia in quegli anni.


Nel 1821, Maria fu invitata ad accompagnare il marito a bordo della HMS Doris , una fregata di 36 cannoni, sotto il suo comando. La destinazione era il Cile e lo scopo era proteggere gli interessi mercantili britannici nell’area. Però, nell’aprile del 1822, doppiato Capo Horn , Thomas morì di febbre, lasciandola vedova.


Tutti gli ufficiali navali di stanza a Valparaiso – britannici, cileni e americani – cercarono di aiutare Maria (un capitano americano si offrì persino di riportarla in Gran Bretagna), ma lei era determinata a farcela da sola. Affitò una casetta, litigò con la maggior parte degli inglesi che abitavano in zona, giudicandoli volgari, anche se molto civili, e visse tra i cileni per un anno intero. Nel 1822, fu anche testimone di une dei peggiori terremoti della storia del Cile, di cui descrisse tutte le vicende, suscitando un dibattito tra i geologi dell’epoca.


Aveva infatti notato come uno degli effetti del terremoto fosse stato di fare emergere vaste aree di terra dal mare, e nel 1830 quell’osservazione fu inclusa nell’opera rivoluzionaria The Principles of Geology del geologo Charles Lyell, come prova a sostegno della sua teoria secondo cui le montagne erano originate da vulcani e terremoti. Quattro anni un geologo conservatore, George Bellas Greenough, decise di attaccare le teorie di Lyell; invece di criticarlo direttamente, lo fece ridicolizzando in un articolo le osservazioni di Maria, che non era una persona che accettava il ridicolo.


Il secondo marito e suo fratello si offrirono di duellare con Greenough, ma lei disse, secondo il nipote John Callcott Horsley


“Tacete entrambi, sono capace di combattere da sola le mie battaglie e intendo farlo”.


Così si impegnò in una lunga polemica scientifica con Greenough, che fu risolta a suo favore addirittura da Charles Darwin, che aveva osservato lo stesso fenomeno durante il terremoto del Cile nel 1835, a bordo della Beagle .


Tornando alla sua biografia, Maria nel 1823, decise di abbandonare il Cile e di tornare a casa: durante il viaggio, fece una sosta in Brasile, dove fu presentata all’imperatore Pietro I del Brasile, che la prese in simpatia, tanto da nominarla istruttrice della figlia, la principessa Maria.


Così quando raggiunse Londra, Maria consegnò i manoscritti dei due nuovi libri al suo editore, raccolse il materiale didattico a supporto del suo nuovo lavoro e ritornò in Brasile nel 1824. Ahimè, dato il suo caratterino, che la portò a litigare con metà corte, l’incarico fu presto revocato. Durante i pochi mesi trascorsi con la famiglia reale, Maria strinse una grande amicizia con l’imperatrice Maria Leopoldina d’Austria, di cui condivideva gli interessi nelle scienze naturali. Dopo aver lasciato il palazzo reale, Graham incontrò ulteriori difficoltà nell’organizzare il ritorno a casa; controvoglia, rimase in Brasile fino al 1825, quando finalmente riuscì a trovare un passaggio per l’Inghilterra.


Dopo il suo ritorno dal Brasile nel 1825, il suo editore John Murray le chiese di scrivere un libro sul famoso della HMS Blonde alle Isole Sandwich (come allora erano note le Hawaii ). Il re Kamehameha II e la regina Kamamalu delle Hawaii erano stati in visita a Londra nel 1824, quando morirono entrambi di morbillo, contro cui non avevano immunità. La Blonde fu quindi incaricata dal governo britannico di riportare i loro corpi alle isole hawaiane, con George Anson Byron al comando, cugino del poeta Byron.


Quando arrivò a Londra, Maria aveva affittato una casa a Kensington Gravel Pits, appena a sud di Notting Hill Gate, abitata da una variegata comunità di artisti, che orbitavano attorno a Constable e Turner. Maria cominciò a frequentarla; così conobbe il pittore Augustus Wall Callcott, all’epoca assai di moda. I due si sposarono il 20 febbraio 1827 e la loro luna di miele fu una sorta di Grand Tour in Germania, in Austria e in Italia.


