Alessio Brugnoli's Blog, page 106

June 17, 2019

Onore al Macro Asilo

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A differenza di parecchi soloni, ha grande stima per il coraggio, la sensibilità e l’intelligenza di Giorgio de Finis: ritengo geniale sia il MAAM, sia il progetto del Macro Asilo, il quale, citando la presentazione


trasforma l’intero museo in un vero e proprio organismo vivente, “ospitale” e relazionale, che invita all’incontro e alla collaborazione persone, saperi e discipline in una logica di costante apertura e partecipazione della città e del pubblico. L’ingresso è, infatti, libero per tutti.


L’idea stessa di istituzione museale in questo percorso punta a essere rinnovata con l’intento di tessere una relazione nuova e prolifica tra l’arte e la città. La sperimentazione, in tal senso, riguarda proprio il Museo di arte contemporanea della città e ne indaga la sua funzione civica di istituzione che opera nel tempo presente sulla produzione di sapere, senso e conoscenza, che attraverso l’arte si riesce a mettere a disposizione delle persone. Il Macro Asilo è il primo tassello del Polo del Contemporaneo e del Futuro che si configura come presenza complementare rispetto alle altre istituzioni come MAXXI e Galleria Nazionale, per mettere a disposizione di chi abita in città uno spettro ricco di punti di vista ed esperienze.


È da questa sfida che è partito il lavoro di de Finis, in stretta collaborazione con l’Azienda Speciale Palaexpo, che dal 1 gennaio 2018 gestisce il Museo, e la Sovrintendenza Capitolina che, in quanto struttura di Roma Capitale, preserva la responsabilità sulla conservazione e valorizzazione della collezione del Museo nonché del suo Archivio e della Biblioteca.


Per consentire tutto questo si è partiti da un totale ripensamento degli spazi stessi del Museo e della sua articolazione. Il nuovo progetto di allestimento è stato realizzato dall’architetto Carmelo Baglivo.


Entrando nel Museo il pubblico si trova di fronte a uno spazio profondamente diverso potendo attraversare in maniera libera e casuale tanti diversi ambienti tematici tra cui il salone dei forum, dove a parete viene presentata con una grande quadreria una selezione delle opere della Collezione, una sorta di invito “visivo” a collaborare e stare insieme; al centro di questo salone, il “Tavolo dei tavoli” opera abitabile realizzata per l’occasione da Michelangelo Pistoletto.


Tra le nuove stanze anche quella dedicata a Rome (nome plurale di città), la stanza delle parole (dedicata al vocabolario del contemporaneo), quella di lettura, la stanza dei media, le stanze-atelier (quattro spazi gemelli progettati per gli artisti che realizzeranno un’opera all’interno del museo). Inoltre due “ambienti” d’artista e una project room, stanze-opera che ospiteranno progetti partecipati, installazioni, performance, aggiungendo, nel corso del tempo, altri 50 ambienti a tema che si sommano a quelli già proposti dal museo.


Progetto ambizioso, quello del Macro Asilo, che ha trasformato uno spazio, spesso avulso dalla città, in laboratorio dadaista di sperimentazione culturale, che ha cercato di riaccendere la fiamma della creatività, in una Roma sempre più desertificata culturalmente, che antepone il perbenismo all’utopia e all’avanguardia.


Progetto che ha avuto anche numerosi encomi a livello internazionale e un grande successo di pubblico: 151.000 ingressi in sei mesi, a fronte dei 161.000 del 2016, parlano chiaro e dimostrano quanto sia in malafede Tonelli, ma, d’altra parte lui se su Roma fa Schifo difende gli interessi dei palazzinari romani, su Art Tribune si fa portavoce della lobby dei galleristi e curatori tradizionali, che hanno guardato con il fumo negli occhi un’esperienza così di rottura.


Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo, forse il progetto, volendo assecondare in tutti i modi le paturnie e le vanità degli artisti, a volte è stato troppo dispersivo e autoreferente, privo di un centro unificante: ma sono quisquiglie che si possono perdonare e con il tempo si sarebbero facilmente superate.


Ma il Comune di Roma ha deciso altrimenti, lanciando il progetto alternativo del Polo delle culture contemporanee, che in vena di buone intenzioni vedrà coinvolti, oltre al Macro, anche Palazzo delle Esposizioni e il Mattatoio, la cui direzione sarà affidata a un bando pubblico, che ha come termine per presentare le candidature il 22 luglio 2019.


Per il Macro, l’ambizione è, citando il bando


valorizzare l’apertura, la pluralità, le pratiche discorsive, verso una trasformazione della figura del visitatore che contribuisce alla creazione di contenuti, incoraggiando la presenza di studenti e promuovendo la ricerca e la sperimentazione artistica nazionale e internazionale. Particolare importanza sarà data alla collaborazione con le Accademie e gli Istituti di cultura presenti a Roma


Propositi in neolingua, che, detto tra noi, significano tutto e nulla.


Più concretezza, in quanto previsto per il Palazzo delle Esposizioni, spazio dedicato alle mostre più digeribili per il grande pubblico. Tra le mostre previste nel prossimo biennio, tra le altre, sono già in programma: Sublimi Anatomie, una mostra sull’osservazione storica e contemporanea del corpo umano, Carlo Rambaldi e Makinarium, gli effetti speciali visuali declinati secondo la tradizione artigianale della ”meccanotronica”; Tecniche di evasione, sulle modalità del dissenso degli artisti nell’Europa dell’Est; due grandi retrospettive dedicate a Jim Dine e a Gabriele Basilico e, nell’ottobre 2020, la XVII edizione della Quadriennale.


Infine, il Mattatoio diverrà il nuovo Laboratorio permanente sui linguaggi della performance. La Pelanda costituirà un polo di ricerca, produzione, presentazione e formazione interdisciplinare dedicato alla performance nei quattro ambiti principali di arti visive, musica, teatro e danza.


