Alessio Brugnoli's Blog, page 107

June 5, 2019

Come cambia la città

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In questi giorni, si è tornato a parlare del piano di pedonalizzazione diffusa di Barcellona, evidenziandone la carica innovativa e proponendolo come modello di riqualificazione urbana per altre città europee.


Tutto giusto, ma spesso ci si dimentica di ricordare come questo non nasca dal nulla, ma sia frutto di un processo lungo e spesso contrastato, che ha origine nel 1859 dal genio e dalla visionarietà di un uomo spesso dimenticato, Ildefons Cerdà i Sunyer, che dovette affrontare problemi che quelli della Roma della Raggi, parrebbero inizie.


Il primo era legato al pessimo rapporto tra la borghesia catalana, poco propensa a pagare le tasse, e il governo di Madrid, che per facilitare il lavoro ai suoi esattori e mantenere elevato il valore delle entrate daziali, aveva disposto il divieto di espandere la città al di fuori della cinta muraria e dai confini della giurisdizione militare. Indi per cui, la densità abitativa del Barri Gòtic era paragonabile a quello delle nostre città cinesi, con una viabilità minuta e frammentata e da un tessuto edilizio talmente compresso da generare inevitabilmente situazioni sociali e igieniche di grande disagio.


Cosa che un giorno sì e l’altro pure, provocava un’epidemia: per uscire dalla continua emergenza sanitaria, Madrid si decise finalmente ad abolire il vecchio divieto e permettere l’espansione della città. Così, nel 1854 furono abbattute le antiche mura e nel 1858 fu bandito il concorso per definire il piano regolatore della città, vinto dall’architetto Antonio Rovira y Trias.


Piano regolatore in cui Barcellona si organizzava intorno ad una grande piazza centrale situata alla congiunzione con la città vecchia, che fungendo da perno, conservava il suo ruolo ordinatore del tessuto urbana. La città si articolava attraverso anelli concentrici e le sue proporzioni erano modulate secondo gli insegnamenti dei grandi trattati dell’architettura classica.


Tutto bello ed elegante, apprezzato dai grandi immobiliaristi, che potevano fissare il prezzo dei lotti edificabili, in funzione della distanza dal centro, ma che non risolveva l’altro enorme problema della città, il traffico, ovviamente delle carrozze, che però provocava degli ingorghi infernali.


Così, con un colpo di mano, che oggi avrebbe fatto gridare allo scandalo e al clientelismo, il Ministero dei Lavori Pubblici emise un’ordinanza che suscitò profonda indignazione, specie nell’equivalente dell’epoca della nostra Roma fa Schifo, affidando a Ildefons Cerdà i Sunyer il compito di definire il piano regolatore.


Nonostante tutti i mugugni, fomentati dagli speculatori edilizi, Cerdà fu invece in grado di pensare l’ampliamento urbano di Barcellona secondo parametri innovativi e visionari, con lo scopo di permettere un’agevole circolazione urbana e una sostanziale omogeneità nell’intensità d’uso dei suoli, garantendo ai nuclei residenziali a riservatezza dell’abitato e la possibilità di socializzare grazie ad una rete viaria efficiente, che definiva scacchiere uniformi di isolati quadrati e alternava strade dedicate al grande traffico a quelle adatte al passeggio, che oggi definiremmo pedonali


Si venne dunque a creare un tessuto urbano estremamente rigoroso ma movimentato dalla coerente innervatura di assi viari di rango superiore (Gran Via de les Corts Catalanes, Avinguda Diagonal, Avinguda del Paral·lel, Passeig de Gràcia, Avinguda Meridiana) che, oltre a connettere il centro cittadino con i nuclei autonomi extra moenia (si pensi, per l’appunto, a Gràcia), riuscivano a vivacizzare la ripetitività della rete grazie alle loro sezioni stradali più estese o, volendo, per via delle loro giaciture, talora diverse dalla rigida ortogonalità della planimetria di base. La maglia uniforme così configurata definiva degli isolati quadrati dagli angoli smussati ( dalla lunghezza di 113,33 metri e dalla superficie totale di 12.370 metri quadrati.


Cerdà non considerò gli isolati come un semplice residuato urbanistico della maglia stradale, bensì arrivò a conferirgli una pregiata dignità architettonica. Ciò fu possibile grazie all’introduzione di una partizione in lotti dove il costruito sarebbe andato a occupare solo il 35% della superficie dell’isolato, con l’edificazione consentita solo su due o al massimo tre lati e le aree residue destinate per altri scopi o attrezzate a giardino: Cerdà, in questo modo, prevedeva, nonostante la monotonia della griglia viaria, la generazione di un tessuto edilizio estremamente diversificato, considerata l’estrema varietà in pianta degli isolati che si sarebbero venuti ad edificare.


Piano visionario, ma che fu snaturato dalla speculazione edilizia, che ottenne di aumentare le cubature e di dedicare al traffico veicolare le strade invece pensate come pedonali. Con l’arrivo del nuovo millennio, però tutti i nodi vennero al pettine; in pratica si tornò alla stessa situazione di traffico caotico di metà Ottocento.


Nel 2012, l’amministrazione di centrodestra di Barcellona, guidata dal sindaco Xavier Trias, cominciò a definire un nuovo piano di mobilità cittadina, basato su una serie di linee guida per raggiungere una riduzione del 21% del traffico privato e il cambiamento di destinazione d’uso del 60% delle strade dai mezzi a motore alle persone, riducendo il tasso di incidenti e le emissioni di anidride carbonica del 30%.


Nel progetto, la cui elaborazione terminò nel 2014, furono riprese le idee originali di Cerdà, identificando dei macro isolati, le superilles. All’interno di queste zone la velocità dei veicoli fu limitata a 10 km orari su un’unica corsia, non esistevano stalli di sosta agli incroci, privilegiando la mobilità di ciclisti e pedoni. In linea con il piano regolatore del 1859, il traffico veicolare venne deviato nelle strade perimetrali che circondano le superilles.


