Alessio Brugnoli's Blog, page 104

July 13, 2019

Le tombe reali nella Cattedrale di Palermo







Il turista che entra nella Cattedrale di Palermo e magari pone una rosa sulla tomba di Federico II, spesso ignora la storia di quel complesso funerario, tanto complicata, quanto affascinante, legata alla rappresentazione che il potere da di se stesso.


Gli Altavilla, sin dalle origini, hanno tentato di riproporsi come vera alternativa occidentale al Basileus di Bisanzio e per il vassallaggio a Roma, come eredi dell’imperium: tutto ciò si evidenziato in una complessa simbologia, che ha impattato anche nell’architettura funeraria.


Come raccontato nel post relativo alla Chiesa della Maddalena, inizialmente le tombe reali a Palermo erano poste in una cappella simmetrica a quella dell’Incoronazione, in un richiamo ideologico ai Mausolei imperiali tardo antichi della basilica romana di San Pietro.


Con la ristrutturazione della Cattedrale, le tombe furono spostate nella Maddalena, il cui precedente ideologico era all’heroon della basilica dei Santi Apostoli a Costantinopoli, l’ultima dimora di tanti imperatori bizantini; negli anni successivi, i re normanni tentarono più volte di realizzare la loro chiesa/mausoleo dinastico.


Il primo tale impresa fu Ruggero II, che a tale scopo, fece costruire il duomo di Cefalù e un complesso funebre, dall’evidente significato propagandistico: utilizzando materiale di reimpiego proveniente da Roma, forse due colonne, fece realizzare due sarcofaghi di porfido rosso, pietra di solito riservata per le tombe degli imperatori romani: in tale modo, Ruggero si proclamava eguale al Basileus kai Autokrator ton Romaion.


Uno dei due sarcofaghi era destinato a essere la sua ultima dimora; sullo scopo dell’altro, si continua ancora a discutere: per alcuni, era destinato al suo successore Guglielmo il Malo, per altri aveva il valore simbolico di dimora del corpo mistico della regalità. Probabilmente era un cenotafio alla memoria dei suoi antenati, dato che la forma ricorda l’urna di Adriano; era una sorta di collegamento tra la stirpe degli Altavilla e gli imperatori romani.


Inoltre, Ruggero integrò i due sarcofaghi in un mausoleo in un baldacchino con sei colonne e una copertura cosiddetta a “libretto”, che replicava quello di Goffredo di Buglione a Gerusalemme, per evidenziare la sua pretesa su quel trono, che a dire il vero, era alquanto capziosa: derivava dal secondo matrimonio di sua madre, Adelasia del Vasto, che l’aveva resa regina di Gerusalemme.


Infine, probabilmente Guglielmo il Malo fece disporre il sepolcro di Ruggero in modo che ogni 28 febbraio, data della morte del re, il luogo del sepolcro fosse illuminato da un raggio di sole, altra citazione del Mausoleo di Adriano, a simboleggiare l’apoteosi e l’ascesa al cielo del padre.


Sappiamo da un documento, che però è solitamente ritenuto un falso, forse risalente al regno dei due Guglielmi, pare che i sepolcri fossero già in situ; la tomba di Ruggero II sembra essere collocata a nord, «in cornu Evangelii», mentre l’altro sepolcro, «in cornu epistolae» a sud, continuando la tradizione tutta normanna dei sepolcri «intra chorumet altare».


Tuttavia, nonostante tutto questo impegno, Ruggero II non fu mai seppellito a Cefalù. Alla morte di Ruggero, avvenuta a Palermo nel 1154, i canonici della cattedrale palermitana si rifiutarono di consegnare il corpo del re ai canonici della cattedrale di Cefalù; manovra ispirata dall’arcivescovo Gualtiero Offamilio, mirata a minare il primato di luogo memoriale e funebre della cattedrale concorrente e di fare acquisire alla cattedrale panormita una notevole autorevolezza e una posizione di supremazia nei confronti di quella cefaludense. La salma del sovrano siciliano viene, quindi, tumulata in un’urna, di cui si sconoscono forma e ubicazione. Si tratta chiaramente di una sistemazione provvisoria, utilizzata presumibilmente sino al 1170 data in cui il tempio viene riedificato ed ampliato; da quel momento in poi, il corpo di Ruggero II dovrebbe essere stato sistemato nell’attuale sarcofago, fatto realizzare da Guglielmo il Buono, sempre di porfido, ma assai meno imponente di quello di Cefalù. Si tratta infatti di una semplice cassa con coperchio a spioventi, sostenuta da quattro cariatidi di marmo bianco.


Ovviamente, a Cefalù non si arresero e continuarono a mandare alla corte normanna appelli affinché il corpo di Ruggero II fosse restituito: ma tutte le speranze ebbero fine con Federico II, il quale nel 1209 fece trasferire i sarcofaghi da Cefalù a Palermo, che viene pagata dallo svevo con la scomunica da parte del vescovo cefaludense. Scomunica che viene revocata solo a seguito della donazione a favore della diocesi del feudo di Coltura, attestata in un atto datato al settembre 1215.


Federico II così reinterpretò e ampliò le volontà propagandistiche dell’antenato: destinò alla sua sepoltura il sarcofago di Ruggero II, ad affermare la sua legittimità dinastica. Fece seppellire nel secondo sarcofago di Cefalù, quello che imitava le forme dell’urna di Adriano, il corpo del padre Enrico VI, per affermare la continuità tra Impero Romano e dinastia Sveva.


Essendo Federico II, con maggiore legittimità di Ruggero II, re di Gerusalemme, adottò la stessa struttura a baldacchino dei mausolei di Cefalù. Sfrattò, in una sorta di damnatio memoriae postuma le ossa del re Tancredi, che aveva cercato di mantenere l’indipendenza dello stato normanno da Enrico VI, dal suo sepolcro di porfido, per porvi il corpo di sua madre Costanza. In più, per ribadire la legittimità della sua eredità, da una parte sulla tomba della madre l’epitaffio


Romanorum imperatrix, semper augusta et regina Siciliae


dall’altra replicò, per affermare la continuità dinastica, la stessa struttura del baldacchino che copriva la tomba di Ruggero II.


Volontà confermata solennemente il 7 dicembre a Castel Fiorentino, alla vigilia della morte, avvenuta il 13 dicembre 1250 da potente imperatore: sarà compito di Manfredi completarla, con la dislocazione dei sarcofagi porfirei nella navata di destra, vicino al coro e di fronte alla corrispondente abside denominata Cappella del Sacramento e con l’isolare l’area con una cancellata di protezione in ferro e delle preziosissime tende in seta, con ricami aurei, agganciate ad anelli mobili, lungo aste di metallo, a loro vota, fissate tra i capitelli e la copertura.


Manfredi che si fece incoronare, proprio per affermare la sua discutibile legittimità, davanti a questo complesso funerario, che, nonostante le ruberie dei Savoia ai tempi di Vittorio Amedeo, rimase invariato sino ai lavori del Fuga nel 1781, che spostò le tombe nell’attuale disposizione.


