Alessio Brugnoli's Blog, page 101

August 5, 2019

Başur Höyük excavation reveals evidence of human sacrifice in Bronze Age Mesopotamia

Novo Scriptorium


Excavations led by Dr. Haluk Sağlamtimur of Ege University at the site of Başur Höyük have revealed complex burial practices in the Upper Tigris region during the transition to the third millennium BC.


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Published on August 05, 2019 23:57

Lire Agostane

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Domani, dalle 19.30 in poi, nei giardini di via Carlo Felice, si terrà una sonata dedicata a uno degli strumenti più antichi del Mediterraneo: la lira calabrese, erede di una grande famiglia, che vede come capostipite la lira pontica, che risale ai tempi di Socrate, e come massimo esponente la lira bizantina



Famiglia che vuoi o non vuoi, grazie ai Sasanidi e ai nomadi delle steppe, si è diffusa per la via della seta, sovrapponendosi con tanti altri e simili strumenti ad arco. Così, il nostro viaggio verso est comincia, con il Kemence turco, lievemente più piccolo della lira calabrese, con 3 corde, che è suonato tenendolo in posizione verticale con la base poggiata sul ginocchio del musicista.



Kemence il cui nome deriva dal kamancheh persiano, che significa piccolo arco, benché i due strumenti si somiglino ben poco. Il kamanche è uno strumento della musica colta e di corte, grande suonatore ne lo Shāh Ismāʿīl I, fondatore dell’impero safavide, e ha un lungo manico con tastiera che il produttore modella come un cono inverso troncato per facilitare il movimento dell’archetto quando si muove verso il basso. Il manico ha due pioli su entrambi i lati e la parte terminale del manico.


Tradizionalmente i kamancheh avevano tre corde di seta ma gli strumenti moderni hanno quattro corde di metallo, accordate come un violino in Sol, Re, La, Mi. Lo strumento ha un lungo manico e una cassa armonica inferiore a forma di ciotola, ricavata da una zucca o da un ceppo di legno, solitamente ricoperta da una membrana ricavata dalla pelle di un agnello, capra o qualche volta pesce, su cui è montato il ponticello. Dal basso sporge una punta per sostenere il kamancheh mentre viene suonato, in maniera analoga a un violoncello sebbene si tratti di uno strumento che ha la lunghezza di una viola. Il perno terminale può appoggiare sul ginocchio o sulla coscia mentre il suonatore sta seduto.



Ancora più a est, tradizionale strumento mongolo a due corde, suonato con un archetto. Il manico e la cassa armonica sono generalmente ricavati da legno di pino o larice. La cassa armonica è ricoperta con una pelle o con una sottile tavola di legno. Le corde, anche quelle dell’archetto, sono tradizionalmente ricavate da crine di cavallo.


L’igil viene tenuto in posizione quasi verticale quando viene suonato, con la cassa rivolta in basso. La tecnica classica per suonare lo strumento prevede di toccare le corde con le unghie o con la punta delle dita, ma senza esercitare pressione sulle corde stesse. L’igil non ha tasti. L’archetto viene utilizzato con l’altra mano.



In Cina abbiamo una vasta famiglia di strumenti ad arco, detta degli huqin.Il capostipite è l’erhu, a due corde, suonato con un archetto, che però non può essere separato dallo strumento. Le corde generalmente vengono accordate a una distanza di una quinta: re3-la3.


Lo strumento è composto da una piccola cassa armonica di forma esagonale o anche ottagonale – più raramente tonda – su cui è tirata una pelle di serpente (secondo la tradizione, di pitone) e sulla quale è appoggiato il ponticello. Nella cassa si innesta il collo, alla cui sommità si trovano due bischeri che servono per tirare le due corde; anticamente queste ultime erano di seta, mentre oggi sono di acciaio



Una sua variante è il Sihu, costruito però in bambù e con quattro corde, invece che due



Sempre in bambù, ma molto più piccolo e con una sola corda, è il jinghu, strumento generalmente impiegato per accompagnare il canto nell’Opera di Pechino.



Infine vi è il Banhu che ha una storia di più di 300 anni ed è così chiamato a causa della cassa realizzata con del legno sottile. All’inizio era diffuso principalmente nel nord della Cina e alcune opere locali come il Bangzi della provincia del Hebei, l’opera Pingju, l’opera Yuju e l’opera Qinqiang utilizzano il Banhu come strumento principale di accompagnamento. Il Banhu ha un profondo rapporto con le opere tradizionali, dando voce ai suoi punti forti nell’accompagnamento delle opere locali.


