Alessio Brugnoli's Blog, page 93
October 9, 2019
Laboratorio di mosaico al Centro Anziani Esquilino
[image error]
Diciamola tutta: per chi abita a Piazza Vittorio e dintorni è quasi impossibile non aver sentito parlare del Centro Anziani Esquilino, anni fa frequentato da mio nonno, situato a via San Quintino 11; questo per l’amore per il Rione che anima chi lo frequenta, per l’impegno sociale che lo anima e per il numero impressionante di attività che vi sono organizzate, pubblicizzate sul web da un instancabile social manager, uno delle poche persone che, sospetto, riesca a dormire ancora meno del sottoscritto.
Una delle ultime iniziative culturali organizzate dal Centro Anziani è il Laboratorio di Mosaico, iniziato da poco più di una settimana e che si tiene il martedì e venerdì dalle 9,30 alle 12,30 e il mercoledì e giovedì dalle 15,30 alle 18,30.
Laboratorio che è un recuperare le radici della Storia dei luoghi in cui viviamo, basti pensare ai mosaici di Santa Maria Maggiore, Santa Prassede e Santa Pudenziana e un viaggio nella bellezza. Realizzare un mosaico, nel suo piccolo è affermare con orgoglio il proprio essere homo faber, creatore del bello e dell’unico, in contrapposizione a una società omologante che vorrebbe privilegiare il virtuale al concreto e svuotare di senso il lavoro, rendendolo sempre più vuoto e alienante.
Laboratorio che si tiene in collaborazione con la Scuola di Mosaico San Lorenzo, la cui storia, che usa l’Arte e il Bello come strumento di conoscenza e integrazione, merita di essere conosciuta.
La Scuola di Mosaico è stata fondata nel 1998, quando un gruppo di docenti ed ex allievi, guidati dal professor Gianfranco Romani e dalla professoressa Alba Cioci (rispettivamente insegnanti di ruolo di educazione artistica ed educazione tecnica), chiese e ottenne dal Municipio III (ora II) di Roma (che gestisce anche la sede circondariale di Rebibbia), spazi aperti a ogni eventuale richiedente nell’ambito dei corsi per adulti (C.T.P., Centro Territoriale Permanente per adulti).
Quindi tali spazi furono individuati nel complesso scolastico “Giosuè Borsi” (attuale Istituto Comprensivo Statale “Via Tiburtina Antica 25”), in via Tiburtina Antica n. 25, dove i docenti dei corsi di Rebibbia erano insegnanti di ruolo.
Furono così avviati i primi corsi di mosaico della durata di due anni e va sottolineato che l’insegnamento del mosaico venne inserito quale materia di insegnamento del C.T.P. (attuale C.P.I.A.).
Lo scopo e lo spirito della scuola sono quelli non solo di divulgare la conoscenza teorica e pratica dell’arte musiva in un continuo confronto con le altre tecniche artistiche, ma soprattutto di creare un centro di aggregazione per persone di età la più varia, di diversa nazionalità (Venezuela, Brasile, Libia, Stati Uniti D’America, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, etc. ), di diverso genere e di diverse condizioni personali e sociali, aperto al territorio, e di riqualificare spazi del quartiere. Non è trascurabile il fatto che molti allievi hanno acquisito una competenza tale da permettere loro di fare di siffatta arte una professione.
Le attività concrete della Scuola consistono principalmente nella didattica teorica e pratica. Agli alunni vengono impartite lezioni teoriche – pratiche relative non solo alle diverse tecniche di realizzazione del mosaico (metodo diretto, metodo indiretto) nonché all’uso di supporti (creta, legno, etc..) e materiali diversi (marmo, pasta vitrea, ciottoli, rame, vetro di risulta….), ma anche alla teoria del colore, quale presupposto fondamentale della tecnica del mosaico. Inoltre ci si sofferma sui fondamenti delle tecniche figurative, in particolare sulla teoria della prospettiva.
I progetti, basati su tematiche scelte annualmente dai docenti, si fondano su ricerche storiche e approfondimenti teorici – pratici, anche con visite a mostre e luoghi di specifico interesse. I manufatti realizzati collettivamente vengono o donati a scuole (ad es. “Guernica”, all’istituto comprensivo statale “Giosuè Borsi”, attuale Istituto Comprensivo Statale “Via Tiburtina Antica 25”), uffici pubblici, aste di beneficienza (Associazione casa Loic), autorità o venduti.
Annualmente vengono effettuate visite a mostre, siti e istituzioni specificatamente destinate all’arte musiva (Scuola mosaicisti del Friuli a Spilimbergo; Giardino dei tarocchi a Capalbio; “Ravenna Mosaico”, Festival Internazionale del mosaico contemporaneo a Ravenna; Centro Aletti a Roma; laboratorio “Studio del mosaico Vaticano” nella Città del Vaticano; sovente, Museo archeologico di Napoli; Basilica di Santa Maria Maggiore e Chiesa di Santa Prassede a Roma, etc).
Tali escursioni culturali sono riservate non solo agli iscritti alla Scuola e all’Associazione, ma anche a tutti coloro che vogliano condividere momenti di aggregazione e svago.La Scuola partecipa e ha partecipato a concorsi pubblici (ad es. “il sapere delle mani” a Nazzano, ove nel 2015 e 2017 rispettivamente Jarmila Polakova e Silvia Caprara si sono classificate al secondo posto; concorso per la realizzazione di un mosaico finalizzato ad abbellire la sede dell’Unep a Roma ..). Inoltre ha contribuito a progetti per l’abbellimento di spazi pubblici (ad es. su incarico dell’allora presidente del II Municipio, Orlando Corsetti, la Scuola ha ideato i bozzetti del mosaico, poi realizzato dai ragazzi del Centro Diurno di via Boemendo, e collocato nell’area verde di Piazza Bologna.
La Scuola ha tenuto corsi relativi all’arte musiva presso vari istituti scolastici (ad es. istituto comprensivo statale “Giosuè Borsi”, attuale Istituto Comprensivo Statale “Via Tiburtina Antica 25”; corsi di aggiornamento per le maestre della scuola primaria “Aurelio Saffi”).
Quindi la Scuola di mosaico rappresenta una realtà storica non solo molto conosciuta nel quartiere per la sua funzione sociale, ma anche nei più qualificati ambienti artistici, che sogliono presenziare alle usuali mostre – laboratorio di fine anno.
Tali mostre si sono tenute, con il costante patrocinio del M.I.U.R. e del II municipio, presso luoghi prestigiosi di Roma, quali la Casina delle Civette e Tecnotown nel villino medievale di Villa Torlonia, e da ultimo, la XVIII mostra, nel Chiostro della Basilica di S. Lorenzo fuori le mura, attirando un pubblico costituito da visitatori non solo italiani ma anche stranieri.
Sinceramente, auguro ogni successo a tale Laboratorio: in particolare spero che, prima o poi, permetta di replicare un’esperienza simile a quella del murale sito nell’aula magna dell’Ex Caserma Sani, in cui il nostro centro anziani collaborò alla realizzazione di quel capolavoro, purtroppo poco noto e valorizzato, dando un prezioso contributo al recupero degli spazi urbani del nostro Rione, rafforzando con l’Arte e con il dialogo tra culture il tessuto sociale che lo rende vivo.
October 8, 2019
Tactical Urbanism ?
[image error]
Mi immagino, scherzando, che sia andata così: Tonelli, appena alzato, in pigiamone fantozziano, barba da fare, occhi cisposi e accompagnato con una tazza di caffè bollente, da sul tablet un’occhiata alla cronaca locale di Milano del Corriere e di Repubblica.
Tra uno sbadiglio e l’altro, gli cade l’occhio su un titolone sul Tactical Urbanism: capisce che è una nuova moda meneghina, mugugna tra sé e sè, comincia a parlare da solo ripentendo
“Ma ghe sarà mai ‘sta robba? Però sona figa!”.
Alla fine, troppo pigro per cercate su Google, tanto gli articoli tecnici sono pieni di paroloni strani e se non li capisce lui, non ci riescono neppure i suoi lettori medi, si attacca al cellulare e chiama il suo fido braccio destro, che ha il compito di insultare nei commenti della pagina FB di Roma fa Schifo chi non condivide il verbo del suo vate, che gli risponde prontamente, scattando sull’attenti.
“A noi, Capo”
Tonelli si gonfia il petto e comincia a blaterare, con voce impastata
“Ahò, sai che è er tactical urbanism ? Robba che se magna”.
“Non mi pare, capo”.
“Allora nun lo potemo mette su er Gambero Rosso… Però ne e foto, c’è tanta gente che colora pe’ terà! La potemo mette su Art Tribune…”.