Ada Colau, la sindaca di sinistra che prese il posto di Trias, invece di fare come in Italia, ossia gettare nel cesso le idee dell’amministrazione precedente, si fece in quattro per realizzare tale piano. I risultati dopo 5 anni sono contradditori: il traffico non è diminuito, congestionando le strade perimetrali e al contempo la pedonalizzazione diffusa ha favorito il processo della gentrificazione: se il primo problema, con le soluzione legati alla Smart City e con l’adeguamento dei mezzi di trasporto pubblico, può essere risolto, del secondo è assai più difficile venirne a capo…

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Published on June 05, 2019 11:47

T. Maccio Plauto

Studia Humanitatis - παιδεία


di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 35-48







Vita

Il nome del poeta (almeno nella sua forma completa) è fra i dati incerti. Gli antichi lo citano comunemente come Plautus, forma romanizzata di un cognome umbro, Plotus (significato originario dubbio: «dalle grandi orecchie» o «dai piedi piatti»), e almeno questo elemento di identificazione è sicuro. Nelle edizioni moderne, fino all’Ottocento, figura il nome completo M. (abbreviazione del prenome Marcus) Accius (scritto anche Attius) Plautus. Questa forma è di per sé sospetta alla luce di considerazioni storiche: i tria nomina – cioè l’identificazione di una persona per prenome (ad esempio, Marco), nome gentilizio (esempio, Tullio) e cognome (esempio, Cicerone) – si usavano per chi era dotato di cittadinanza romana, e non sappiamo se Plauto l’abbia mai avuta. Un antichissimo codice di Plauto (il Palinsesto Ambrosiano, rinvenuto…


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Published on June 05, 2019 05:58

June 4, 2019

Lasciateci lavorare !

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Come molti di coloro che leggono questo blog sanno, in collaborazione con numerose associazioni del Rione ho portato avanti quello che, senza falsa modestia, è l’unico, tra decine di chiacchiere, vero progetto di riqualificazione urbana dell’Esquilino.


Progetto partecipato, che ha coinvolto centinaia di cittadini, che hanno messo a disposizione il loro tempo libero, la loro passione, le loro idee e che si sono autassati per permetterne la realizzazione.


Progetto che prevedeva la trasformazione di via Giolitti e del Nuovo Mercato Esquilino in un grande museo all’aperto della street art, i cui primi passi, al civico 225, hanno avuto riconoscimenti a livello nazionale e internazionale, avendone parlato libri e documentari, anche perchè hanno coinvolto pittori di indubbio valore come Mauro Sgarbi, Beetroot e Carlos Atoche.


In paesi civili, un progetto di tale sorta, sia per i risultati artistici, sia perché frutto dell’impegno dal basso di una cittadinanza attiva, che ha contribuito a rafforzare il tessuto sociale del Rione, che rischia ogni giorno, per gli effetti della crisi economica, che accentua la paura del diverso e rende sempre meno efficace il welfare e le gestione urbana, di disgregarsi, sarebbe considerato un patrimonio da tutelare e valorizzare.


Ma a quanto pare, questo non vale per il I Municipio, che, da un anno a questa parte, sembra essersi messo di punta, per farlo fallire. Non abbiamo avuto risposte, alle richiesta di permessi per completare la facciata del Nuovo Mercato Esquilino e posso anche capire, viste le polemiche portate avanti dai Cinque Stelle su tale progetto, che l’Amministazione preferisca il quieto vivere alla valorizzazione di quello che da sempre è lo stomaco e il cuore della città, laboratorio della Roma del futuro.


Non abbiamo avuto risposte, alla proposta di realizzare a via Cappellini una galleria di ritratti degli eroi della Resistenza dell’Esquilino: ma d’altra parte, lungi da me contestarlo questi sono tempi difficili e i valori di libertà, coraggio e solidarietà incarnati da Pilo Albertelli, da Sabato Martelli Castaldi e da Roberto Lordi non sia mai che possano scandalizzare qualche potenziale elettore.


La goccia che ha fatto traboccare il vaso è avvenuto in questi giorni: con la scusa di un intervento di ripristino del decoro urbano, fregandosene altamente dell’impegno, della fatica e del lavoro di tanti cittadini, i murales realizzati in questi anni sono stati danneggiati, in una sorta di vandalismo istituzionale, imbrattandone parte con una vernice di un colore indegno.


Ora, noi non chiediamo aiuti o prebende: questo lo lasciamo ad altri, che non sanno camminare sulle proprie gambe. In questi anni ce la siamo cavata da soli e non vedo perché non dovremmo continuare a farlo.


Chiediamo solo che ci venga permesso di lavorare, senza inutili bastoni tra le ruote: perché se la politica non è capace e in grado di rendere migliore e più vivibile l’Esquilino, beh, allora è giusto che siano i cittadini a prendere in mano il proprio destino…

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Published on June 04, 2019 14:30

June 3, 2019

Sonate traslocate

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Pochi conoscono la storia, complessa e articolata, del Parco di via Carlo Felice. Sino alla fine del ‘500 I’area dorsale del colle Celio viene descritta dagli storici come una piccola valle. ramo di quella più grande in cui scorreva la marrana di San Giovanni, ossia un tratto dell’Acqua Marian


ll riempimento della valletta iniziò con Sisto V, durante la realizzazione della strada tra Santa Maria Maggiore e Santa Croce in Gerusalemme, per favorire lo spostamento dei pellegrini e fu completato nel 1774 con Benedetto XIV per creare il vialone alberato, di congiunzione tra il piazzale davanti a Santa Croce e la piazza di San Giovanni, oggi via Carlo Felice. Lo spazio che così si creò fra il fossato e le Mura venne riempito a partire dalla seconda metà dell’800 con terreni di riporto. All’inizio del XVIII secolo il viale accanto a quest’area (di circa 6 ettari) che costeggiava le mura, dall’Anfiteatro Castrense fino alla Porta Asinara, era, come oggi, sistemato a verde.


II viale fu realizzalo nel 1744 con una piantata regolare di 254 gelsi e 64 olmi disposti in 6 filari e donato da papa Lambertini ai monaci cistercensi di Santa Croce. Tra il 1818 e il 1823 furono eseguiti lavori di sistemazione ispirati a un progetto di Giuseppe Valadier: tra il 1867 e 1877 si registrò un tentativo, mai attuato. di realizzare un parco forestale che avrebbe migliorato la salubrità dell’area.


A inizio Novecento, invece di valorizzare lo spazio verde, fu deciso di utilizzarlo come sede di un deposito Atac, costruendo una serie di capannoni, che impedivano ai cittadini di fruire dell’area e delle mura, situazione che durò sino al Giubileo del 2000, quando fu ripristinato il Parco.


Purtroppo, come la maggior parte del verde pubblico nella città di Roma, il parco negli ultimi vent’anni è stato abbandonato a se stesso, cadendo sempre più nel degrado. Nel 2017 però, un gruppo di cittadini, gli Amici del Parco Carlo Felice, hanno deciso di reagire: da una parte, si sono sporcati le mani, sostituendosi all’AMA e al Servizio Giardini, curando i prati, mettendo a dimora nuovi alberi, raccogliendo l’immondizia.