La struttura del Banhu è simile a quella dell’Erhu, tuttavia la cassa è diversa. La parte anteriore della cassa non è realizzata in pelle come nel caso dell’Erhu, ma in legno di paulonia, il che costituisce la chiave della sua tonalità. La chiara e sonora tonalità del Banhu lo rende lo strumento principale della parte alta dell’orchestra.

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Published on August 05, 2019 11:23

Beer brewing in Bronze Age Greece

Novo Scriptorium


In this article we present a summary on the exciting discovery of beer brewing in Bronze Age Greece.


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Published on August 05, 2019 02:47

August 4, 2019

[STORIA] I catafratti bizantini nell’epoca d’oro dell’impero

NARRARE DI STORIA


Illustrazione in copertina tratta da qui



L’immagine del cavaliere interamente ricoperto dalla corazza lamellare, due fessure nere come occhi, la lancia che spunta verso l’alto, sopra un cavallo anch’esso pesantemente bardato è associata in modo inestricabile all’impero bizantino, come se esso avesse fatto parte dell’esercito imperiale lungo tutto l’arco della sua storiamillenaria.



Non è così. I catafratti, intesi nel senso prettamente moderno di “cavalieri interamente ricoperti dall’armatura” furono utilizzati solo nel tardo periodo romano (IV-V secolo d.C.)  e in seguito nel periodo d’oro dell’impero bizantino (a cavallo tra X e XI secolo), cioè dal regno di Niceforo Foca in poi fino a scomparire, forse, dopo la battaglia di Manzikert (1071). Il tipico cavaliere bizantino dall’epoca di Giustiniano fino ai Comneni (XII secolo), infatti, pur con le dovute differenze ed evoluzioni, era solo parzialmente corazzato e contava su due armi tra loro complementari: l’arco e la lancia. Il kataphraktos di…


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Published on August 04, 2019 13:15

Antinum

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Antinum, uno dei principali centri dei Marsi, sorgeva lungo la Valle del fiume Liri, al confine con il territorio dei Volsci. Che sia un centro dei Marsi e non dei Volsci, come è stato proposto da alcuni studiosi, è testimoniato dalle iscrizioni in cui compare come Marsi Antinum.


Le origini dell’insediamento vanno ricercate nel VI – V secolo come medio centro fortificato dei Marsi con le sue mura in opera poligonale.Al termine della prima metà del i secolo a.C., l’insediamento fortificato divenne municipium romano con il nome di Marsi(s) Antino, o piu comunemente Antinum, iscritto nella tribù Sergia; i suoi abitanti detti Marsi Antinates, sono ricordati da Plinio il Vecchio nella lista dei popoli marsi.


Dalle iscrizioni di età imperiale, la città e retta da quattuorviri scelti fra le famiglie più importanti locali come i Pomponii e Petronmi, e nuovi arrivati dai vicini municipia (Vertulei) o di origine servile, coine i Novii che daranno alla città ben sei magistrati superiori e le cui fortune vanno ricercate nel possibile sfruttamento degli affioramenti di ferro della Val Roveto. Oltre alle tradizionali attivita agricole di fondovalle e la probabile coltivazione di fichi, il territorio antinate era ricco di boschi utilizzati dalla locale corporazione dei dendrophori (boscaioli) che sfruttavano le selve dei monti dell’alta Valle del Liri.


All’inizio dell’eta medievale, sebbene in decadenza e dopo una contrazione, l’abitato interno accentrato, si dispose dentro il perimetro murario antico rinforzato da torrette-rompitratta ”a scudo” nel ’200, in vicinanza delle porte ancora in funzione. Nell’interno, al centro sul luogo dell’ex asilo, vi era la pieve di Santo Stefano da cui dipendevano numerose chiese rovetane a conferma della sua probabile funzione diocesana; infatti, nel IV – V secolo probabilmente Antinum fu sede episcopale. Intorno alla città intanto sorgevano le prime comunita monastiche benedettine, come quelle volturnensi documentate nella vicina «inclita valle Sorana» gia nel 744-788.