Imbarazzato, cercando le giuste parole per non contraddire il suo Vate, il collaboratore, con voce tremante, prova dire
“In realtà dovrebbe riguardare la gestione del traffico urbano”.
A Tonelli gli si illuminano gli occhi.
“A le maghine! E’ robba che piace a li lettori de Romma fa schifo… Famme un paio de poste, in cui dimo che dovemo da la fa la stessa cosa da noi”.
Qualunque cosa sia successo, però, dai primi di settembre in poi, Roma fa Schifo si è innamorata del tactical urbanism, citando Milano come esempio, nonostante, oggettivamente, i suoi redattori ci capiscano ben poco del tema.
Per semplificare loro la vita, cerco con questo post, di spiegare di cosa si tratta. Il Tactical Urbanism, nel suo termine inglese, è una metodologia bottom-up applicabile alla progettazione e riqualificazione degli spazi pubblici, che ha cominciato a essere teorizzata attorno al 2010 e applicata dal 2014 nel concreto.
Metodologia che parte da un problema concreto: dagli anni Settanta in poi, le politiche pubbliche e in particolare la pianificazione territoriale hanno visto anni in cui l’unico decisore era l’architetto-urbanista. che con un approccio top down, calava dall’alto un intervento per modificare una porzione di città, uno spazio pubblico o una strada senza consultare i cittadini e gli abitanti del luogo. Cosa che ha portato alla nascita di periferie rese invivibili dal degrado architettonico e sociale, figlio dell’incapacità di tale approccio di costruire un senso di comunità e la consapevolezza dei beni comuni.
Il Tactical Urbanism, nella sua forma più istituzionale, prevede invece il recupero dello spazio urbano e dei non luoghi con una serie di piccoli interventi a basso costo distribuiti sul territorio. Interventi che devono essere partecipati dalle comunità a cui si rivolgono, che ne devono condividere strategie e obiettivi, cosa che Roma fa Schifo poco gradisce, visto che guarda con il fumo con gli occhi i vari comitati di quartiere romani, che hanno il brutto vizio, conoscendo i problemi della loro via e piazza meglio del Vate e dei suoi collaboratori, di contraddire i suoi entusiasmi e le sue astruse teorie.
Interventi che devono essere di alto valore comunicativo, perchè il loro compito è rafforzare il senso di identità di una comunità, soggetti a continua manutenzione, affinché, abbandonati al degrado, non si trasformino in un boomerang, di carattere sperimentale, associati a un processo aperto e iterativo, che migliori sia l’efficienza delle risorse, faccia esplodere in pieno potenzialità nascoste nell’interazione sociale e faciliti il raggiungimento degli obiettivi e soprattutto temporanei.
A medio e breve termine, i feedback provenienti dalla loro sperimentazione, verificati e valutati devono essere integrati in un piano urbano, che con interventi stabili e a lungo termine, migliori la vita dei cittadini. Perché come diceva bene von Clausewitz, la tattica non basta a vincere la guerra, se non è subordinata a una strategia e servita da un’effica logistica.
Fissando questi paletti, il Tactical Urbanism funziona ? In linea di massima, sì: abbiamo numerosi esempi anche in Italia, come a Sassari, a Palermo, nei progetti di riqualificazione di Ballarò, dell’Albergheria e Borgo Vecchio.
Sotto certi aspetti, anche l’intervento a Via Giolitti e a via Cappellini, che potrebbe essere più incisivo se il I Municipio accettasse un confronto con le proposte di chi vive e lavora il territorio, rientra in tale categoria.
Ma non gli interventi di Milano, che essendo calati dall’alto, senza un minimo confronto con i cittadini e privi di un manutenzione evolutiva e di meccanismi di verifica dei risultati, non sono nulla più che passerelle elettorali, utili solo ad abbindolare i gonzi…
October 7, 2019
Lo Stand Florio
L’ultima tappa del mio diario palermitano riguarda la terza possibile opportunità di riqualificazione dell’area di Sant’Erasmo e in generale del litorale sud di Palermo, lo stand Florio, la cui nascita, come raccontato in precedenza è legata al tentativo di valorizzazione turistica di quell’area, avvenuto nella prima metà del Novecento e rovinato sia dalla Seconda Guerra Mondiale, sia dal Sacco di Palermo.
Infatti, il complesso dello Stand Florio si trova lungo la costa di Romagnolo, località marinara vicino al centro storico di Palermo, che prende il nome dall’ex-senatore della città Corradino Romagnolo il quale, alla fine del Settecento, contribuì alla prima urbanizzazione dell’area.
Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, Romagnolo, oggi abbandonata al degrado, era una zona di elegante ritrovo e ospitò i più importanti ed eleganti stabilimenti balneari, ville nobiliari, residenze di pregio.
Vincenzo Florio jr,intorno al 1905, nel tentativo di differenziare gli investimenti della famiglia, decise di sfruttare il boom turistico nell’area compresa tra la foce dell’Oreto ed il Tiro a Segno, realizzando un edificio alla moda, dedicato agli sport acquatici, al divertimento e alla socializzazione, ossia, come si diceva all’epoca, un Kursaal, in un’area concessa dall’Autorità Marittima.
Per fare questo, si rivolse all’architetto di famiglia, che aveva realizzato il Villino Florio, Ernesto Basile, grande maestro del libertu italiano, che presentò al committente un progetto di grande respiro, basato su una sorta di platea rivolta verso il mare, in cui erano disposti una serie di edifici: lo Stand Florio vero e proprio, un poligono di tiro al piccione, sport che all’epoca andava assai di modi, l’edificio degli scommettitori, una serie di locali di servizio e un teatro all’aperto che si sviluppava fino alle riva
Purtroppo del progetto originario si sono solo conservati lo Stand e il locale per gli scommettitori. In particolare, nello Stand Basile diede fondo a tutta la sua fantasia: da una parte, una sorta di nostalgia del passato, reinterpretò in chiave moderna quello che oggi va di moda chiamare stile arabo normanno, in particolare nella cupola rossa con pinnacolo e nella foggia dei decori. Dall’altra, Il prospetto verso il mare si qualifica per il rigore pre-razionalista di una veranda dalla semplice intelaiatura travi-pilastri. È, infatti, una delle prime strutture siciliane di età moderna costruite utilizzando in prevalenza il ferro.
Alla morte di Vincenzo Florio Jr, la concessione passò agli eredi che la mantennero fino agli anni ’70. Durante la II Guerra Mondiale le attività erano state ovviamente soppresse e lo Stand venne utilizzato come magazzino per le truppe da sbarco, subendo numerosi danni proprio in conseguenza degli eventi bellici. Nel 1972 la concessione si concluse definitivamente e lo Stand ritornò tra le proprietà della Capitaneria di Porto.
Nel 1978 lo storico palermitano La Duca lamentava l’avanzato stato di degrado ed alcune operazioni disinvolte, come l’apertura del cancello carrabile sulla parte orientale del perimetro. L’appello non fermò gli abusi e gli scempi perpetrati negli anni fino al suo oblio: da solarium per il vicino Ospedale Buccheri La Ferla, a ristorante, da sede di uffici comunali a sala giochi.
La sorte dell’edificio registrò un cambiamento positivo quando passa definitivamente alla proprietà dello Stato e con gestione dall’Agenzia del Demanio. Nel 2013 venne ampliato il “regime di tutela” e nel2016 è stata bandita la gara per la sua valorizzazione nell’ambito del progetto “Valore Paese fari ed edifici costieri”. Con un mirato progetto di valorizzazione la Servizitalia soc.coop. si è aggiudicata la concessione cinquantennale di gestione del bene e a tale scopo costituisce la Stand Florio srl unipersonale.
Oggi, l’edificio, interamente ristrutturato, vincolato per la sua valenza artistica e testimone silente della Storia, risorge come “contemporary hub”, un aggregatore e catalizzatore di funzioni, tutte pensate intorno al comune denominatore della cultura.
In cosa si articola questo hub ? Il tutto incomincia con il giardino dedicato a Donna Franca, esteso per circa 3.000 mq, in cui sono ospitate oltre sessanta specie vegetali. Ricostruito su un progetto accurato eseguito da un architetto del paesaggio che lo ha pensato come un insieme di tre aree botanicamente diverse – l’agrumeto, la macchia mediterranea e la sezione tropicale – il giardino è il contrappunto naturale alla bellezza costruita dell’edificio dello Stand.
I camminamenti in legno permettono una comoda fruizione della parte più ‘naturale’ del giardino attraverso il limoneto e la vegetazione bassa, mentre una grande area di circa 800 mq antistante la scalinata d’ingresso, è lasciata a prato calpestabile.