Per cui, tutto bene? In teoria diciamo di sì, però, visto il rapporto tragicomico esistente tra l’amministrazione Raggi e i bandi pubblici, sono pronto ad aspettarmi le cose più assurde…

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Published on June 17, 2019 12:35

June 16, 2019

Balilla ?

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Ieri sera, come ogni anno, si è celebrata la festa di via Balilla e come spesso accade, c’è sempre qualcuno che storce il naso, scambiando il nome della strada con un elogio del fascismo.


In realtà, questo ricorda ben altro: per capirlo dobbiamo fare un piccolo salto indietro, ai tempi della guerra di successione austriaca.


Questa fu combattuta tra il 1740 e il 1748, vide alcuni Stati europei coalizzati contro l’Austria per impedire l’ascesa al trono imperiale di Maria Teresa, figlia di Carlo VI. L’imperatore, essendo privo di eredi maschi e rendendosi conto dell’impossibilità di averne, aveva abrogato la legge salica (che escludeva le donne dalla successione al trono) e stabilito, con la Prammatica Sanzione il diritto alla successione anche per la discendenza femminile. La Prammatica Sanzione, che assicurava la successione alla figlia Maria Teresa, era stata riconosciuta dalle maggiori potenze europee.


Ma quando Carlo VI morì, nel 1740, il nuovo re di Prussia Federico II, gli elettori Carlo Alberto di Baviera e Augusto III di Sassonia, il re di Spagna ed il re di Sardegna non si ritennero vincolati dai patti. La Prammatica Sanzione risultò dunque inutile nella lotta per il potere in Europa.


Federico II si mosse per primo ed occupò la Slesia, allora parte del ducato d’Austria. Seguendo la sua tradizionale linea anti-asburgica, anche la Francia entrò in campo, a fianco appunto della Prussia, della Spagna, della Baviera, della Sassonia e del Regno di Napoli. A favore di Maria Teresa intervennero invece l’Inghilterra, l’Olanda e il Regno di Sardegna.


Da questo manicomio, la Repubblica di Genova se ne sarebbe stata ben fuori, se non fosse per il Regno di Sardegna, che ne approfittò dell’occasione per tentare di annetterla. Per evitare problemi, Genova dovette dichiarare guerra ai Savoia, proclamando al contempo la sua neutralità sulle beghe viennesi.


Maria Teresa, poco convinta da questo balletto diplomatico, mandò le sue truppe a supporto di quelle di Torino; a peggiorare il tutto era il fatto che a capo del corpo di spedizione austriaco vi fosse Antoniotto Botta Adorno, il quale aveva il dente avvelenato con la Repubblica.


Il padre, patrizio genovese, era stato condannato all’esilio e alla confisca dei beni per un tentato colpo di stato nei confronti del doge. Così lo storico Federico Donaver rievoca, nella sua Storia di Genova (1890), questa pagina di storia ed il rapporto tumultuoso che Botta Adorno – definito dai cittadini il Tedesco – ebbe con la città:


Gli austriaci sotto il comando del generale Brown superata la Bocchetta scesero a Campomorone e il 4 settembre entrarono in Sampierdarena. Impaurito il governo e spaventata la cittadinanza tutta dalla vicinanza del nemico, fu mandato al generale Brown un rinfresco che venne respinto … In quel subito balenò l’idea della resistenza, e forse se il governo fosse stato meno timoroso i genovesi avrebbero potuto far pagare ben cara agli austriaci la loro prepotenza, assalendoli quando le acque della Polcevera improvvisamente inondarono il loro campo da affogarne un migliaio; ma lasciata passare l’occasione e arrivato il domani, giorno 6, il generale Botta Adorno a pigliare il supremo comando dell’esercito imperiale, questi trattò ancora più aspramente gli inviati genovesi Marcellino Durazzo e Agostino Lomellini, dichiarando che se entro poche ore non era soddisfatto delle domande contenute in un foglio loro consegnato [in pratica la resa della città], avrebbe usato la forza.


Genova tentò di trattare, ma Quando il doge Brignole Sale solennemente s’inginocchiò davanti al generale, domandando pietà per la città, Botta Adorno rispose con la celebre frase:


“Ai Genovesi non lascerò che gli occhi per piangere”.


Le condizioni di resa, infatti, erano durissime: Genova doveva cessare ogni ostilità, consegnare al nemico le porte della città, cedergli le proprie artiglierie, lasciare libero il passaggio nel territorio alle truppe austriache, mandare a Vienna il doge e sei senatori a implorare il perdono e soprattutto pagare un fortissimo tributo di guerra: tre milioni di scudi d’argento, una somma pari alle entrate che la Repubblica percepiva in cinque-sei anni.


I patti suddetti dovevano essere accettati entro ventiquattro ore. Genova perciò fu costretta ad accettare le pesanti condizioni e a pagare l’indennità in tre rate: una entro due giorni, la seconda entro otto giorni e la terza entro quindici giorni. Genova, non avendo tale disponibilità economica, chiese uno sconto, ma il Botta Adorno non solo rifiutò, ma alzò la quota di un altro milione, mettendo in ginocchio la città, che dovette aumentare la pressione finanziaria e peggiorare le già difficili condizioni del basso popolo.


E il relativo malcontento, portò alla rivolta popolare: secondo la tradizione, Un reparto austriaco, infatti, stava trasportando un mortaio attraverso il quartiere Portoria, quando il mortaio rimase impantanato nel fango. L’ufficiale ordinò con arroganza ai popolani presenti di rimuoverlo dal fango e non ottenendo risposta arrivò ad usare la forza. All’ordine, tuttavia, rispose un ragazzo di appena 11 anni, Giovan Battista Perasso, conosciuto in seguito come Balilla, che affrontò gli invasori con il lancio di una pietra, al grido


“Che l’inse?”


cioè «Comincio io?», «La comincio?», o secondo altre testimonianze


“La rompo?”


seguito poco dopo dalla folla che riunitasi intorno al mortaio mise in fuga il reparto austriaco. Il giorno seguente alcuni soldati austriaci si presentarono nuovamente sul posto per rimuovere il mortaio, ma furono accolti da sassate e fucilate e furono costretti a fuggire nuovamente. Il popolo quindi cominciò a farsi coraggio, riuscì a procurarsi le armi, a tirar su barricate e a rispondere agli spari degli invasori.