L’XI secolo vede la presenza nella città medievale dal nome di Civitas Antena, di un esponente minore della famiglia dei Conti dei Marsi, il «Rainaldus filius Obberti de civitate Antena» che appare in donazione a Montecassino del 1060-63 Nel XII secolo il castellum di Civitate Antine si trova inserito, come feudo «in servicio» del valore di quattro militi, nella Contea di Albe, sotto i conti Berardo e Ruggero di Andria, e nella stessa contea rimarrà fino al termine del feudalesimo. Probabilmente l’altura dell’acropoli fu dotata di una torre-cintata con la torre-mastio interna, a pianta quadrata, gia dall’XI secolo, forse da uno dei figli di Oderisio n; questa, risistemata nel ’300, e detta ora Torre dei Colonna. Resto notevole di casa-torre medievale (XIII secolo), e la cosiddetta Casa di San Lidano posta in direzione di Porta Nord. Con il Rinascimento, sotto la dominazione dei Colonna, l’abitato si ridusse ad un’area più ristretta fra il vecchio Foro, Porta Flora, Porta Nord e l’acropoli con una recinzione interna dotata di bastioni cilindrici sul finire del ’400.


Al termine del ’500 l’altura vicino al Foro fu caratterizzata dall’edificazione di un complesso palazzato dei Ferrante. Con le distruzioni dei terremoti dal Settecento al 1915, l’abitato e stato in gran parte alterato dalle ricostruzioni e la stessa parrocchiale di Santo Stefano nel ’700 fu riedificata nelle vicinanze del Palazzo Ferrante in localita Banchi.


Dal 1877 ai primi anni del novecento pittori danesi noti quali Kristian Zahrtmann, Peder Severin Krøyer e Peter Christian Skovgaard si stanziarono a Civita d’Antino producendo numerosi quadri ritraenti paesaggi e costumi locali, alcuni dei quali di elevato valore artistico.


La moderna Civita di Antino, ricostruita dopo il terremoto del 1915, ha conservato il nome e il sito del centro antico. Sono visibili ancora ampi tratti delle mura poligonali, che proteggevano l’abitato su tutti i lati, escluso quello orientale, naturalmente difeso da profondi burroni. Il tratto più conservato è il lato nord-ovest, dove alcune muraglie raggiungono ancora i sei metri di altezza. Sono mura in opera poligonale piuttosto rozza, catalogabile come “seconda maniera” e databile probabilmente entro la prima metà del V secolo a.C. Notevoli sono alcune parti della cinta muraria del lato sud, dove le mura discendono ripidamente fino a una valletta, in fondo alla quale era una porta coincidente con la principale via di accesso, che poi si prolungava all’interno della città dividendola in due. L’acropoli probabilmente era ubicata dove è ora la torre Colonna e divenne la cittadella nel periodo medioevale. Il Foro, dal quale provengono alcune iscrizioni di carattere pubblico, era localizzato probabilmente nella piazza della Chiesa di Santo Stefano, ancora oggi centro del paese.


Unici resti antichi conservati all’interno del sito sono due muri paralleli in reticolato irregolare, di Età tardo-repubblicana, chiamati le Terme dagi abitanti del luogo. L’iscrizione di Angitia, che è conservata nella piazza della Chiesa di Santo Stefano, proviene dalla località Condotto, dove è una fonte ancora utilizzata. Più vicino all’abitato, presso la fontana del paese, troviamo un’iscrizione incisa su una rupe, di carattere funerario. Importante è la scoperta di una lamina di bronzo scritta in un dialetto italico con dedica alla dea Veruna. Si tratta di una divinità tipicamente umbra, che appare nelle tavole Iguvine, la cui presenza in territorio marso conferma gli stretti rapporti di questa popolazione con quella italica più settentrionale.


Altro ritrovamento importante è il cosiddetto bronzo di Antino, un’epigrafe che rappresenta una della principali fonti di conoscenza della lingua databile tra il III secolo a.C. ed il II secolo a.C. e ritrovata a metà del XIX secolo.


Il bronzo era offerto dal meddix, magistrato supremo di un popolo italico, Pacio Pacuvio al dio Pomono. Significativo, dal punto di vista della ricostruzione della cultura italica, il fatto che questo meddix appaia nel bronzo privo di attributi particolari, a indicare la non necessaria specializzazione di tali figure, a differenza del magistratus romano. Il testo è il seguente:


Pa. Vi. Pacuies. medis

Vesune. dunom. ded

Ca. Cumnios. cetur

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Published on August 04, 2019 08:21

A Northern European population history based on human genomes analysis

Novo Scriptorium


An international team of scientists, led by researchers from the Max Planck Institute for the Science of Human History, analyzed ancient human genomes from 38 northern Europeans dating from approximately 7,500 to 500 BCE.