Trecento posti a sedere e un palco di 40 mq. per spettacoli teatrali, concerti, proiezioni, rassegne e performance sono stati adibiti per l’Arena teatro Basile che occupa un’area di circa 400 mq. avvolti da una folta vegetazione del giardino.
All’interno dell’edificio, un tempo destinato agli scommettitori del Tiro al Piccione, c’è anche il Caffè Targa, un ambiente concepito come avamposto verso il giardino e l’ampio spazio esterno dell’area food.
Mentre uno spazio molto riservato è la Terrazza Marsala sul tetto del cosiddetto Edificio degli Scommettitori, che si affaccia sullo splendido giardino Donna Franca con circa 80 mq. di spazio. Al piano terra dello Stand, che comprende circa 113 mq., si può ammirare la sala Regolamento che custodisce gli originali infissi del Novecento, ottimizzati per la moderna fruizione che insieme all’affresco ricordano il glorioso passato dell’edificio.
Infine, al primo piano abbiamo anche la sala Vincenzo Florio, che nasceva come terrazza verso il mare, mentre oggi è trasformata in un elegantissimo spazio coperto, custodendo il fascino di un tempo.
October 6, 2019
La Stazione di Sant’Erasmo
[image error]
Il secondo facilitatore per la riqualificazione urbana di Sant’Erasmo e penultima tappa della sessione autunnale del mio diario palermitano è l’ex deposito locomotive.
Questa apparteneva al complesso degli edifici della stazione ferroviaria di Sant’Erasmo, capolinea della linea Palermo-Corleone-San Carlo, prima linea a scartamento ridotto ad essere costruita in Sicilia; faceva parte dei primi progetti di costruzione di una rete ferroviaria in Sicilia che sopperisse alla mancanza di una qualsiasi rete viaria di collegamento tra l’interno e i punti di imbarco della costa e favorisse la commercializzazione sia dei prodotti agricoli, essenzialmente vini e agrumi, sia dello zolfo, all’epoca la principale risorsa economica dell’isola.
La concorrenza delle miniere americana e il taglio dei sussidi e delle commesse statali, voluti da Giolitti, fu infatti una delle cause del fallimento del tentativo di industrializzazione locale e del declino dei Florio.
Già nel 1859 erano stati approntati alcuni progetti di costruzioni ferroviarie, in Sicilia, da parte di società a capitale estero, belga e negli anni seguenti anche inglese e francese attratti dal fatto che la mancanza di vie di comunicazione interne rendeva appetibile l’investimento.
Un progetto concreto per la costruzione di una tranvia a vapore a scartamento ridotto di 850 mm, vide la luce nel 1873; il 15 settembre del 1879 il Consiglio Provinciale di Palermo ne decise la costruzione ma come ferrovia a scartamento ridotto di 950 mm su progetto dell’ingegnere Achille Albanese.
Nel 1881 nacque un organismo consortile per costruire la ferrovia di Corleone ma i lavori ebbe inizio dopo che, nel giugno del 1883, venne subconcessa all’imprenditore inglese Robert Trewhella. I lavori di costruzione si svolsero tra il 20 aprile 1884 e il 20 dicembre 1886 quando venne inaugurata la prima tratta Palermo-Corleone. La società di gestione della linea The Sicilian Railways Company Limited of London fu costituita il 17 febbraio 1887 come Società Anonima per le Ferrovie Siciliane (SAFS).
Di conseguenza, il 20 dicembre 1886 fu inaugurata la stazione di Sant’Erasmo, che come accade spesso in Italia, era stata concepita come provvisoria: il progetto originario della linea Palermo – Corleone, infatti, prevedeva la costruzione della stazione di Palermo al ponte delle Teste, nel fondo dei fratelli Alfano tra la via Tiro a Segno (all’epoca via del Gazometro), corso dei Mille e il fiume Oreto, cosa che avrebbe facilitato ulteriormente l’interconnessione con la Stazione Centrale.
Per difficoltà insorte nella realizzazione della struttura nel fondo Alfano, ed al fine di non ritardare l’apertura all’esercizio della linea, il “Consorzio per l’armamento e la costruzione della ferrovia per Corleone” decise di realizzare una stazione provvisoria a Sant’Erasmo, nelle more che venisse scelta la sede definitiva.
Nel frattempo presentate altre alternative per la stazione definitiva, come ad esempio un allargamento dell’area di S.Erasmo o la localizzazione in via Rocco Pirri, nelle immediate adiacenze della Stazione Centrale, ma la mancanza di fondi rese la stazione da provvisoria a definitiva.
La stazione, di stile liberty, era posta a cavallo alla foce del fiume Oreto e divisa in due sezioni: la parte ad ovest del fiume era la parte destinata al movimento passeggeri e merci. Vi si trovavano il Fabbricato Viaggiatori e il Magazzino Merci il fascio binari abbastanza corto era composto di due binari passanti e di quattro binari tronchi; tutti e sei si riunivano in un binario tronco terminale per le manovre ad ovest mentre ad est solo i due binari principali si univano in uno con uno scambio posto poco prima del ponte in ferro a travata unica che scavalcava la foce del fiume.
Subito dopo il ponte in ferro i binari si tornavano a dividere in due di cui quello di corretto tracciato proseguiva costeggiando la strada fino alla piena linea verso Acqua dei Corsari. Dal lato mare vi erano la piattaforma girevole e il Deposito locomotive con tre binari di ricovero interno, le Officine rotabili, i magazzini e gli edifici accessori e il refettorio. Dal lato ovest il fascio binari, di cui quattro passanti e due tronchi, si riuniva in uno scambio di uscita al binario di corsa. Uno dei binari tronchi serviva un piccolo molo dove trovava posto un piccolo cantiere navale.
La stazione, benché svolgesse un ruolo fondamentale nella mobilità della provincia di Palermo, sin dall’inizio, fu soggetta a una manutenzione ordinaria assai scarsa: nella relazione del 1908, dell’ingegner Antonino Nicchi, il suo stato fu descritto come disastroso. Ad esempio, era scritto
il fabbricato viaggiatori è munito di tettoie formate da colonne di ghisa su dadi di pietra da taglio, da travicelli di legno su cui poggiano lamiere di ferro ondulato, che in moltissimi punti è corroso e bucato; i marciapiedi delle due parti del fabbricato sono profilati con accoltellato di mattoni, il piano di essi marciapiedi è sterrato con superficie irregolare e con varie sfossature, dove in inverno si depositano le acque.
Per ovviare a tale problema, nel 1918 la gestione dell’impianto passò alle FS e il 30 novembre 1922 la linea intera dalla Stazione Sant’Erasmo a San Carlo, riscattata dallo Stato, fu affidata alle FS. La tratta di collegamento con la linea da Castelvetrano, da San Carlo a Sambuca di Sicilia, fu inaugurata il 29 settembre 1928. I primi passeggeri, però, poterono usufruire del servizio solo dal 28 ottobre successivo in quanto 6º anniversario della “Marcia su Roma”.
Alla fine degli anni venti venne realizzato un piccolo posto di rifornitura di gasolio in seguito all’arrivo di alcune automotrici sperimentali. Tra il 1936 e il 1938 l’officina dell’impianto dimostrò la sua grande valenza tecnica ristrutturando sette delle locomotive P ex Parenzane costruite per la linea istriana con scartamento ridotto da 760 mm. Vennero modificate portandole alla misura di 950 mm; vennero inoltre modificate le testate con i respingenti a piatto rettangolare, i fumaioli e le casse dell’acqua laterali.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la stazione fu anche dotata di due rifugi antiaerei. Nel 1950 entrarono in servizio le automotrici RALn 60 a gasolio, che sostituirono i treni effettuati con locomotiva a vapore.
Benché fosse il principale mezzo pubblico di trasporto della Provincia di Palermo, nel 1953 fu presa la demenziale decisione di spostare il capolinea ad Acqua dei Corsari; se oggi tale borgata marinare è complicata da raggiungere, pensiamo all’epoca…
Ciò provocò rapidamente la morte della ferrovia: nel 1955 fu soppresso il tratto tra Acqua dei Corsari e Sant’Erasmo, il 1 febbraio fu deciso di chiudere tutta la linea, soppressa nel 1961. Ufficialmente, i motivi di tale scelta furono due: favorire il trasporto gommato e quindi gli interessi industriali dei grandi imprenditori del Nord e ridurre i costi di gestione e gli investimenti di FS, che per mantenere attive la linea Palermo Corleone e le altre ferrovie a scartamento ridotto siciliana, avrebbe dovuto provvedere alla sostituzione le locomotive ( ancora a carbone) con quelle diesel o elettrificazione.