La rivolta durò tre giorni, con gli austriaci che ribattevano con forza.


“Il Botta ha la testa dura, ma il popolo l’ha più dura di lui”


disse un nobile genovese. Ora per decenni si è discusso dell’identità, alquanto fumosa, di Balilla, tanto da essere considerato una figura quasi leggendaria, finchè negli ultimi vent’anni sono saltate fuori tre testimonianze dirette dell’epoca: un dispaccio di un agente veneziano del 1746, in cui si cita l’inizio della rivolta a Portoria, con i tumulti guidati da tale Balilla, un resoconto di un soldato piemontese di Aglié, che afferma di essere stato testimone oculare dei fatti, e il diario di un mercante inglese, in cui è citato il nome Perasso.


Quindi tutto risolto ? Neppure tanto, perché all’epoca sia il soprannome Balilla, sia il cognome Perasso erano assai comuni: per di più, le tre fonti concordano, a differenza quanto affermato dalla tradizione sul fatto che questo Balilla fosse un adulto e parlano genericamente di “schioppettate”, invece dell’episodio della sassata.


Ma come si è arrivati quindi alla versione del ragazzo, che, come il biblico David, abbatte il gigante lanciando sassate ?


Come sempre accade in Italia, la questione è assai complicata: l’insurrezione aveva messo in luce le forze contestatarie e plebee, profondamente anti-patrizie, che alla fine imposero un’assemblea popolare al posto dei consigli dei patrizi. Il doge parve accettare di buon grado questa piccola rivoluzione che, fatto assolutamente unico nella storia della repubblica oligarchica, per la maggior parte del suo mandato (da dicembre 1746 alla primavera 1748) diede a Genova un governo a base democratica. Governo, in cui, tra i suoi membri non appare nessun Perasso.


Tuttavia, i caporioni popolari non tardarono a combattersi e divenne chiaro che solo “i Magnifici” potevano governare. Le leggi straordinarie furono presto abrogate e le istituzioni originarie della Repubblica ripresero il loro normale funzionamento. Di conseguenza, La nobiltà genovese aveva tutto l’interesse a far calare l’oblio su quei tumulti per facilitare il ritorno a una concordia interna garantita dall’ordine oligarchico; e così nessuno si preoccupò di approfondire i fatti di Portoria.


Tutto sarebbe stato quindi dimenticato, se non ci avesso messo lo zampino Armand de Vignerot du Plessis, nipote del famoso Cardinale Richelieu, gran combattente e gran seduttore, sembra che Choderlos de Laclos si sia ispirato alla sua vita per il personaggio di Valmont de Les Liaisons dangereuses, che per bieca autocelebrazione, fece stampare un manifesto, dove le truppe francesi, da lui guidate, correvano in aiuto a un ragazzino che lanciava un sasso contro un ufficiale tedesco.


Il console veneziano a Genova, che aveva orecchiato come nella rivolta centrasse un certo Balilla, scambiò quel manifesto per un resoconto fedele dei fatti: così nel 1747, in un dispaccio inventò dal nulla la storia del bambino Balilla.


Storia che girò per l’Italia, ma di cui a Genova si sapeva ben poco, almeno sino alla caduta della Repubblica aristocratica nel 1797, quando il giacobinismo genovese le attribuì una coloritura patriottica e nazionale che fu il punto d’avvio di una lunga teoria di manipolazioni interpretative. Per cui, ignorando il vero Perasso, che probabilmente all’epoca era già bello che defunto e che da poveraccio qual’era, non era stato filato da nessuno, si scatenò la caccia a identificare il presunto ragazzino, che terminò con il Congresso di Vienna, dato che a Torino, non vi era nessun interesse a esaltare un rivoltoso contro le sue truppe.


Le cose cambiarono nel Risorgimento, quando, evitando di sottolineare la presenza sabauda, Balilla acquisì una valenza patriottica di lotta contro gli austriaci e al contempo, fu proposto come modello ai bambini italiani.


Vennero creati dolci con il suo nome, fu citato nell’Inno di Mameli, nel 1915, in piena febbre propagandistica contro Vienna, gli fu dedicata una classe di sommergibili e nel 1918 il caccia ricognitore Ansaldo A.1


Nel 1923 il duo Giuseppe Blanc e Vittorio Emanuele Gaeta scrissero la canzone patriottica Balilla! che fu una sorta di hit dell’epoca, che rilanciò il termine come sinonimo di bambino vivace e dispettoso: tra l’altro nel film Totò, Peppino e la malafemmina il brano di colonna sonora che sottolinea ogni volta il lancio di un sasso contro la finestra dell’odiato vicino di casa è la fanfara di tale canzone.


Con questo nuovo significato semantico, gli fu intitolata l’organizzazione giovanile del regime fascista che inquadrava i bambini dagli 8 agli 11 anni, chiamata Opera nazionale balilla. “Balilla” era il nome generico con cui si indicavano i bambini obbligatoriamente iscritti a questa organizzazione.


E infine, nel 1932, la Fiat 508 Balilla, con la quale ebbe inizio la motorizzazione di massa in Italia.

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Published on June 16, 2019 05:38

June 15, 2019

La Casa Martorana


La Casa Martorana, il luogo dove nacque la frutta martorana, sotto molti aspetti è una sintesi della storia di Palermo: sino a poco tempo fa, si pensava come in origine fosse il palazzo della contessa Adelicia de Golisano, nipote prediletta di Ruggero II, che rimasta vedova, si ritirò a vita monastica nel suo castello di Adernò, lasciandolo in eredità coniugi Goffredo e Aloisya de Marturano.