Nel 1831, Maria ebbe una grave emorragia, che le rese invalida: pur rinunciando a viaggiare, continuò a scrivere libri e saggi d’arte. Nel 1837 Augustus Callcott fu nominato Lord ae sua moglie divenne nota come Lady Callcott. Poco dopo la sua salute cominciò a deteriorarsi e nel 1842 morì a 57 anni. Continuò a scrivere fino alla fine, e il suo ultimo libro fu A Scripture Herbal , una raccolta illustrata di curiosità e aneddoti su piante e alberi menzionate nella Bibbia, pubblicato nello stesso anno in cui morì.


 

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Published on July 18, 2019 13:01

July 17, 2019

Il prossimo romanzo

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Diciamola tutta, dal punto di vista della narrativa, ho passato un paio di anni complicati: non ho avuto testa e tempo per scrivere, tranne qualche racconto steampunk per il buon Roberto Cera, dalla pazienza encomiabile e, lo confesso senza problemi, avevo perso parecchi stimoli: per il lavoro che faccio, robot, IA e computer quantistici sono cose che devo vendere per raggiungere gli obiettivi di quarter e mantenere a un livello dignitoso la parte variabile del mio stipendio, cosa che, ne converrete tutti, non che aumenti molto il loro fascino, rendendoli fonte di ispirazione.


Tutto è cambiato, in questi mesi, grazie a Davide del Popolo Riolo; come sapete, Davide, che ha scritto in questi anni tanti bei racconti e romanzi, ha esordito con De Bello Alieno, mi raccomando, leggetelo, un romanzo, che, scherzando, si può definire peplumpunk, in cui Caio Giulio Cesare, il geniale scienziato e imprenditore che, costretto da Silla ad abbandonare la carriera politica e militare, ha dedicato tutto il suo ingegno alla scienza e alla sua applicazione tecnica… La sua intelligenza e le sue invenzioni salveranno l’Urbe dall’invasione di feroci alieni.


Davide ha creato un universo narrativo tanto ampio, quanto affascinate: l’ho sempre pregato di continuare a raccontare le storie dei suoi personaggio, ma, giustamente, ha preferito dedicarsi ad altri progetti, che ritiene più stimolanti e i fatti gli stanno dando ragione. Lo scorso agosto, mentre ci riposavamo durante la visita dei Mercati Traianei, per scherzare, abbiamo cominciato a fantasticare sui possibili seguiti del suo romanzo e secondo me, sono venute fuori parecchie idee carine.


Idee che mi sono rimaste nel retrocranio, finché non mi è stato chiesto di partecipare a un’antologia steampunk. Con il permesso di Davide, ho cominciato a lavorarci sopra: così non ho scritto un seguito di De Bello Alieno, non me ne sentivo all’altezza e soprattutto non ho perso la speranza che possa farlo lui, ma un romanzo ambientato nello stesso universo narrativo, ma in un luogo e in tempo differente.


Da una parte, sono stato ispirato da una serie di libri straordinari, come ad esempio la raccolta di pettegolezzi di Svetonio, il Satyricon o quello straordinario capolavoro che è Io Claudio di Graves, il cui incipit


Io, Tiberio Claudio Druso Nerone Germanico eccetera eccetera (perché non voglio infastidirvi enumerando tutti i miei nomi), che ero una volta, e non molto tempo addietro, noto a parenti e amici e conoscenti sotto gli appellativi di Claudio l’Idiota, o quel Claudio, o Claudio il Balbuziente, o Cla-Cla-Claudio, o nel migliore dei casi Povero Zio Claudio, mi accingo a narrare la strana storia della mia vita


che è stato una sorta di mantra e di linea guida, mentre buttavo giù le sue avventure… Dall’altra… Diciamola tutta… A scuola ci danno un’immagina parecchio edulcorata degli antichi romani: in realtà, dall’ultimo plebeo al più nobile dei senatori, non avrebbero sfigurato ne Il Trono di Spade. Erano superstiziosi, feroci, cialtroni: insomma tizi difficili da sopportare, nella vita quotidiano, ma di cui è divertente scrivere.


Di conseguenza, quando uscirà il nuovo romanzo, spero che vi divertiate a leggerlo la metà di quanto l’abbia fatto io, nello scriverlo.