In realtà, la decisione fu anche un enorme regola alla Mafia, a Salvo Lima e a Ciancimino: l’eliminazione delle linea ferroviaria impedì di fatto qualsiasi tentativo di riqualificazione turistica del litorale sud e favorì l’edilizia selvaggia del Sacco di Palermo. La costa, senza la linea ferrata e le varie stazioncine intermedie, che favorivano il controllo del territorio, fu utilizzata come discarica di tonnellate di terra di risulta.
Nel 1965, la stazione fu demolita e rimase in piedi, abbandonato a se stesso l’ex deposito delle Locomotive, ispirato allo stile di Basile, composto da un padiglione principale di 48 metri per 30 metri e un altro piccolo edificio annesso. Lo spazio interno è sovrastato da un’originale trama di capriate d’acciaio, con una copertura a falde inclinate. Particolarmente pregevoli sono il sistema di pilastri e capitelli e le caratteristiche colonne in ghisa tipiche delle strutture industriali del tempo.
Deposito, abbandonato a se stesso per anni, fu recuperato in nei primi anni del 2000 in occasione della manifestazione Kals’Art, che nonostante il fatto che sia rapidamente caduta nell’oblio, permise il rilancio della Kalsa.
Nel 2014, lo Spazio divenne sede dell’Ecomuseo del mare di Palermo, splendido esempio di spazio culturale partecipato, il cui scopo è recuperare il rapporto tra la città e il suo mare, progressivamente perduto nel secondo dopoguerra.
October 5, 2019
Sant’Erasmo
Nella seconda metà del Settecento, Palermo era ancora delimitata dai bastioni rinascimentali: usciti dalle porte storiche, vi si trovavano vigne e le grandi ville barocche dei nobili locali, nascono come trasformazione dei più antichi bagli, raggiungendo un tono aulico per qualità di materiali utilizzati e solennità di impianto, che spesso si concentravano sulla via Messina Marine, come la quella appartenuta a Corradino Romagnolo, la villa del Marchese delle Favare e la villa del principe di Larderia.
Verso il mare, erano presenti i magazzini e gli edifici del nuovo Molo, terminati nel 1590, alcuni complessi religiosi e due borgate di pescatori: una a Sud, al Piano di Sant’Erasmo, l’altra a Nord, nel borgo di Santa Lucia presso il Molo. Il traffico commerciale invece continuava a concentrarsi nel vecchio porto della Cala.
Tuttavia, citando il Renda
Il secolo XVIII è un secolo di grande trasformazione, soprattutto è un secolo di grande sviluppo demografico, e la popolazione siciliana aumenta di un buon 50%; ovviamente questo significa bocche da sfamare in più, case da offrire, ma significa anche una maggiore quantità di braccia da lavoro, significa anche un miglioramento del tenore di vita, della salute, della alimentazione; vi è cioè un periodo in cui dal vecchio involucro feudale quale era l’economia siciliana, si ha un processo di transizione che poi porterà ad una città, ad una società moderna, un processo di crescita e di trasformazione contemporaneamente
Ciò ebbe enormi impatti su Palermo, con una grande e improvvisa crescita demografica, dovuta non tanto ad un aumento interno, ma, come spesso accade nella sua storia, all’arrivo di molti contadini che da molte parti della Sicilia occidentale si trasferiscono per lavorare sia nelle vigne e nei primi agrumeti della Conca d’Oro, sia nelle attività connesse al porto.
Se da un alto la città si popolò sempre più, saturando ogni spazio ancora esistente, dall’altro molti dei nuovi arrivati preferirono costruire le proprie case in prossimità dei campi, nei pressi o lungo le strade di collegamento alla città murata oppure lungo la costa, nel prolungamento della Strada Colonna.
Ciò costrinse l’amministrazione locale a ripensare lo sviluppo urbanistico della città, definendo una direttrice d’espansione. Dopo una prima fase di sviluppo verso il vicino paese di Monreale lungo il Cassaro, si decise di cambiare versante e di optare per il proseguimento della via Maqueda. I territori a sud erano però poco adatti all’edificabilità, vista la presenza del fiume Oreto che rendeva malsana la zona. Così, dopo aver costruito il quartiere Oreto subito oltre le mura, si tentò di incrementare l’espansione verso il fiume costruendo anche due grandi zone di verde, l’orto botanico e la villa giulia, ma ciò non ottenne i risultati sperati anche per motivi economici: la zona a sud era infatti quella più densamente coltivata. A questo punto la direttrice di espansione si orientò a nord, verso la Piana dei colli, una zona semi pianeggiante, fertile e arieggiata.
Per cui, nel 1778, il marchese Regalmici, affida all’ingegnere Nicolò Palma il compito di creare una nuova zona che mettesse in collegamento la città antica col Borgo di Santa Lucia secondo un ordine geometrico e razionale. La cosiddetta addizione Regalmici ripropone così l’ordine ortogonale dei Quattro canti ricreandolo all’esterno della città grazie all’incrocio fra il prolungamento della via Maqueda (ora via Ruggero Settimo) e una nuova via a essa perpendicolare, lo stradone dei Ventimiglia, oggi via Mariano Stabile che giungeva sino al mare. Si venne a creare così un’altra piazza ottagonale, chiamata Quattro canti di campagna in contrapposizione a quella cittadina mentre grazie alla strada del Mulino a vento si creò il collegamento fra la città e il Borgo di Santa Lucia, che rapidamente, si ritrovò integrata nel tessuto urbano palermitano.
In parallelo, le borgate marittime, che erano nate attorno a delle tonnare, cominciarono a svilupparsi: a nord, crebbero Acquasanta, il cui nome è legato alla presenza di una sorgente ritenuta miracolosa, Arenella, Vergine Maria, San Giorgio e di Mondello.
A sud, invece crebbe l’insediamento sviluppato attorno al porticciolo di Sant’Erasmo, dedicato alla pesca, in cui vi era un forte, un’antica chiesetta dedicata al Santo e una tonnara fondata nel 1440, la tonnarazza, il porticciolo della “Bandita”, il cui nome deriva dalla proprietaria di una taverna di dubbia fama e la borgata di Acqua dei Corsari. Il toponimo più che riferirsi a corsari che pur infestavano anche questo tratto di mare, pare debba essere legato ad una sorgente che scaturiva dalle rocce del litorale e che sarebbe appartenuta alla famiglia Corsaro.
Dall’Ottocento in poi, questo tratto di costa fu soggetto a due fenomeni: il primo fu quello dell’industrializzazione, che a differenza della costa nord, non fu legato alle esigenze connesse all’ampliamento del porto, ma all’espansione edilizia di Palermo; vi nacquero infatti fornaci dedicate alla lavorazione dei laterizi e ai manufatti perl’edilizia.
Tra queste spiccavano Lo “Stazzone di Acqua dei Corsari”, fabbrica di manufatti d’argilla, il “Mulino d’Acqua dei Corsari” e, verso Ficarazzi, la “Mattonaia a vapore” di Giuseppe Puleo e la Vetreria Caruso. L’unica eccezione era proprio Sant’Erasmo: nell’area ebbero sede iorirono vere e proprie imprese, che incisero significativamente nella memoria storica di Palermo e del suo mare. Tra queste come non citare la Fonderia Oretea, stabilimento industriale fondato nel 1840 e successivamente acquisito dall’imprenditore Vincenzo Florio, che fu simbolo della metallurgia siciliana, specializzandosi nella produzione di battelli a vapore e attrezzature navali. Ancora oggi il centro storico di Palermo abbonda delle splendide produzioni che la Fonderia Oretea ha realizzato nel tempo, come la caratteristica cancellata di Villa Garibaldi.
Altro esempio degno di merito, quello della prima industria ittico-conserviera siciliana, la Coalma, fondata dall’imprenditore Francesco Macaluso nel 1922 e specializzata in pesce azzurro e tonno di tonnara del Mediterraneo. La produzione delle conserve venne avviata proprio in piazza della Tonnarazza, e nel rispetto della tradizione, l’azienda ancora oggi produce e commercializza il tonno Sant’Erasmo.
Che detto fra noi, essendo una delle poche aziende palermitane con respiro internazionale, ha sede a via Sampolo 3, tra il giardino inglese e il molo dell’Arsenale, ottimi prodotti, merita di essere sostenuta, visto che qualche anno fa ha rischiato di essere spazzata via dalla crisi.
Industrializzazione che fu messa in grave difficoltà dalla politica giolittiana di concentrare le commesse statali, che erano il moltiplicatore keynesiano di tale attività economica, nel Nord d’Italia.
