Alessio Brugnoli's Blog, page 97
September 1, 2019
Aufidena
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Oggi il mio viaggio in Abruzzo fa tappa nell’Antica Aufidena, uno dei centri più importanti dei Sanniti Pentri, stanziati nell’Abruzzo sud-occidentale e nell’alto Molise; fiorita tra il VII e il III secolo a.C. decadde a seguito della conquista romana, avvenuta durante la terza guerra sannitica, nel 298 a.C. da parte del console Gneo Fulvio Massimo Centumalo. Dopo la conquista romana divenne municipio nella seconda metà del I secolo a.C. e i suoi cittadini furono iscritti nella tribù Voltinia e fece parte della “regio IV Sabina et Samnium”, come, ad esempio, il decurione Pomponio Severo
Stanno a testimoniare, la sua importanza in epoca pre-roma la Acropoli, a monte di Alfedena (lunghe mura poligonali, porte, tempio, basilica,…) e una vasta necropoli, a valle. L’identificazione del centro citato da Livio fu a lungo discussa (nel XVII e XVIII secolo si ritenne si trattasse di Offida, nella valle del Tronto), per colpa del geografo Tolomeo, che, poco esperto di cose italiche, l’attribui ai Sanniti Carricini (citati come Caraceni), stanziatia tra il fiume Sangro e le pendici della Maiella: mentre Plinio la riferisce ai Sanniti Pentri, come confermato dai ritrovamenti epigrafici.
L’antico centro sannitico è attualmente identificato con i resti rinvenuti presso Alfedena a partire dalla fine del XIX secolo (ad opera di Antonio Di Nino prima e di Lucio Mariani poi) e negli scavi ripresi a partire dagli anni settanta del Novecento.
I Sanniti erano organizzati in Touta, tribù distribuite sul territorio; l’unità politica al di sotto della Touto era il “pagus”, il cantone, una sottounità amministrativa che non era una città ma un distretto di estensione variabile che poteva a sua volta includere centri abitati.
Gli insediamenti ubicati in pianura o in zone pedemontane erano chiamati vicus e svolgevano una funzione più specificatamente economica, in quanto unità produttive (a carattere pastorale, agricolo e artigianale) o centri di scambi commerciali. Alcune volte erano dotati di una difesa perimetrale per arginare almeno la fase iniziale di una qualsiasi minaccia esterna (anche per evitare l’intrusione di animali selvatici). Quelli delle zone montuose, cioè edificati in altura, erano chiamati oppidum, che in condizione normali fungevano da punto di appoggio per i pastori impegnati nella transumanza verticale, che in caso di guerra fornivano protezione agli abitanti del vicus.
Aufidena rispettava in piento tale organizzazione: si trattava di un complesso di oppida che controllava l’alta valle del Sangro, a protezione di un gruppo di vicus, connessi all’origine di due tratturi, il Castel di Sangro-Lucera e il Pascasseroli-Candela.
Il primo partiva dalla valle del fiume Sangro e nel suo percorso attraversava il fiume Biferno all’altezza della città romana di Fagifulae, per poi guadare il corso del fiume Fortore. Successivamente la strada s’inseriva nel territorio Dauno costeggiando a sud Lucera per poi immettersi nel tratturo Celano Foggia.Il secondo nel suo percorso verso sud attraversava le città di Aesernia, giunge presso il fiume Biferno all’altezza di uno dei più importanti centri romani del Sannio: Bovianum.
I due tratturi, svolgendo anche il ruolo di vie commerciali, diedero origine a un processo di sinecismo che coinvolse i vicus, facendoli aggregare in un centro proto urbano, a cui fa riferimento la vastissimo necropoli di “Campo Consolino”, con migliaia di tombe, alla confluenza del Rio Torto nel fiume Sangro. Le tombe, indagate solo in parte, sono per lo più databili al VI e V secolo a.C., ma la necropoli era ancora utilizzata, con sepolture di minore ricchezza, nel IV e III secolo a.C.. Le tombe sono disposte a cerchio, rispecchiando probabilmente la suddivisione in gruppi gentilizi.
La tracce dell’insediamento fortificato principale si sono invece conservate nella località della “valle del Curino”, che comprende due cime e una piccola valle tra di esse. Restano tratti delle mura in opera poligonale, un edificio pubblico (chiamato convenzionalmente “Basilica”) e un piccolo tempio. Entrambi gli edifici sono datati ad un’epoca posteriore alla conquista romana.
Mura di fortificazione, relativi a uno degli oppidum, si sono rinvenute anche nelle località di “Civitalta”, su uno spuntone roccioso che sovrasta l’insediamento di Curino, e forse riferibile ad una fase più antica. Altri recinti fortificati di epoca sannitica sono stati riscontrati a Castel di Sangro e nella località “Selva di Monaco”, presso la sua frazione di Roccacinquemiglia. I materiali rinvenuti negli scavi ottocenteschi e degli inizi del Novecento erano stati conservati in un museo istituito ad Alfedena (Museo Civico Aufidenate), che tuttavia subì dei furti e vennedanneggiato durante la seconda guerra mondiale: alcuni degli oggetti furono distrutti o andarono dispersi.
La comquista romana cambiò progressivamente l’organizzazione del territorio: nel I secolo a.C. l’attuale Castel di Sangro, un oppidum di Aufidena divenne sede del municipio romano e progressivamente cannibalizzò l’insediamento sannita. Nell’Alto Medioevo la diocesi di Aufidena, che inizialmente dovette avere sede presso il municipio romano, fu tuttavia trasferita, forse alla fine del V secolo, presso il centro abitato sorto nei pressi dell’antico insediamento sannitico, l’attuale Alfedena, che ne perpetua tuttora il nome, in cui, nel X secolo, fu eretto un importante castello.
August 31, 2019
Evidence for Fish Trade between Egypt and Canaan during the Bronze Age (3,500 yBP)
In this post we present selected parts of the very interesting paper titled “Tooth oxygen isotopes reveal Late Bronze Age origin of Mediterranean fish aquaculture and trade“, by Sisma-Ventura Guy et al.
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La Cappella Palatina di Palermo
Questa cappella che per i predicatori egli costruì nei suoi palazzi, quasi fondamento e fortificazione: grandissima e bellissima, e per straordinaria magnificenza nobilissima, e splendidissima di luce, e peroro corruscantissima, sfavillantissima di gemme, e fiorentissima di pitture. Questa, chi più volte la vide, e torni a guardarla, sempre la ammirerà stupefatto, come se gli mostrasse per la prima volta, e stupirà volgendo gli occhi in giro dappertutto.
Il tetto infatti è tale che uno non si stanca mai di guardarlo, e desta ammirazione al solo sentirne parlare. Con intagli finissimi disposti a forma di piccoli panieri adornato, e tutto lampeggiante d’oro, rassomiglia al cielo, quando, limpida l’aria, risplende di stelle che danzano in coro. Colonne che in modo perfetto sorreggono gli archi, così in alto sollevano il tetto da sembrare impossibile.