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Published on August 04, 2019 04:55

August 3, 2019

Il Castello dell’Uscibene


Uno dei luoghi meno conosciuti al grande pubblico e più maltrattati dall’abbandono e dal degrado, tra i sollazzi arabo normanni, è il Castello dell’Uscibene, il quale ha una lunga e complessa storia: i saggi archeologici del 2014 hanno portato alla scoperta di un muro di opus reticolatum, che implica la presenza nell’area di una costruzione di epoca romana.


Questa tecnica non è molto frequente in Sicilia e e in genere nelle province, mentre è ben documentata nel Latium e in Campania (Regio I). Al di fuori della zona di maggiore attestazione essa fu impiegata negli edifici pubblici e nell’edilizia privata di lusso, nel periodo compreso fra il I sec. a.C. e il II sec. d.C.


Per cui, possiamo ipotizzare come in quella parte del suburbio palermitano, all’inizio dell’era volgare, vi potesse essere una dimora di gran lusso: è possibile, anche se i dati storico archeologici sono contrastanti, che vi fosse una costruzione analoga al Qaṣr Jaʿfar, il palazzo dell’emiro che diventerà poil il Castello di Maredolce.


A sostegno di tale ipotesi vi è la presenza di un qanat, un canale sotterraneo che, seguendo le particolari conformazioni del terreno e la morfologia friabile della roccia, vennero costruiti per portare acqua in superficie, intercettando le falde naturali del terreno e della camera dello scirocco, una stanza interrata scavata nella roccia, raffreddata dall’acqua e dalle correnti d’aria, utilizzata per sfuggire all’afa estiva.


Ai tempi di Ruggero II, il complesso fu soggetto a una profonda ristrutturazione: purtroppo i documenti dell’epoca non sono molto chiari, quando ne parlano. Secondo l’ Amari, Scibene è da identificarsi con il Menani, citato da Ugo Falcando.


La costruzione mutò destinazione, non più “sollazzo”, nel 1177 quando Guglielmo II con suo privilegio nel marzo dello stesso anno, per ricompensare la chiesa panormita della donazione a quella di Monreale del Casale di Corleone e della Chiesa di S. Silvestro, le faceva dono del palazzo dell’Uscibene unitamente ai terreni che lo circondavano, la concessione ebbe un ulteriore conferma da parte di Federico II, nel 1211.


L’abate Mongitore che riscoprì tanti monumenti disseminati nella campagna palermitana, dopo vari secoli d’oblio, scrisse alcune osservazioni e fra le altre, una dedicata alla “chiesa della Madonna dello Scibene”, scriveva:


“Nel giardino chiamato Scibene che fu della Mensa Arcivescovile di Palermo, è, in oggi (1726) del Collegio della Compagnia di Gesù, si vede una chiesetta della SS. Vergine, di cui si fa festa l’8 settembre.” “…La fabbrica della chiesa è antichissima e pare edificio dell’età dei saraceni e forse da essi fabbricato, e poi, accomodato a forma di chiesa”. “…La stessa antichità mostrano una torre, alcune stanze vicine, e alcuni bagni sotterranei da me osservati nel 1701…”.


Con la cessione all’arcivescovo Gualtiero Offamilio portò al cambio del nome della struttura, che divenne l’Uscibene, dal nome della sorgente Xibene o Scibene, che alimentava la ormai scomparsa peschiera del palazzo, della quale oggi non si nota altro che un muro di confine.


Dopo il XVI secolo la proprietà del palazzo passò a diverse famiglie – Alliata principi di Villafranca, Fardella principi di Paceco – e nel 1681 ai Padri della Compagnia di Gesù di Messina. Nonostante queste concessioni l’edificio si avviò ad un progressivo declino. Infine, nel 1786 fu messo all’asta ed acquistato dalla famiglia De Caro che ha dato il nome al fondo. Alla seconda metà dell’Ottocento si datano gli studi di Nino Basile e i rilievi di Giovan Battista Filippo Basile e quelli effettuati nel 1898 da Adolph Goldschmidt quando iniziarono i primi interventi di recupero e consolidamento. Nel 1928 venne effettuato il primo restauro della Cappella da parte della Soprintendenza, diretta da Francesco Valenti. A partire dagli anni ’60 del secolo scorso, con la rapida espansione della città, si iniziano a registrare notevoli modifiche dell’antico impianto, visto che i resti del complesso sono oggi del tutto nascosti dagli edifici circostanti e soprastanti.