Il secondo fu la trasformazione dell’area nel mare dei palermitani: nel 1875 esistevano già gli stabilimenti di Sant’Erasmo e della Colonnella (Romagnolo),chiama così in onore e ricordo del fondatore di un piccolo villaggio che vi sorgeva insieme alla villa del senatore palermitano Corradino Romagnolo e dalla colonna dell‟Immacolata, detta la Colonnella che rappresentava l‟ingresso nel territorio di Palermo per chi proveniva da Messina
Rispetto a questi, già agli inizi del ‘900 il numero degli stabilimenti si accrebbe: sulla costa sud, in località Romagnolo prendono posto gli stabilimenti Mustazzola, Virzì, lo Stabilimento bagni per i militari, il Lido Delizia della famiglia Petrucci e, alla Colonnella, lo Stabilimento balneare marino Risorgimento una guida alla città di Palermo del 1902 aggiungeva gli stabilimenti di mare dei Fratelli Petrucci in via Romagnolo, lo stabilimento di Emilio Pirandello e lo stabilimento di Paolo Virzì, sempre a Romagnolo. Più vicino alla foce dell’Oreto era lo Stand Florio (o locanda del tiro al piccione) e il lido Florio.
Questo tessuto turistico entrò in crisi a causa sia dei bombardamenti americani di Palermo, che distrussero tutte infrastrutture, sia del sacco di Palermo, che, a causa delle mancanza di depuratori, rese non balneabili le acque del litorale sud, che per decenni fu abbandonato a se stesso.
Dopo anni di polemiche tra il Comune di Palermo e l’Autorità Portuale, qualcosa però si sta muovendo; trascurando il faraonico e poco realistico progetto presentato dall’Eurispes, progressivamente si sta recuperando il l’intero litorale, nella speranza di realizzare in tempi accettabili un grande parco sul mare.
Il primo passo di quest’iniziativa è l’inaugurazione il prossimo 10 ottobre del nuovo porticciolo di Sant’Erasmo. Sebastiano Provenzano, lo stesso che progettò il porto della Cala insieme a Giulia Argiroffi, è l’architetto che ha concepito il nuovo porticciolo che a breve sarà restituito alla città: l’intervento non prevede opere a mare di dragaggio dei fondali o di protezione idraulico marittima dell’invaso e si limita ad introdurre una nuova pavimentazione, a restaurare i tratti originari in basole, e a prevedere tre edifici con funzioni e dimensioni diversificate.
Sono stati poi previsti un prato a due passi dal mare, cespugli di metrosideros, murraya, rosa e, tra gli alberi, begli esemplari di erythrina, in continuità con il filare esistente nella villa a mare e due filari di palme dattilifere…
October 4, 2019
I fiumi di Palermo
Anche se di scarsa portata, Palermo è ricca di fiumi. Il più famoso è senza dubbio l’Oreto, sulle cui rive, probabilmente, anche se Polibio sull’argomento è poco chiaro, il console Lucio Cecilio Metello sconfisse nel 251 a.C. Asdrubale, mettendo in fuga i suoi elefanti.
Lungo circa 20 chilometri, ha la sorgente a sud di Palermo, nella cosiddetta Conca d’Oro, lungo la dorsale del Monte Matassaro Renna; da qui in poi scorre verso la periferia sud del capoluogo siciliano per andare a sfociare nel Mar Tirreno. La foce è visibile dal ponte del lungomare Sant’Erasmo.
Il primo che lo citò effettivamente è Vibio Sequestre, erudito forse del V secolo, che per semplificare la vita al figlio Vergiliano, che probilmente era ignorante come una capra in geografia, compilò il
De fluminibus fontibus lacubus nemoribus paludibus montibus gentibus per litteras libellus
un elenco in ordine alfabetico di tutti i luoghi citati dagli scrittori latini.
Tra i tanti lemmi vi era
“Orethus, Panhormi, Siciliae”“
Perché l’Oreto si chiami così, è difficile a dirsi… Secondo lo storico domenicano del 1500 Tommaso Fazello, il nome Oreto è un grecismo: siccome il fiume nasce da una montagna, che in greco si dice Oros, ecco spiegato il suo nome. Antonino Mongitore scrisse a metà del Settecento che la parola Oreto nasce da “oro”, dato che “ nel suo letto, come scrivono più Autori, si sono ritrovati minuzzoli d’ oro”. E a questo si dovrebbe collegare anche il termine conca d’oro”.
Se devo dire la mia, vista l’origine fenicia di Panormus, probabilmente Oreto deriva dalla latinizzazione di qualche termine punico.
Ai tempi di Balarm, anche l’Oreto cambiò nome, diventando “Wadi abbas”. Nel 972, quella linguaggia di Ibn Hawqal, viaggiatore con la puzza sotto al naso nato a Bagdad, scrisse che
“ a mezzogiorno del paese (scorre) un grande e grosso fiume che s’appella Wadi Abbas, sul quale son piantati di molti mulini”
Cosa che, vedendo il corso attuale dell’Oreto, la portata media mensile del fiume oscilla fra un massimo di 1,87 metri cubi al secondo (registrato in gennaio) e un minimo di 0,116 metri cubi al secondo, farebbe pensare a un’esagerazione.
In realtà, ai tempi dell’optimum climatico medievale, il clima siciliano era di parecchio più piovoso, per cui è possibile che Ibn Hawqal non abbia raccontato una balla ai suoi lettori.
Il buon Idrisi, il geografo musulmano al servizio di Ruggero II, scriverà invece
“fuor del lato meridionale del borgo scorre il fiume Abbas, fiume perenne, nel quale sono piantati tanti molini da bastare appieno al bisogno”.
Invece Yaqut, un altro geografo arabo dei primi del duecento ( si tratta in realtà di un greco divenuto schiavo degli islamici da piccolo) annotò che le acque del Wadi al Abbas
“ non sono utilizzate per irrigare i giardini, né sono utilizzate per altra utilità della città”.
Nella seconda metà del 1300, il fiume tornò a essere chiamato con il suo vecchio nome: il merito è attribuibile a Boccaccio, che nel 1355 scrisse, ispirato da Vibio Sequestre, scrisse Il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris liber, altro prontuario geografico per una miglior comprensione dei luoghi della letteratura classica, in cui ritirò fuori il termine Oreto.
Fiume il cui corso è variato molto nel tempo, a causa delle trasformazioni del territorio agrario della Conca d’oro. Questa, dal periodo normanno in poi, venne coltivata con la canna da zucchero, la cui raffinazione, richiedeva enormi quantità di legna da ardere, cosa che provocò il disboscamento selvaggio delle montagne e di conseguenza le numerose e rovinose piene dell’Oreto, che causarono il frequente cambiamento del letto e l’impaludamento della foce.
La fine dell’optimum climatico medievale e la concorrenza delle piantagioni atlantiche dei portoghesi, mise in crisi l’industria saccarifica siciliana: per cui i latifondisti locali, riconvertirono i terreni a vigna. L’aumento progressivo della popolazione urbana porterà ad un aumento delle coltivazioni orticole irrigue, con il recupero delle canalizzazioni arabe abbandonate.
Alla fine dell’Ottocento con l’uso diffuso del “bindolo alla gattaux” (una pompa per acque profonde) si realizzerà l’esplosione delle coltivazioni agrumarie principalmente a danno della viticoltura. Cosa, che oltre al diminuire delle precipitazioni, causò anche la diminuzione progressiva della sua portata.
Il fiume, cosa stranissima per i palermitani d’oggi, godeva la fama di essere straordinariamente pescoso, tanto che sino ai primi del Novecento vi si potevano trovare storioni; ora tra una polemica e l’altra, potrebbe essere recuperato alla città, se mai partisse il suo fantomatico parco fluviale.
Destino impossibile per i due fiumi che invece delimitavano il perimetro della città punica, il Papireto o torrente Danisinni, che durante l’optimum climatico medievale permetteva l’approdo delle imbarcazioni in prossimità della cattedrale, e il Kemonia, il cui ampio bacino ai tempi dei normanni consentiva la stessa cosa all’altezza della nostra Casa Professa, dove esistevano strutture portuali, cantieri navali e arsenali.
[image error]
Destino impossibile per i due fiumi che invece delimitavano il perimetro della città punica, il Papireto o torrente Danisinni, che durante l’optimum climatico medievale permetteva l’approdo delle imbarcazioni in prossimità della cattedrale, e il Kemonia, il cui ampio bacino ai tempi dei normanni consentiva la stessa cosa all’altezza della nostra Casa Professa, dove esistevano strutture portuali, cantieri navali e arsenali.
Il corso del Papireto, che si estendeva lungo la via Papireto, del Capo, di S. Onofrio e della Conceria per poi sboccare al mare, cominciò a essere canalizzato nel 1323; la sua parte finale, nota come come fiume della Conceria che andava dall’attuale via Venezia a Castello a Mare, a causa dell’interramento del vecchio porto arabo, la Terrachina, era suggetta all’impaludamento, e per di più maleodorante, a causa delle del forte inquinamento prodotto dalla lavorazione delle pelli nelle numerose officine ubicate lungo le sue rive.