E il pavimento consacrato della cappella assomiglia tal quale un prato primaverile, tutto adorno com’è di variopinti tasselli marmorei. Con questo di più: che i fiori appassiscono e scolorano, mentre questo prato non appassisce, e dura perpetuo serbando una fioritura immortale E tutte le pareti sono ricoperte di ornamento marmoreo; di esse le parti superiori ricoprono tessere d’oro, là dove non leoccupi la schiera delle sacre immagini
Sono le parole con cui il monaco e predicatore calabro greco Filagato da Cerami manifestava il suo stupore davanti a Ruggero II per la Cappella Palatina di Palermo, opera che è limitativo definire arabo normanna, dato che il frutto di un lavoro di sintesi culturali che si estende per almeno quattro generazioni e che unisce in sé esperienze diversissime.
Il suo primo antecendente, di cui ho parlato ieri, è il duomo di Salerno, in cui avvengono sia la fusione tra la tradizione architettonica longobarda, che ha come punto di riferimento Cassino e la Roma paleocristiana, sia quella tra la decorazione a mosaico bizantina e l’iconografia dei grandi cicli di affresco delle basiliche romane.
Il secondo, meno noto, è a Reggio, con la sua cappella comitale, dove Ruggero II fu incoronato Gran Conte di Sicilia, la nostra Chiesa degli Ottimati. Questa, di origine bizantina, aveva una pianta quadrangolare, tre absidi orientate nascoste esternamente da un muro rettilineo; le tre navate erano coperte da cinque cupolette, in maniera analoga alla Cattolica di Stilo.
Ai tempi di Ruggero I, al di sopra della chiesa ne venne realizzata una seconda intitolata a San Gregorio Magno, sostituendo la copertura a cupolette con volte a crociera, di cui rimangono lacerti del pavimento in opera cosmatesca.
Ora la Cappella Palatina è impostata secondo la stessa logica: una chiesa inferiore, Santa Maria di Gerusalemme, viene costruita nel 1117, forse sul luogo di una precedente moschea islamica; nel 1130 Ruggero II, per celebrare la sua contestata incoronazione a Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus Capuae avvenuta come conseguenza di una bolla dell’antipapa Anacleto II, che lo fece impelagare in una guerra di dieci anni, dato che Bernardo di Chiaravalle, campione di Innocenzo II, mise in piedi una combattiva coalizione di lui, diede ordine di costruire la chiesa superiore, dedicata a San Pietro Apostolo.
Nel 1132 la costruzione doveva essere già a buon punto perché l’arcivescovo Pietro la dichiarò parrocchia e nel 1140, quando Ruggero provvide a concedere alla chiesa la carta di dotazione, doveva essere già completata o quasi. La Cappella fu consacrata nell’anno 6651 del calendario bizantino, cioè nel 1143 dell’era cristiana, come attesta l’iscrizione greca con la dedica a S.Pietro posta lungo la base del tamburo che sostiene la cupola.
La pianta della chiesa, a tre navate separate da colonne in granito e marmo cipollino a capitelli compositi che sorreggono una struttura di archi ad ogiva, transetto, econ un’abside triconica, riprende in piccolo la concezione spaziale del duomo di Salermo, senza la fissazione del vescovo Alfano per la numerologia e con l’orientamento ad est, tipico della tradizione bizantina, a cui fa riferimento, anche il quadrato centrale sormontato da una cupola emisferica su nicchie angolari, derivato dalla tradizione locale delle cube.
Sempre alla tradizione cassinense, appartengono le porte bronzee che immettono nelle navate laterali, volte verso l’interno, che presentano ornati classici, forse elementi di spoglio di provenienza romana, come i capitelli, a cui però si associano rosette esalobate, come quella del palazzo di Hisham, che implica anche l’influenza culturale araba.
Stessa sintesi è presente nel pavimento, realizzato probabilmente dallo stesso gruppo di artisti cosmati che lavorarono nel duomo di Salerno, che però colsero l’occasione di arricchire il loro repertorio decorativo con elementi geometrici di provenienza fatimide, che poi replicarono in numerose chiese romane. Lo stesso si può dire per il ricco ambone anch’esso decorato da mosaici e il candelabro pasquale intagliato con figure, animali e foglie d’acanto.
Unico al mondo e di notevole importanza e pregio è il soffitto a muquarnas che significa stalattiti o alveoli, raro esempio di pittura fatimide. Questa struttura autoreggente è costituita da tavole molto sottili di abies nebrodensis (abete dei nebrodi). Ciò che vediamo sono 750 dipinti su tavola indipendenti l’uno dall’altro e ciò che viene rappresentato, da artisti a noi purtroppo sconosciuti ma provenienti sicuramente dal Nordafrica, è la rappresentazione del paradiso coranico, in sostanza vengono rappresentati tutti i piaceri dei sensi e dello spirito che attendono i credenti. Si vedono alberi, mostri, pavoni, aquile; uomini accovacciati con le gambe incrociate alla musulmana, generalmente in atto di bere, o di andare a caccia, suonatori di piffero, di tamburo, nacchere e arpa e scene di danza. Tutte queste scene appartengono alla iconografia profana islamica, le cui immagini raffigurate rappresentavano simbolicamente l’augurio di una vita felice dopo la morte.
Per la chiesa non era prevista una porta nella parete occidentale della navata perché in quella posizione era stato previsto il trono per il sovrano – che controbilanciava l’altare nell’estremità orientale della chiesa – e come in diverse cappelle del Gran Palazzo di Costantinopoli, la cappella era considerata una sorta di sala del trono, equiparando il re normanno al Basileus, rappresentante di Dio in terra.
Quanto ai mosaici, che rendono giustamente famosa la Cappella Palatina è stata messa in dubbio l’esistenza di un progetto iconografico unitario e si è ipotizzato che quelli della navata-sala del trono non facessero parte del progetto iniziale. La critica è oramai da tempo concorde infatti nel distinguere due fasi principali nella decorazione: una fase – quella della decorazione del presbiterio, cioè cupola, abside (dove è originale solo il Pantocratore mentre il resto fu rifatto nel XIX secolo) e transetto – risalente ai tempi di Ruggero II e realizzata entro il 1143, secondo quanto accennato all’iscrizione alla base della cupola; ed una all’epoca di Guglielmo I, per i mosaici delle navate, per i quali le differenze stilistiche fra quelli della navata centrale e quelli delle navate laterali hanno fatto supporre l’utilizzo di maestranze diverse.
L’esecuzione dei mosaici del presbiterio dovette concludersi entro la metà del secolo perché essi – in particolare quelli dell’ala sud del transetto e quelli nel quadrato centrale sotto l’iscrizione del 1143 – presentano chiari rimandi alla decorazione musiva della Cattedrale di Cefalù del 1148, e perché alla scelta e alla disposizione dei soggetti si rifanno i mosaici della chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, fondata da Giorgio di Antiochia e terminata prima della sua morte nel 1151.