Dall’altra, si sono impegnati in una serie di attività culturali, allo scopo di mantenere vivo e frequentato il giardino.


Attività a cui quest’anno collaborano anche Le danze di Piazza Vittorio, provvisoriamente sfrattate a causa dei lavori in corso, che speriamo siano brevi, con una serie di sonate, che come l’anno scorso hanno due fili conduttori: il viaggiare attorno mondo, alla scoperta di altri popoli e il valorizzare l’ampio e complesso humus culturare che è alla base della nostra musica tradizionale.


Attività che comincerà questo venerdi 7 giugno, con una


MINGA CULTURALE 


Dialogo di tradizioni popolari tra la Colombia e l’Italia.

La Resilienza e il Realismo Magico delle culture ancestrali e indigene, nella salvaguardia della vita, il territorio e le tradizioni dei Popoli.



I “Danzantes de Males” e il “Taitico Andino Danzarin”, direttamente dal Resguardo Indigena Males e Ipiales (Nariño) in Colombia, direzione artistica Gerardo Rosero .
 La “Pizzica Tarantata” della Tradizione popolare italiana.

PROGRAMMA


Ore 18.00 . Minga Flash Mob . Piazza del Popolo.


Ore 19.30 . Sonata Traslocata . Giardini di via Carlo Felice.


-Pizzica Tarantata

-Spettacolo dei Danzantes de Males e il Taitico Andino Danzarin.

-Workshop del Maestro Gerardo Rosero : “L’ APPROPRIAZIONE ORGÁNICA DEL RITMO: UOMO, CORPO, TERRITORIO”.

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Published on June 03, 2019 12:50

June 2, 2019

Corfinium o Italica








Pochi ricordano Corfinium, la capitale dei Peligni, sorta sulla via Valeria, che fu protagonista di una dei più importanti drammi della politica romana, che già nel II secolo a.C. si dibatteva su quale status giuridico assicurare agli Italici.


Durante il tribunato della plebe di Lucio Apuleio Saturnino (103-100 a.C.) avvenne un’estesa immissione di italici nel corpo della cittadinanza, facendo passare nelle liste dei cittadini molti italici (probabilmente anche sulla scia delle invasioni di cimbri e teutoni affrontate da Gaio Mario e la sua apertura all’esercito ai proletari); anche il censimento del 97 a.C. fece entrare molti che legalmente non avevano diritto, il che scatenò a Roma una serie infinita di polemiche.


Il relativo dibattito culminò con la promulgazione della lex Licinia Mucia de civibus redigentis del 95 a.C. tutto sommato un banale provvedimento che da una parte tendeva a chiarire, con una commissione d’inchiesta la posizione giuridica dei numerosi soci e latini che godevano dei diritti di cittadinanza, pur non essendo romani, dall’altra a limitare i casi di acquisto della cittadinanza ottenuti attraverso il trasferimento del domicilio in Roma.


Provvedimento che provocò un processo a uno spoletino cliente di Mario che il condottiero aveva gratificato della cittadinanza romana per meriti militari, la cui condanna fu vista come una provocazione dagli italici e provocò una serie di rivolte e moti di protesta.


Per buttare acqua sul fuoco, il tribuno della plebe Marco Livio Druso propose una legge per l’estensione della cittadinanza romana, ma la proposta non piacque né ai senatori né ai cavalieri. Il più accanito rivale di Druso fu il console Lucio Marcio Filippo, che dichiarò illegale la procedura seguita per le leggi di Druso, cosicché queste non vennero nemmeno votate. Nel novembre del 91 a.C. seguaci estremisti di Marcio Filippo mandarono un sicario ad assassinare Druso. Questa fu la scintilla che fece scoppiare la guerra sociale.


A peggiorare la situazione, il tribuno Quinto Varo, cittadino romano, ma nativo di Sucrone in Iberia, fece passare una legge che rendeva assai più complessa l’acquisizione della cittadinanza romana; ma la goccia che fece traboccare il vaso, secondo quanto racconta Velleio Patercolo, furono il comportamento del pretore Quinto Servilio Cepione e del suo legato Fonteio, che inviati ad Ascoli per inquisire secondo le nuove norme, si espressero in termini tanto minacciosi, da provocare la rivolta generale della città, che culminò nel massacro di tutti i romani residenti.


Gli Italici si riunirono in un’assemblea per discutere su come reagire alle prepotenze di Roma. Vi parteciparono Marsi, Peligni, Marrucini, Vestini, Piceni, Sanniti, delegati dalla Lucania e dall’Apulia. I Vestini di Pinna, odierna Penne, la maggioranza degli Irpini, Nola e Nocera in Campania, le città greche di Napoli e Reggio parteggiarono per Roma. Erano popoli e città che già avevano ottenuto un trattamento di favore da Roma, come del resto Umbri ed Etruschi, che non intervennero all’assemblea dei rivoltosi. Tuttavia gli Italici fecero un ultimo tentativo di conciliazione, chiedendo nuovamente a Roma la cittadinanza.


Di fronte all’ennesima risposta negativa, decisero di proclamare il nuovo Stato, con capitale Corfinium, rinominata Italica. e creando una struttura politica simile a quella di Roma. Furono eletti due consoli, il marso Pompedio Silone ed il sannita Papio Mutilo, dodici pretori, nonché un Senato di 500 membri, e si coniarono monete con il nome del nuovo stato. In più coniarono una monetazione alternativa a quella romana, caratterizzat dall presenza sul recto dellaa personificazione dell’Italia come dea in alfabeto latino o l’equivalente VITELIU(Víteliú=Italia) in alfabeto osco.


Gli italici organizzarono un esercito di oltre 100.000 uomini costituito in legioni secondo l’ordinamento romano; un raggruppamento posto al comando del valente condottiero marso Quinto Poppedio Silone, venne schierato a nord, nel Piceno e negli Abruzzi, mentre il comandante sannita Gaio Papio Mutilo prese la guida delle forze concentrate a sud, in Campania e nel Sannio; i piani prevedevano un’avanzata convergente verso il Lazio. Anche i romani mobilitarono circa 100.000 legionari: a nord si schierò il console Publio Rutilio Lupo, mentre a sud fronteggiarono l’esercito di Mutilo, le legioni al comando dell’altro console Lucio Giulio Cesare.


La guerra procedette sanguinosa, con alterne vicende, e i romani, per uscirne fuori, dovettero trovare una soluzione politica, resumando la vecchia legge di Druso sulla cittadinanza.