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Published on July 17, 2019 07:08

July 16, 2019

Foreign Lands and People According to the Byzantines- Part2- “Byzantium VS the West”

The Byzantium Blogger


Posted by Powee Celdran



I would rather see a Turkish turban in the midst of the city than the Latin mitre.” -Loukas Notaras, Byzantine Grand Admiral, 1453



cDNOSmb



Welcome to part 2 on Foreign Lands and People according to the Byzantines from The Byzantium Blogger! As I have promised the last time, I will make a 2nd article on Foreign lands and people according to the Byzantines, in which part 2 will be about the western world, being Western Europe and its people and how the Byzantines viewed them. My last article– which was quite a long read- was basically about faraway lands as far as Ethiopia, India, and China in which the Byzantines made their mark in and basically also about how well the Byzantines knew the known world and how far they went across it, which shows they’ve travelled to very distant places even if…


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Published on July 16, 2019 13:54

Tupaia il geografo

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E’ il 26 agosto del 1768 e la Nave di Sua Maestà Endeavour, un bel brigantino a palo, salpa da Plymouth con a bordo una insolita varietà di passeggeri. Indossano cappelli a tre punte, abiti di squisita fattura e hanno serventi al seguito. Sono scienziati, astronomi, botanici. Tra gli ufficiali c’è un americano che conosce una strana lingua lontana, tra i passeggeri ci sono ben tre artisti disegnatori. Tutto ciò che vedranno andrà documentato con dovizia di particolari. Committenti della spedizione sono Re Giorgio III, tramite l’Ammiragliato Britannico, e la Royal Society, la più prestigiosa società scientifica al mondo. Sir Joseph Banks, uno degli scienziati a bordo, dopo quel viaggio ne diverrà il presidente.


A capo di questo caravanserraglio, vi è un uomo più noto come cartografo, con il suo genio ha dato un contributo fondamentale alla sconfitta dei francesi in Canada durante la guerra dei Sette Anni, che come navigatore: James Cook.


La spedizione che guida ha due scopi: il primo, palese, è osservare il transito di Venere dall’isola di Tahiti, Oceano Pacifico. Cosa aveva di così importante quell’evento per far armare una nave con dodici cannoni e più di 70 uomini tra marinai, ufficiali e soldati? Da quel transito gli astronomi sarebbero stati in grado di stabilire, grazie all’accuratezza della più recente tecnologia, la distanza tra il Sole e la Terra. Cosa che avrebbe semplificato i complessi calcoli per determinare la longitudine e latitudine.


Il secondo, segreto, è svelare un mistero che ossessiona i geografi occidentali da secoli: l’esistenza del cosidetto continente australe, l’enorme massa di terra simmetrica, nel sud del mondo, all’Eurasia. Dopo un viaggio faticoso, giungono a Tahiti, dove, grazie alla mediazione dell’americano John Gore, che a causa di precendenti viaggi, mastica la lingua polinesiana, ottengono dai capi locali il permesso di costruire un osservatorio sulla cima di una montagna, dove attendono che Venere attraversi il disco solare. Purtroppo le diverse letture sono discordanti. Forse la causa è il ‘black drop’, un effetto ottico per cui il corpo nero si fonde con il margine del corpo luminoso. E’ in base a quei risultati l’astronomia di allora fissa la distanza della Terra dal Sole oltre i 150 milioni di chilometri.


Così a Cook non rimane che organizzarsi per raggiungere almeno il secondo scopo della sua spedizione: nel frattempo Banks, che oltre ad essere uno grande botanico, è anche un inguaribile donnaiolo, ha un reazione con una capo clan ,Purea, che gli inglesi, capendoci poco delle complesse gerarchie locali, definiscono regina.


Purea ha la fortuna di avere come consigliere un personaggio straordinario, Tupaia, sacerdote, giudice, diplomatico e geografo. Tupaia era nato nella metà del 1720 nel nord di Ra’itaea, in una famiglia di alto rango, e aveva ricevuto la sua prima istruzione a Tainui Marae. Figlio e nipote di navigatori aveva appreso in giovinezza i segreti della navigazione polinesiana. Dopo aver viaggiato in gioventù fra le isole, era stato ferito in uno scontro tribale, per poi approdare a Tahiti dove era divenuto consigliere politico dei reggenti. Con l’arrivo dei primi navigatori europei, Tupaia, che aveva un incredibile talento per le lingue, impara inglese, spagnolo e francese funge da mediatore con questi strani stranieri.


Frequentando Banks e conversando con lui, a Tupaia viene un’idea bizzarra: accompagnare questi tipi buffi nel loro viaggio, per giungere in Gran Bretagna e comprendere a fondo lo strano modo di vivere e pensare di questi inglesi. Cook, alla richiesta del sacerdote di imbarcarsi, temendo di violare qualche strano tabù locale, risponde picche: ci vuole tutta l’autorità di Banks per fare cambiare idea al capitano.