Nel 1991 la Soprintendenza ha posto sotto vincolo il complesso e nel 2016 ha effettuato l’esproprio della cappella e delle aree in cui insistevano l’iwan e gli ambienti adiacenti; ora si vorrebbe introdurre il complesso nel percorso Unesco arabo-normanno, il che fa sperare per il suo futuro.


Ma cosa vedere all’Uscibene ? Per prima cosa, al livello superiore, la cappella, intitolata alla SS. Vergine, a pianta longitudinale e priva dell’abside, caratterizzata all’esterno da archeggiature ogivali cieche. Al livello inferiore, invece, l’iwan, la sala nobile, due vani, probabilmente di servizio, la camera dello scirocco e una grotta naturale.


L’iwan, un particolare, è costituito da un grande ambiente alto circa sei metri, coperto da una volta a crociera, con tre nicchie rettangolari: la nicchia centrale, con tracce di una fontana, presenta una volta rivestita da muqarnas,le nicchie laterali sono coperte da una volta “plissettata” o “a ombrello”, in maniera simile a quanto presente nella Zisa e a Maredolce… Chissà cosa ci riserveranno i restauri futuri…

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Published on August 03, 2019 03:41

August 2, 2019

Santissima Trinità a Mileto





Il mio viaggio alla scoperta delle tombe degli Altavilla compie una nuova tappa calabrese, giungendo a Mileto, in provincia di Vibo Valentia, che fu capitale della contea di Ruggero I d’Altavilla; qui il normanno, mantenendo sia il legame con la sua patria d’origine, sia per sottolineare la continuità della sua stirpe con quella dei principi della Langobardia Minor, fece costruire nei pressi del palatium di Roberto l’Abbazia di San Michele Arcangelo, poi ridedicata alla Santissima Trinità, in modo da affermare la sua parentale spirituale con l’ultima dimora del Guiscardo, per portare avanti il processo di latinizzazione della popolazione di origine greca.


Il primo Abate fu Guillaume Fitz Ingram, dal nome in figlio illeggittimo e, nel 1120, Papa Gregorio VII vi istituì la diocesi diventando la prima sede episcopale di rito latino di tutto il meridione d’Italia.Inizialmente dipendente dall’abbazia di Santa Maria di Sant’Eufemia, ne fu distaccata nel 1098 e dichiarata direttamente dipendente dalla Santa Sede, oltreché abbatia nullius diocesis con delle sue parrocchie dipendenti, con bolla di papa Urbano II.


Nel 1166, su richiesta dell’abate Mauro, la chiesa fu riconsacrata in quanto l’altare maggiore era stato profondamente danneggiato da un crollo. Nel 1200 si ebbero i primi scontri con il presule di Mileto che si sarebbero trascinati per tutta la storia dell’abbazia a causa soprattutto della qualità di nullius diocesis della SS. Trinità che la rendeva indipendente dal presule locale. Nello stesso anno si verificano anche i primi scontri con i monaci greci di San Nicodemo che, con l’appoggio del vescovo di Gerace, si ribellarono al dominio dell’abbazia melitense, a cui erano sottoposti da una donazione del 1091, riuscendo a rimanere indipendenti.


Papa Alessandro IV ne estese, nel 1260, la giurisdizione su varie persone, laici ed ecclesiastici, che erano andate ad abitare a Monteleone agli ordini di Matteo Marchafaba, secreto dell’imperatore Federico II.


Nel 1358 il re Ludovico e la regina Giovanna concessero all’abbazia il diritto di tenere una fiera nei cinque giorni precedenti e nei tre successivi la solennità della Santissima Trinità; è possibile che si tratti della riconferma di un privilegio già concesso dal conte Ruggero. Durante la fiera (che nel 1700 durava due settimane, una prima e una dopo la festa) si era esenti dalle gabelle ma i granettieri del monastero avevano il diritto di esigere una parte delle merci presenti.


Nel 1659 l’abbazia fu colpita dal primo dei sismi che doveva poi distruggerla completamente. Il terremoto provocò il crollo sia della chiesa che del monastero, i cui materiali e beni vennero poi saccheggiati. In questa occasione anche il vescovo pretese di utilizzare le pietre dell’abbazia per riparare la cattedrale ed anche per farne commercio.Nel 1660 la chiesa fu ricostruita ma senza l’antica maestosità, le sue dimensioni infatti si ridussero alla metà. Del monastero rimasero in piedi solo le muraglie ed alcuni muri maestri; appoggiata alla muraglia ovest fu costruita la nuova residenza vicariale.