Nell’89 a.C. il console Pompeo Strabone, padre del più famoso Pompeo Magno, propose la lex Pompeia che permetteva ai coloni della Gallia Cisalpina di acquisire la cittadinanza, esempio di come Roma alla fine avesse dovuto per forza piegarsi alle richieste dei popoli italici per non trovarsi annientata. Nel frattempo la guerra sociale in Abruzzo proseguì, ed entrò nella fase del cosiddetto “bellum Marsicum”, perché si combatté prevalentemente nel territorio del Fucino.


I Marsi accorsero in aiuto degli Etruschi rivoltosi, e furono raggiunti da Strabone, che uccise 15.000 italici, spegnendo di fatto ogni velleità di resistenza. Successivamente mosse su Ascoli per vendicare il massacro del 91, e la città fu rasa al suolo.


Nell’89 a.C. fu poi primulgata la Lex Plautia Papiria che concedeva il diritto di cittadinanza romana a tutti gli italici a sud del Po, i quali avrebbero però dovuto lasciare le armi entro 60 giorni. Il risultato fu di dividere i rivoltosi: gran parte deposero le armi, mentre altri continuarono a resistere. I Peligni e i Vestini si arresero, decisi a cogliere al volo l’occasione: di conseguenza il tesoro della lega, conservato a Corfinio veniva traslato nell’88 ad Isernia, più ben riparata.


Il controllo della rivolta stavolta passò in mano alla tribù dei Pentri, e in aiuto di Roma accorse Silla dalla Campania, distruggendo Pompei, Ercolano e Stabia, fino a giungere a Boviano, territorio storico per le rivolte dei Pentri due secoli prima. Il movimento meridionale sannita di Nola e della Lucania continuò la lotta fino all’82 a.C., mentre Isernia e Corfinio cadevano sotto il controllo di Silla, dopo ilo massacro dell’altopiano delle Cinquemiglia. Corfinio subì un saccheggio sanguinoso, e fu privata dell’antico nome, venendo chiamata “Valva”, e dal Medioevo, come detto, Pentima,


A detta di tutti gli storici, la guerra fu tanto aspra e cruenta che, anche al tempo di Vespasiano, servì come punto di riferimento nella cronologia degli avvenimenti, che venivano indicati come accaduti prima o poi la guerra sociale. Oltre trecentomila morti… La superstizione popolare creò e ingigantì episodi, come quelli di statue che grondavano sangue, fiumi che si tingevano di rosso, pioggia di pietre, parti di creature fantastiche, sintomi evidenti della grande ansietà popolare per le terribili conseguenze delle operazioni belliche.


Corfinio ricomparve agli onori della storia quando scoppiò la guerra civile fra Cesare e Pompeo: la cittadina Peligna era presidiata dai Pompeiani. Cesare varcò il Rubicone il 10 gennaio del 49 a. C. (le date sono quelle del calendario pre-giuliano), in rapida successione occupò Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Gubbio, Fermo, penetrò in Abruzzo e pose l’assedio a Corfinio (15 febbraio).


Nello stesso giorno Cesare cominciò le opere di fortificazione dell’assedio e invio Marco Antonio a Sulmona, altra roccaforte pompeiana, ma i civili e i militari lo accolsero giubilanti, senza opporre alcuna resistenza. L’assedio terminò sette giorni dopo, con la resa delle truppe pompeiane, prontamente inglobate nelle legioni di Cesare, dopo giuramento.


Con l’imperatore Augusto ci fu un riordinamento amministrativo territoriale, e la città fu inclusa nella Regio IV Samnium, rimanendoci sino all’epoca longobarda. La città viene menzionata varie volte dagli scrittori romani, chiamata anche “Italia” (Velleio Petercolo, II, 16 – Diodoro Siculo, XXXVII, 2). Durante l’epoca romana mantenne comunque un privilegio economico insieme a Sulmona perché entrambe si affacciavano lungo la strada della via Tiburtina Valeria, che costeggiava il Vella, e poi il fiume Aterno, sino a raggiungere il porto di Aternum ossia Pescara. Divenne un municipium con quattuorviri, appartenenti alla tribù Sergia e poi ai tempi dei longobardi, sede di un gastaldato.


Di tutta questa epopea, cosa è rimasto ? Poca roba. Si comincia i Murgini, monumenti funerari adiacenti alla basilica concattedrale di San Pelino. Sono monumenti funebri romani del II secolo, costruiti a torre con camera mortuaria. Si trovano vicino alla basilica di San Pelino. Sono chiamati “murgini” perché in dialetto Corfiniese morgia significa pietra. Ciò è confermato da una lapide commemorativa presso la seconda tomba minore. I due blocchi in ciottoli di pietra hanno pianta a torre, e il maggiore presenta ancora il vano centrale per la sepoltura, mentre il secondo assume la classica forma di monolite. In origine i due sepolcri dovevano essere assai decorati, ma le spoliazioni compiute dalla caduta di Roma al Medioevo per la costruzione della nuova città, e i vari terremoti, hanno compromesso nei secoli i due monumenti.


Si passa poi l’Acquedotto delle Vuccole, detto anche delle Uccole o Buccole, collegava il Castrum Radiani con l’antica capitale italica.


Vi è poi il teatro antico, situato nel centro storico sul sito in cui attualmente è la piazza principale del paese, fu costruito nel I sec. a. C. sfruttando la naturale conformazione del terreno in corrispondenza dell’antica cittadella o, più semplicemente, di un colle.


Purtroppo rimane ben poco delle originarie strutture obliterate nel corso dei secoli dalla costruzione di edifici e, più recentemente, dall’apertura della Strada Statale n. 5, che ha parzialmente modificato la piazza antistante.


Si possono vedere unicamente i resti di un muro in opus incertum pertinente ai “cunei” – muri radiali della cavea di sostegno alle gradinate – alcuni dei quali si conservano ancora negli scantinati delle abitazioni e difficilmente accessibili.


Stando ai rilievi e alle analisi delle fotografie aeree, il teatro, , aveva un diametro di circa 75 metri ed una capienza di circa 4.000 posti; alcune strutture di fondazione si trovano ancora sotto il palazzo municipale e la piazza. Scena ed orchestra vennero distrutte quasi sicuramente nel periodo successivo per riutilizzarne il materiale costruttivo; una lastra in pietra inserita nel campanile della basilica di San Pelino recava un’antica iscizione, oggi abrasa, che riguarda proprio la costruzione dell’edificio pubblico: “T. MITTIUS. P(ublius). F(ilius) .CELER. IIIIVIR QUINQ(ennalis) THEATRUM .MUNDUM. GRADUS. FACIENDOS. CURAVIT” , ovvero: il quattuorviro quinquennale T. Mittius Celere curò la costruzione del teatro, delle gradinate e di un “mundus”.