Per ovviare a tali problemi fu avviato un ambizioso progetto di bonifica, che portò alla nascita di un nuovo spazio portuale, che divenne il centro economico della Palermo medievale, in cui si collocarono, con il borgo degli Amalfitani, le loggie mercantili e le chiese delle nazioni estere.
Tuttavia, questa bonifica, unita al cambiamento climatico e alla sua trasformazione in una fogna a cielo aperto, il Senato palermitano, nel 1447 e nel 1489, ordinò di colmare il suo corso con terre di risulta, rimedio che si mostrò inadeguato per i continui cedimenti del terreno che costrinsero i palermitani a camminare nel fango.
Nel 1599 per risolvere questo problema, il Viceré di Sicilia Diego de Gusman decise nuovi lavori di bonifica, ricorrendo alla realizzazione di un tunnel sotterraneo di gronda (noto come acquidotto del maltempo) che volgeva il ruolo di smaltitoio delle acque del Papireto; tunnel costruito in muratura con una copertura a volta, ad altezza d’uomo.
Poi, così canalizzato, il Papireto fu trasformato subito dopo un collettore fogniario, costruendo una serie di fossate, dette anche bocce del mal tempo, che vi immettevano le acque luride della città; le più importanti erano a Piazza Sant’Onofrio, in via Gioiamia e Piazza Nuova.
Da qualche anno, il fiume è collegato ad un collettore che ne dirotta le acque verso il depuratore di Acqua dei Corsari.
[image error]
Il Kemonia o Cannizzaro o fiume del Maltempo, nasceva invece dalla Fossa della Garofala, un grande spazio verde, dell’estensione di circa quindici ettari, che prende il nome dal primo proprietario di cui si conosca l’identità, Onorio Garofalo, che ne entrò in possesso verso la fine del XV secolo; in seguito, nel XVIII secolo, il terreno venne acquistato dal principe di Aci, che vi realizzò una stazione agricola sperimentale ed una tenuta di caccia.
Sarà, però, con l’intervento di Luigi Filippo d’Orlèans, il futuro re di Francia che, nel 1809, riceverà in dote il terreno dalla moglie, Maria Amelia di Borbone, e poi di suo figlio, il duca Enrico d’Aumale, che verrà impiantato, nell’Ottocento,uno splendido parco, punteggiato di laghetti, fontane, panchine, alberi secolari.
Alla fine del secolo, la grande tenuta cadde nel degrado, e rimase in uno stato di totale abbandono fino ad un recente passato, quando fuacquistata dall’Università degli Studi di Palermo. Da lì, lungo le antiche mura puniche, per le attuali via Castro, piazza Casa Professa, vie Ponticello e Calderai, il Kemonia si dirigeva verso il mare tramite l’odierna via Roma.
[image error]
Tra l’altro, la prima urbanizzazione si sviluppò prima alla sua foce e poi lungo il suo decorso, con casupole o catoi, povere e modeste strutture popolane in parte ipogee o ingrottate per la friabilità del terreno lungo il corso fluviale.
Nel 1554, a seguito della costruzione disordinata dell’Albergheria, le cui case avevano occupato parte del corso del fiume,il Senato palermitano, temendo le piene del Kemonia, aveva costruito, due miglia fuori dalla città, all’altezza del Ponte di Corleone, un muro-diga che aveva lo scopo di sbarrare il passo alle acque meteoriche provenienti da Monreale, facendole scaricare nell’alveo del fiume Oreto invece che verso la Garofala.
Tra il 21-22 settembre del 1557 iniziò un tremendo nubifragio, che durò ininterrottamente per giorni. L’acqua tracimò oltre il muro-diga e il livello delle acque della Fossa della Garofala giunse ad alzarsi fino a quattro metri nel tratto di mura di Palermo in corrispondenza dell’avvallamento vicino la chiesa di Santa Maria dell’Itria (Porta di Castro) dove una canalizzazione sotterranea giungeva sino al piano di Tarzanà, alla Cala, scaricando le acque del Kemonia in mare.
Le mura della città, spesse due metri, resistevano. Ma al tramonto del 27 settembre il muro-diga di ponte di Corleone cedette, e una valanga d’acqua e detriti colpì le mura abbattendone un tratto lungo quarantaquattro metri e alto quattro, facendo crollare la chiesa dell’Itria e travolgendo per prime le 500 nuove case dell’Alberghiera e i suoi abitanti. L’acqua si riappropriò del corso del Kemonia, non risparmiando edifici e persone, invase Ballarò, danneggiò il monastero della Martorana, si incanalò in via Lattarini verso il quartiere della Loggia, fino ad abbattere le mura all’altezza della Dogana Vecchia alla Cala, riversandosi in mare.
Dopo questo disgrazia, il Parlamento palermitano si impegnò a fondo nel domare il Kemonia: fu costruito un canale per deviare definitivamente l’alto corso del Kemonia nell’Oreto, mentre il corso basso fu incanalato direttamente a mare tramite una galleria sotterranea.
Nel 2009 il Kemonia, dopo forti piogge, è ritornato nel suo alveo originale allagando una zona di Palermo.
[image error]
Meno noto dei precedenti è il Canale Passo di Rigano, benchè sia, dopo il fiume Oreto, il principale corso d’acqua che scorre a Palermo. Anticamente secondo lo storico Rosario La Duca aveva la denominazione di Flumen Galli.
Si tratta di un canale a carattere torrentizio che raccoglie acqua da parecchi piccoli affluenti che scendono dalla zona nord-ovest della città di Palermo, tra questi torrenti troviamo il Luparello, il Borsellino, il Celona e il Mortillaro. Il canale scorre in una zona abbastanza centrale della Conca d’Oro ed è attualmente completamente canalizzato terminando il suo percorso nella zona dell’Arenella-Vergine Maria, mentre l’antico tracciato sfociava poco a nord dell’attuale molo S. Lucia, nel piano dell’ucciardone. Sopra di esso sono sorte le strade di via Aci, via UR15, via ingegner Nicolò Mineo, via principe di Paternò. Tra i suoi affluenti troviamo i torrenti Luparello, Borsellino, Celona e Mortillaro.
Il Canale di Passo di Rigano, sfocia all’interno dei Cantieri Navali dopo avere attraversato il suo ultimo tratto sotto la sede stradale di via Nicolò Spedalieri e non nella sono Arenella-Vergine Maria.
[image error]
L’ultimo dei fiumi palermitani è il Gabriele o Cariopele, le cui sorgenti alimentano l’acquedotto palermitano; le sue sorgenti sono raggiungibili percorrendo via Villa Nave o via Riserva Reale. Si fa risalire il nome Gabriele alla parola araba al Garbal, come riferito negli appunti di Francesco Maria Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca,che significa grotta irrigante.
L’etimologia indica che le sorgenti erano conosciute già nel X secolo.Oltre che per usi domestici, l’acqua era impiegata dalla popolazione per alimentare il funzionamento dei mulini per la macinazione dei cereali, per far fronte al ciclo di lavorazione per la concia delle pelli e per la produzione delle terrecotte negli stazzoni dislocati attraverso la Zisa, alimentando i complessi della Zisa e della Cuba, fino a Castello a Mare, ristagnando in un acquitrino prima di sfociare a mare.
Con l’espansione edilizia dettata dall’aumento demografico, l’annoso problema dei rifiuti, l’alternarsi di mortiferi contagi di peste, il corso d’acqua che affiorava a cielo aperto immerso in una folta vegetazione, resero necessario la bonifica della zona malsana attraversata, in quanto la carente manutenzione e il ristagno delle acque, favorivano il diffondersi d’epidemie e la conseguente contaminazione delle stesse riserve idriche.
Un primo lavoro per la protezione delle sorgenti fu effettuato nel 1761, come recita una data incisa su di una parete della sorgente Gabriele che recita fecit R C 1761 (eseguito dalla Regia Corte 1761).
October 3, 2019
L’aeroporto di Boccadifalco
Può sembrare strano, ma a Palermo ha un lungo rapporto con il volo: riferisce una corrispondenza da Palermo pubblicata sulla Gazzetta universale il 27 aprile del 1784, che
negli scorsi giorni si sono veduti diversi globi volanti, alcuni dei quali erano aria infiammabile, altri d’ aria rarefatta. I primi furono mandati in aria dal principe di Pietraperzia, delle scienze amatissimo e delle fisiche discipline molto esercitato
Nel 1790, capitò poi a Palermo, Vincenzo Lunardi, che pochi conosco, ma è una pietra miliare nella storia dell’aeronautica: ufficiale del genio nell’esercito del Regno di Napoli, fu nominato segretario dell’ambasciatore del borbonicoa in Inghilterra. L’eco delle ascensioni dei Fratelli Montgolfier, i quali il 4 giugno 1783 riuscirono a far sollevare il primo pallone aerostatico ad aria riscaldata che prese il loro nome, spinse Lunardi a progettare un pallone a gas, dotato di migliore capacità ascensionale e di più grande autonomia.