Coniugi che non avendo eredi, nel 1194 decisero di utilizzare la struttura per fondarvi un monastero basiliano, che dopo qualche anno fu a sua volta ampliato con una donazione concessa da Pagano de Parisio conte di Alife e di Butera.


Nel 1434 re Alfonso d’Aragona concesse la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio alle monache dell’antico convento. Da questo momento la storia del monastero della Martorana sarà per sempre legata a quella della splendida chiesa voluta dal grande ammiraglio di re Ruggero, Giorgio d’Antiochia. Da alcuni documenti storici si rileva che intorno alla prima metà del XV secolo le monache della Martorana iniziarono una serie di trasformazioni delle antiche fabbriche normanne del convento e della chiesa dell’Ammiraglio.


Dopo avere acquistato il terreno dietro il cortile del pozzo, che si apriva su una stretta stradina ortogonale all’attuale via di Teatro Bellini, relizzarono un nuovo accesso con la costruzione del parlatoio, del portico e del chiostro. L’opera di ampliamento e modifica proseguirà nei secoli successivi, fino ai primi anni del XVIII secolo, per motivi legati alla necessità di reperire nuovi spazi, visto che la comunità di suore si era notevolmente incrementata.


Oltre alle trasformazioni volute dall’uomo si aggiunsero i danneggiamenti provocati dalle calamità naturali. Nel 1539 un violento terremoto distrusse parte del monastero, successivamente, nel 1555, un’inondazione provocata dal fiume Kemonia, detto pure “Fiume del maltempo”, arrecò seri danni all’intero complesso edilizio: in questa occasione le monache furono costrette a trasferirsi a palazzo Ajutamicristo finché non furono terminati i lavori di riparazione. Nello stesso anno la peste fece molte vittime a Palermo coinvolgendo anche le monache del convento della Martorana.


Alla fine del XVI secolo viene attuato dal senato cittadino il taglio di una strada che intersecandosi con l’antico Cassaro divide la città in quattro parti. Fu questa la più grande e coerente ristrutturazione urbana dei tempi moderni.


La “Strada nuova” sarà chiamata via Maqueda, in onore del vicerè dell’epoca, don Bernardino de Cardines duca di Maqueda. L’apertura della nuova strada, determinò la costruzione di un nuovo prospetto del complesso monastico della Martorana, per il desiderio delle suore del convento di possedere il fronte principale sulla prestigiosa via. Per raggiungere l’ambito affaccio anche sul Cassaro e potere assistere, non viste, allo svolgimento delle solenni processioni, nel 1765 le suore della Martorana chiesero a Francesco Maria Guggino barone del Guasto, il permesso di costruire un belvedere con loggia metallica protetta da ”gelosie” al terzo piano del suo palazzo ad angolo tra via Maqueda e il Cassaro. Per consentire alle suore di recarsi nel belvedere, l’architetto Nicolò Palma realizzò un camminamento sotterraneo che attraversava il piano di San Cataldo e il piano del Pretore.


Nel 1866 l’antico convento viene espropriato dalle autorità cittadine e chiuso.Nello stesso anno, inizia una campagna di restauri promossa dal Patricolo e proseguita dal Valenti che metteranno in evidenza il nucleo originario di casa Martorana.


Un decennio dopo, nel 1877, il complesso dell’ex monastero diviene sede della scuola degli ingegneri. Ospitava inoltre la scuola di Belle Arti e il gabinetto di Chimica annesso alla scuola superiore delle zolfare. A causa dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il monastero fu quasi distrutto: restarono solo i resti di una sala nobile, dell’atrio porticato scoperto e alcune monofore ogivali, che nel dopoguerra furono integrati nella sede della facoltà di architettura.


Però, grazie alle fotografie di inizio Novecento, abbiamo un’idea abbastanza chiara di come fosse il complesso: si trattava di una casa torre, tipica dell’alta nobiltà normanna.La casa si articolava attorno ad un cortile porticato scoperto verso cui confluivano vari ambienti. Un’elegante portichetto dalle ariose arcate poggiate su alti piedritti, di cui restano solo alcuni magnifici capitelli compositi, davano prestigio alla residenza della contessa di Golisano. Della “sala nobile” resta una nicchia tra due colonnine con capitelli fatimidi e una bellissima porta lignea finemente intagliata ad arabeschi, oggi conservata al museo di palazzo Abatellis, che fa pensare come alla struttura fosse preesistente una moschea o una madrasa.


Una bella fontana settecentesca si trova in un cortile interno circondata da un piccolo giardino. La fontana, di gusto barocco con la vasca a forme mistilinee, è ornata da dodici antiche colonnine di porfido con capitelli a foglie d’acqua.


Dell’antico monastero della Martorana rimangono anche altri resti scultorei e pittorici. Degni di nota sono il piccolo bassorilievo raffigurante S. Biagio inserito nel muro del corridoio dove si trova un arco con lo stemma dell’arcivescovo Simone di Bologna e un’affresco cinquecentesco che raffigura la Madonna Odigitria con Bambino. Questo affresco originariamente si trovava sul muro di case adiacenti al monastero, dette “carceri vecchie”.


Il 31 agosto del 1671 fu trasferito nel monastero e per volontà della badessa dell’epoca, incorporato in un muro vicino alla porta del vestibolo d’accesso alla clausura. Un magnifico soffitto ligneo cassettonato, che probabilmente si trovava nella chiesa di San Simone, copre un’ambiente con due poderose arcate del XV secolo.


La storia di quest’area, di per sè assai complessa, si è arricchito di altri tre tasselli, grazie agli scavi degli ultimi anni. Il più antico consiste nella scoperta in via del Celso, di una strada romana che si sovrappone a una precedente di epoca fenicia, che ci ha testimoniato l’incredibile continuità nei secoli del suo tessuto urbano.