Fu così che quando l’HMS Endeavour si preparò a lasciare Tahiti, Tupaia si unì all’equipaggio della nave come navigatore. Nelle quattro settimane seguenti, pilotò in sicurezza l’Endeavour attraverso le Isole della Società Sottovento e a sud a Rurutu. Per quasi sei mesi, dall’ottobre 1769, facilitò gli scambi tra l’equipaggio ed i Maori di Aotearoa in Nuova Zelanda con i quali era anche in grado di comunicare linguisticamente.


A bordo della HMS Endeavour, Tupaia incontrò molti scienziati della spedizione e travasò gran parte della sua conoscenza che venne poi trascritta in diari, schizzi, acquerelli e grafici. A lui si devono le conoscenze sulla religione e le pratiche rituali di Tahiti, sull’organizzazione tribale, sui metodi di gestione economici e, per i nostri scopi ancora più importante, sulle antiche pratiche di navigazione polinesiane.


Le sue conoscenze e, in particolare, molti disegni furono realizzati da uno dei disegnatori dell’Endeavour, Sydney Parkinson. Tra di essi una mappa che riportava le isole, i passaggi e gli stretti delle Isole della Società di Leeward, comprendente un mare di isole” da Rapa Nui (a Est) per oltre 7.000 km a Rotuma, a ovest, e più di 5.000 km da Hawai’i a nord a Rapa Iti a sud, di fatto documentando la vasta conoscenza geografica dei maestri navigatori delle Isole della Società.


Questa mappa, nota come la mappa di Tupaia, fu ritrovata tra le carte di Joseph Banks e, dopo la sua pubblicazione nel 1955, scatenò uno sproposito di polemiche. Da una parte, si aveva un’idea assai vaga sulla sua genesi, dall’altra, diciamola tutta, ci si capiva ben poco.


Solo dopo anni, siamo riusciti a trovare il bandolo della matassa. Secondo Cook, nessuna delle bozze disegnate dalle mani di Tupaia era sopravvissuta, per cui bisognava partire dalle tre versioni conosciute. Inizialmente era stato assegnato a Richard Pickersgill, un brillante sottufficiale (master’s mate) che aveva servito sul Dolphin con Wallis, il compito di assistere Tupaia nel disegno della bozza della mappa. La prima versione fu poi copiata da Georg Forster, un naturalista tedesco della spedizione. A lui si deve il rapporto di viaggio, A Voyage Round the World, che contribuì in seguito a descrivere l’etnologia delle popolazioni polinesiane.


Dopo l’abbandono della prima mappa, probabilmente nell’agosto del 1769, ne fu iniziata una seconda bozza in cui si notano frequenti cambiamenti nel modo in cui i nomi delle isole sono scritti. Secondo gli autori dello studio queste variazioni suggeriscono che Cook decise di coinvolgere nel progetto un linguista più talentuoso, forse lo stesso Banks o il disegnatore Sydney Parkinson. Inoltre, la stretta corrispondenza tra l’elenco delle isole nel diario di Cook e la copia di Banks fa presupporre che la seconda bozza della mappa potrebbe essere stata la versione base della copia di Banks, oggi conservata nella British Library. La stesura della terza bozza iniziò poco tempo dopo, il 5 febbraio 1770. In questa versione, le ortografie insulari furono ricontrollate con Tupaia e, in molti casi, adattate integrandole con informazioni raccolte dai contatti con i Maori.


Confrontando le diverse versione, ci si è accorti come Tupaia abbia svolto uno straordinario lavoro di mediazione culturale, costruendo un ponte tra due diverse concezioni dello spazio geografico: quella geometrica di noi europei, che deriva da Eratostene, con la griglia di latitudini e longitudini, e quella umanistica dei polinesiani, incentrata sul ruolo del navigatore, circondato da un mondo eterogeneo composto dall’oceano, dalla vita marina, dal vento e dalla corrente, dal sole, dalle stelle e dai pianeti e infine dalle isole. L’orientamento in questo sistema veniva costantemente affinato osservando i movimenti delle stelle di notte, del sole di giorno e le direzioni del vento e dei treni d’onda. Le nozioni astronomiche si basavano sul calendario lunare tahitiano che forniva le posizioni azimutali non solo della luna, ma del sole e delle stelle principali, così come il sorgere ed il tramonto ad una data latitudine.