I mosaici della navata centrale e delle navate laterali invece furono eseguiti – secondo la Cronaca di Romualdo Salernitano – sotto il regno di Guglielmo I il quale dovette quindi prendere la decisione di estendere il programma iconografico religioso alla zona della chiesa in origine destinata alla sala del trono già decorata da drappi di seta intessuti d’oro secondo la descrizione di Filagato da Cerami.
Secondo un sistema elaborato a Bisanzio, nella cupola il perno è costituito dal Pantocratore benedicente intorno a cui si dispongono in ordine gerarchico quattro arcangeli recanti il labaro e il globo crociato e quattro angeli in atto di adorazione; nel tamburo otto figure di profeti; nelle nicchie angolari della cupola gli evangelisti che si alternano con David, Salomone, Zaccaria e Giovanni Battista; negli intradossi degli archi che sostengono la cupola una serie di santi martiri; infine padri della chiesa e
santi vescovi.
La decorazione del presbiterio comprende poi il ciclo delle feste, cioè una serie di scene che includono gli avvenimenti più importanti della vita di Cristo sulla terra che nell’arte bizantina aveva assunto una forma canonica tra l’XI e il XII secolo: sull’arco orientale del quadrato centrale l’Annunciazione; nell’ala sud del transetto la Natività e la Fuga in Egitto, unica scena che non rientra nel ciclo canonico bizantino delle feste; ancora nel quadrato centrale, di fronte all’Annunciazione, la Presentazione di Cristo al tempio; nei registri inferiori dell’ala sud del transetto il Battesimo, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Entrata in Gerusalemme; il ciclo prosegue nell’ala nord, ai lati della zona dove si è ipotizzato si trovasse la loggia reale, con la Crocifissione, la Discesa di Cristo agli Inferi e, nella volta, l’Ascensione; infine, di nuovo nell’ala sud, la Pentecoste.
Il classico sistema bizantino, quindi, nella chiesa palermitana fu adattato alla presenza della loggia reale: i molti santi guerrieri negli intradossi degli archi e la concentrazione delle scene del ciclo delle feste nell’ala sud sono motivati dalla presenza del re che assisteva alle funzioni dalla loggia dell’ala nord della chiesa.
Anche la presenza dell’Etimasia– il Trono per il ritorno del Cristo – nella campata che precede l’abside con gli angeli a guardia, è consona ad una pratica bizantina mentre, nel catino absidale, al posto della figura classica della Vergine, è presente un altro busto di Cristo Pantocratore, eseguito però all’epoca di Guglielmo.
Nell’abside sud è raffigurato S. Paolo e nell’abside nord la figura di S. Andrea, quasi tutta frutto di restauro. Sulla parete sopra l’abside sinistra è raffigurata, a fianco alla figura di San Giovanni Battista in dimensioni ridotte, la Madonna col Bambino; è stato rilevato che la Vergine è raffigurata come Odigitria, cioè come un’icona dalle forti implicazioni monarchiche e militari, motivandone così la presenza su una delle pareti più visibili dalla loggia su cui sedeva il sovrano.
Sulle pareti della navata centrale, in analogia a quanto realizzato a Salerno, vengono replicati e reintepretati i cicli decorativi delle basiliche romane di San Pietro e di San Paolo fuori le mura. Appaiono infatti su due registri episodi narrati nella Genesi: dalle scene della Creazione alla Lotta di Giacobbe con l’angelo.
Le storie della Creazione sono narrate in sette riquadri, ognuno per un giorno della settimana. Ad esse seguono i riquadri dedicati ad Adamo ed Eva e quelli di Caino e Abele. I tre riquadri successivi invece furono aggiunti durante il restauro diretto dall’aretino Cardini nel XVIII secolo in una zona probabilmente in origine occupata da una loggia o da un palchetto. Seguono le scene con le Storie di Noè, la Torre di Babele, storie di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nelle navate laterali, la sequenza con le scene delle Storie dei Santi Pietro e Paolo si apre a partire dalla terminazione orientale della navata sud con quattro scene della vita di S. Paolo, cinque sulla vita di S. Pietro e tre sul loro incontro a Roma e il trionfo su Simon Mago.
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Nelle navate sono inoltre ritratti 84 santi, tutti scelti dal calendario latino e identificati
da scritte in latino, quasi a censura della componente greco ortodossa del regno normanno, presente in Sicilia e in Calabria: a figura intera i vescovi negli spazi sulle colonne nella navata centrale, i presbiteri sulle pareti occidentali delle navate laterali e le sante sulle pareti interne delle navate laterali; busti di martiri e confessori nei medaglioni degli intradossi delle arcate della navata.
Infine, sulla controfacciata, al di sopra del trono, spiccano la figura di Cristo in trono fra i Santi Pietro e Paolo e due angeli adoranti, considerati più tardi. Per concludere il mio viaggio, un’interpretazione minoritaria, ma interessante del pavimento della Cappella
August 30, 2019
Il duomo di Salerno
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Il mio viaggio alla scoperta delle tombe degli Altavilla, compie la sua ultima tappa nel duomo di Salerno, frutto del genio di uno degli uomini più affascinanti del Medioevo, Alfano di Salerno, nato nella città campana attorno al 1015; nipote dell’intrigante e ambizioso Guaimario III, principe longobardo della città e alleato di Melo da Bari, fu monaco in Santa Sofia a Benevento, quindi a Montecassino.
Fu abate del monastero di San Benedetto a Salerno, dove conobbe il famigerato Pietro Barliario, di cui condivise la personalità eclettica: fu medico, scrittore, poeta e architetto. La sua figura è legata a quella dell’abate di Montecassino Desiderio (futuro papa Vittore III) di cui fu intimo amico; insieme a quest’ultimo promosse una riforma morale e politica della Chiesa. Alfano gli presentò anche il famoso medico e traduttore dall’arabo Costantino l’Africano, così descritto da un cronista dell’epoca
Costantino l’Africano, monaco dello stesso monastero [di Montecassino], fu dottissimo negli studi filosofici, maestro dell’Oriente e dell’Occidente, un nuovo luminoso Ippocrate. Partito da Cartagine di cui era originario, si recò a Babilonia e qui fu istruito compiutamente in grammatica, dialettica, scienza della natura (physica), geometria, aritmetica, scienza magica (mathematica), astronomia, negromanzia, musica e scienza della natura (physica) dei Caldei, dei Persiani, dei Saraceni.