Pallone con cui si dedicò a numerose ascensioni, in giro per l’Europa, che all’epoca lo resero assai famoso: la stessa cosa fece nella città siciliana, su richiesta del Vicerè Francesco D’Aquino. Così Lunardi racconta la sua esperienza
Sabato mattina, circa le ore 12 e mezza (…) dopo aver preso posto nel mio picciol Carro Volante, l’ istromenti necessari, con libbre 60 d’ Arena in diverse sacchette per equilibrarmi e le provisioni per ristorarmi…preso congedo da tutta la nobiltà nella deliziosa Villa Filippina radunata, m’innalzai lentamente con estraordinario piacere per essere l’ aria serena, soffiando picciol vento favorevole
Nel 1910, poi, Vincenzo Florio, per festeggiare il cinquantenario dell’impresa garibaldina, decis edi organizzare la “Settimana Aviatoria di Mondello-Valdesi” e considerata il primo meeting aviatorio del Mezzogiorno d’Italia.
I piloti partecipanti: Kinet e Crochon con aerei Farman, Buson e Culing con aerei Blériot, Gambert con aereo Wright e soprattutto Clemente Ravetto, piemontese di nascita e palermitano d’adozione, che si si era “brevettato” in Francia nel 1909.
Per ordine di Florio, Clemente acquistò un aereo Voisin nella capitale francese e lo condusse a Palermo via ferrovia, dove sotto la sua guida fu assemblato nei locali di via Catania, per poi partecipare alle gare che si svolsero dal 1° Maggio al giorno 7 dalle ore 10 alle 19. Il campo di aviazione la spianata di Mondello, le tribune e i palchi per il pubblico a Valdesi, accanto il padiglione ristorante, quello del comitato organizzatore e della stampa, vicina agli hangar la tribuna della giuria.
Spinti dall’entusiasmo, i palermitani fondarono campi di volo a Cruillas e Passo di Rigano, il cosiddetto Marasà, e vicino all’attuale via Perpignano; mentre nel 1917 nacque l’idroscalo di Santa Lucia e l’anno successivo, l’aeroscalo della Favorita, dove adesso vi sono lo stadio e l’ippodromo, che ospitava regolarmente i dirigibili.
Intanto nel 1916, le officine Ducrot, dove adesso vi sono i Cantieri della Zisa, uno dei luoghi simbolo del liberty europeo, famosi per la produzione di splendidi mobili, divennero una fabbrica di aerei, a “Vittoria Aeronautica Ducrot”, che poi diventerà la Aeronautica Sicula S.A.
Su licenza della Franco-British Aviation Company produsse l’idroricognitore biplano FBA Type H. Per il collaudo veniva utilizzato il golfo di Mondello. Il suo fiore all’occhiello fu un aereo da caccia ad alte prestazioni, il Ducrot SLD, progettato nel 1918 dagli ingegneri Manlio Stiavelli e Guido Luzzatti che raggiungeva una velocità massima di 300 km/h.
Vincenzo Florio il 14 settembre 1919, organizzò poi la prima – e unica – edizione della “Targa Florio Aeronautica”. Questa è la prima gara europea del dopoguerra, e ha larga eco nell’ ambiente di appassionati. Circa sei ore di volo, un percorso difficile che ad esempio obbliga a salire ad oltre duemila metri di quota, sorvolando i monti Peloritani: dei 48 piloti che si iscrissero, solo 31 furono in grado di affrontare la gara, che richiedeva il periplo dell’ Isola con arrivo e partenza da Palermo, in prossimità dello specchio d’ acqua prospiciente lo stand del Tiro al piccione di Sant’ Erasmo. Ne giunsero al traguardo solo 20, e il premio di dodicimila lire fu vinto dal tenente Berardi. L’ hangar della Società Ducrot a Mondello fu invece la base operativa per il Giro aereo di Sicilia per idrovolanti.
Nel 1922 era stato fondato a Palermo il primo Aeroclub di Sicilia, presieduto da Giuseppe De Marco, un pioniere dell’ aviazione che era stato pilota istruttore durante la Prima Guerra Mondiale. Naturalmente questo aveva portato ad un ampliamento delle esigenze e quindi alla necessità di realizzare un campo più idoneo e moderno di quanto non lo fossero quello di Mondello o il Campo Marasà. Fu così che, in seguito alle pressioni esercitate dell’ Aeroclub, nel 1925 il ministero diede il via all’iter necessario per costruire un nuovo aeroporto a Palermo.
Nel 1929 venne firmata una convenzione per la costruzione di un nuovo scalo: quello di Boccadifalco, inaugurato il 17 luglio 1931 con una manifestazione sportiva. Fu, infatti, la prima tappa del Giro Aereo d’ Italia, vinta dalla coppia Colombo-Ferrario, che successivamente si aggiudico la vittoria della competizione.
Per la sua realizzazione furono abbattute diverse ville storiche: Villa Alfonsetta, Fondo Abate, Villa Bellacera-Tarallo, Villa dei Principi di Buonriposo, Villa Massa-Corsetto e Villa San Gabriele ad Altarello. Lo scalo, dotato di due piste, venne in realtà ultimato nella primavera del 1932. Nel marzo 1934 diviene sede del Comando Aeronautico della Sicilia. Nel 1936 fu allungata la pista principale e l’aeroporto venne intitolato al ten. pil. Giuseppe Notarbartolo di Sciara (medaglia d’argento al V.M.) e al s.ten. pil. Francesco Notarbartolo di Villarosa (medaglia di bronzo al V.M.) caduti nella prima guerra mondiale. Nel 1937 viene ulteriormente ampliato e dotato di altre infrastrutture.
Durante la guerra, quando mio nonno Otello vi svolgeva il servizio militare, volarono su Boccadifalco caccia come i ridicoli biplani CR 42, trasformati, con molto ottimismo, in caccia notturni, i Macchi C 200, i ricognitori Ro 37 bis, i pattugliatori Fiat CR 25, i caccia Reggiane Re 2000 e i MC 202. Ma anche il bombardiere SM 79, aereo simbolo italiano, e quindi pochissimi Fiat BR 20. A partire dal 1941 a Boccadifalco arrivò il X Fliegerkorps tedesco, con i pesanti caccia bimotori BF 110 ed il trimotore da trasporto Junkers Ju 52, e nell’ultimo periodo pure gli ormai obsoleti Stukas.
Gli americani risparmiarono nei bombardamenti del maggio 1943 Boccadifalco, contando di utilizzarlo. Gli italiani sabotarono l’aeroporto e incendiarono i depositi di carburante ma gli alleati lo ripristinarono celermente, riutilizzandolo
Durante la cobelligeranza furono sciolte tutte le compagnie aeree italiane, ma vennero autorizzati collegamenti interni con veicoli militari riadattati ad uso civile, facendo così nascerei i Corrieri Aerei Militari, che coprivano le tratte Lecce-Catania-Palermo-Cagliari e Roma-Palermo. Il 15 settembre 1947 cessò l’occupazione militare dell’Italia e Boccadifalco riprese la sua piena operatività. A Palermo facevano scalo le Aerolinee Italiane Internazionali (AII), le Linee Aeree Italiane (LAI), la Compagnia Aereo Tesea, la compagnia Airone. La componente di volo era rappresentata quasi esclusivamente dal DC 3-47 e dal Fiat G 12/212.
Eppure, sino all’apertura nel 1960 di Punta Raisi, Boccadifalco fu il terzo aereo come traffico in Italia; da quell’anno al 2009, l’aeroporto fu adibito esclusivamente a uso militare. Da quel momento in poi, la struttura è alla ricerca di una nuova identità.
Meriterebbe infatti di essere valorizzata come polo turistico per antiche costruzioni aeronautiche tra cui le due aviorimesse gemelle Tipo Innocenti, la palazzina di comando che richiama lo stile architettonico del ventennio fascista, e l’aviorimessa Saporiti S.52M (1938) tra le pochissime rimaste in Italia, i bunker antiaerei e Villa Natoli, l’ex circolo ufficiali, con le sue peculiari decorazioni ispirate al tema del volo.
Ma la cosa più notevole della villa è forse il giardino, con la sua camera dello scirocco, che ospitò il primo “Orto sperimentale e di acclimatazione” (“concorrente” all’attuale Orto Botanico nel quale poi confluì), creato dal botanico campano Giovanni Gussone su incarico del Duca di Calabria.