Concentriamoci ora sulla tomba di Federico II, in cui sugli spioventi del coperchio sono scolpiti tre tondi in ambo i lati, quello centrale dello spiovente destro raffigura Cristo Pantocratore, a sinistra la Vergine con il Bambino. I tondi esterni raffigurano i simboli dei quattro Evangelisti, mentre l’epitaffio originale che recitava


Si probitas, sensus, virtutum gratia, census, Nobilitas orti possent resistere morti, Non foret extinctus Fredericus, qui jacet intus


ossia


Se l’onestà, l’intelligenza, le più alte virtù, la saggezza, la buona reputazione e la nobiltà del sangue potessero resistere alla morte, Federico, che qui riposa, non sarebbe morto


La dedica sarebbe stata composta dall’arcivescovo palermitano, Berardo di Castacca, fedele amico dell’imperatore e per questo corse anche dei rischi, nei confronti del papato, che invece era in pessimi rapporti con lo svevo


All’interno del sarcofago di Federico II sono stati rinvenuti tre corpi. Il primo a destra coperto da un manto regale,tutto cucito in un sacco, e con una spada al fianco (Pietro D’Aragona). Il secondo,ridotto a nude ossa, con il braccio disteso sotto il primo corpo avvolto da un drappo logoro e due anelli d’oro con pietre di poco valore (donna la cui identità è un mistero, soggetto a infinite congetture), il terzo (Federico II), ottimamente conservato. con il corpo poggiato su un cuscino di cuoio, accanto al quale stava il globo di metallo mancante della sua croce.

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Published on July 13, 2019 06:05

July 12, 2019

Hic terror mundi Guiscardus

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Hic terror mundi Guiscardus


Qui giace il Guiscardo, terrore del mondo, l’epitaffio di una lapide scomparsa, che indicava la l’ultima dimor adi uno dei più grandi avventurieri della storia, Roberto d’Altavilla, soprannominato l’Astuto, Guiscardo.


Sesto figlio di Tancredi conte di Hauteville-la-Guichard e primo della sua seconda moglie Fresenda, che si definiva


Per Grazia di Dio e di San Pietro duca di Puglia e Calabria e, se ancora mi assisteranno, futuro Signore della Sicilia


fu colui che sottrasse il sud Italia ad Arabi, Longobardi e Bizantini. Così lo descrisse Anna Comnena


Questo Roberto era di stirpe normanna, di condizione oscura, cupido di potere, d’ingegno astutissimo e coraggioso nell’azione: aspirava soprattutto alla ricchezza e alla potenza dei grandi e, non tollerando alcun ostacolo alla realizzazione dei propri disegni, prendeva tutte le precauzioni per conseguire il suo scopo incontrastabilmente. La sua statura era notevole, tale da superare anche i più alti fra gli individui; aveva una carnagione accesa, i capelli di un biondo chiaro, le spalle larghe, gli occhi chiari ma sprizzanti fuoco. La conformazione del suo corpo era elegantemente proporzionata… Si racconta che il grido di quest’uomo avesse messo in fuga intere moltitudini. Così dotato dalla fortuna, dal fisico e dal carattere, egli era per natura indomabile, mai subordinato ad alcuno


Il 17 luglio 1085 morì a Cefalonia; il suo corpo, privato delle viscere e del cuore, che furono sepolti a Otranto, fu trasportato a Venosa nel sacrario di famiglia nella chiesa di Santa Trinità per volontà della moglie Sicilgaita, in cui erano sepolti i suoi fratelli Guglielmo Braccio di Ferro, Drogone, Umfredo e Malgiero. Vi fu forse sepolto anche Umberto (m. 1071), mentre nel suo testamento (1080) Guglielmo di Sanicardo indicò la Trinità come luogo designato per la propria sepoltura.


La prima notizia di sepolture della famiglia Altavilla nella chiesa della Trinità risale a un documento di donazione datato 1060, col quale Roberto il Guiscardo concedeva ai monaci il castello di Dordanum con relativa chiesa, in favore dell’anima dei suoi genitori, dei suoi fratelli conti, e di altri congiunti, sepolti nella Trinità (quorum corpora in monasterio Sancte Trinitatis Venusii jacent sepulti; cfr. Ménager 1981, 34).


Negli anni seguenti aumentarono i benefici e i donativi concessi all’abbazia, che verosimilmente si presentava come il luogo verso cui far naturalmente confluire le sepolture dei membri della famiglia, situata com’era al centro geografico degli interessi politici del costituendo dominio normanno. Non è da trascurare, in quest’ottica, la presenza nella Trinità di alcune reliquie martiriali oggetto di una particolare promozione cultuale da parte di Vittore II nel 1055 (le reliquie di Senator, Viator, Cassiodor e della loro madre Dominata): un dato che poteva legarsi alla presenza dei sepolcri Altavilla e incrementarne il prestigio e il valore religioso e memoriale. L’operazione attuata dai primi normanni, e promossa con forza dal Guiscardo, faceva della Trinità di Venosa il sacrario della casa d’Altavilla e allo stesso tempo il monumento fondante della loro ‘nobiltà’ di stirpe e della loro legittimità di governo


Nel 1560 i resti di vari fratelli Altavilla (Drogone, Guglielmo, Roberto il Guiscardo e altri) furono riuniti in quest’unico monumento per volontà del priore Ardicino Barba, menzionato in un’epigrafe riportata sul sepolcro, oggi perduta, registrata a metà Settecento dal teatino Eustachio Caracciolo


Dragono Comiti Comitum, Ducum Duci, huius sacri templi fundatori, Guglielmo regi, Roberto Guiscardo instauratori, fratribus ac eorum successoribus, et templi benefactoribus, quorum hossa hic sita sunt, que bona postea a principibus occupata fuere. Frater Ardicinus Goxiticus Barba civis Novarien(sis) huius templi Baiulinus sacellum hoc erexit. An. Dnj MDLX.


Nell’occasione fu con ogni probabilità adattato a sepoltura comune degli Altavilla uno dei sepolcri normanni presenti in chiesa; lo conferma la morfologia del monumento, coerente con la tipologia medievale ad arcosolio con involucro architettonico libero, e l’impiego per il sarcofago dello stesso cipollino in opera nella tomba di Alberada. Nella stessa occasione, probabilmente, uno dei sepolcri normanni liberati divenne la tomba di Roberto e di Emilio Acciaiuoli, membri della potente famiglia toscana che nella metà del Trecento, con il più celebre Niccolò, aveva detenuto la Contea di Melfi.


La tomba dei fratelli Altavilla, fu poi decorata da un ciclo pittorico, di cui rimangono tracce nella nicchia, la lunetta e la sommità dell’arcosolio, dove due putti reggono lo stemma ducale degli Altavilla, inquadrati dagli scudi con le croci dei Cavalieri di Malta. Al centro della lunetta sono raffigurati, sullo sfondo di un paesaggio collinare (probabilmente Venosa) due personaggi, l’uno in vesti civili, militari l’altro, in adorazione della Trinità; due corone sono posate sul terreno. La tradizione erudita locale vi riconosce Guglielmo Braccio di Ferro e Drogone.

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Published on July 12, 2019 13:22

July 11, 2019

Le zampogne del Lazio


Stasera, riprendo il mio viaggio nelle zampogne del sud italia; cominciamo dall’area culturale, che comprende Lazio, Abruzzo e Molise, unite dalla cosidetta transumanza “Sistina”, che si differenza da quella dei grandi tratturi del Regno di Napoli, per la durata più breve (8-10 giorni di cammino) e per la direzione est-ovest.


Si definisce così, perché chi la strutturò fu papa Sisto IV che obbligò, per motivi fiscali, ossia semplificare il conto delle pecore soggette a tassazione, tutti i pastori dello Stato Pontificio a a portare le greggi a svernare nell’Agro Romano (anche quelli delle Marche), con un tragitto che in genere percorreva le vie consolari Salaria e Flaminia. La specie ovina prediletta era di razza Sopravvisana, una pecora “recente” che si originò nel 1700 incrociando le pecore Vissane con arieti Merinos Rambouillet.