Nel 1717, il 13 agosto, Clemente IX soppresse la nullius diocesis abbaziale con la bolla dismenbrationis Abbatiae, unendone i territori alla diocesi melitense; il Papa decretò che in cambio il vescovo doveva versare una pensione annua di 2400 scudi romani al Collegio greco. Nel 1762 iniziò a Napoli una causa per stabilire se l’abbazia fosse di regio patronato; in conseguenza di ciò, 14 anni dopo, il vescovo smise di pagare la pensione. Il terremoto del 1783 segnò la totale distruzione della SS. Trinità, di cui rimangono imponenti rovine;vi furono effettuati degli scavi tra il 1916 e il 1923 da Paolo Orsi, altri scavi sono stati effettuati nel 1995 e 1999.


Ma come era, in origine, questa abbazia? Senza troppe sorprese, somigliava assai a Sant’Eufemia, di ispirazione cluniacense, con un transetto sporgente e con tre navate e tre absidi affiancate la cui centrale corrispondeva alla cupola del coro. La chiesa era lunga circa 42 metri e larga 26, con colonne greche provenienti dal Tempio di Proserpina di Hipponion, la nostra Vibo Valentia. Il campanile, invece, in origine pare fosse costituito da una torre separata dal corpo della chiesa


Con i due terremoti seicenteschi, la chiesa venne radicalmente trasformata con una ricostruzione che comportò una riduzione degli spazi, con la nuova chiesa che occupava le sole navate, con l’abside quadrata che terminava all’altezza dell’arco santo dell’impianto romanico e i pilastri al posto delle colonne. All’indomani del terremoto del 1783 restava solo una parte del prospetto e il contrafforte seicentesco e le pareti perimetrali solo per un’altezza minima, mentre oggi dell’intero complesso svetta solitaria la ‘scarpa della badia’ a testimonianza del monumento medievale e delle sue trasformazioni in età moderna.


E come Sant’Eufemia, la sua omonima di Venosa, Monreale o la Cattedrale di Palermo, Santa Trinità fungeva da chiesa mausoleo: vi furono infatti sepolti Ruggero I, la sua seconda moglie Eremburga e Simone, successore designato del Gran Conte


Secondo le cronache di Alessandro di Telese, durante la sua infanzia Simone incorse in un curioso incidente con suo fratello Ruggero. Un episodio che alla luce dei successivi sviluppi storici appare quasi profetico:


Come tutti i bambini, [Simone e Ruggero] stavano facendo un gioco con le monete, il loro preferito, e finirono col venire alle mani. Durante la lotta, ciascuno supportato da un proprio gruppo di amici, il più giovane, Ruggero, risultò vincitore. Egli derise il fratello Simone dicendo:


Sarebbe decisamente meglio che toccasse a me l’onore di regnare trionfalmente dopo la morte di nostro padre, piuttosto che a te. In ogni caso, quando riuscirò a farlo ti nominerò vescovo o anche pontefice di Roma – il che sarà per te la migliore delle sistemazioni






Il sarcofago che custodì le spoglie di Ruggero I° e che oggi si conserva presso il Museo Archeologico di Napoli, dove i Borboni lo trasferirono nel 1846 è probabile provenisse da Roma o Ostia (come molti sarcofagi antichi poi riutilizzati in diverse città italiane), ma non è escluso che possa essere stato costruito in Campania. Anche nei pressi di Mileto vi erano ”giacimenti” archeologici, come quello della greca Hipponion, ma i materiali ivi rinvenuti al tempo di Ruggero (colonne, capitelli, sculture) si ritiene siano stati utilizzati soprattutto per abbellire l’Abbazia e la Cattedrale normanne di Mileto.


Il manufatto è in marmo bianco inciso con scanalature a forma di onde disposte in senso verticale. E’ lungo metri 2.40, largo cm. 92 ed alto metri 1.91, decorato su tre lati, mentre il quarto lato poggiava in origine al muro della navata destra della Chiesa abbaziale della SS. Trinità di Mileto. Sul pannello centrale compare scolpita una porta a due battenti, con il battente destro socchiuso a simboleggiare il passaggio del defunto nel mondo dei morti.


Alcun elementi decorativi, come la sella curule e le corone di alloro scolpite su entrambi i lati del sarcofago, fanno ritenere che esso possa essere appartenuto ad un magistrato. Presenta un coperchio a foggia di tetto di casa, con alle estremità due busti, oggi acefali, di un uomo e di una donna ( forse l’antico proprietario e sua moglie). Si suppone che in origine i lati del coperchio possano essere stati ornati dai volti di due Gorgoni con capelli serpentini ma che all’epoca di Ruggero questi siano stati sostituiti dal simbolo cristiano della croce greca.