A questo segue la scoperta della lapide funerea, con iscrizione greca, dedicata a Irene, la dotta moglie dell’ammiraglio bizantino Giorgio di Antiochia, comandante della flotta del Regno di Sicilia all’epoca sotto Ruggero II e fondatore della Chiesa della Martorana, realizzato utilizzando un bassorilievo di epoca precedente, probabilmente proveniente dalla stessa chiesa.


Infine, proprio dalla Casa Martorana, la scoperta di un’elsa di una spada medievale, forse un ex voto, databile alla fine del 1.200, che si caratterizza per le dorature a mercurio e le iscrizioni di versi del Nuovo Testamento

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Published on June 15, 2019 08:00

June 14, 2019

Riccio da Parma

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Riccio da Parma, uno dei partecipanti alla disfida di Barletta, il cui vero nome era Domenico de’ Marenghi, era un figlio d’arte: suo padre Cristoforo, soprannominato Riccio di Soragna, a quanto la pare i boccoli erano una caratteristica di famiglia, era un uomo d’armi che aveva combattuto agli ordini di Bartolomeo Colleoni e Ludovico Sforza.


Il giovane Domenico, nei primi tempi si trovò a combattere accanto al più noto ed esperto genitore, finché questi non cadde nella battaglia di Fornovo; nonostante questo, continuò a servire lo Sforza, conquistando una certa nomea come “strenuo uomo”, definizione che si ritrova in alcuni atti pubblici datati 1500 e 1501. Una riprova del suo valore si ebbe durante la battaglia di Novara, quando, circondato dagli avversari, con una improvvisa sortita attraversò le linee nemiche, ponendosi in salvo.


Visto che Ludovico Sforza era alquanto parco nel pagare il soldo, Riccio andò a Roma per mettersi al servizio di Prospero Colonna, all’epoca alleato degli spagnoli, che lo associò alla compagnia del duca di Termoli Andrea da Capua. Data la sua fama di combattente indomito, fu scelto come combattente a Barletta, dove scese in campo mostrando le sue insegne: stemma con croce d’argento e un piccolo riccio nel mezzo, in campo azzurro.


Durante lo scontro, smontò da cavallo ed abbattè da terra alcune cavalcature dei campioni francesi. Licenziate le truppe al soldo degli spagnoli, nel 1505 Riccio tornò a Parma; due anni dopo fece testamento, uno dei tanti che chi era impegnato nel mestiere delle armi era solito redigere prima di affrontare un’altra rischiosa impresa.


Nel 1506, infatti, gli fu concesso da Charles d’Amboise il comando di 300 fanti per combattere i Bentivoglio a favore dello stato della Chiesa; campagna in cui Riccio, più che a combattere, si impegnò a taglieggiare contadini e mercanti. Nel 1509, poi fallì nel tentativo di arruolare 500 fanti, per soccorrere marchese di Mantova Francesco Gonzaga minacciato dai veneziani.


Ancora peggio, andò nel 1510, dove fu costretto, per mancanza di pagamenti, a lasciare il servizio del re di Francia. Vista la malasorte, degna di Brancaleone da Norcia, Riccio si ritirò a vita privata, diventando una sorta di cacciatore di dote. Il suo riscatto avvenne però nel 1521, nell’assedio di Parma; fu praticamente costretto a randellate in capo a indossare di nuovo l’armatura dal suo vecchio compagno d’armi Francesco Salamone, che aveva combattuto con lui a Barletta.


Nonostante i timori e lo scetticismo del Guicciardini, difese con inaspettato eroismo lo strategico bastione della Stradella. Il Consiglio degli Anziani di Parma, per riconoscenza, ricompensò Riccio con un generoso vitalizio, che gli risolveva tutti i problemi economici.


Purtroppo il nostro eroe godè ben poco di questo inaspettato benessere, perché morì per la peste che mietè molte vittime nel 1523. La cittadinanza, riconoscente, proclamò il lutto e, a proprie spese, provvide agli onori funebri.


Riccio lasciava sette figli: Annibale, nato dal primo matrimonio con Giovanna Pallavicino dei marchesi Pellegrino; Girolamo, avuto da Andriola De Lucanis, sposata in seconde nozze e cinque femmine, alle quattro ancora nubili, una speciale ordinanza comunale garantiva una dote di cento lire imperiali.

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Published on June 14, 2019 13:07

June 13, 2019

Mission Folk a Km 0

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Come forse sapete, Le danze di Piazza Vittorio, ogni mese organizzano la loro mission folk, un viaggio per i luoghi d’Italia, alla scoperta della musica, della danza e della cultura popolare.


Mission folk che, mostrandoci le nostre radici, ci hanno fatto conoscere meglio ciò che siamo: questo giugno, però, ce ne concediamo una a km 0… Parteciperemo infatti alla festa di via Balilla, qui all’Esquilino.


Dal 1991, infatti, gli abitanti di questa stradina, la chiudono al traffico, tolgono le auto e organizzano tavoli pieni di cibo e di vino e spettacoli musicali, dal complessino con chitarra, flauto e bonghi al dj set.


Una festa anarchica e libertaria, che afferma il ruolo dell’Arte e della Musica come strumento di recupero di una nuova socialità e del recupero degli spazi urbani, che esalta la partecipazione dal basso e la condivisione, in cui tutti, dal grande regista al trans, trascurando le apparenze e futili differenze, si mostrano per ciò che sono, esseri umani.


Una festa che, più che un grido di protesta, è un solenne pernacchione nei confronti di burocrati ottusi, di politicanti da strapazzo incapaci di distingere il grano dal loglio, da bempensanti ipocriti che nascondono dietro il presunto amore per la legalità accordi sottobanco e interessi personali: perchè nella loro piccolezza, non meritano la nostra ira, come diceva il saggio Guccini,


tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti


ma solo, un profondo e gargantuesco riso.