La transumanza nel Lazio si accrebbe a partire dal 1800, quando quella nel Regno delle Due Sicilie entrò in crisi, a causa dell’abolizione della Dogana di Foggia, che rese meno frequentato il cosiddetto Tratturo Magno, che univa Abruzzo e Puglia.


Transumanza, che all’inizio era organizzata a comparti, dall’Umbria verso Civitavecchia, dalle Marche verso Palo e Maccarese, dall’Abruzzo verso la Campagna romana, dalla Ciociaria verso Anzio e Terracina; dopo l’Unità d’Italia, con la crescita del mercato romano, le varie transumanze tendevano a concentrarsi nella periferia cittadina, a Maccarese, alla Bufalotta, a Pantano e almeno sono a quando io ero adolescente, nei prati tra Centocelle e Torpignattara.


Ora, in questa transumanza, a differenza di quello che avveniva a Sud, i rapporti tra i massari, i proprietari delle grandi greggi, con migliaia di capi, i moscetti, i proprietari dei piccoli greggi, minori di mille capi, e pastori stipendiati erano molto fluidi: capitava spesso che un lavorante, anche per la minore durata dei percorsi, durante una stessa stagione lavorasse per padroni e su tratturi differenti.


Ciò a portato alla creazione di una koine culturale, che si estende anche alla musica, il cui strumento principe è la zampogna zoppa, zampogna senza chiave con le canne di lunghezza quasi uguali.



 


Di questa ne esistono tre varianti principali:



La cioppa, che si suonava in ciociaria e in molise, con le canne di melodia sono intonate a distanza di ottava, purtroppo quasi estinta.
La sublacense, che si suonava nell’alta valle dell’Aniene, che usa ance semplice e ha le Le canne di melodia intonate a distanza di terza, che in alcune occasioni era usata anche come strumento di musica sacra, come nelle messe tradizionali dedicate a Sant’Anatolia.
La ciaramella di Amatrice e dell’Alta Sabina, forse l’unica zampogna italiana priva di bordone, che viene simulato con la ripetizione frequente di una nota relativa, alla suonata, la quinta sul charter sinistro.

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Published on July 11, 2019 13:07

July 10, 2019

Pecore Pazze

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Oggi avrei voluto continuare a parlare degli aerofoni italiani, ma ahimè, Roma fa schifo ci ha omaggiato con una delle sue straordinarie perle e dato che riguarda l’Esquilino, non mi sono potuto tirare indietro.


Piccola premessa: a Roma esiste un servizio a domicilio di ritiro rifiuti ingombranti, che una volta funzionava decentemente, l’ho usato per liberarmi di vecchie sedie, e che ora sembra avere qualche difficoltà.


In particolare abbiamo due tipologie, che copio dal sito dell’AMA:


Servizio gratuito

Per le utenze domestiche fino a 2 mc di materiale, 12 volte l’anno, al piano stradale (cosa che comprenderebbe, oltre che il marciapiede, cortile, androne, portone, garage accessibile)Per prenotare il servizio utilizza il modulo online oppure il numero ChiamaRoma 060606. È richiesto il codice utente Ta.Ri.


Servizio a pagamento

Per le utenze non domestiche (negozi, uffici, ecc.), per ritiri al piano abitazione, box e cantine e per materiali oltre i 2 metri cubi.Per prenotare il servizio utilizza il modulo online oppure il numero ChiamaRoma 060606


Stamane, La Pecora Pazza Pizza al Taglio, che si trova a Piazza di Porta Maggiore, 19, in cui non ho mai avuto occasione di bazzicare, cosa che dipende dalla mia pigrizia e dal mio essere abitudinario, avrebbe richiesto all’AMA il servizio di ritiro di un suo vecchio frigorifero.


L’AMA, per semplificare l’operazione ai suoi addetti, ha chiesto di metterlo sul marciapiede, accanto ai bidoncini che il locale usa per la raccolta differenziata; i titolari non hanno problemi ad accettare la richiesta, solo che commettono la leggerezza di non apporre sopra al rifiuto ingombrante il cartello


In Attesa ritiro AMA


specificando ora e giorno… Sfiga ha voluto che il mezzo dell’Ama avesse un guasto; a onor del vero, una persona che si è qualificata come responsabile del locale ha dato una versione lievemente diversa, la rottura del furgone di un privato che avrebbe dovuto portare il frigo a un’isola ecologica, ma di fatto, nel concreto cambia poco.


Il ritiro del rifiuto ingombrante è stato ritardato, per cause di forza maggiore… Per la legge di Murphy, quella mattina passa per il marciapiede una persona dello staff di Roma fa Schifo: vede il frigo, si indigna, scatta un paio di foto, si accorge del logo presente sul frigo, torna a casa e senza informarsi, pubblica un post sulla sua pagina fb, in cui sbeffeggia i presunti zozzoni


Un abbraccio alla pizzeria La Pecora Pazza Ristorante che ha cambiato la vetrina frigo e la vecchia l’ha appoggiata in mezzo alla strada. Di fronte ad una grande area archeologica. Ma tranquilli: a Roma se poffà


Ora, si può discutere a lungo sulla pratica medievale di mettere alla gogna il prossimo tuo, ma, tranquilli, il tema del post non è questo: il redattore di Roma fa Schifo compie una tavanata galattica, per dirla alla Ezio Greggio…


Non tagga nel post la pizzeria al taglio, ma l’omonimo ristorante di via Statilia, noto per l’ottima cucina calabrese, che da circa dieci anni non ha che fare con l’altro locale. Per cui, sotto il post di Roma fa schifo fioccano commenti che insultano il locale tipico e dato che il seguace medio di Tonelli è un gran sostenitore delle versione virtuale della legge di Lynch, molti vanno su tripadvisor a sputtanare La Pecora Pazza con finte recensioni negative…


A complicare questa situazione, già assurda di suo, a Roma, in tutt’altra parte della città, a via della Mercede, c’è un altro locale con lo stesso nome: alcuni, convinti che questi siano gli zozzoni, vi entrano a insultare l’ignaro proprietario…


Dopo circa un’ora, il proprietario della Pecora Pazza Ristorante, stanco di questo can can, a sue spese fa ritirare il frigorifero e commenta sulla pagina di Roma Fa Schifo, evidenziando l’equivoco: passa un’altra mezz’ora, qualcuno nella redazione si rende conto della boiata compiuta e modifica il link al post.


Intanto, nei commenti, numerosi lettori chiedono di pubblicare un post di scusa al Pecora Pazza Ristorante, per la pessima pubblicità che gli è stata fatta: richiesta sensata e intelligente, ma proprio per questo cassata da Roma Fa Schifo, che dopo 4 ore secondo FB, pubblica invece questo commento, che si perde nel rumore di fondo delle chiacchiere da bar sport


Ci scusiamo con La Pecora Pazza (ristorante calabrese di Via Statilia) che per errore era stato taggato nei primi minuti di pubblicazione del post. I responsabili erano in effetti i vicini della pizzeria a taglio Pecora Pazza, come ora correttamente indicato. Stesso nome, stesso logo, facile il fraintendimento.


Trascurando la bugia sui pochi minuti, una piccola considerazione personale: spesso Massimiliano Tonelli, ras di Roma fa schifo, mi accusa, nei nostri vivaci scambi di opinioni, di essere un borghese retrogrado e passatista.