Ora, dato che da una testimonianza di un viaggiatore seicentesco, sappiamo come il sarcofago fosse posto un distico in cui vi era scritto


Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam Rogerii Comitis Calabriae et Siciliae. Hoc quicumque leges dic sit ei requies.


Tali modifiche furono attribuite al marmorario romano Pietro di Oderisio; il problema è che il buon Pietro, autore del monumento funebre di papa Clemente IV a Viterbo, socio di Arnolfo di Cambio, nell’esecuzione del Ciborio di San Paolo fuori le Mura e a Westminster dell’arca con le reliquie di Edoardo il Confessore che porta una iscrizione che ricorda un Petrus romanus civis e idell monumento funebre di Enrico III, è attivo tra il 1270 al 1300.


Per cui, il suo intervento deve essere di molto posteriore alla morte di Ruggero I, risalente al 1101. Il mistero potrebbe essere chiarito grazie a uno studio pubblicato nel 1983 dalla storica dell’arte Lucia Faedo, in cui si afferma che questo sarcofago, fosse stato inserito in una struttura monumentale più complessa affine a quella delle tombe reali del duomo di Palermo collocate sotto un baldacchino sorretto da colonne in porfido. Indizi di questa ricostruzione sarebbero ricavabili da un pezzo di architrave in porfido, oggi conservato in Calabria come gradino d’altare in una chiesa di Nicotera, dove sarebbe giunto già dopo il terremoto del 1659, quando marmi e altre pregevoli cose della Chiesa della Trinità finirono dispersi o venduti. L’architrave risulta decorato da tre maschere col volto umano del tutto simili a quelle scolpite sul baldacchino della tomba di Federico II a Palermo.


Autore di questo baldacchino fu probabilmente Pietro di Oderisio, a cui Carlo II commissiò a Mileto una replica delle tombe di Palermo, per ribadire sia i suoi diritti come re di Sicilia, usurpati dagli Aragonesi, sia il suo essere erede spirituale degli Altavilla.


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Un baldacchino simile doveva coprire anche il sarcofago di Eremburga, decorato da una scena di Amazzonomachia, racconto di lotta tra le mitiche amazzoni e i Greci, questi ultimi generalmente guidati da Eracle o Teseo.La scena è inquadrata in alto da un listello con superficie non lisciata ed in basso da due listelli, al centro dei quali corre una ghirlanda di foglie d’alloro embricate (parzialmente sovrapposte).


Sino a qualche tempo fa, era stato datato all’ultimo quarto del II sec. d.C. e considerato di provenienza attica; tuttavia, negli ultimi anni, per una serie di peculiarità stilistiche e tecniche, si è diffuso il sospetto che l’opera sia invece una riproduzione, su modello antico, realizzata contestualmente al suo impiego. Gli artigiani, in sintesi, si sarebbero solo ispirati a modelli classici antichi per la fabbricazione e la decorazione del sarcofago destinato a accogliere le spoglie di Eremburga.

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Published on August 02, 2019 13:13

August 1, 2019

Ancient Greek and Chinese notions of music; similarities and differences

Molto, molto interessante…


Novo Scriptorium


Here we present selected parts of the very informative paper titled “The Ethical Power of Music: Ancient Greek and Chinese Thoughts“, by Yuhwen Wang*.


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Published on August 01, 2019 23:56

Rosa, rosa, amore mio

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Hualien è una città di 110.000 abitanti dell’isola di Taiwan, il cui nome era alquanto complicata: fu fondata da un avventuriero spagnolo, una sorta di Fitzcarraldo, che si era convinto a torto che il luogo navigasse nell’oro, che la chiamò Puerto Dorado. Nel 1851 vi si trasferirono numerosi contadini cinesi, che decisero di rinominarla Kilai.


Tuttavia, in giapponese la parola kilai, pronunciata kirai, aveva un significato simile a “disgustoso”, quindi durante la dominazione nipponica di Taiwan il nome fu cambiato in Karen. Solo dopo la Seconda guerra mondiale, il Kuomintang della Repubblica di Cina traspose i kanji giapponesi nella pronuncia cinese, trasformando il nome in Hualien.