Perchè, per quanto possano agitarsi, come galline decapitate, non sono che polvere, spazzata dal vento della Storia.


Tutti questi valori, noi de Le danze di Piazza Vittorio, li condividiamo e li facciamo propri, essendo ciò che guida le battaglie che combattiamo ogni giorno. Per questo, siamo orgogliosi di partecipare alla festa di va Balilla.


Prima di concludere, però, qualche indicazione di servizio per amici e simpatizzanti.



I residenti della via cucinano, ma, poiché i partecipanti di anno in anno sono sempre di più, è una forma di rispetto nei confronti della loro disponibilità portare un contributo…alimentare(dolce, salato, liquido) da mettere sulle tavole imbandite.
Faremo il nostro solito casino, cantando, ballando e suonando.
E utile portare sedie e tavoli, perché ahimè, di questi c’è sempre carenza.
Per i rifiuti, di solito, ci sono bustoni agganciati agli alberelli.
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Published on June 13, 2019 13:35

June 12, 2019

La sorella maggiore dell’Esquilino










Ai tempi di Cristoforo Colombo, Cuba era abitata da indigeni Taino, Siboney e Guanajatabey, che forse non erano proprio i pacifici abitatori dell’Eden descritti dalle fonti spagnoli dell’epoca, ma che di certo non meritavano il pessimo destino che gli toccò.


Per invogliare gli spagnoli a trasferirsi nel Nuovo Mondo, fu adattato il vecchio strumento feudale dell’encomienda, assegnando ai coloni territori erritori abitati con, “in dotazione”, un gruppo di indigeni, che dovevano essere colonizzati e cristianizzati. In cambio di tale ehm privilegio, i suddetti indigeni dovevano lavorare per i coloni.


Risultato, i Taino non solo furono sfruttati in maniera disumana, ma furono spazzati dalle malattie infettive portate dai loro padroni europei, a cui non avevano nessuna resistenza naturale. Nel 1529, i sopravvissuti al vaiolo furono sterminati da un’epidemia di morbillo.


Ora, benché Cuba avesse un’agricoltura assai diversificata e meno intensiva rispetto a quella delle altre isole caraibiche, agli hidalgos non passava neppure per l’anticamera del cervello, l’idea di zappare la terra. Per cui, scomparsi gli indigeni, bisognava trovare qualcuno che coltivasse le piantagionia loro posto.


La soluzione fu quella di replicare in America quanto già in corso da secoli in Europa, ossia utilizzare schiavi di provenienza africana: questi a Cuba erano essenzialmente di origine Yoruba (lucumí), Bantù (congos) e Carabalì.


A dire il vero, il loro numero non fu mai così elevato: alla metà del metà del XVIII secolo, i suoi coloni avevano 50.000 schiavi, rispetto ai 60.000 delle Barbados e ai 300.000 della Virginia, entrambi colonie britanniche; e i 450.000 della colonia francese di Santo Domingo, che avevano piantagioni di canna da zucchero su vasta scala.


In sistema coloniale spagnolo a Cuba permise agli africani di conservare i loro costumi, le loro tradizioni e il loro modo di vivere, specialmente i loro modo di suonare i tamburi i loro canti religiosi o profani.


Le cose cambiarono con la guerra dei Sette Anni: ‘alleanza della Spagna con i francesi li pose in diretto conflitto con i britannici e nel 1762 una spedizione britannica di cinque navi da guerra e 4.000 uomini partì da Portsmouth per conquistare Cuba.


Gli inglesi arrivarono il 6 giugno e in agosto posero L’Avana sotto assedio. Quando la città si arrese, l’ammiraglio della flotta britannica, George Keppel, vi entrò come nuovo governatore e prese il controllo della parte occidentale dell’isola. I britannici aprirono immediatamente il commercio con le loro colonie in Nord America e nei Caraibi, causando una rapida trasformazione della società cubana. Vennero importati cibo, cavalli e altre merci nelle città, come pure migliaia di schiavi dall’Africa occidentale per lavorare nelle piantagioni di zucchero sviluppate.


L’occupazione britannica della città ebbe vita breve. La pressione dei commercianti di zucchero di Londra, temendo un calo dei prezzi dello zucchero, forzarono i negoziati con gli spagnoli sui territori coloniali; così, in cambio della Florida, gli spagnoli riottennero Cuba.


Il terzo evento che influì profondamente sulla storia cubana fu la rivoluzione haitiana: da una parte, questo provocò la migrazioni di numerosi proprietari terrieri di origine francese, che accentuarono l’utilizzo della schiavitù, dall’altra, bisognava impedire che vi avvenissero analoghe rivolte.


Per cui, fu introdotto il meccanismo della coartacion, o “acquistare sé stessi per ottenere la libertà”, con cui lo schiavo, a seguito di un pagamento, anche ratealizzato, di una quota di denaro al suo padrone, poteva tornare libero.


Così nel 1860, Cuba aveva 213.167 persone libere di colore, 39% della sua popolazione. Come termine di paragone, la Virginia, che aveva lo stesso numero di abitanti di colori, quelli liberi erano solo l’11% della popolazione.


Dato questo crogiolo di eventi storici, la musica cubana non poteva nascere che dalla sovrapposizione di esperienze culturali tra loro differenti. Il primo strato nasce dalla fusione della tradizione musicale spagnola con quella africana, da cui nel tempo nacque il son, in cui la melodia dipendeva dalla chitarra, nella sua variante locale, il tres, con tre corse doppie e dal laúd, che è una versione rimpicciolita della viella medievale, mentre la parte ritmica era frutto del güiro, una sorta di raganella, dei bongo e della kalimba, un un antichissimo strumento a percussione africano, formato da un numero variabile di lamelle di legno, suonate con la punta delle dita e applicate ad una scatola o una zucca che fungono da cassa di risonanza.