In verità, ne vado fiero: perché noi borghesucci vecchi e bacucchi, consideriamo ancora importanti cose come il non aprire bocca per metterci fiato o avere la dignità di chiedere seriamente scusa, quando si compiono o scrivono boiate; abitudini che nell’innovativa e futuribile Roma fa Schifo sembrano essere perdute..

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Published on July 10, 2019 13:50

“Tzagra”: la balestra normanna descritta per la prima volta da Anna Comnena

Storia Militare Medievale










Una delle prime descrizioni della balestra nell’Occidente medievale ci è fornita dall’Alessiade di Anna Comnena. Nel testo l’autrice racconta di uno scontro navale nell’Adriatico tra una nave crociata e navi bizantine nel 1096 (anche se lo fa a circa 150 anni di distanza dai fatti). Dal racconto di Anna emerge tutto lo stupore per quest’arma evidentemente fino a quel momento sconosciuta ai Bizantini, che chiama “tzagra”, probabilmente traslitterando in greco il termine francese “cancre/chancre” = gambero/granchio. L’episodio desta anche un altro motivo d’interesse per l’identificazione del personaggio alla guida della nave crociata. L’autrice lo definisce conte di “Prebentzas”, il che ha fatto ritenere in principio che si trattasse del conte di Provenza e di Tolosa Raimondo di Saint-Gilles, uno dei capi della prima Crociata. Successivamente è stato invece dimostrato che quel “Prebentzas” andasse inteso come “Principato” (di Salerno), e quindi il personaggio in questione altri non era che Riccardo…


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Published on July 10, 2019 08:57

July 9, 2019

Cornamuse italiane


L’anno scorso, nel parlare degli aerofoni italiani, mi sono concentrato, come giusto che sia, sulle zampogne della Calabria; in realtà, in Italia esiste un’altra grande famiglia di questi strumenti, concentrati nel Centro Nord, più simili alla Cornamusa; piccola parentesi, i due termini, nonostante l’opinione del volgo profano, non sono sinonimi.


Per farla breve, nella zampogna lo strumento è composto da un sacco, da due chanter (ovvero le canne che generano il canto) e da un numero diverso di bordoni a seconda del tipo di strumento; il tutto è inserito in un unico blocco di legno, detto in Ciociaria “zuppone”. Nelle zampogne i bordoni ed i chanter sono posti davanti al suonatore, il sacco stesso viene tenuto davanti al suonatore, il quale usa la mano sinistra (manca) per il chanter sinistro e la mano destra per il chanter di destra.


La cornamusa, a differenza della zampogna, ha sia i bordoni sia il chanter impiantati direttamente nel sacco e separati tra loro. Inoltre il chanter è unico ed è utilizzato da entrambe le mani: con la sinistra si chiudono i fori più in alto, con la mano destra i fori in basso proprio come avviene anche nella diteggiatura del flauto dolce con la quale condivide, per altro, la maggior parte delle note.



Scendendo da nord a sud, la prima tipologia di cornamusa italica è il baghèt, voce dialettale che significa piccola borsa, piccolo otre, sulla cui origine, come al solito, litigano bergamaschi e bresciani, anche se l’iconografia tenderebbe a dare ragione ai primi. La sua prima rappresentazione risale infatti al 1347, ai tempi della Peste Nera, ed è presente ne “L’albero della Vita o di San Bonaventura”, un affresco in Santa Maria Maggiore, in città alta a Bergamo, dove è riprodotto un suonatore visto di spalle.


Alla fine del Trecento è invece datato un affresco nel castello di Bianzano. Altre raffigurazioni sono al castello di Malpaga, a Piario, nella chiesa di Sant’Agostino in Città Alta a Bergamo, nelle Danze macabre di Simone Baschenis nella chiesa di San Vigilio a Pinzolo (in val Rendena, provincia di Trento).


Il baghèt scomparve dalla circolazione negli anni Cinquanta, ma grazie alle ricerca del musicista Valter Biella, che scovò in in val Gandino e nella media val Seriana alcuni di questi strumenti, è tornato, nel suo piccolo, perchè il suo successo non è paragonabile a quello delle zampogne del Centro Sud, in auge.


Il baghèt ha la seguente struttura:



chanter conico, con 7 fori digitabili anteriori e 1 posteriore;
due bordoni cilindrici, realizzati in più sezioni assemblate a incastro.

Con il baghèt si suonava la “pastorella” (brano natalizio pastorale) ed anche dei ballabili (valzer, polche e mazurche), si accompagnava il canto oppure si eseguivano alcuni balli, tra cui il caratteristico bal d’ol mort (“ballo del morto”), una pantomima danzata in cui si fingeva una morte ed una successiva resurrezione e la lahandéra o lavandina, in cui un uomo e una donna mimavano l’azione del lavare.



Simile al baghèt è la baga veneta, anch’essa recuperata di recente, che in passato godette, dal punto di vista iconografico, un enorme successo: Una delle più antiche immagini di ‘baga’ si può vedere a Castelfranco Veneto nell’affresco della cosiddetta “casa di Giorgione”; lo strumento è dipinto con alcuni flauti nel muro occidentale, risalente alla fine del XV secolo. Oltre al tipo antico della ‘baga’ a canna diritta, si è sviluppato nei secoli quello della ‘piva’ a canna arcuata e quello della ‘barocchina’ a canna bombata. Numerose xilografie antiche poi contengono figure di suonatori di ‘baga’, un soggetto che ritorna in molte statue di giardini in ville venete, come a Villa Franchetti a Preganziol vicino a Treviso.


La baga comprendeva comprendeva una sacca per l’aria, un bocchino per soffiare, un chanter conico a sette fori, uno o due bordoni; il chanter aveva una doppia ancia, i bordoni un’ancia singola. I bordoni erano ornati con nastri multicolori e penne colorate; le legature delle canne potevano essere impreziosite con argento o altri metalli. La sacca era di pelle animale (nel Veneto si adoperava quella degli ovini e anche quella degli equini).



In Istria, invece vi erano due diverse tipologie di cornamuse: la prima è una variante del Mih croato, composto da un otre di pelle conciata (di capra o pecora), una canna sonora (diple) nel cui interno vi è una doppia ancia, e un cannello (dulac o kanela). Il Mih non ha bordone. Il suonatore soffia nel dulac immettendo così l’aria nell’otre. Il flusso d’aria poi esce dalle diple, modulato dalla pressione delle dita sui fori. Il secondo, la pive istriana invece non è altro che la Surle serba, uno chanter bicalamo a canne divise e lievemente divergenti, ad ancia semplice, a cui è associata la sacca.



Tra Alessandria, Genova, Pavia e Piacenza, veniva invece suonata la müsa, costituita da



uno chanter conico, con 7 fori digitabili anteriori (senza foro per il pollice);
un bordone cilindrico, con dei forellini che possono essere chiusi o lasciati aperti per variare la nota pedale.

Si tratta d’uno strumento d’accopagnamento, utilizzato in coppia col piffero. Anche questa scomparsa negli anni Sessanta, Recentemente alcuni suonatori, Piercarlo Cardinali, i Müsetta, Stefano Faravelli, Fabio Zanforlin dei Suonatori di Menconico (PV), Andrea Capezzuoli e Daniele Bicego, hanno cominciato a reintrodurre nuovamente la müsa nei concerti di ballo tradizionale e il costruttore Ettore Losini detto Bani le costruisce nel suo laboratorio di Degara di Bobbio (PC). Nel 2010 è stato pubblicato il primo CD interamente interpretato dalla coppia piffero-müsa, interpretato da Francesco Nastasi e Andrea Capezzuoli: “Per fare legria ai siuri de Mila”




La più meridionale delle cornamuse italiane è la Piva emiliana, diffusa nel territorio del Ducato di Parma e Piacenza, mentre la coppia di piffero e musa nell’estremità orientale del Regno di Sardegna: il confine tagliava in due la val Trebbia fra Mezzano Scotti, parmigiano, e Bobbio, savoiardo. L’ultima frazione nel territorio bobbiense si chiama infatti Degara da dego “confine”. Nel territorio delle Quattro Province la piva si trovava quindi in bassa val Trebbia, da Mezzano Scotti in giù, oltre che in val Nure.