Più interessante è il parco Archeologico, intitolato al reverendo Nicola Colella, appassionato studioso di Corfinio che negli anni ’30 del secolo scorso approfondì la ricerca sul territorio e sulla topografia della città antica – si compone di tre diverse aree: Piano San Giacomo, Tempio Italico e Santuario di Sant’Ippolito.


Il piano San Giacomo, Denominato anche “la Civita” o “contrada degli orefici” per la ricchezza di oggetti preziosi rinvenuti sul sito, si è rivelato una delle zone più importanti ed interessanti dal punto di vista della ricerca archeologica, in quanto vi sono stati riportati alla luce diversi settori della città antica: strade con marciapiedi e portici, botteghe, ambienti residenziali, impianti termali, ecc. I resti consentono di ricostruire la storia dell’insediamento urbano almeno dal II sec. a. C. fino al secolo successivo, quando il quartiere cominciò ad organizzarsi in aree con diverse e ben definite funzioni.


Nel periodo imperiale l’area risulta fittamente urbanizzata, con negozi, terme e numerose abitazioni private. Spicca una ricca domus (I sec. d. C.) con pavimenti a mosaico policromo, che si articolava attorno ad un giardino con fontana polilobata al centro ed un ninfeo con mosaici in pasta vitrea; il peristilio era ornato da stucchi ed affreschi sul soffitto; le singole stanze avevano una ricca decorazione parietale con dipinti e raffinati mosaici pavimentali con inserti di marmi colorati ed alabastro egiziano. Accanto alla domus è collocato un edificio termale (I – III sec. d. C.) in cui sono ancora visibili le colonnine dell’intercapedine che permetteva il passaggio dell’aria calda per riscaldare gli ambienti e la vasca absidata dell’antico calidarium. Vie e marciapiedi avevano il fondo in ghiaia e cordolo in pietra e sulla strada maggiore si affacciavano le tabernae, di cui restano le strutture murarie e le opere di canalizzazione.


La zona sacra dell’antico municipium si trovava poco più a sud, in località “Impianata”, in corrispondenza dell’attuale strada provinciale che conduce alla vicina Pratola Peligna. Grazie all’indagine archeologica sono stati rinvenuti i resti di un tempio italico, risalente al I sec. a.C.: un podio in opera incerta ed il sacellum con pavimento mosaicato; le strutture dell’alzato sono andate, purtroppo, perdute anche a causa dello spoglio perpetrato in epoca successiva ai danni degli antichi edifici allo scopo di utilizzarne il materiale per nuove costruzioni. Sono stati trovati anche oggetti votivi ed un cameo con l’effige dell’imperatore Claudio. Nei pressi erano collocati un secondo tempio di piccole dimensioni adibito, forse, a riti funerari e una necropoli italica del IV sec. a. C. con tombe a fossa, da cui sono emerse numerose epigrafi.


Infine, poco distante dal paese, presso la fonte di Sant’Ippolito, sono emersi i resti di un antico santuario italico del III sec. a. C. – I sec. d. C., con molta probabilità dedicato ad Ercole, stando ai ritrovamenti delle numerose statuette che lo ritraggono. Si trattava di una struttura terrazzata, nel cui piano superiore si ergeva la cella della divinità titolare, mentre inferiormente erano collocate una cisterna in opera cementizia ed una vasca in calcare, costruite però successivamente.


Quanto ritrovato negli scavi archeologici è conservato nel Museo Civico Archeologico, inaugurato nel 2005, situato all’interno di Palazzo Trippitelli (sec. XVII), nel centro storico dell’antico borgo. Le origini della sua istituzione risalgono però al XIX secolo, epoca in cui l’insigne studioso Antonio De Nino, cui il museo è dedicato, diede inizio agli scavi archeologici nel sito dell’antica Corfinium, riportando alla luce un ingente quantitativo di reperti, che formarono il primo nucleo dell’esposizione che egli stesso allestì nel 1878 nell’oratorio di Sant’Alessandro annesso alla Cattedrale di San Pelino. Successivamente la collezione venne incrementata grazie all’opera del canonico don Nicola Colella, a cui, come accennavo è intitolato il parco archeologico, che, appassionato di archeologia, proseguì l’attività del suo predecessore; purtroppo con l’occupazione tedesca il museo fu depredato.


Presto ricostituito fu poi chiuso per motivi di sicurezza e il materiale archeologico trasferito a Chieti ad opera della Soprintendenza Archeologica d’Abruzzo. Solo nel 2005, grazie alla forte volontà locale, la collezione è tornata a Corfinio, dove si è inaugurato ex novo il Museo Civico Archeologico, impreziosito anche da numerosi reperti, frutto delle più recenti campagne di scavo condotte nel territorio dalla Soprintendenza coadiuvata dall’Università La Sapienza di Roma.


Il museo è articolato su due livelli. Nell’atrio del piano terreno è stato fedelmente ricostruito lo “Studiolo” di De Nino, con arredi tipici del XIX secolo e testimonianze della sua attività: alcune sue opere, rapporti epistolari e rinvenimenti. Tra i manufatti più antichi, un’accetta in pietra del IV millennio a. C. e oggetti d’uso quotidiano appartenenti all’età del Ferro.


Al primo piano sono visibili in successione, nelle 10 sale espositive, i reperti che documentano i periodi dalla preistoria al medioevo. Il percorso inizia con i ritrovamenti degli scavi di De Nino attinenti a contesti culturali di vasto respiro – tra cui torques gallici e bronzi etruschi – ma anche locali, come il corredo funerario di una sacerdotessa di Cerere. Molti gli oggetti provenienti dalle tombe a grotticella e a camera sia maschili che femminili come ad esempio monili, specchi, fibule, anfore ed altro vasellame, bronzi, ex voto. La quarta e quinta sala sono dedicate ai reperti del locale santuario italico di Ercole e Cerere, con la ricostruzione del sacello.