Partito di qui raggiunse l’India, e ivi si gettò ad apprendere il loro sapere. Padroneggiate completamente le arti degli Indi, si diresse in Etiopia, dove ancora si imbevve delle discipline etiopiche; una volta ricolmo completamente di queste scienze, raggiunse l’Egitto e si impadronì a fondo delle arti degli Egizi. Dopo aver dedicato dunque trentanove anni all’apprendimento di queste conoscenze, tornò in Africa: quando lo videro così ricolmo del sapere di tutte le genti, meditarono di ucciderlo. Costantino se ne accorse, balzò su una nave e arrivò a Salerno dove per un po’ si tenne nascosto, fingendosi povero. Fu poi riconosciuto dal fratello del re di Babilonia, anch’egli giunto lì, e fu tenuto in grande onore presso il duca Roberto. Di qui però Costantino se ne andò, raggiunse il monastero di Cassino e, accolto assai di buon grado dall’abate Desiderio, si fece monaco. Sistematosi nel monastero, tradusse moltissimi testi da diverse lingue. Tra questi, rilevanti sono: Pantegni (diviso da lui in dodici libri) in cui espose ciò che il medico deve sapere; Practica (in dodici libri), dove scrisse come il medico conserva la salute e cura la malattia; il Librum duodecim graduum; Diaeta ciborum; Librum febrium (tradotto dall’arabo); De urina, De interioribus membris; De coitu; Viaticum […], Tegni; Megategni; Microtegni; Antidotarium; Disputationes Platonis et Hippocratis in sententiis; De simplici medicamine; De Gynaecia […]; De pulsibus; Prognostica; De experimentis; Glossae herbarum et specierum; Chirurgia; De medicamine oculorum
Alfano partecipò al concilio di Melfi, a quello di Salerno e al concilio di Roma. Nella sua opera pastorale eresse nel 1058 la diocesi di Nusco e consacrò Sant’Amato Landone suo primo vescovo. Nel 1063 accompagnò come interprete il cugino Gisulfo II, principe di Salerno, che, grazie alla medizione del facoltoso mercante amalfitano Pantaleone, si era recato a Costantinopoli per chiedere sostegno ed aiuto militare al basileus Costantino X Ducas contro il cognato Roberto Guiscardo e per promuovere una lega anti-normanna
Ma Gisulfo, a sua insaputa, lasciò Alfano in ostaggio all’Imperatore d’Oriente; il religioso, inizialmente, la prese come una sorta di vacanza e occasione di studiare testi medici e filosofici greci e bizantini, in particolare Nemesio di Emesa, ma resosi conto di come il Basileus fosse un colossale idiota, organizzò una rocambolesca fuga; si accodò a una carovana di histriones, dove scoprì un inaspettato talento nella giocoleria.
Tornato in Italia fu ospite di Roberto il Guiscardo e dalla moglie, la principessa Sichelgaita, sorella di Gisulfo. Quando nel 1075 il Guiscardo conquistò Salerno, Alfano fece da mediatore, nella delicata fase di transizione, tra longobardi e normanni; proprio per celebrare quella che, più che una conquista, sembrava la chiusura di una disputa famigliare, convinse il Guiscardo nel 1080 a finanziare la costruzione del nuovo Duomo, facendo demolire l’antica chiesa paleocristiana di santa Maria degli Angeli, sorta a sua volta sulle rovine di un tempio romano.
Durante la demolizione, risaltarono fuori le presunte reliquie di San Matteo evangelista, che nel V secolo erano state portate a Velia, città di Parmenide e che erano state traslate il 6 maggio 954 a Salerno, ma di chi era stata persa la memoria; dinanzi a tale ritrovamento, Alfano riuscì a convincere il Guiscardo ad aprire i cordoni della borsa, facendo edificare una chiesa ben più grande di quanto fosse preventinato all’inizio.
A questo si aggiunse la necessità di dare una degna sede a papa Gregorio VII, nel 1084, in piena lotta per le investiture, era stato condotto a Salerno – dove morì nel maggio 1085 – dallo stesso Roberto il Guiscardo, dopo essere stato liberato dall’assedio dell’imperatore Enrico IV, in Castel Sant’Angelo.
Di conseguenza si procedette di fretta e furia, cosa che, assieme ai problemi legati alla stabilità delle fondazioni, provocò nei secoli numerosi crolli. Alfano, data la sua competenza come architetto, si occupò del progetto della nuova chiesa, rendendola differente dalle altre fondazioni del Guiscardo in Sud Italia; invece di ispirarsi alle chiese abbaziali della Normandia, il suo modello fu la chiesa di Montecassino, a sua volta ispirata alle basiliche paleocristiane di Roma.
La cattedrale di Salerno fu quindi caratterizzata da tre navate – di cui quella centrale molto larga – l’alzato altissimo e il quadriportico d’accesso: per venire però incontro ai gusti del Guiscardo, in fondo i soldi li metteva lui, Alfano dovette scendere a compromessi, introducendo due novità. La prima, originaria d’oltralpe, era il transetto triabsidato, che nell’architettura altomedievale dell’Italia centro-Meridionale era assolutamente inesistente. La seconda, sempre di ispirazione normanna, la cripta ad aula con lo spazio scandito da colonne e con le absidi in corrispondenza con quelle del transetto superiore.
Da intellettuale del Medioevo, Alfano credeva nell’intrinseca razionalità del Creato, che cercò di replicare nel suo progetto, basandosi su precisi rapporti numerici per definirne le proporzioni: nel fare ciò, utilizzo come unità di misura il piede bizantino di 31,6 cm. Di conseguenza, il transetto ha lunghezza pari a 50 piedi bizantini (15,8 metri), la lunghezza della navata è di 250 piedi bizantini (79 metri), ossia 5 volte il transetto, mentre la sua larghezza corrisponde a 100 piedi bizantini (31,6 metri) pari a due volte il transetto.
L’altezza della navata centrale è pari a 75 piedi bizantini (23,7 metri), una volta e mezza il transetto, la profondità dell’abside è uguale a 25 piedi bizantini (7,9 metri), metà del transetto, mentre quella delle absidi laterali è 12,5 piedi bizantini (3,95 metri), un quarto del transetto.
Al contempo, per evidenziare la sua continuità con l’antichità classica, utilizzò nella costruzione del duomo numerosi elementi di spoglio provenienti da edifici romani: colonne, capitelli, architravi. Infine, decorò il tutto con una serie di mosaici che reinterpretavano i cicli di affreschi con le storie dell’Antico e Nuovo Testamento che decoravano le grandi basiliche romane di San Pietro e di San Paolo fuori le mura.
[image error]Boemondo d’Antiochia, nella speranza che, come discendente da parte di madre della stirpe longobarda, garantisse la pace tra loro e i normanni.
Nel 1084 Ruggero partecipò a una campagna militare in Grecia al fianco del padre, che il 17 luglio 1085 morì di malattia durante l’assedio di Cefalonia. Singolare coincidenza fu il fatto che Ruggero, erede dei possedimenti italiani, si trovasse in Grecia al momento della morte del Guiscardo, mentre Boemondo, erede di Durazzo e di altri feudi bizantini, si trovasse in Italia, precisamente a Salerno.
Ruggero, non fidandosi a ragione del fratello, si fiondò di fretta e furia in Italia, e fece bene, dato che Boemondo si ribellò immediatamente: grazie alla mediazione papale, si raggiunse un compromesso, che durò meno di anno.
Nel 1087, sempre per colpa dell’ambizione di Boemondo, riscoppiò la guerra civile, Lo scontro fra i due fratelli si concluse solo con la mediazione di papa Urbano II, il quale riconobbe a Boemondo il possesso del Principato di Taranto ed altri numerosi castelli, mentre Ruggero gli garantì anche il feudo di Cosenza e la titolarità di fatto di altri domini. Nel 1089 Urbano II investì ufficialmente Ruggero Borsa del ducato di Puglia, mettendo fine ad ogni controversia. Approfittando delle difficoltà del fratello ad Antiochia, Ruggero nel tempo recuperò i territori perduti.