Queste divisioni del tempo permettevano agli isolani di osservare ed apprezzare i movimenti dei corpi celesti per i loro diversi scopi. I navigatori polinesiani sapevano che le stelle fisse non cambiano la loro posizione l’una rispetto all’altra e conoscevano quali stelle ed i pianeti erano visibili in certe stagioni dell’anno. Quindi erano in grado di identificare le stelle quando si innalzavano dall’orizzonte, memorizzandone la posizione per trovare la direzione. Il suo riferimento più importante era la costellazione della Croce del Sud che, come la stella polare ha una direzione fissa indicando però il Sud. La sua forma richiama un aquilone dove l’allineamento della stella superiore Kaulia/Gacrux e di quella inferiore, Ka Mole Honua/Acrux, mostra la direzione meridionale. Come per la stella polare nell’emisfero nord, anche la Croce del Sud si alza man mano che ci si avvicina al polo sud. Alla latitudine delle Hawaii, la distanza dalla stella superiore alla stella inferiore è la stessa distanza da quella stella inferiore all’orizzonte, ed è di circa 6 gradi. Questa configurazione si verifica solo alla latitudine delle Hawaii. Tupaia usava la cosiddetta bussola stellare (star compass), un costrutto mentale e non tecnologico come la bussola occidentale, in cui l’orizzonte visivo viene suddiviso in 32 “case” dove una casa è una parte dell’orizzonte dove risiede un corpo celeste. Ciascuna delle 32 case è separata da 11,25° di arco per un cerchio completo di 360°.


Per effettuare una sintesi tra queste due visioni contrapposte, utilizzando un approccio “relativistico”, andando oltre il concetto di direzione cardinale assoluta, posizionandosi in un punto, chiamato Avatea, e abbandonando lo spazio cartografico utilizzato dai cartografi europei. Interessante il fatto che Avatea, tradotto dagli Europei “mezzogiorno”, veniva determinato dalla massima elevazione del sole ovvero quando si trovava allo zenith. Partendo da Avatea, determinò poi un nord posizionale al centro del grafico come riferimento per disegnare due rotte oceaniche: la prima tra Rotuma e Rapa Nui (che copre un quinto della circonferenza della terra) e l’altra tra Tahiti (Otaheite) e le Hawai’i


Nella mappa una rotta può praticamente iniziare ovunque. Ciò che conta è la posizione relazionale delle isole all’interno dei percorsi di viaggio ed il loro orientamento da Avatea. Come sappiamo, su una carta non bastano solo i rilevamenti ma anche le distanze. È importante comprendere che la distanza tra le isole sulla mappa di Tupaia non è un indicatore di distanza reale: non si misura in miglia ma è solo una funzione del tempo necessario per il viaggio e viene misurata in notti di viaggio (e in qualche modo dipende dall’esperienza del viaggiatore). Un’altra cosa da notare è che la forma delle isole non ha nessun senso e quindi cercare di trovare somiglianze con mappe realizzate dagli Occidentali è errato.


Tutte le rotte sono chiaramente orientate rispetto Avatea. Per poter navigare, gli utilizzatori dovevano quindi porsi su una delle isole sulla carta e tracciare due linee immaginarie dalla loro posizione: una verso Avatea, il loro nord posizionale, e l’altra verso l’isola di destinazione. L’angolo misurato in senso orario dalla prima alla seconda linea era il rilevamento usato da Tupaia per indicare le sue isole. Sorprendentemente in una visione occidentale può essere espresso in gradi e quindi usato da una bussola. La cosa straordinaria è che la differenza tra i rilevamenti da isola a isola presi sulla Mappa di Tupaia e quelli su una mappa di Mercatore è ben al di sotto di 5°. Le differenze sembrano diventare maggiori quando le conoscenze sulle posizioni delle stesse divengono più vaghe.


Tupaia, poi, durante il viaggio, osservando i disegnatori della spedizione, imparò a dipingere: così abbiamo oggi una serie di suoi quadri, che ci danno un’idea di come quest’uomo geniale cercava di comprendere e interpretare le stranezze di noi europei. Purtroppo, il polinesiano non realizzò mai il suo sogno di vedere Londra: morirà di malaria a Batavia, città olandese, oggi Jakarta in Indonesia. Così Cook lo ricorda nel suo diario di bordo.