Seguono gli spazi relativi all’antico insediamento urbano di Piano San Giacomo, con una ricca esposizione di oggetti di vita quotidiana, decorazioni architettoniche e musive. Preziosa la collezione numismatica che vanta una moneta in bronzo coniata dalle popolazioni italiche durante la loro ribellione a Roma nella Guerra Sociale (91 – 89 a. C.), che ha inciso nel recto, assieme ad un volto femminile coronato di alloro, il nome ITALIA, usato per la prima volta dagli insorti. Alcune immagini dell’imperatore Claudio (I sec. d. C.) sono rappresentate su un cameo ed in un piccolo ritratto. Nelle sale seguenti sono esposti i reperti appartenenti alle successive età tardo imperiale e medioevali

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Published on June 02, 2019 05:44

June 1, 2019

Macedoni nel giardino dell’Eden. La Babilonia in età ellenistica (parte I)

In Fernem Land


L’importanza della Mesopotamia nel progetto politico di Alessandro è implicita nella volontà di fare di Babilonia la capitale del suo regno. Una scelta in parte confermata dai Seleucidi dopo la loro definitiva assegnazione dell’Oriente e la fine dei progetti unitaristici di Antigono Monoftalmo.



La linea politica di Seleuco Nicatore e dei suoi più immediati successori rappresenta quella più prossima alla volontà di Alesandro di creare un nuovo mondo multietnico e multiculturale in cui greci e barbari si sarebbero fusi per creare un nuovo, unico, popolo. Seleuco era stato fra i pochi generali di Alessandro a tenere al suo fianco, dopo la morte di quest’ultimo, la moglie persiana – Apame figlia di Spitamene di Battriana – e questa sarà la madre dell’erede al trono Antioco. Mentre nell’Egitto tolemaico la spaccatura fra macedoni e indigeni si acuiva sempre più i Seleucidi portavano avanti con rigore una politica di integrazione ponendo se stessi…


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Published on June 01, 2019 12:26

WUNDERKAMMER – Il Culto del Cargo

Berliner


Proseguiamo il viaggio tra le religioni semi-sconosciute e spostiamoci in Melanesia, precisamente sull’Isola di Tanna, oggi Repubblica di Vanuatu ma un tempo, manco a dirlo, colonia britannica. È qui che ha origine e ancora dura uno dei culti del cargo più antichi al mondo.



Cosa sono i culti del cargo? Si tratta di movimenti religiosi melanesiani presenti già nel tardo Ottocento ma sviluppatisi in particolare a cavallo tra le due guerre, quando i contatti tra i locali e la cultura occidentale si sono fatti più frequenti. Erano diffusi, oltre che nelle Nuove Ebridi, anche in alcune zone della Papua Nuova Guinea e, si pensa, anche nelle Isole Salomone. Nascono in periodi di crisi, abbastanza frequenti se sei un’isoletta controllata da un impero coloniale, e presentano elementi comuni a molti movimenti religiosi: una figura carismatica centrale, una visione o sogno proveniente da un passato ancestrale e la promessa di…


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Published on June 01, 2019 10:34

Il faro di San Lorenzo

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Tornando dal Mercato San Lorenzo, una spazio palermitano analogo al Mercato Centrale di Roma, incentrato sui prodotti tipici siciliani, che si articola nei locali di un’antica agrumaria degli anni ‘40, capita spesso di passare per via dei Quartieri, che prende il nome dai baraccamenti militari delle guardie reali di re Ferdinando III di Borbone, che durante il suo soggiorno palermitano, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, amava recarsi quotidianamente al parco della Favorita per cacciare.


Tra i vari palazzoni figli del Sacco di Palermo, spicca un’alta struttura tinta di bianco, del tutto somigliante ai fari che si vedevano nei porticcioli. Essendo Palermo una città di mare, non ci sarebbe nulla di strano; peccato come la zona sia parecchio distante dal litorale e manchi sulla sommità la lanterna.


Il tutto è facilmente spiegabile, se si considera la storia della zona: sino all’urbanizzazione selvaggia degli anni Sessanta, voluta dalla mafia, questa era nota come Piana dei Colli, una vasta area fertile e rigogliosa in cui sorgevano vaste piantagioni, prospere grazie all’abbondanza di piccoli corsi d’acqua che scorrevano irrigando i campi fino a giungere alla zona (allora paludosa) di Mondello, dove si riversavano in mare.


Per cui, il faro non era nulla più che una torretta di avvistamento, dove i campieri potevano controllare i braccianti all’opera. Quando nacquero i palazzoni per la speculazione edilizia, nessuno si premurò di abbatterla e la torretta fu decontestualizzata, ignara testimone dei cambiamenti, per diventare un punto di riferimento per gli appuntamenti in borgata…

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Published on June 01, 2019 08:02

May 31, 2019

Santa Sinforosa

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Il buon compare Carnera, che nella sua semplicità e nel suo spessore umano è stato un maestro per tutti noi, era solito pregare e smadonnare una santa dal nome alquanto insolito, Sinforosa.


Per anni, ho pensato che fosse un nome immaginario o la deformazione di qualcun altro, invece scartabellando in rete, ho scoperto come tale veramente venerata e sia di presunta origine tiburtina, tanto che il buon monsignore Giuseppe Cascioli, grande erudito ed esperto di storia locale, gli dedico un capitolo di un suo libro dedicato alle personalità eminenti della storia di Tivoli


Le più rilevanti fonti letterarie antiche, infatti, tra cui il Martirologio Geronimiano e la Passio Sanctae Sympherosae,testo agiografico ripreso nel 1588 da F. Cardulo negli Acta Symphorosae et sociorum ricordano il luogo di deposizione del corpo della martire e dei suoi sette figli, al IX miglio della Tiburtina, e riportano la vicenda del martirio della santa, gettata nell’Aniene in suburbano eiusdem civitatis (l’antica Tibur) sotto l’imperatore Adriano.


Martirio, così descritto con molta fantasia


L’imperatore Adriano si era fatto fabbricare un palazzo e voleva consacrarlo con i soliti nefandi riti pagani. Cominciò a chiedere con sacrifici i responsi agli idoli e ai demoni che abitano in essi e tale fu la risposta: “La vedova Sinforosa, con i suoi sette figli, ci strazia tutti i giorni invocando il suo Dio. Pertanto, se costei, con i suoi sette figli, sacrificherà secondo il nostro rito, vi promettiamo di concedere tutto ciò che chiedete”. Adriano quindi la fece imprigionare con i figli e con fare insinuante cercava di esortarli a sacrificare agli dei.


Ma Sinforosa gli disse: “Il mio sposo Getulio e suo fratello Amazio, mentre militavano nel tuo esercito come tribuni, affrontarono tanti generi di torture per non consentire a sacrificare agli idoli e, simili ad atleti valorosi, con la loro morte vinsero i demoni. Preferirono infatti farsi decapitare che lasciarsi vincere, soffrendo la morte che, accettata per il nome di Cristo, cagionò loro ignominia nel mondo degli uomini legati agli interessi terreni, ma nel consesso degli angeli diede loro onore e gloria eterna. Si aggirano tra gli angeli ora e, innalzando i trofei della loro passione, godono in cielo la vita eterna con l’eterno re”.