Cornamusa di tipo solista, è caratterizzata da questa struttura:



chanter con 7 fori digitabili (senza foro posteriore);
due bordoni;
4 impianti per le canne: 3 per il chanter e i due bordoni; 1 per la canna d’alimentazione.

Anche per questo strumento si sta procedendo a un progressivo recupero della sua tradizione musicale

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Published on July 09, 2019 14:08

July 8, 2019

Sua maestà la zampogna

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Domani, tornano le suonate de Le danze di Piazza Vittorio in esilio nei giardini di Carlo Felice: in particolare, questa sonata è dedicata a sua maestà la zampogna, nobile strumento di cui ho parlato anche lo scorso anno.


Strumento che risale ai primordi delle nostra civiltà e il cui suono ci porta in una dimensione sacrale, posta oltre il tempo, dove la musica riecheggia il fiat della creazione, come raccontato in questa leggenda boema


Un tempo, in Boemia, viveva un giovane di nome Zvamba. Egli girovagava per le feste e le fiere di ogni villaggio, allietando la gente con il suono della sua cornamusa, dalla quale mai si separava.


Zvamba era davvero un gran musicista e possedeva un vasto repertorio: balli cadenzati e melodie serene, brani ritmati e canzoni sospirate. Ovunque andasse tutti lo stavano ad ascoltare incantati. Quando si fermava nelle piazze dei paesi per eseguire balli col suo dudy, le coppie di innamorati danzavano, i vecchi danzavano, i bimbi danzavano; persino gli animali danzavano. Egli suonava sensa sosta, fino a sera, ed alla fine nulla più chiedeva se non un pasto ed un tetto sotto cui dormire.


Una volta, però, gli venne desiderio d’una donna. Zvamba si trovava in un’osteria e, dopo aver suonato per ore, chiese all’oste una moneta d’oro ed il bacio d’una fanciulla per compenso. Ma l’oste lo fece scacciare dai suo servitori.


Zvamba, offeso ed infuriato, diede a bestemmiare vero il cielo e maledisse Dio ad alta voce. Poi camminò a lungo, giungendo sulla cima di un monte, dove, stanchissimo, cadde addormentato. Durante il sonno gli apparve il demonio che, per comprare la sua anima, lo trasportò in un palazzo dorato, ove tante bellissime fanciulle gli fecero festa, accarezzandolo e baciandolo. Fu un sonno felice quello, ma quando il mattino dopo Zvamba si destò, si vide circondato da serpi, lupi e quante più bestie immonde ci possono essere. Rammentò, allora, d’aver maledetto Dio la sera prima. Si pentì; si inginocchiò e pregando chiese perdono al Signore. All’istante scomparve ogni mostruoso animale. Scampato il pericolo, Zvamba si guardò intorno e, in un bosco vicino, vide una chiesetta. Vi entrò, depose sull’altare la sua cornamusa per ringraziare Dio ed andò via.


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Questo perché la Zampogna tocca le corde più profonde del nostro animo, avvicinandoci al Sublime e atterrendoci con quello che ci mostra, come dice bene questa favoletta molisana


Si narra che Giulio Cesare, intrapresa la conquista dell’isola britannica, fosse stato seriamente impensierito dalle resistenze dei guerrieri locali. Questi, infatti, sebbene meno equipaggiati e meno preparati dei soldati romani, possedevano indomito coraggio e non dimostravano timore nella lotta.


L’abile condottiero capì che bisognava escogitare qualcosa per vincere la resistenza delle popolazioni dell’isola e per evitare perdite eccessive. Chiamò, quindi, alcuni suoi fedeli consiglieri per avere suggerimenti in proposito.


Qualcuno pensò alla costruzione di un novello cavallo di Troia; ma l’idea fu scartata perchè certamente inadatta al caso. Altri rammentarono gli specchi di Archimede, con i quali il “pitagorico” incendiò le navi nemiche; ma il sole inglese non era certo come quello siciliano. Altri ancora proposero una sfida ristretta, sul modello degli Orazi e Curiazi, certi della superiorità dei guerrieri romani nell’uso delle armi; ma anche questa ipotesi venne accantonata perchè ritenuta troppo rischiosa.


Continui suggerimenti e repentini ripensamenti si susseguirono per tutto il giorno e per tutta la notte.  Tra i soldati messi a guardia delle tenda ove si svolgeva il summit, vi era un forte giovine proveniente dalle province sannite. Il suo nome era Turno.


Egli era un vero virtuoso della zampogna ed aveva contagiato questa passione musicale ad altri soldati suoi amici, tanto che molti romani erano ora in grado di suonare quello strumento.


All’alba, Turno, smontato di sentinella dopo una lunga notte, non resistette alla voglia di suonare per ristorarsi dalla fatica sostenuta. Ma quella non era l’ora, poichè quasi tutti ancora dormivano. Pensò bene, quindi, di appartarsi ai limiti dell’accampamento romano, verso un recinto dove erano stati riuniti i cavalli. Appena intonò le prime scale musicali, però, le bestie diedero ad imbizzarrirsi, visibilmente impressionate dal possente suono della zampogna del sannita.


Tutto quel trambusto svegliò l’intero accampamento, e il povero Turno fu sottoposto ad accuse ed invettive da parte dei compagni. Condotto al cospetto del generale, confessò la colpa di quanto accaduto e la ragione della violenta reazione dei cavalli.


L’idea geniale scaturì come un baleno nella mente di Cesare. Volle che fossero riuniti tutti i soldati capaci di lavorare legno e pelli. Fece reperire i tronchi necessari in un vicino bosco e ordinò l’uccisione di molte capre e pecore per la fabbricazione degli otri. In pochi giorni furono costruite oltre cinquanta zampogne. Quando suonavano tutte insieme era possibile udirle sino alle coste francesi. arebbe stato quel meraviglioso concerto pastorale l’arma segreta per vincere facilmente il nemico.  Due giorni più tardi si decise per l’azione militare definitiva.


Un’ampia vallata erbosa fu scelta quale campo di battaglia. I guerrieri britannici amavano la lotta a cavallo, sicuri nel montare i loro magnifici purosangue, e decisero di sferrare l’attacco cavalcando verso le truppe romane. Per poter raggiungere i lontani soldati avversari, i Britanni furono costretti ad attraversare un lungo tratto della vallata, ai lati della quale erano stati sapientemente disposti i suonatori di zampogne, i quali, quando fu il momento adatto, all’unisono diedero fiato alle canne. Il fragore sonoro spaventò e fece imbizzarrire così tanto i cavalli che gli indigeni, impreparati, furono tutti sbalzati di groppa e, ormai a terra, furono facili vittime dei romani che vinsero la battaglia.


Per cui se volete riscoprire le radici arcaiche del nostro Io, vi aspettiamo domani sera !