Trascurando le traversie del nome, non è che la vita a Hualien fosse particolarmente emozionante; però, nel 1968, accadde un episodio che mandò in fibrillazione tutti i suoi abitanti: la città fu destinata a ospitare un contingente di soldati americani in licenza dal Vietnam.


Fu un momento di grande festa per tutta la comunità: i bordelli furono rimessi a nuovo e fu aperto persino un nuovo bar dedicato agli ospiti. Tutto questo fermento, colpì la fantasia dello scrittore Wang Zhenhe, che decise di dedicarvi un romanzo, Meigui Meigui wo ai ni, in italiano Rosa, rosa, Amore mio dalla genesi lunga e tormentata, dato che uscì negli anni Ottanta.


La trama è abbastanza semplice da immaginare: i proprietari dei bordelli locali, desiderosi di arricchirsi alle spalle degli yankee in licenza, pensano di offrire loro delle giovani prostitute, opportunamente istruite come bargirls, per deliziare gli ospiti.


A capo dell’impresa di “riqualificazione” del personale sarà posto un insegnante di inglese delle medie, che, forte dell’appoggio di politico corrotto, si farà un po’ prendere la mano e la trasformerà in un’occasione di rivalsa per le ragazze e per se stesso. In libro che satireggia con grande entusiasmo l’ipocrisia di chi nasconde dietro il confucianesimo il proprio degrado morale e il consumismo statunitense.


Il tutto arricchito da una straordinaria sperimentazione linguistica, degna di Quer Pasticiaccio brutto de Via Merulana: questo perché Taiwan, sotto molti aspetti, è una sorta di babele. Pochi se ne ricordano, ma l’isola è la patria ancestrale dei popoli polinesiani e vi è una comunità aborigena che parla una versione molto arcaica delle lingue austronesiane.


Piccola curiosità: l’ultimo soldato fantasma giapponese non è stato il famosissimo Hiroo Onoda, ma Attun Palalin, aborigeno taiwanese, che meriterebbe anche lui di essere protagonista di un romanzo: scoperto casualmente in Indonesia nel 1974, il suo rimpatrio scatenò uno scontro tanto aspro, quanto ridicolo, tra Taiwan e Giappone su chi dovesse pagargli la pensione, tra l’altro assai bassa, visto che fino alla riforma del 1953, i soldati semplici non avevano diritto a una pensione militare. I due paesi dovettero affrontare anche il problema della cittadinanza di Nakamura (il quale non parlava all’epoca né giapponese né cinese), il quale era apolide al momento del suo arresto…


Tornando al manicomio linguistico di Taiwan, la migrazione cinese cominciò dopo che Coxinga, ribelle legittimista Ming, vi cacciò gli olandesi: ma i nuovi arrivati non parlavano né Mandarino, nè Cantonese, ma due lingue minoritarie, una variante dell’Hokkien e l’Hakka. Con la conquista giapponese, si sovrappose un substrato nipponico; dopo la Seconda Guerra Mondiale, da una parte il governo nazionalista cercò di imporre come lingua parlata il Mandarino, dall’altra vi fu una forte influenza della lingua inglese.


Tutto ciò rivive nello straordinario pastiche linguistico del romanzo di Wang Zhenhe, molto più complesso di quello del nostro Camilleri: renderlo in un’altra lingua è una sfida da far tremar le vene e i polsi!


E certo non avrei mai voluto essere nei panni di Anna di Toro, che ne ha curato la traduzione in italiano; per aggirare l’ostacolo, ha fatto una scelta coraggiosa, riscrivendo di fatto l’opera.


Ha reso l’Hokkien colloquiale con il dialetto catanese, il Mandarino con l’Italiano colloquiale, il Giapponese con l’Italiano aulico, mantenendo invariato l’inglese; di conseguenza, ha trasportato le vicende da Taiwan in una Sicilia immaginaria e fuori dal tempo, trasformando le citazioni confuciane in quelle dell’antica filosofia greca e mutando il nome dei protagonisti, pur rispettandone il significato.


Ad esempio Dong Siwen, il professore d’inglese petomane e pieno di manie di grandezza, il cui nome significa un qualcosa di simile a “Esperto dei letterati”, è diventato Concettino Finezza… Insomma, un’opera tanto divertente quanto straniante, in cui si gioca a carte scoperte sul concetto del “tradurre è tradire”, in cui però ogni tanto viene il dubbio sul fatto che si legga un romanzo di Wang Zhenhe o di Anna di Toro…

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Published on August 01, 2019 12:31

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Alessio Brugnoli
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