Ora, tutto si può dire, ma un uomo capace di tenere testa a Boemondo e alla fine averla vinta, certo non era una mammoletta: i cronisti dell’epoca lo definiscono un guerriero forte e terribile. Lo stesso si può dire del figlio Guglielmo, che mise in riga Ruggero II di Sicilia e fu molto rispettato dai propri contemporanei, fu popolare fra i suoi feudatari e lodato per la sua abilità militare.
Alla sua morte, appena trentenne, secondo la leggenda sua moglie Guaidalgrima, distrutta dal dolore, si recise i lunghi capelli biondi in segno di lutto – seguita nell’esempio da tutte le damigelle del suo seguito – e li pose sul sarcofago del marito, ancor oggi visibile nell’atrio della Cattedrale di Salerno. Da allora, ogni 4 agosto, anniversario dell’evento, una farfalla dorata uscirebbe dal sarcofago e volerebbe tra le colonne dell’atrio prima di scomparire.
Ma allora, perché sia Ruggero Borsa, sia Guglielmo godono di pessima fama ? La colpa è degli storici della corte di Palermo, che da un parte gonfiarono assai i meriti di Ruggero II, dall’altra, per far fare bella figura al loro mecenate, demolirono la figura del ramo continentale della famiglia, reo di avere ostacolato le sue ambizioni
August 29, 2019
Antimo di Bisanzio
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Uno dei personaggi più affascinanti della tarda antichità è il buon Antimo di Bisanzio, medico, diplomatico e gastronomo. Nato in Grecia nel IV secolo d.C. da una famiglia nobile e morto nel 534. Di lui si hanno notizie precise a partire dal 481, quando fu coinvolto in una sorta di intrigo internazionale; l’imperatore Zenone era impegnato in una sorta di triplo gioco con due capi goti, Teodorico l’Amalo, il futuro conquistatore dell’Italia e Teodorico Strabone, cercando di metterli l’uno contro l’altro.
Il Basileus nel 476 si alleò con l’Amalo per attaccare Strabone, mandò un’ambasciata all’imperatore, offrendo la pace e dando la colpa dei conflitti al suo rivale. Zenone tuttavia ottenne che il Senato e l’esercito dichiarassero Strabone un nemico pubblico, e nel 478 convinse l’Amalo ad attaccare le forze di Strabone con la promessa del sostegno di un grande esercito imperiale. L’Amalo e la sua gente marciarono attraverso le montagne, ma nei pressi del monte Soundis, invece di trovare i promessi rinforzi, si imbatterono nel campo fortificato di Strabone.
Il capo dei Goti di Tracia provocò l’Amalo, cavalcando di fronte al campo dei Goti di Mesia e dichiarando davanti a tutti i Goti accampati che il comando dell’Amalo aveva ridotto la propria gente ad una guerra intestina a solo vantaggio dell’impero, e senza ricevere quelle ricchezze per le quali avevano abbandonato i propri territori di origine. Facendo leva sull’interesse comune di tutti i Goti, Strabone costrinse l’Amalo a chiedere la pace e i due comandanti mandarono un’ambasceria congiunta all’imperatore Zenone, chiedendogli di concedere loro l’estensione dei territori gotici in Mesia verso sud.
Dopo aver tentato vanamente di corrompere l’Amalo, Zenone ordinò all’esercito imperiale di affrontare l’esercito gotico riunificato, che intanto, nel 479, aveva sostenuto la breve rivolta di Flavio Marciano contro Zenone. Nonostante alcune sconfitte Teodorico l’Amalo rimase libero di muoversi verso ovest in Tracia, saccheggiando i territori attraversati. Una volta che il rivale si allontanò, Teodorico Strabone concluse un accordo di pace con Zenone: ottenne la restituzione dei propri beni, denaro per pagare 13.000 soldati, il comando di due unità palatinae e la riconferma del titolo di magister militum.
I 30.000 uomini di Teodorico erano però una seria minaccia per Zenone, che convinse i Bulgari ad attaccare i Goti di Tracia nelle loro basi. Strabone tuttavia sconfisse i Bulgari nel 480/481 e si mosse verso Costantinopoli. Una fazione della corte bizantina, che mal sopportava Zenone sia perché, come isaurico, lo considerava una sorta di barbaro, sia per le sue opinioni religiose filomonofisite, decise di approfittare dell’intevento del goto, per organizzare un colpo di stato.
Antimo svolse il ruolo di intermediario tra i ribelli e Strabone: tuttavia, i soldati goti, non volendo impegnarsi nell’assedio delle mura teodosiane, si ammutinarono e costringendolo a ripiegare in Grecia; al contempo, Zenone, scoperta la congiura, la represse con straordinaria crudeltà.
Antimo, per evirare di essere scuoiato vivo, si rifuggiò da Strabone; ma sfortuna volle che questi, mentre era accampato presso Stabulum Diomedis, in Tracia, e stava cercando di domare un cavallo selvaggio, cadde su una lancia appesa davanti a una tenda o a un carro, morendo sul colpo. Non perdendosi d’animo, Antimo si trasferi presso Teodorico l’Amalo, seguendolo nella sua guerra contro Odoacre.
Dopo qualche anno, Teodorico affidò ad Antimo, apprezzandone le doti di la freddezza, la precisione e la capacità di analisi, l’incarico di ambasciatore presso Teodorico di Metz, re dei Franchi, per evitare che i continui litigi tra i figli di Clodoveo degenerassero in una guerra totale. Mentre svolgeva al meglio questo compito, Antimo, che da buon seguace di Galeno, era convinto che una buona dieta, riequilibrando i quattro umori, desse un contributo importante nella mantenimento della salute, si mise le mani nei capelli, nel constatare come si mangiasse da schifo nella corte franca.
Per cui si impose come missione l’educare Teodorico su come realizzare una cucina di di qualità e al tempo stesso salutare, in quanto fondata su precisi canoni dietetici. Per fare questo, scrisse in latino il manuale De observatione ciborum ad Theodoricum regem Francorum epistola.
Così il medico giustifica la sua decisione
“Ma se mi si obietta: com’è che altrove vivono popoli che mangiano carni crude e sanguinolente e restano sani? Dirò che, quantunque neanche quelli siano da considerarsi del tutto sani, ciò accade perché hanno elaborato loro antidoti peculiari quando stanno male si scottano con il fuoco sullo stomaco, o sul ventre, o su altri organi, come si fa con le cavalle imbizzarrite il che dà ragione a quanto ho detto. D’altra parte quei popoli mangiano un solo cibo, come i lupi. Infatti non mangiano che quello di cui dispongono, cioè carne e latte. E sembrano essere in salute a causa della scarsa varietà alimentare. Così come il poco bere dà l’impressione di buona salute. Infatti quando hanno molto cibo non bevono, mentre lo fanno quando non ne hanno per lunghi periodi. A noi, invece, che ci nutriamo con cibi vari, con numerose ghiottonerie e bevande diverse, conviene controllarci, in modo che l’eccesso non ci faccia male e che, soprattutto diminuendo le quantità, restiamo in salute. Se poi qualcuno è irresistibilmente attratto da qualche cibo, si assicuri intanto che sia un piatto ben preparato e si limiti solo a piccoli assaggi di altre portate, in modo da trarre giovamento da quello che ha mangiato prima: solo così potrà digerire bene”.