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Published on July 08, 2019 13:34

July 7, 2019

La Basilica di Santa Maria del Colle a Pescocostanzo (Parte I)

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Uno dei monumenti più suggestivi e meno conosciuti del Barocco abruzzese è la chiesa di Santa Maria del Colle a Pescocostanzo, altrimenti detta collegiata, chiamata così per la localizzazione di un primo nucleo religioso sorto su a una certa distanza dal ‘peschio’, cioè dallo spuntone di roccia intorno al quale si era raccolto il primo nucleo dell’abitato sovrastato da un castello


Intorno all’ XI secolo il paese si raccoglieva intorno ad una altura rocciosa posta a nord dell’attuale abitato ed aveva il suo riferimento religioso nella chiesa di Sant’Antonio Abate, oggi completamente trasformata dagli interventi di restauro. All’esterno delle mura cittadine, su un colle poco distante, nella seconda metà dell’anno mille venne edificata una chiesa piuttosto grande, la cui fondazione e posizione si spiegano con l’influenza della tradizione benedettina e in particolare dell’abbazia di Montecassino.


La prima testimonianza documentaria ci viene fornita da un atto di donazione del 1108 in cui un certo Odone cedeva al monastero di Montecassino “la chiesa di S. Maria di Pescocostanzo… ed è stata posseduta da esso Monisterio per quarant’anni” (L. De Padova 1866, p. 23). Nessuna indicazione ci è stata tramandata circa la sua struttura originaria.


Il terremoto del 1456, devastante nel territorio appenninico centro-settentrionale del Regno di Napoli, come è attestato da una fonte coeva, colpì anche questo borgo, che ne rimase “plerumque collapsum”, benché le vittime fossero limitate al numero di cinque.


Tuttavia l’evento provocò un parziale spopolamento del paese, tanto che per facilitarne la ricostruzione, fu lanciato un progetto di immigrazione da parte di artigiani e muratori lombardi: L’afflusso di maestri lombardi, richiamati da una forte committenza della borghesia locale, dall’ubicazione del paese (vicinanza alla “via degli Abruzzi”), dalla disponibilità di cave di pietra, costituì una presenza incisiva, le cui testimonianze sono ravvisabili nel gergo dei muratori,nell’ onomastica di alcuni cittadini, nel rito del battesimo per immersione (che è tipicamente ambrosiano), e ancora nella presenza di un secondo protettore del paese, di parte lombarda, S. Felice, nonché, per il tramite di donne lombarde, nella lavorazione del merletto a tombolo.


La ricostruzione dell’edificio religioso fu immediata e tempestiva come testimonia l’iscrizione, riportata alla luce dai lavori di restauro nella seconda metà dell’Ottocento, incisa su una delle capriate lignee della navata centrale. Oltre che l’indicazione della data di ricostruzione, 1466, essa indica il curato, il preposto della chiesa di San Pietro Avellana, da cui la nostra chiesa dipendeva, e l’esecutore delle opere. Dopo il sisma il paese venne ricostruito ai piedi della rocca su cui era il centro originario estendendosi verso la collegiata, che così acquista funzione di spartiacque tra il nucleo urbano posto a nord, intorno alla rocca, e quello più nuovo di origine rinascimentale situato a sud.


Ma alla crescita del paese fece riscontro anche l’esigenza di una chiesa più grande. La struttura del XV secolo doveva presentarsi orientata, come l’attuale, da est a ovest, del tipo a tre navate, divise probabilmente da un maggior numero di pilastri, con un’unica abside, forse di minori dimensioni ma già, forse, a terminazione quadrangolare, copertura con capriate a vista, facciata a terminazione orizzontale conforme allo schema diffuso dal secolo precedente nella città dell’Aquila e nel suo territorio.


Intorno alla metà del Cinquecento dovette essere dunque prevista ed iniziata la ristrutturazione della fabbrica precedente, che solo agli inizi del Seicento avrebbe raggiunto l’assetto attuale, caratterizzata da cinque navate.


La decisione di aggiungere due navate comportò, evidentemente, la demolizione delle pareti laterali, sostituite da pilastri, e la loro ricostruzione in posizione arretrata. Il piano di cantiere non consentiva però, sul lato settentrionale, a causa della forte pendenza, un comodo accesso; inconveniente che fu risolto con l’inclusione di una rampa di otto gradini all’interno del perimetro della chiesa e in corrispondenza della nuova navatella aggiunta a nord, mentre la sistemazione della rampa di scale esterna fu eseguita soltanto nel 1580, come attesta un’epigrafe scolpita sul pilastrino terminale della sua balaustrata. A questa data doveva essere già stata terminata, pertanto, la nuova facciata settentrionale con un portale, forse non ancora sormontato da un oculo, e dallo stesso coronamento rettilineo presente sulla facciata occidentale.


La creazione di un secondo ingresso era stata determinata dalla nuova situazione urbanistica in cui veniva a trovarsi la chiesa: l’espansione edilizia quattro-cinquecentesca, nell’area compresa tra l’antico borgo e la stessa chiesa, aveva comportato il formarsi di un tracciato viario che, fiancheggiando l’altura su cui sorge la Collegiata, proseguisse poi verso una piazzetta, sede della sede amministrativa di Pescocostanzo


Un asse viario di tale importanza suggeriva pertanto una degna facciata che, trovandosi in posizione elevata, rappresentasse la chiusura della visuale prospettica per chi provenisse dalla piazzetta. Ma un nuovo ingresso su questo lato doveva rendersi necessario anche perché il proseguimento della stessa via fiancheggiava, come si è detto, l’altura del ‘colle’ dalla parte su cui insisteva l’antica facciata, determinando probabilmente, a seguito di un verosimile livellamento del tracciato e dell’allineamento alle cortine edilizie, la creazione di un contrafforte terminante in un terrazzo destinato a sagrato, in conseguenza della sopraggiunta impossibilità di un degno e comodo accesso al naturale, primitivo fronte occidentale.


Se la nuova struttura a cinque navate potrebbe essere già stata terminata entro il 1558, momento nel quale veniva collocato un nuovo portale sul lato ovest, la seconda facciata potrebbe essere stata realizzata solo dopo che, conclusa nel 1561 la facciata occidentale, si dovette decidere di collocare sul fronte settentrionale il portale quattrocentesco rimosso dalla facciata originaria, più tardi sormontato da un oculo ellittico quasi aderente al suo archivolto: e tanto la forma che la posizione di questa apertura appaiono condizionate dal vincolo rappresentato dalla falda del tetto che, nel coprire le navatelle più esterne, doveva forzatamente abbassarsi di molto rispetto al suo colmo. E questo nonostante che lo stesso colmo venisse rialzato nel 1606, allorché terminarono i lavori di ampliamento e sopraelevazione delle strutture portanti della chiesa, come attesta un’iscrizione sulla catena di una capriata prossima a quella del 1466. Quest’ultima, evidentemente, era stata ricollocata sul nuovo livello di posa per la avvertita necessità, a quarantacinque anni dalla conclusione dei lavori, di dotare la copertura, almeno sulla navata centrale, di una più adeguata pendenza. Ma l’andamento delle coperture impose anche l’adozione di due doccioni, in forma di protomi leonine, sulla facciata settentrionale, e di uno soltanto, di uguale disegno, all’estremità destra della facciata occidentale.