“He was a Shrewd, Sensible, Ingenious Man, but proud and obstinate which often made his situation on board both disagreeable to himself and those about him, and tended much to promote the deceases that put a period to his life”


E quando nel 1773 tornò in Nuova Zelanda, le piroghe dei maori si avvicinarono alle sue navi gridando


“Tupaia”

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Published on July 16, 2019 13:44

July 15, 2019

Foreign Lands and People According to the Byzantines- Part1- “Where the World Meets”

The Byzantium Blogger


Posted by Powee Celdran



You will find me a Scythian among the Scythians and a Latin among the Latins, and in general, among all other people you will find me to be one of them.” -John Tzetzes, 12th century



cDNOSmb



Welcome once again to another article by the Byzantium Blogger! Recently, I have tackled several interesting topics of Byzantine life from the emperors, to their inventions and science, and their methods of torture and punishment according to one of the most fascinating books on Byzantine life, “A Cabinet of Byzantine Curiosities” by Anthony Kaldellis. This article will once again cover a chapter- if not a set of chapters- from the same book and that part of the book covers the topic I’ve always wanted to write about. This topic is about different foreign lands, far and near including their people and how the Byzantines viewed them…


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Published on July 15, 2019 14:17

Epistemologia della Teoria del Tutto

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Come detto altre volte, sia la Relatività Generale, sia la Meccanica Quantistica sono descrizioni parziali del Reale, estremamente effici nei loro ambiti specifici, ma che da sole non spiegano tutto.


Lo stesso modello standard, che a volte sospetto possa, come complicazione, fare concorrenza agli epicicli di Tolomeo, ha una serie di limiti, come ad esempio:



Contiene ben 19 parametri liberi, come le masse delle particelle e le costanti di accoppiamento, che devono essere determinati sperimentalmente, ma le masse non possono essere calcolate indipendentemente l’una dall’altra, segno che sono legate da una qualche relazione non prevista dal modello.
Non comprende l’interazione gravitazionale.
Non prevede massa per i neutrini.
Non prevede l’esistenza di materia oscura

Per cui, ambizione della Fisica contemporanea è quindi definire un’unica teoria del tutto, che permetta di spiegare i vari e apparentemente contradditori, a causa delle approssimazioni della nostra conoscenza, aspetti dell’Universa.


Primo passo, è identificare la GUT (grand unification theory) che permetta di unificare la forza nucleare forte e la forza elettrodebole, in un’unica forza, chiamata elettronucleare. Passo successivo, è definire una Teoria del Tutto che permetta di unificare la gravità con la forza elettronucleare e dare una spiegazione sensata alle forze inflazionarie, all’ energia oscura e alla materia oscura. Una grande sfida, di cui è difficile prevedere l’esito.


Però, dal punto di vista epistemologico, possiamo mettere dei paletti sulle carattestiche che dovrebbe avere tale teoria cosmologica:



Deve contenere ciò che già sappiamo sulla Natura, ossa che le teorie attuali, il modello standard, la relatività generale e la meccanica quantistica emergano come sue approssimazioni, quando si verificano specifiche condizioni al contorno
Deve essere falsificabile, ossia per essere controllabile, perciò scientifica, deve essere “confutabile”: in termini logici, dalle sue premesse di base devono poter essere deducibili le condizioni di almeno un esperimento che, qualora la teoria sia errata, ne possa dimostrare integralmente tale erroneità alla prova dei fatti, secondo il procedimento logico del modus tollens, in base a cui, se da A si deduce B, e se B è falso, allora è falso anche A. Se una teoria non possiede questa proprietà, è impossibile controllare la validità del suo contenuto informativo relativamente alla realtà che presume di descrivere. In generale, deve implicare specifiche previsioni verificabil
Deve essere descrittiva, ossia spiegare il come e il perché esistano le particolari particelle e forze presenti nel modello standard, gli improbabili valori delle costanti universali del nostro universo e perché questo abbia proprietà che possano sembrare “strane” se le paragoniamo a quelle dei possibili universi che potrebbero essere descritti dalle stesse leggi (per esempio, sul numero dei buchi neri primordiali. In sintesi, deve confutare la tentazione di introdurre sotto qualsiasi forma il principio antropico.
Deve essere predittiva, ossia deve contenere miriadi di conseguenze inattese, che sfuggono alle attuali approssimazioni: non deve rispondere necessariamente in maniera precisa a qualunque domanda concepibile, ma dovrebbe stimolare moltissime domande a cui ci sembra che potremmo rispondere se avessimo più dettagli sull’Universo
Deve essere autoconsistente, ossia la spiegazione delle caratteristiche dell’Universo, non deve fare a riferimento a ipotetiche entità esterne a questo: per cui niente entità divine, grandi cocomeri o realtà parallele
Deve essere indipendente dal background, non deve prevedere la divisione del Cosmo in due parti contrapposte, una contenente variabili dinamiche che si evolvono, l’altra strutture fisse che forniscono un background per dare significato a tali variabili
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Published on July 15, 2019 13:49