Nel trattato, importante anche dal punto di vista linguistico, dato che aiuta a comprendere le dinamiche dell’evoluzione delle lingue medievali e a risolvere varie problematiche legate all’interpretazione dei germanismi che appaiono nei testi dell’epoca, Antimo illustra una personale teoria sul rapporto tra varietà alimentare, complessità delle preparazioni gastronomiche ed esigenza di morigeratezza nelle quantità.
Tra le curiosità, è possibile scoprire come Antimo raccomandasse con premura maniacale la cottura dei cibi, perché considera tale pratica legata alla buona saluta. Secondo il medico bizantino, la cottura rende più digeribili i prodotti della terra, depurandoli da sostanze nocive o velenose, a cominciare dal pane, fatto con frumento lievitato e ben cotto anziché quello in uso presso le tribù barbare, di farina d’orzo o di spelta.
Inoltre, il medico bizantino parla di piatti di carne esclusivamente bovina, bollita a lungo con aromi e vino. Viene menzionato anche il pollame e la piccola selvaggina, da cuocere anche allo spiedo, mentre la bollitura era ritenuta indispensabile per tutti i legumi, come fave, ceci, fagioli e lenticchie, così come i frutti acerbi e le uova, da scottare in acqua tiepida.
Tra le sue ricette troviamo: carote fritte, uova insaporite con l’ossimello, bos in iuscello. Il vino poi, oltre ad essere usato a scopi terapeutici, viene citato come condimento di alcuni piatti (Antimo cita come le popolazioni germaniche bevessero abitualmente sidro e birra). In particolare, tra le bevande viene citato l’oenomel, bevanda a base di miele e succo d’uva non fermentato molto in uso presso i Romani (in tardo latino “oenomeli”, derivante dal greco “oinomeli” composto da “oinos”, vino, e meli, miele)
Al lardo dei popoli germanici (verso cui c’è comunque un’apertura) viene poi preferito il classico olio dei Romani. Ma i nobili Franchi erano interessati anche ad imitare i costumi alimentari bizantini, per cui nel trattato ritroviamo anche alcune ricette appartenenti alla dietetica bizantina come l’afrutum (aphraton) – in latino spumeum – a base di pollo e bianco d’uovo e quella di un particolare stufato di manzo, a base di miele, aceto e spezie varie.
The Haimenkou Neolithic site in Jianchuan County, Dali, Yunnan, China and its importance
This post is dedicated to the Haimenkou Neolithic site in Jianchuan County, Dali, Yunnan, China. All information we have managed to gather about the excavation and findings is presented here.
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August 28, 2019
Roma nella geografia araba medievale
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Può sembrare strano, specie in questi giorni in cui domina la paura rispetto al dialogo, ma Roma era una costante nella letteratura araba medievale, essendo citata negli hadit (i detti attribuiti al Profeta) alla storia, dall’adab, che con qualche imprecisione, potremmo definire trattatistica morale e agli ‘aǧā’ib, la narrativa di viaggio.
Anzi, le sue descrizioni sono assai più presenti di quanto fossero nelle letturature occidentali quelle delle principali città del mondo arabo. Tuttavia, la Roma presente nell’immaginario arabo è qualcosa di assai diverso rispetto la città reale: essa è infatti il frutto della narrazione e della sovrapposizione di almeno tre diverse esperienze, tra loro conflittuali.
La prima è il principio di auctoritas: il primo a parlare di Roma, in ambito non religioso, è proprio il padre della geografia araba, Ibn Khordadhbeh, che nacque tra l’800 e l’825 in Khorasan da una ricca famiglia persiana del nord del Paese (suo padre era stato Wali del califfo al-Maʾmūn per il Ṭabaristān). Zoroastriano, per facilitare la sua carriera nella burocrazia abbaside, si convertì all’Islam.
Ricevuta un’ottima educazione nella cerchia di persone che gravitavano intorno a Isḥāq al-Mawṣilī, uno dei principali musicisti dell’epoca, e fu presto nominato “Direttore delle Poste e delle Informazioni” (Ṣāhib al-barīd wa l-khabar ) della provincia del Jibāl, nel NO della Persia all’epoca del califfo abbaside al-Muʿtamid. In quanto responsabile del barīd (ebbe in seguito responsabilità ancora maggiori a Baghdad e Sāmarrāʾ), Ibn Khordādhbeh era il responsabile del controspionaggio califfale.
Verso l’870, mettendo a frutto le conoscenze acquisite nel suo lavoro, Ibn Khordādhbeh scrisse il suo capolavoro, il Kitāb al-masālik wa al-mamālik (Il libro delle strade e dei reami) in cui descrisse il mondo conosciuto dell’epoca: se nell’ambito dei domini abbaside, raccontò le sue esperienze dirette, quando passò Dar al-Ḥarb, il mondo esterno all’Islam, si limitò a un mix tra le diverse fonti siriache e greche che aveva a disposizione.
Purtroppo, in quest’opera di copia e incolla, da una parte confuse le descrizione riferite alla vecchia Rome con quelle della nuova, ossia Costantinopoli, mischiandole, dall’altra fu vittima di una serie di equivoci linguistici. Il più strano fu riferito al Flavus Tiber, il biondo Tevere, che da “giallo” divenne “di bronzo”, facendo credere a Ibn Khordadhbeh come i suoi argini fossero di tale metallo.
Per cui, da questa serie di equivoci, nacque un luogo immaginario, degno de Le Città Invisibili di Calvino, che, per rispetto al venerando geografo, si trascinò anche in libri di altri autori.
Il secondo strato è dai contatti indiretti con il mondo cristiano: le versioni della Salvatio Romae e delle leggende su Virgilio negromante, che appaiono in diversi racconti di viaggio islamici, non potevano che provenire che dall’Europa.
Contatti che erano mediati dai mercanti : malgrado le teorie di Henri Pirenne, che parlava di una cesura pressoché totale dei traffici fra Europa cristiana e mondo islamico, i rapporti commerciali e culturali non erano in realtà mai venuti meno, anche se resi indubbiamente più difficili dalle saltuarie ostilità ideologiche tra le due parti contrapposte del mar Mediterraneo e le attività piratesche di entrambi gli schieramenti.