Il secondo nasce dal secondo boom della schiavitù dovuto agli inglesi, da cui nacque la ricchissima tradizione ritmica cubana, basata sui tamburi, tra cui bongo, congas e batá, i legnetti, claves, e il cajón, di fatto una scatola di legno. In più introdusse la struttura utilizzata dai canti cubani, basata sull’alternanza tra un solista e un coro.


Il terzo è legata alla tradizione dei proprietari terrieri di origine francese, che introdussero le danze tradizionali europee, dalla cui reintepretazione nacquero il Danzón e la Conga, evoluzione dell’inglese country dance, e che introdusse nella tradizione musicale locale il clarinetto e il violino.


Il quarto, spesso dimenticato, è quello della musica cinese. Nella seconda metà dell’Ottocento, vi fu infatti un’immigrazione in grande stile da parte degli abitanti del Celeste Impero, tanto che vi furono, negli ultimi anni del dominio spagnolo, ben 100.000 abitanti di origine han, che furono cacciati a pedate dagli americani.


Musica cinese che introdusse sia l’utilizzo della scala pentatonica, sia lo strumento noto come la corneta china, che è in realtà la suona, un corno a doppia ancia, che per le infinite stranezze della storia musicale, era di origine persiana.


Tutti questi filoni cominciarono a fondersi nel 1901, quando con l’Indipendenza, la musica di origine africana riceve una forte repressione rispetto al precedente dominio coloniale: la nobiltà proibisce l’uso dei tamburi, considerati un simbolo di tradizioni incivili.


Così i musicisti africani cominciano da una parte, per continuare a suonare, a nascondere la loro musica dietro ad altre sonorità, dall’altra ad utilizzarla come strumento di affermazione di identità e di protesta politica.


Insomma, per farla breve, ieri sera, nei giardini di Carlo Felice, abbiamo celebrato la grande sorella maggiore dell’Esquilino, dove tra drammi e speranze, tante culture differenti hanno costruito un qualcosa di unico, dove danza e musica sono state un grido di libertà e una protesta contro un potere cieco, egoista ed ottuso.


Per questo, ognuno di noi, che bazzica Le danze di Piazza Vittorio, nel cuore è un po’ cubano…

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Published on June 12, 2019 12:11

June 10, 2019

Miniassegni e Minibot

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Uno degli argomenti favoriti, per chi è a favore dei minibot, è il citare l’esperienza dei miniassegni: per chi non se li ricordasse, questi un particolare tipo di denaro che circolò in Italia alla fine degli anni settanta in sostituzione delle monete metalliche che in quel periodo scarseggiavano, a causa dell’inflazione.


In pratica erano erano assegni di piccolo taglio, dalle 50 alle 350 lire, intestati ad enti e società già muniti della loro girata; in pratica, essendo così dei titoli al portatore, venivano scambiati di mano in mano come se fossero stati vera e propria moneta corrente.


Ora, dicono i sostenitori dei minibot, questi non sono che una versione aggiornata di tali miniassegni, garantiti dalla solvibilità statale del debito commerciale: per cui, dato il precedente, non dovrebbero produrre nessun sfracello, anzi dovrebbero aumentare la liquidità circolante nell’economia reale, creando una capacità di spesa aggiuntiva nei consumatori.


In più, sostengono, se venisse previsto un termine per poter utilizzare i mini-bot al fine di pagare le imposte, magari differito di due anni rispetto all’anno di emissione, avrebbero il vantaggio dei tanto auspicati Certificati di Credito Fiscale: non verrebbero computati nel debito.


In questo ragionamento, però, non si tiene conto di tre aspetti: pur non avendo avuto corso forzoso, ossia nessuno era obbligato ad accettarli come forma di pagamento, i miniassegni rispondevano a un esigenza concreta. Questo non vale per i minibot; ossia in termini concreti, nulla può impedire a Li er barista di sputarmi in faccia, se provassi a pagare con questi le mia colazione.


Il secondo è nel diverso valore dell’ammontare del circolante: quello dei miniassegni era pari a un centinaio di milioni di euro, mentre quello stimabile dei minibot è di circa 35 miliardi di euro: il che potrebbe fare scattare la famigerata legge di Gresham, ossia


La moneta cattiva scaccia quella buona


ossia in un sistema con due tipologie di monete, quella a maggiore valore e prestigio, l’euro, sarà tesaurizzata, causandone penuria e il suo surrogato, tenderà a essere usata per le transazioni commerciali.


Il terzo effetto è che questa trasformazione di debito commerciale in debito pubblico, escludendo i mercati finanziari, potrebbe avere un effetto dirompente sulla fiducia che hanno nella solvibilità dell’Italia, chiedendo più alti tassi di interesse sulle nuove emissioni, o astenendosi dai rinnovi provocando un default, con il relativo caos..

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Published on June 10, 2019 12:42

June 9, 2019

Vi aspettiamo martedì 11 giugno





Ieri è stato un giorno intenso per Le danze di Piazza Vittorio; la mattina abbiamo animato la chiusura dell’anno scolastico, in uno degli istituti più multiculturale di Roma, mentre la sera, abbiamo fatto un piccolo spettacolo alla ludoteca Cantiere Infanzia al Quarticciolo.


Perché l’essenza de le Danze, è il Servizio: concetto ampio, pervasivo, che molti fanno finta di non capire. Servizio è dedicare il proprio tempo, la propria energia e i propri talenti, non a se stessi, ma per un bene comune.


Servizio non è chiudersi nel proprio “particulare”, considerando i propri interessi, anche legittimi, superiori a quelli di chi ti è accanto; è avere il coraggio di ascoltare e imparare dagli altri e costruire delle storie condivise.