Rispose l’imperatore a santa Sinforosa: “O sacrifichi con i tuoi figli agli dei onnipotenti, o farò immolare te stessa con i figli tuoi”. Soggiunse quindi santa Sinforosa: “Donde mi viene una simile grazia, di meritare di essere offerta come vittima a Dio con i figli miei?”. E l’imperatore: “Io ti farò sacrificare ai miei dei”. La beata Sinforosa rispose: “I tuoi dei non possono accettarmi in sacrificio. ma se sarò immolata in nome di Cristo mio Dio, avrò la potenza d’incenerire i tuoi demoni”. Disse allora l’imperatore: “Scegli una di queste due proposte: o sacrificherai ai miei dei o morirai di una morte tragica.”. Rispose allora Sinforosa: “Tu credi che il mio proposito possa cambiare per un qualche timore, mentre il mio desiderio più vivo è di riposare in pace accanto al mio sposo Getulio, che tu facesti morire per il nome di Cristo”.


L’imperatore Adriano la fece allora condurre al tempio di Ercole e lì dapprima la fece schiaffeggiare, quindi appendere per i capelli. Vedendo tuttavia che in nessun modo e con nessuna minaccia riusciva a farla deviare dal suo proposito, le fece legare una pietra al collo e la fece affogare nel fiume. Il fratello Eugenio, che ricopriva una carica presso la curia di Tivoli, raccolse il suo corpo e lo fece seppellire alla periferia di quella città. Il giorno seguente, l’imperatore Adriano fece chiamare alla sua presenza, contemporaneamente, tutti i sette figli di lei. Quando vide che in nessun modo, né con le lusinghe né con le minacce riusciva a indurli a sacrificare agli dei, fece piantare sette pali intorno al tempio di Ercole e, con l’aiuto di macchine, vi fece affiggere i giovani. Quindi li fece uccidere: Crescente, trafitto alla gola; Giuliano al petto; Nemesio al cuore; Primitivo all’ombelico; Giustino alle spalle; Stracteo al costato; Eugenio squarciato da capo a piedi.


L’imperatore Adriano, recatosi il giorno dopo al tempio di Ercole, fece portare via i loro corpi e li fece gettare in una profonda fossa, in una località che i pontefici chiamarono: “Ai sette giustiziati”. Dopo ciò vi fu nella persecuzione una tregua di un anno e sei mesi: in quel tempo fu data onorata sepoltura ai corpi dei martiri e furono innalzate delle tombe a coloro i cui nomi sono scritti nel libro della vita. Il giorno natalizio dei santi martiri cristiani Sinforosa e dei suoi sette figli è celebrato 15 giorni prima delle calende di agosto (17 luglio). I loro corpi riposano sulla via Tiburtina, a circa otto miglia da Roma, sotto il regno di nostro Signore Gesù Cristo, a cui sono dovuti onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”


Con molta fantasia, ci tengo a sottolinearlo, perché il buon Adriano, con tutti i suoi difetti, a tutto pensava tranne che a perseguitare i cristiani. Addirittura, confermando il rescritto di Traiano, impose di



Non fare d’ufficio alcuna ricerca di cristiani a fini persecutori.
Se essi fossero stati denunciati e confessi sarebbero stati da punire.
Vietare di dare seguito alle denunce anonime, da non doversi accettare in alcun modo

Inoltre, consigliò, nella speranza di rieducare i cristiani, di applicare, piuttosto che la pena di morte, una pena detentiva, l’esilio o la schiavitù in miniera


Scetticismo, quello su questa passione, confermato dall’archeologia, che ha compiuto una serie di interessantissime scoperte sul presunto luogo di sepoltura della santa e dei suoi figli. Le prime evidenze archeologiche di quel tratto della Tiburtina, risalgono proprio al II secolo d.C., appunto all’età adrianea, ma sono senza dubbio pagane.


Si tratta del cippo sepolcrale che menziona Cornelia Sympherusa e Claudia Primitiva, di due iscrizioni latine e il frammento di un sarcofago con iscrizione metrica in greco. Inoltre proviene dalla zona l’ara funeraria di Sextus Rufus Victor, oggi conservata a Castell’Arcione.


Tra la fine del III, inizi del IV sec. d.C. in pratica ai tempi di Massenzio, che come detto altre volte, è il primo a inaugurare la politica di tolleranza proseguita da Costantino, viene costruita una basilichetta, con pianta alquanto irregolare a forma di cella tricora (m 20 x 14 ca.) per custodire il corpo di un gruppo di martiri tiburtini, probabilmente vittime della grande persecuzione di Diocleziano.


La figura più venerata, doveva essere probabilmente di una donna: ai tempi di Teodosio, da una parte era aumentato notevolmente il numero dei pellegrini che si recavano a venerare le reliquie, dall’altra, non si avevano molti dubbi sull’identità di tali martiri. Per cui qualche prelato, ricco di spirito di iniziativa, associò il nome della martire alla Cornelia Sympherusa del vicino cippo sepolcrale, associato a qualche mausoleo, e trasformò gli altri corpi in quello dei suoi figli.


Inoltre, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, il martyrion fu affiancato da una basilica maior, che, nelle forme, ricordava la fase costantiniana di San Lorenzo fuori le Mura. Per esigenze di carattere devozionale, l’ignoto architetto creò un punto di collegamento tra la basilica maior e la cella memoriae, che avvenne tramite l’apertura, nelle absidi contrapposte, di una fenestella confessionis, permettendo in tal modo ai fedeli la visione del luogo di deposizione dei martiri.


La basilica maior, preceduta da un nartece, era un ampio edificio di m. 40 x 20 circa, diviso in tre navate scandite da una doppia fila di sei pilastri e terminante con un abside affiancata ai lati da due secretiores aedes. Presentava una copertura a capriata, mentre l’interno era decorato da affreschi; rimangono solo tracce di quelli dell’abside, caratterizzate dal motivo decorativo a “bande e festoni”.


Lungo l’abside e nel presbiterio, inoltre, vennero rinvenuti i resti di piccoli fori che hanno fatto pensare ad intarsi marmorei posti fino a tre metri dal piano del pavimento, sormontati a loro volta da una cornice di marmo situata alla base degli affreschi, che dovevano ornare anche la volta. Abside e presbiterio erano separati da transenne (plaustra) di cui sono state rinvenute le tracce di fondazione.