July 14, 2019

Festa con Lloyd


Devo essere sincero: mentre mia moglie ne è una grande estimatrice, io conoscevo Lloyd solo per sentito dire. Però, dato che sono curioso come un gatto, e questo sarà la mia rovina, ieri sera, quando Manu mi ha chiesto di accompagnarla da Fassi, per una Festa con Lloyd, non ho detto di no.


E senza giri di parole, è stata una una gran bella esperienza: Simone Tempia si è dimostrato un relatore piacevole, di gran cultura, con quella giusta dose di istrionismo che non guasta mai per attirare l’attenzione del pubblico.


Tempia, che ci ha ricordato il valore della perseveranza, il coraggio nello sfruttare al meglio le potenzialità dei nuovi media, la necessità di limare ogni singola parola, per potenziale al massimo il messaggio che veicolano.


Perchè, come diceva bene il buon vecchio Carver


Le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore. Se le parole sono appesantite dall’emozione incontrollata dello scrittore, o se sono imprecise e inaccurate per qualche altro motivo – se sono, insomma, in qualche maniera sfocate – fatalmente gli occhi del lettore scivoleranno sopra di esse e non si sarà ottenuto un bel niente. Il senso artistico del lettore non sarà affatto stimolato


Tempia cesella ogni parola, ogni frase per creare una sorta di koan occidentali, che a differenza di quelli zen, non fanno scomparire i nostri pensieri e scomparire i bisogni del nostro io, ma, al contrario, ampliano la nostra consapevolezza.


I suoi dialoghi sono specchi, in cui ognuno di noi riconosce le sue esperienze e i suoi dolori, che aiutano a rimettersi in discussione e riscoprire, nell’insieme delle nostre esperienze, il filo di Arianna che ci permette di uscire dal labirinto dei nostri pensieri e dei nostri malumori.


Interessante è stato anche il discorso dell’altro relatore, anche se non condivido il suo giudizio su Va’, metti una sentinella di Harper Lee, ma de gustibus…


Ognuno di noi ha il suo motivi per scrivere: per liberarsi dal grumo che gli pesa ogni notte sul cuore, perché è un istrione che usa le parole per mendicare l’attenzione dell’altro, oppure gli piace soltanto raccontare le storie dinanzi al fuoco.


Qualunque sia il nostro motivo, probabilmente faremo tutti la fine di Jack il Cieco  in Spoon River


C’è qui un cieco dalla fronte

grande e bianca come una nuvola.

E tutti noi suonatori, dal più grande al più umile,

scrittori di musica e narratori di storie,

ci sediamo ai suoi piedi,

per sentirlo cantare la caduta di Troia.


Però per raccontare le storie, non serve solo tanta fantasia e faccia tosta: bisogna avere la consapevolezza di cosa dire, che nasce non solo dalle letture, che servono e sono importanti, ma soprattutto dall’esperienza di vita e dall’empatia con gli altri, e la cura per la parola, che nasce dal continuo e infaticabile esercizio.


Perchè sempre per tornare a citare Carver


Chiedere alle parole di assumere la forza delle azioni magari è un desiderio vano, ma è chiaramente un desiderio proprio di uno scrittore alle prime armi. Eppure, l’idea di scrivere in modo chiaro e con sufficiente autorità da invogliare e trattenere il lettore mi è rimasta. È ancora oggi uno dei miei obiettivi primari


Ma ciò non nasce dal nulla, ma dall’impegno e dalla costanza… Poi le Storie… Ognuna ha vita a sé: a volte ti si presentano davanti come un fiume in piena e ti costringono quasi a forza a buttarle su carta, altre, invece, sono come i fuori del deserto: vegetano per anni, abbandonate, finché per un nonnulla, improvvisamente rinascono…

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Published on July 14, 2019 06:36

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Alessio Brugnoli
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