L’interno dovette essere concepito, nei lavori cinquecenteschi, con nuovi pilastri quadrangolari formati da pseudolesene sporgenti da ciascuna faccia, dotate di basi e cornici d’imposta in funzione di capitelli, a sostenere ampi archi longitudinali a tutto sesto ; di semplice sezione rettangolare, con uguali basi e cornici, i pilastri divisori delle navatelle del lato meridionale. Una struttura siffatta non lascia ipotizzare la possibilità che, in un primo tempo, si fosse potuto pensare a una copertura a volte, sconsigliata anche dal ricordo del terremoto di un secolo prima. E, controllando le proporzioni della fabbrica in pianta, è da escludere anche che la primitiva costruzione a tre navate potesse essere stata priva di una delle campate. Da notare invece, osservando ancora la pianta, il notevole spessore delle pareti di facciata e l’ulteriore ispessimento sull’angolo nord-occidentale: evidentemente le superfici libere da appoggi di entrambe le facciate ‘a tabellone’ suggerirono, per maggior sicurezza, un aumento delle sezioni di queste pareti. A concludere la navata centrale un arco trionfale in pietra a vista, di gusto rinascimentale, rappresenta il principale elemento architettonico dell’interno della chiesa: caratterizzato da robusti pilastri corinzi dal fusto scanalato e capitelli che interpretano un po’ liberamente il corinzio, esso mostra un intradosso scolpito a cassettoni che reca in chiave la figura di un cherubino e composizioni di motivi vegetali alternati a rose in forte rilievo, elementi, questi ultimi, che rivelano la conoscenza dei più ricchi esempi delle arcate interne della chiesa della Consolazione di Todi o del Tempietto di Macereto.


E alla stessa fase cinquecentesca, motivata dalla volontà di adeguarsi ai nuovi dettami del Concilio di Trento, dovrebbe essere attribuita anche la struttura della profonda abside quadrangolare, destinata ad accogliere gli stalli del coro del Capitolo Collegiale; tranne che per la copertura, una volta a spicchi su base ottagonale, con incasso centrale, raccordata al rettangolo tramite pennacchi cui parrebbe più consona una datazione al XVIII secolo.


Tra il 1691 e il 1694 fu aggiunta sul lato sud la Cappella del Sacramento, detta anche “cappellone”, con funzione di lucernaio. Nel corso del Seicento furono realizzate anche le coperture in legno delle navate laterali, poi decorate durante il secolo successivo, e delle navatelle, lasciate in nudo legno intagliato senza aggiunte decorative.


Il campanile, risalente alla fine del cinquecento, fu restaurato nel 1635 e nel 1855, quando venne sostituita la cuspide ottagonale con una quadrangolare. Già denominata col titolo di Collegiata, nel 1978 Santa Maria del Colle fu elevata alla dignità di basilica minore.

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Published on July 07, 2019 08:00

July 6, 2019

I chiavi ri San Pietru

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Pochi lo sanno, ma la festa di San Pietro e Paolo, ormai celebrata in tono minore a Roma, era a Palermo l’occasione per preparare dei caratteristici biscotti a forma di chiave, che i Palermitani chiamano “ i chiavi ri San Pietru“, dall’attributo iconografico del primo Papa, che come dovrebbe essera a tutti noto, è una sorta di portinaio del paradiso cattolico.


Dolce legato a uno dei luoghi scomparsi di Palermo: Castello a Mare, la principale fortezza messa difesa della città, le cui origini risalgono all’epoca araba. la fortezza presentava una cinta muraria quadrangolare bagnata su due lati dal mare, che racchiudeva al suo interno un enorme complesso architettonico, risultato di continue ristrutturazioni e adattamenti alle varie esigenze occorse nel tempo.


Anticamente composto da un grande maschio di epoca araba, alcune parti normanne (come la cappella della Bagnara), bastioni e zona d’ingresso quattrocenteschi, un palazzetto rinascimentale, una chiesa cinquecentesca (la Madonna di Piedigrotta, edificata su una antica moschea araba), due basse torri esagonali e molte altre strutture e fabbriche di epoca più recente.


Nel 1923, nel quadro dell’ampliamento e risistemazione del porto, fu deciso di demolire Castello a Mare con cariche di dinamite. Subì ulteriori danni durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Ora, attorno a tale fortezza, si era sviluppato un un rione dove abitavano pescatori e pescivendoli soprannominati Sanpietrani perché devoti di San Pietro, benché nella zona non vi avessero dedicato neppure una cappella: vi era invece e vi è tuttora, una statua posta nella vicina chiesa di Santa Cita, che veniva portata in processione per le vie del quartiere il 29 giugno,in suo onore.


Chiesa, detto fra noi, che merita una visita sia per la Cappella dedicata alla Madonna del Rosario, una dei capolavori del barocco siciliano, un trionfo di marmi mischi, stucchi, altorilievi marmorei e per l’adiacente Oratorio, sempre dedicato al Rosario, altro capolavoro del Serpotta.


La sera del 28 giugno, i Sanpietrani cominciavano a bisbocciare: il divertimento era la prerogativa popolare, a base di luminarie, vino, “tiani ri babbaluci” (pietanza a base di lumache) a picchi pacchi, sbornie e “sciarri” (zuffe). La festa ha, da sempre, avuto un carattere di esclusivo divertimento e di “manciunaria” (festini culinari). Tradizionalmente in questa occasione, i “tavulieddi” organizzavano ogni ben di Dio e ai ragazzi venivano regalati dei caratteristici biscotti a forma di chiave.


Così Giuseppe Pitrè descrive questa tradizione, che, come dire, aveva anche un risvolto sentimentale.


Verso la metà di Giugno si cominciano a vendere per Palermo, sparse e ammonticchiate sopra tavole e canestre, chiavi di pasta melata (di meli) di paste e mandorle abbrustolite (sussamela), di torroncino, di cannella e di altro dolciume. Ve n’è di varie fogge, dimensioni e prezzo, da un centesimo o due, che per lo più le mamme comprano ai bambini che lo cercano, a una a due lire parlandosi di quelle che si vendono per le strade, a quindici o venti e più lire se si vada alle pasticcerie.


Vi son chiavi da mezzo metro, anche d’un metro, che si portano sopra tavolette. La gridata per lo spaccio delle chiavi è tradizionalmente questa: “Chi l’hajiu bedda grossa la chiavi! Hajiu la chiavi grossa!” Benchè la chiave sia un dolce di quasi tutte le famiglie, pure gli sposi son quelli che più particolarmente ne danno e ne ricevono. Un fidanzato crederebbe di mancare a un dovere di galateo amoroso, non presentando all’amata una bella chiave: regalo per San Pietro.


La chiave deve aprire il suo cuore; la chiave è il simbolo della facoltà che egli acquisterà un giorno o l’altro di aprirsi e di chiudersi a sua posta il Paradiso. Quando la chiave regalata si rompe per mangiarsi, allo sposo non potrà mancare il più bel pezzo che la sposa gli assegna ed offre


Sugli usci delle case dei sanpietrani, infine, venivano dipinte chiavi di colore rosso. Ovviamente, a seguito della distruzione di Castello a Mare, il rione fu abbandonato, ma la tradizione è rimasta. Se può interessare, di seguito una delle tante ricette che si trovano in rete di questa ricetta


Ingredienti per 4-6 persone:


pasta di mandorle, 250g di conserva di cedro, 300g di fondente, ½ limone,colori per alimenti.


Preparazione:


Stendete 2/ 3 di pasta di mandorle in una sfoglia non troppo sottile; ritagliatevi due rettangoli e sagomateli a forma di chiavi.


Distribuite su una di esse la conserva di cedro e coprite con l’altra chiave. Sigillando bene e plasmate i contorni. Con l’impasto rimasto, opportunamente colorato, realizzate dei decori che fisserete sulla superfice della preparazione.