L’illuminazione interna era ottenuta da una serie di finestre aperte lungo il muro della navata centrale, larghe m. 2,20, mentre aperture minori illuminavano le navatelle.


L’area del presbiterio, inoltre, doveva essere priva di finestre per creare un suggestivo contrasto di luci ed ombre avvicinandosi progressivamente alle tombe venerate.


L’assedio longobardo del 756, che vide la devastazione della campagna romana e delle sue chiese, fu quasi certamente la causa per cui il Papa Stefano III, nel 757, fece traslare le reliquie della martire tiburtina e dei suoi figli intra moenia, presso la chiesa di S. Angelo in Pescheria, come riporta una iscrizione di piombo scoperta nel 1562 in cui si ricorda che “hic requiescunt corpora sanctorum Symphorosae et viri sui Zotici et filiorum eius a Stephano papa traslata”.


Ciò causò l’abbandono del complesso paleocristiano, benché la basilica sia ancora citata nel 944 in una bolla di Martino III ed in una del 991 di Papa Giovanni XV. Nel 1124 la chiesa di Santa Sinforosa è ancora menzionata come appartenente al monastero di San Ciriaco di Roma.


Nel 1585 viene ricordata da Marco Antonio Nicodemi tra le rovine del nono miglio della Tiburtina e nel 1632 il Bosio riporta di aver visto i resti della basilica di Santa Sinforosa e dei suoi figli di cui “rimangono tuttavia le parietine in un fondo dè Maffei, il quale fondo oggidì ritiene ancora la denominazione da quelli Santi”.


Nel 1660 la chiesa viene ricordata come “Anticaglia” in una vignetta della mappa 429/6 del Catasto Alessandrino. Nel 1676 nella pianta del Falda di Roma è ancora riportata la menzione di “S. Sinforosa”,

Nel 1745 la basilica è ricordata dal Vulpio come “magnifica struttura” e ancora nel 1828 viene ricordata dal Sebastiani, che ne descrive le vestigia.


Nel 1877 lo Stevenson, dopo averne individuato i resti, chiede ed ottiene dal duca Grazioli, allora proprietario del sito, il finanziamento per gli scavi del complesso . Gli anni successivi che vanno dal 1940 al 1960 hanno visto la distruzione del muro nord e dell’angolo sud est della basilica per la creazione della linea ferroviaria Roma-Tivoli e l’abbattimento dell’intera metà nord della chiesa per pubblici lavori di ampliamento della via Tiburtina.


Ultimi interventi che hanno interessato l’area sono stati gli scavi dell’Istitute of Fine Arts di New York e dell’Accademia Americana di Roma, condotti da R.W. Stappleford nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso

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Published on May 31, 2019 14:29

May 30, 2019

Una pallottola spuntata

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Come detto altre volte, i cinesi non hanno la possibilità di utilizzare il debito pubblico come leva per forzare la trattativa sui dazi con Trump, per due motivi specifici: uno per la capacità del mercato di assorbire senza problemi la loro quota di titoli di stato, come successo nell’asta del 28 maggio, sia per problemi intrinsechi alla loro economia.


Infatti le vendite di Treasuries costringerebbero Pechino a trasformare le proprie riserve valutarie da dollari a yuan, il quale si apprezzerebbe quindi in maniera esponenziale, mettendo in crisi, più dei dazi americani, le sue esportazioni; date le difficoltà del mercato interno cinese di assorbire tale sovrapproduzioni, il tutto comporterebbe una crisi economica difficile da gestire.


Anche l’altra arma paventata dal una certa vulgata, le terre rare, è alquanto spuntata: la questione è semplice, nonostante il nome, queste sono tutt’altro che poco diffuse.


Il loro nome, infatti, più che alla loro scarsa disponibilità, è legato all’enorme difficoltà di lavorazione e estrazione del minerale puro; le terre rare devono essere disciolte a più stadi in acidi, filtrate, ripulite, producendo residui tossici e radiattivi.


Ora, questo processo, dannoso per l’ambiente e per la salute pubblica, negli anni Ottanta è stato progressivamente vietato nei paesi occidentali; in Cina, in cui oggettivamente non si è ancora sviluppata una sensibilità analoga, si è preferito barattare la salvaguardia dell’ambiente e la salute con il guadagno.


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Ovviamente, Pechino ha provato a sfruttare questo monopolio: nella seconda metà del 2010 la Cina, in una prova di forza con l’hi-tech occidentale, ridusse del 70% l’esportazione delle terre rare mandando alle stelle i prezzi, con picchi superiori all’850%.


Perché di questo evento, teoricamente drammatico, non ce ne è memoria? Perché non avuto impatti concreti: non solo il resto del mondo aveva riserve sufficienti per supplire alla mancanza di alcuni minerali, ma hanno dimostrato come si poteva anche lavorare con quantità più basse di questi elementi.


E la situazione, in dieci anni si è ulteriormente modificata a sfavore di Pechino: un ipotetico embargo ai danni delle imprese americane, oltre a essere facilmente aggirabile da parte di broker di altri paesi, renderebbe semplicemente economicamente competitive le alternative basate sulle “magnetic core-shell nanoparticles”, partendo da complessi basati su un mix tra ferro e cobalto, molto più efficienti, ma meno economiche e rendere conveniente l’estrazione delle miniere in Giappone e in Corea del Nord. Di conseguenza, con una mossa del genere, Pechino strozzerebbe la sua gallina dalle uova d’oro.


Inoltre, benchè ZTE e Huawei riescano a produrre hardware con un ottimo rapporto qualità prezzo (ma mai quanto la Supermicro) hanno ancora il problema di essere dipendenti, in ambito microelettronica, dalla componentistica made in USA. Per cui, in guerra commerciale seria, oltre a pagare lo scotto di essere indietro nell’adozione del paradigma Software Defined, avrebbero diverse difficoltà nello stare indietro all’innovazione in tale campo.


Allora, la Cina non è modo di difendersi dalle pretese di Trump? Paradossalmente, la sua migliore difesa è nell’essere troppo grossa per entrare in crisi. Se la crescita diminuisse sotto il 6% annuo, si scatenerebbero una serie di tensioni sociali e di fallimenti bancari e industriali, che generebbero un’area di instabilità di un miliardo e mezzo di persone, che sarebbe quasi impossibile da gestire sia dall’Occidente, sia dai paesi vicini.


Per cui a Pechino, sapendo che non è interesse USA tirare la corda, posso esercitare la strategica virtù della pazienza e del compromesso…

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Published on May 30, 2019 12:00

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Alessio Brugnoli
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