Mercanti sia di religione cristiana, sia ebraica, spesso provienienti dall’Italia bizantina, che oltre alle merci, scambiavano informazioni e storie. Sempre il buon Ibn Khordadhbeh, così li descrive
Questi mercanti parlano arabo, persiano, greco volgare, greco bizantino, franco, volgare castigliano e lingue slave. Viaggiando da ovest verso est e da est a ovest, in parte per via di terra, in parte sul mare, essi trasportavano da occidente gli eunuchi,donne e giovani ridotti in stato di schiavitù, articoli di seta, pellicce di castoro, di martora e di altri animali, e di spade. Prendono il mare in Firanja (luogo sulla cui identità gli studiosi si stanno scannando con entusiasmo: alcuni sostengono che si tratti della valle del Rodano, altri ipotizzano che si tratti dei themata del sud Italia, altri delle città di Amalfi, Napoli e Gaeta) sul mare Occidentale, e si spingono fino a Faramā (Pelusium). Lì essi caricano le loro mercanzie a dorso di dromedario e si muovono con carovane per via di terra, fino ad al-Qulzum (l’antica Clysma, oggi Suez), coprendo una distanza di venticinque farsakh (parasanghe).
S’imbarcano sul mar Rosso e navigano da al-Qulzum fino ad al-Jār (porto di Medina) o Jedda (porto di Mecca), quindi vanno nel Sind, in India e in Cina. Sulla via del ritorno dalla Cina, prendono con sé il Muschio, aloe, canfora, cannella e altri prodotti orientali verso al-Qulzum e li riportano a Faramā, da dove s’imbarcano nel mare Occidentale. Alcuni veleggiano verso Costantinopoli per vendere le loro mercanzie ai Bizantini; altri si recano nel palazzo dei re di Francia per vendere i loro beni.
Qualche volta questi mercanti ebrei, si associano ai Franchi del loro Paese, sul mar Occidentale, si dirigono alla volta di Antiochia (all’imboccatura dell’Oronte); da lì, per via di terra, fino ad al-Jābiya (al-Hanaya, ai bordi dell’Eufrate). Là s’imbarcano sul fiume Eufrate e raggiungono Baghdad, da dove discendono il fiume Tigri verso al-Ubulla.
A partire da tale città irachena, costoro navigano verso l’Oman, Sind, Hind e Cina. Seguendo un itinerario terrestre, i mercanti che partivano da al-Andalus, dalla Spagna cristiana o dalla Francia si recavano di norma a Sūs al-Aqṣā (oggi in Marocco) e quindi a Tangeri, da dove proseguivano alla volta di Qayrawān e della capitale dell’Egitto, Fusṭāṭ. Da lì essi andavano ad al-Ramla, visitavano Damasco, al-Kūfa, Baghdad e al-Baṣra, attraversando Ahvaz, il Fārs, Kirmān, Sind, Hind, e infine arrivando in Cina. Talvolta essi prendevano invece la via verso Roma e, traversando il Paese degli Slavi, arrivavano a Khamlīj (o Khamlīk), la capitale dei Khazari. S’imbarcavano sul mar Caspio (Mare del Jorjan), arrivavano a Balkh, traversavano l’Oxus e continuavano il loro viaggio verso Yurt, Toghuzghuz, il Paese degli Uiguri e di là verso la Cina
Terzo strato, sono i contatti diretti: nella Roma medievale, vi è continua e costante presenza araba. Si tratta di diplomatici, mercanti e pellegrini, sia cristiani, sia musulmani, che volevano onorare le tombe di San Pietro e San Paolo, gli ḥawāriyyūn del profeta Īsā ibn Maryam.
Proprio le loro esperienze concrete, che filtrano nelle storie dei geografi, trasformano le descrizioni arabe di Roma in un gioco di specchi ed enigmi, dove ogni elemento richiama sia la realtà vissuta, sia quella sognata.
LA CUCINA BIZANTINA
Tra i tanti interessanti aspetti che può raccontare un impero come quello Bizantino, durato più di mille anni è l’aspetto culinario, una caratteristica dell’Impero erede di Roma, molto curiosa e particolare, in quanto ereditata dal periodo romano ed ellenistico ma non era una imitazione e la stranezza che risalta della dieta bizantina è la dose minore di grassi e maggiore di verdure a fronte di un’epoca come il medioevo, in cui esisteva un grande consumo di carne con conseguente assunzione di molti lipidi.
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August 27, 2019
Guardia Variaga in Puglia
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Uno dei documenti meno noti ma più interessanti sull’alto Medioevo italiano è costituito da un piccolo corpus di tre o quattro pietre runiche databili all’XI secolo, rinvenute due nella regione svedese dell’Uppland, e una o due nel Sønderslånd, e sulle quali vennero incise iscrizioni dedicate a guerrieri scandinavi caduti in Langbarðaland, non la nostra Lombardia, ma il themata bizantino della Langobardia minor, che, con qualche piccola differenza, corrispondeva alla nostra Puglia.
Si tratta di pietre funerarie, incise con il cosiddetto Futhark recente, l’alfabeto runico di sedici segni derivato da una semplificazione del Futhark antico, di 24 caratteri, dedicati ai soldati della guardia variaga.
Questo corpo militare ha una storia affascinante: nel 988, l’imperatore bizantino Basilio II richiese un gran numero di soldati variaghi a Valdamarr Sveinaldsson, che i russi chiameranno Vladimir di Kiev, come aiuto per difendere il suo trono. Costretto dal trattato che il padre aveva stipulato dopo l’assedio di Dorostolon, il principe russo di origine vichinga inviò 6.000 uomini al basileus, che in cambio gli diede in sposa sua sorella Anna Porfirogenita. Vladimir I si convertì al cristianesimo ortodosso e obbligò il suo popolo a mazzate in capo a seguirlo in questa decisione. Nel 989, questi soldati, guidati dallo stesso Basilio, si recarono a Crisopoli per sconfiggere il generale ribelle Barda Foca, che morì in battaglia. Il suo esercito fu messo in fuga e inseguito con grande ferocia dai variaghi, che si distinsero poi anche nelle successive campagne in Georgia e in Armenia.
Basilio II ne fu talmente impressionato, da trasformare questi mercenari nella sua guardia pretoriana: fu un ottima scelta. I vichinghi, saputo che a Miklagard, nome norreno di Costantinopoli, vi fosse la possibilità di avere uno stipendio regolare e assai più consistente di quanto pagato dai loro jarl, sciamarono in massa verso sud; inoltre, pur essendo estremamente sindacalizzati, spesso entrarono in sciopero per sollecitare l’aumento del soldo, erano alieni dal farsi coinvolgere nello sport preferito della corte bizantina, intrigare e pugnalare alle spalle il basileus, il che li rendeva assai più affidabili rispetto alle altre truppe.
Gli storici bizantini parlano con un misto di sgomento e ammirazione di questi giganti capaci di bere incredibili quantità di vino, inarrestabili in battaglia, provenienti da “Thule”, una terra situata genericamente a Nord del mondo conosciuto. Anna Comnena, la grande storica e principessa, parla di “pelekyphoroi barbaroi”, Barbari portatori di ascia. Anna conosceva bene i Variaghi: per ben due volte, salvarono la vita del fratello Giovanni II Comneno dai sicari che lei aveva inviato ad assassinarlo. Alla morte dell’Imperatore che avevano servito, le sue Guardie avevano il privilegio di prelevare dal tesoro del sovrano tutti i beni che fossero riusciti a trasportare.