Faccio un esempio concreto: il murale di Gaetano, nelle sue varie incarnazioni, non è nato da accordi sottobanco con la politica, coinvolgendo nella sua realizzazione artisti che non hanno la più pallida idea di cosa sia l’Esquilino e la sua storia, che potrebbero realizzare la loro pur piacevole decorazione in qualsiasi contesto urbano, ma dal continuo confronto tra persone, condividendo storie e sogni; questo lo rende vivo e amato.


Servizio è guardare oltre il proprio naso, non lavorare per il proprio tornaconto immediato: ma avere il coraggio di costruire qualcosa per chi verrà dopo di noi, donargli della ali per volare più in alto.


E questo è ciò che tentano di fare, ogni giorno, Le danze di Piazza Vittorio; il prossimo passo sarà martedì 11 giugno, alle ore 19.30 ai giardini di via Carlo Felice, sempre per collaborare al tentativo di dare vita e valorizzare uno spazio urbano troppo spesso abbandonato a se stesso.


E lo faremo, come nostro solito, unendo culture differenti, costruendo un ponte tra i balli colombiani e cubani e zziche, tammurriate e baltrad…

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Published on June 09, 2019 09:14

June 8, 2019

Una nuova estate








Una cosa che lasciando molto perplessi i fini intellettuali del circolo del ballatoio è che i cittadini dell’Esquilino, invece che applaudire ai loro scrupoli legalistici relativi ai murales di via Giolitti 225, li hanno accolti con solenni pernacchioni.


Insomma, non si danno pace del fatto che la narrazione di coloro che vorrebbero chiamare cretini e delinquenti, abbia maggiore successo e credibilità dei loro fini e ed eruditi ragionamenti dialettici.


In verità, nonostante il loro atteggiarsi a nobili antesignani della sinistra più pura, si sono dimenticati di una delle tante lezioni del buon zio Karl.


“La prassi trionfa su tutto”


Ossia, ridotto tutto in soldoni, qualsiasi narrazione, per essere credibile, non deve essere campata in aria, ma deve basarsi su persone e fatti concreti.


Persone: chi ha lavorato al progetto di cittadinanza attiva e di riqualificazione del portico di Via Giolitti, in questi anni non si è limitato a criticare tutto e tutti su Facebook, ma si è sporcato le mani, lavorando sul territorio e le sue storie.


Non ha mai pugnalato alle spalle il prossimo e nonostante le differenze, ha sempre cercato di collaborare con le altre realtà, invece che mettere loro i bastoni tra le ruote: esempio concreto, il sottoscritto manderà pure al diavolo una volta al mese i ragazzi del Retake Esquilino, ma quando gli hanno proposto una collaborazione, non si è mai tirato indietro. Non avrebbe mai messo il veto, ad esempio, a un intervento di pulizia sul ballatoio, perché questo è un bene comune, condiviso da tutta la città, che se ne dovrebbe cura, non una proprietà privata di chi casualmente gli abita sopra.


Fatti: ahimé l’albero si giudica dai frutti e questi, a volte anche un poco ammaccati, solo chi non fa, non sbaglia. Ieri sera, per esempio, con l’inizio delle sonate estive de le Danze di Piazza Vittorio, nonostante le difficoltà legate al cambio di luogo, ai processi di comunicazione e collaborazione da raffinare, l’evento è stato un gran successo.


Ha contribuito a rendere vivo uno spazio, i giardini di via Carlo Felice, tanto suggestivo, quanto dimenticato dalla politica. Ha fatto costuito ponti, abbattendo il muro della diffidenza, mostrando come una cultura, all’apparenza così distante, in realtà al di là dell’apparenza, ha molto in comune con le nostre radici. Ci ha fatto riscoprire una spiritualità profonda e primigenia, che va oltre le forme codificate della religione, basata sull’afflato per l’Infinito e sull’unità tra Uomo e Natura, espressioni diverse, ma complementari di uno stesso essere.


Per cui, fini intellettuali, potete vincere, ma non convincere. Potrete, con la complicità di una politica che perduto la consapevolezza di cosa sia il bene comune, cancellare un murale, ma certo, non potete spegnere un ideale.

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Published on June 08, 2019 08:02

June 6, 2019

Marco Corallario

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Uno dei partecipanti meno noti della Disfida di Barletta, date le nebbie che circondano la sua vita è Marco Corallario. Gli unici documenti certi giunti fino a noi, presso l’Archivio storico di Napoli, accertano esclusivamente la sua origine napoletana e che godette della cittadinanza napoletana, al pari della moglie. Non lasciò figli maschi ma solo una figlia, di nome Cassandra. Poi, una citazione, alquanto controversa, farebbe pensare che sia morto a Capua, nel 1524.


Il resto, sono tutti indizi e supposizioni: nei dispacci sforzeschi, viene chiamato Marco di Matteo, il che oltre a farci conoscere il nome di suo padre, ci fa sospettare, vista la mancanza di qualsiasi blasone, che non fosse il nobile. Il che fa pensare come Corallario sia un soprannome, legato al corallo, perché l’attività di lavorazione o pesca del corallo, diffusa nel Golfo di Napoli, potrebbe essere il lavoro familiare.


Deduzioni che fanno scopa con la sua mancanza di stemma gentilizio, dovendo comunque innalzare un’insegna, la crearono utilizzando lo stemma della città di Napoli (spaccato d’oro e di rosso) e caricando nella partizione d’oro una cipolla; poi gli araldi per nobilitare il tutto al posto della cipolla ci misero un cuore.


In più, a differenza dei sui compagni d’avventura, al termine della disfida, non ebbe né feudi, né prebende: per cui è possibile che fosse dei tanti artigiani del sud, mandati in rovina dalle controverse vicende che portarono alla caduta degli Aragonesi di Napoli, che per campare, intrapresero il mestiere delle armi, magari nella compagnia di Ettore Fieramosca, che stimandolo, se lo trascinò dietro nel suo duello contro i francesi…

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Published on June 06, 2019 11:42

Alessio Brugnoli's Blog

Alessio Brugnoli
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