Fate asciugare per qualche ora e spennellate la preparazione con il fondente sciolto, a bagnomaria, con poco succo di limone.


Adagiate la chiave su una placca rivestita di carta da forno e infornate, a 150°, per 5 minuti.

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Published on July 06, 2019 11:58

July 5, 2019

L’ultima dimora di Boemondo d’Altavilla

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Boemondo d’Antiochia, guerriero indomabile, che tanto colpì la fantasia dei suoi contemporanei, è sepolto a Canosa, in uno dei gioielli poco noti dell’architettura medievale, adiacente alla Cattedrale di San Sabino, fatto erigere dalla madre Alberada, prima moglie di Roberto il Guiscardo.


Donna dal carattere d’acciaio, che dopo essersi separata amichevolmente dall’Altavilla, si sposò per altre due volte, per morire all’età di novant’anni ed esseru sepolta nell’Abbazia della Santissima Trinità a Venosa.


La sua tomba è l’unica ad essere giunta intatta fino ai giorni nostri, e reca una scritta latina in cui si indica la sepoltura del figlio Boemondo.


Quest’arca contiene Alberada, moglie del Guiscardo./ Se chiedi del figlio, quello (lo) tiene il Canosino.


Mausoleo, quella di Boemondo, in cui gli architetti si ispirarono alle imprese in Terra Santa di Boemondo, dato che il suo aspetto ricorda molto da vicino il tempietto sovrastante il Santo Sepolcro di Gerusalemme.


L’edificio è infatti diviso in due parti: quella superiore caratterizzata da un tamburo poligonale oggi coperto da una cupoletta emisferica; quella del corpo del monumento di forma quadrangolare, con una piccola abside a destra, rivestita di lastre di marmo greco di reimpiego e scandita da arcatelle cieche e lesene.


Anche se la questione è controversa e discussa, pare che l’attuale cupola, restaurata nel 1904, non coincida con quella originale, che da incisioni del Settecento e Ottocento, apparirebbe di forma piramidale ottagonale e culminante con una pigna marmorea.


Lungo il margine superiore del tamburo corre la seguente iscrizione in versi:


Magnanimus Sirie iacet hoc sub tegmine princeps,

quo nullus melior nascetur in orbe deinceps.

Grecia victa quater, pars maxima Partia mundi

ingenium et vires sensere diu Buamundi.

Hic acie in dena vicit virtutis abena

agmina millena, quod et urbs sapit Anthiocena.


che tradotta in italiano significherebb


Sotto questa copertura giace il magnanimo principe della Siria, migliore del quale non nascerà più alcuno al mondo. La Grecia vinta quattro volte, la Partia, grandissima parte del mondo, ebbero a lungo prova dell’ingegno e delle forze di Boemondo. Costui in dieci battaglie sottomise alle redini della sua virtù schiere di migliaia di uomini: cosa che sa anche la città di Antiochia


All’interno si accedeva attraverso una porta bronzea asimmetrica realizzata alla fine dell’XI secolo da Ruggero da Melfi, che ne fu tanto orgoglioso, da firmare l’opera con


Sancti Sabini Canusii Rogerius Melfie campanarum fecit has ianuas et candelabrum


I due battenti presentano innegabili diversità di stile e di manifattura. Per ovviare a questa discrepanza Ruggero, maestro campanario, elaborò una cornice vegetale similare per ambedue, tipica ornamentazione da bordo di campana. La prima valva, quella di sinistra – molto probabilmente di reimpiego – è un blocco unico a fusione piena, con tre identici rosoni nel cui centro furono applicati una protome di leone, un fiore a sei petali entro una fascia decorativa di matrice islamica e, sopra, un rilievo della Vergine con il Bambino di cui oggi rimane solo la didascalia (Maria Mater Dei e, a ds, Ihs Filius Mariae).


Nella seconda formella dell’anta di destra, il principe di Antiochia è raffigurato insieme al fratellastro Ruggero Borsa, preferito dal padre nella successione del ducato pugliese, che morì nello stesso anno: sono inginocchiati davanti a una immagine del Cristo di cui oggi rimane solo la croce. Acerrimi nemici in vita appaiono qui riappacificati nella morte.


Nella formella sottostante, i due cugini Boemondo II – figlio di Boemondo e Costanza di Francia, principe di Antiochia (1111-1130) e Guglielmo II – figlio di Ruggero Borsa e Adele di Fiandra, duca di Puglia e Calabria (1111-1127) – sono tenuti per mano dallo zio Tancredi, in un gesto di colleganza.


Soprattutto la porta è anche supporto di una serie di iscrizioni celebrative del principe di Antiochia. In alto , si legge un primo gruppo di sei versi, ovvero di tre coppie di distici elegiaci


Unde boat mundus, quanti fuerit Boamundus:

Grecia testatur, Syria dinumerat.

Hanc expugnavit, illam protexit ab hoste;

hinc rident Greci, Syria, dampna tua.

Quod Grecus ridet, quod Syrus luget, uterque

iuste, vera tibi sit, Boamunde, salus


ossia


Per questo il mondo rimbomba di quanto sia stato Boemondo: la Grecia lo testimonia, la Siria lo enumera. Egli espugnò questa, protesse quella dal nemico; così i Greci ridono dei tuoi danni, o Siria. Ciò di cui ride il Greco, ciò di cui piange il Siro, l’uno e l’altro giustamente, sono per te vera salvezza, o Boemondo


Poi, dopo un grande fregio circolare, si leggono, sempre incisi con simile tecnica ma con dimensione più ridotta, altre due coppie di distici


Vicit opes regum Boamundus opusque potentum

et meruit dici nomine iure suo

intonuit terris. Cui cum succumberet orbis,

non hominem possum dicere, nolo deum


ossia


Boemondo vinse la potenza dei re e l’opera dei potenti e a buon diritto meritò che dal suo nome si dicesse che tuonò nelle terre. E, dal momento che il mondo soccombette a lui, non posso chiamarlo uomo, ma non voglio chiamarlo dio


Poi, ancora, lasciando alcuni centimetri di spazio, seguono altri quattro versi, tutti esametri:


Qui vivens studuit, ut pro Christo moreretur,

promeruit, quod ei morienti vita daretur.

Hoc ergo Christi clementia conferat isti,

militet ut celis suus hic adleta fidelis


in italiano


Chi vivendo si adoprò a morire per Cristo, meritò che a lui morente venisse data la vita. Dunque, la clemenza di Cristo gli conceda questo, che questo suo fedele atleta faccia il soldato in cielo


E, dopo un altro grande fregio circolare, seguono altri due esametri


Intrans cerne fores; videas, quid scribitur; ores,

ut celo detur Boamundus ibique locetur


ossia


Tu che entri osserva la porta; guarda ciò che è scritto; prega che Boemondo sia dato al cielo e che lì venga collocato


Iscrizioni che quindi, che tracciano un ritratto a tutto conto del principe normanno, dal feroce guerriero all’atleta di Cristo.


All’interno, il mausoleo si presenta oggi spoglio, a causa dei ripetuti restauri. Da alcune cronache locali, sappiamp come sino al Seicento fosse decorato con mosaici; ora, però, gli unici elementi decorativi sono costituiti da due grandi colonne di sostegno e dalla lastra incassata nel pavimento, che ricopre la tomba di Boemondo riportando la semplice dicitura: ‘BOAMUNDUS’ in una raffinata cornice decorata a palmette simile a quella della porta.

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Published on July 05, 2019 13:16

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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