Uno dei variaghi più famosi fu Harald Hardrada, fratellastro del re di Norvegia Olaf il Santo, Harald, ancora molto giovane si ritrovò a combattere per l’indipendenza del proprio paese nella battaglia di Stiklestad 1030. Olaf morì e Hardrada fuggì a Kiev, dove combatte al servizio del principe Jaroslav I di Kiev contro i nomadi delle steppe, fino a ottenere il rango di capitano.
Nel 1034, al comando di 500 uomini, si trasferì a Costantinopoli, dove combattè contro gli arabi sulle rive dell’Eufrate, fece da guardia del corpo agli ambasciatori diretti al Cairo, svolse il ruolo di braccio destro del Maniace nel tentativo bizantino di riconquistare la Sicilia, occasione in cui conobbe il capostipite degli Altavilla.
Su questa impresa si narrano molti aneddoti, il più noto probabilmente è come, assediando senza risultati una città fortificata, Harald si accorse che le case degli abitanti sono fatte di paglia e molti uccelli avevano il nido sui tetti. Harald ordinò di catturare tutti gli uccelli, sulla loro coda vennero legati dei pezzi di legno intrisi di catrame, gli diede fuoco. Come previsto gli uccelli infuocati si posarono sui loro nidi nei tetti di paglia, incendiandoli e facendo cadere la città.
Dopo avere contribuito a domare la rivolta bulgara, venne accusato di aver sottratto oro dal bottine destinato all’imperatore, e, per non farsi catturare, scappò via per ritrovarsi poi re di Norvegia come Harald III e finire la propria vita in Inghilterra contro Harold Godwinson nella battaglia di Stamford Bridge; proprio questo scontro, che favorì la successiva vittoria di Hastings di Guglielmo il Conquistatore, cambiò la natura della Guardia Variaga; progressivamente i guerrieri vichinghi furono sostituiti dagli anglosassoni in esilio, tanto che Edgardo Atheling, il re perduto d’Inghilterra, ne divenne capitano.
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L’arma principale della Guardia Variega era l’ascia danese anche se erano spesso istruiti nell’arte della spada e in quella dell’arco. Alcune fonti li descrivono anche come guerrieri a cavallo. Allora, cosa centrano questi guerrieri con la Puglia ?
Una dei drammi politici dell’Impero Bizantino fu l’incapacità di integrare nel suo sistema di potere le le élites del Sud Italia: benché i loro themata fossero i più ricchi tra i possessi del Basileus e fornissero buona parte delle sue entrati fiscali, i loro maggiorenti non ebbero mai un ruolo centrale a Costantinopoli. Nessun Basileus saltò fuori da Rhegion o da Bari.
Questa mancata integrazione, provocò uno stato di quasi perenne rivolta contro il potere centrale, fomentato e appoggiato dai vicini arabi e longobardi, di cui approfittarono poi i normanni: la Guardia Variaga fu spesso e volentieri utilizzata per mettere in riga i ribelli.
Una delle rivolte più sanguinose, a cui probabilmente fanno riferimento le iscrizioni svedesi, fu quella di Melo di Bari, che secondo il cronista Guglielmo di Puglia, era di origini longobarde (Longobardum natum). Longobardo, ma di cultura greca (come afferma Guglielmo di Puglia “more virum Graeco vestitum”), era un esponente dei ceti ricchi della Bari bizantina.
Sotto la sua guida, il 9 maggio 1009 le città di Bari, Trani e Bitonto si ribellarono al governo fiscale del catapano bizantino Giovanni Curcuas: durante la rivolta il catapano restò ucciso e gli insorti sconfissero i bizantini a Bitetto e a Montepeloso. La rivolta, appoggiata dai principi longobardi e non avversata dal papa Sergio IV, sembrava avere successo, approfittando anche del fatto che l’imperatore Basilio II era duramente impegnato nei Balcani nella guerra contro i Bulgari.
Ma il nuovo catapano Basilio Mesardonite, dopo un lungo e cruento assedio, riconquistò con la forza la città di Bari (1011): molti baresi furono uccisi, mentre i capi degli insorti riuscirono a fuggire: Melo si rintanò prima ad Ascoli e di là raggiunse Benevento, Salerno e Capua, accolto con qualche preoccupazione dai principi longobardi; suo cognato Datto chiese soccorso ai benedettini di Monte Cassino. La moglie di Melo, Maralda, e suo figlio Argiro, furono invece catturati e portati a Costantinopoli.
Con la benedizione di papa Benedetto VIII, Melo nel 1015 si recò in Germania dall’imperatore Enrico II per chiedere aiuto. L’imperatore lo accolse tra i suoi vassalli e lo nominò Duca di Puglia, tuttavia non gli fornì alcun aiuto militare. Melo allora ritornò in Italia, si procurò il rinnovato appoggio dei principi longobardi e delle città dissidenti e assoldò alcuni cavalieri mercenari normanni, guidati da Gilbert Buatère, che fecero così la loro comparsa sulla scena politica italiana. Con loro mosse da Capua verso la Capitanata: grazie ad alcuni successi iniziali (ad Arènola presso il Fortore, a Civitate, a Vaccarizza presso Troia nella primavera del 1017), Melo si aprì la strada fino a Trani. Ma lo scontro decisivo con le truppe bizantine guidate dal nuovo catapano Basilio Bojoannes avvenne nella battaglia di Canne del 1º ottobre 1018, che vide soccombere gli insorti.
Ora, cosa dicono queste iscrizioni ? Da queste si ricava come i guerrieri in partenza dalla Scandinavia per entrare a far parte della Guardia non fossero, come troppo spesso si ritiene in base agli stereotipi sui Vichingi, dei barbari rozzi e violenti, ma giovani provenienti da famiglie di heinjarl (nobili) o di hersir, già addestrati all’uso delle armi, le cui famiglie erano alfabetizzate, cosa rara nella società scandinava dell’epoca.
Tutti i personaggi menzionati nelle stele erano cristiani, così come i committenti, malgrado all’epoca la Svezia costituisse ancora una roccaforte del culto norreno (asàtrù) soprattutto nelle campagne e tra le classi inferiori (thraeller).
Infine, i committenti, che potevano essere sia uomini, sia donne, erano amanti della poesia scaldica, sia per la metrica dell’iscrizione, sia per l’uso dei kenning, la perifrasi che sostituisce il nome di una persona o di una cosa, come ad esempio testimoniato dalla seguente epigrafe
Inga ha innalzato questa pietra per Óleifr, suo figlio Egli ha arato con la sua prua il cammino dell’Oriente, e incontrato la propria fine nella terra dei Longobardi
August 26, 2019
Fourni (or Fournoi), Greece; the ancient shipwreck (58 discovered so far) capital of the world
This post is dedicated to the exciting (Underwater) Archaeological discovery of tens of shipwrecks (58 so far) at the bottom of the Aegean Sea, at the Archipelago of Fourni (or Fournoi), Greece.
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