October 2, 2019
La Passeggiata delle Cattive
Il quarto giorno del mio diario palermitano è oggi dedicata a una delle passeggiate più affascinanti di Palermo e meno note ai turisti: la Passeggiata delle Cattive, che nulla a che vedere con un giudizio etico.
Può sembrare strano, ma sino alla fine del 1500, Palermo non aveva un proprio lungomare a causa sia del pericolo delle mareggiate, sia di quello delle incursione dei pirati barbareschi, che avevano convinto i vicerè spagnoli a concentrarsi sulle esigenze militari, che a quelle di pubblico diletto.
Anche perchè, diciamola tutta, sia le mura puniche, sia quelle medievali, poco erano utili a difendere la città dalle nuove artiglierie.
Per cui, per progettare una cinta muraria più moderna e adeguata alle sfide della rivoluzione militare, il Viceré Don Ferrante Gonzaga contattò uno dei principali esperti dell’epoca, l’architetto bergamasco Antonio Ferramolino, di fatto uno dei principali consulenti in tale ambito dell’imperatore Carlo V.
Antonio, per proteggere i punti più sensibili della città proporrà nel 1536 cinque bastioni, che così descrive nella sua relazione al Vicerè
“ …et primo lo belguardo di lo Spasimo,…..et appresso successive lo belguardo ordinato a torri tunda, et poy lo belguardo ordinato a la porta Mazara, et appresso si seguirà laltro belguardo a la porta di Santagati, et lultimo sia quillo ordinato a lo ribellino di tri tundi in menzo la porta di San Giorgi et la porta Carini…”
Ritenuti insufficienti dalla paranoica dei governanti dell’epoca, questi bastioni furono progressivamente ampliati e aumentati di numero, tanto da raggiungere nel 1571 il numero di dodici:
” di San Giorgio – di San Giuliano – di San Vito – Di Pipirito – di San Jacopo – di San Pietro al palazzo – di porta Mazara – di Sant’ Agata – di Sant’ Antonio – del Spasmo – Veca – lo Terremoto”
In particolare, l’area della Kalsa era protetta da ben due bastioni, quello del Tuono e del Vega, fatti erigere nel 1550 dall’ominimo Vicerè, Giovanni de Vega.
Così L’Auria, nell’Historia Cronologica delli Signori Vicerè di Sicilia, racconta tale episodito:
”…Eresse in Palermo il bastione vicino al mare presso porta Felice chiamato volgarmente Tuono, e l’altro gran baluardo appresso a quello dal suo cognome Vega appellato, nel mezzo del quale in alto vi è uno scudo di marmo con queste parole
Vega dedit nomen et formam …”
Il bastione del Vega proteggeva la Kalsa dal lato diretto verso l’attuale via Lincoln, tra quello dello Spasimo e la porta dei Greci, sempre fatta erigere dal Vicerè al ritorno della vittoriosa conquista di Mahdia in Tunisia, mentre quello del Tuono, chiamato così per la potenza dei suoi cannoni, aveva la funzione invece di difendere la cortina muraria del fronte a mare, al posto dell’attuale Foro Italico.
A seguito della battaglia di Lepanto, il Sultano poteva costruire in fretta e furia una flotta, anche male, tanto che l’ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben armate e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita con legname marcio e cannoni mal fusi, ma non poteva far saltare dal nulla un’addestrata generazione di marinai e ammiragli, il rischio di un’invasione ottomana della Sicilia si ridusse drasticamente.
E gli stati barbareschi, ufficialmente sudditi del Sultano, ma di fatto indipendenti, piuttosto che impegnarsi in una guerra a viso aperto, che li avrebbe visti perdenti, come succederà nel 1732, quando l’ammiraglio spagnolo Blas de Lezo, lo stesso che nella battaglia di Cartagena umiliò la flotta inglese, distrusse la totalità delle navi pirate a Orano e Mostegan, si dedicarono con sommo impegno alla pirateria e al taglieggiamento.
Così paradossalmente, Marco Antonio Colonna, l’eroe di Lepanto, si impegnò nell’opera di smilitarizzazione dei bastioni, recuperando il rapporto tra i palermitano e il mare: nel 1581 fece prolungare la via Toledo, ovvero il Càssaro, fino a Piazza Marina e l’anno successivo, fece costruire la Strada Colonna, il lungomare, che copriva sia il Foro Italico, sia parte della via Messina Marine.
I nobili palermitani apprezzarono subito l’iniziativa, tanto che la strada divenne l’occasione per sfoggiare, con lussuose carrozze o con le sedie volanti, la loro ricchezza. Il lungomare rimase invariato sino al 1734, quando il pretore don Giovanni Sammartino di Montalbo, ne curò l’allargamento facendo abbattere il bastione del Tuono. Cinquant’anni dopo il nuovo pretore, don Girolamo Grifeo principe di Partanna, ordinò l’abbattimento del bastione di Vega e sancì così l’allargamento definitivo della zona, che negli anni successivi fu sempre più abbellita e curata, diventando la meta preferita per le passeggiate dei palermitani.
Di fatto, l’amministrazione borbonica utilizzò la strada come strumento di autocelebrazione e di propaganda: la via, chiamata con poca fantasia Foro Borbonico fu progressivamente decorata con statue che li rappresentavano, come Ferdinando III opera di Ignazio Marabitti del 1790, Carlo II di Giovanni Travaglia, Filippo V di Giovanni Battista Ragusa, Carlo III di Lorenzo Marabitti.
Inoltre, si pose il problema di cosa fare delle sopravvissute mura medievali della Kalsa: si parlò di buttarle giù, finché nel 1813, Don Antonio Lucchesi Palli, allora Luogotenente della Sicilia, decise di sfruttare i loro camminamenti per realizzare un “ pubblico parterre”, una pubblica passeggiata, secondo l’allora tendenza di utilizzare termini francesi, in quella che una volta veniva chiamata, scherzando, strada Colonna superiore.
Nel 1823 l’opera si completò con le due scalinate ancora percorribili, una di fianco a Porta Felice, l’altra presso la “Salita Mura delle Cattive”, il primo tratto della via Alloro, mentre nel 1825 il Foro Borbonico, imitando i boulevard parigini, fu divisa in tre corsie alberate.
Nel 1827, l’ingresso più importante del “pubblico parterre”, nella nostra attuale piazza Santo Spirito, fu decorato con due erme su alti piloni, realizzate dallo scultore Nicolò di Girolamo Bagnasco. Ora, il pubblico parterre, rispetto al Foro Borbonico, dal 1848 Foro Italico, permetteva un passeggio più intimo e riservato, dato che dal piano stradale non era possibile osservare chi lo percorreva.
Così, come racconta Nino Basile nella sua “Palermo Felicissima”
le vedove (captive), vestite di gramaglie, non partecipavano ai pubblici ritrovi e godevano le brezze marine da questa terrazza appartata.
Da questa frequentazione, nacque il nome delle Passeggiata delle Cattive, ossia delle Vedove; il termine palermitano per cattivo, infatto, è malu o tintu. I bombardamenti anglo-americani della Seconda Guerra Mondiale danneggiarono la passeggiata; in più si pose il problema di che fare delle macerie che ingombravano il centro storico.
Nell’estate del 1943, l’amministrazione provvisoria AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories) decise, in conformità con quanto previsto dal piano regolatore fascista, di ampliare il Foro Italico, con i resti dei crolli e delle demolizioni, creando come prima di Marcantonio Colonna, un diaframma tra il mare e Palermo.
Così la Passeggiata della Cattive rimase abbandonata per decenni, finchè nel 1997 l’amministrazione comunale avviò i lavori di restauro, riaprendola l’anno successivo. In parallelo, nel 2000 fu riqualificato il Foro Italico.
Oggi, con il recupero di Palazzo Butera, la Passeggiata sta progressivamente riottendo l’importanza che aveva in passato…
[image error]
October 1, 2019
Sant’Ignazio all’Olivella
A due passi dal Teatro Massimo, nel vecchio mandamento detto della Loggia o Castellammare, stretta tra le vie Cavour, Roma, Maqueda e Bandiera, vi è una delle zone più caratteristiche di Palermo, l’Olivella.
Secondo la leggenda, che non ha nessuna evidenza concreta, in quella zona, all’epoca normanna in aperta campagna, dato che era fuori delle mura arabe, vi era la villa dei Sinibaldi, in cui nacque Santa Rosalia.
Tale credenza ha fatto sì che la contrada prendesse proprio il nome da questa antica villa, in latino “Olim villa”. Poi tale nome è stato corrotto dalla pronuncia popolare nell’attuale Olivella. Peculiare, in questa zona è il nome della via Trabia che prende nome dall’antico palazzo della famiglia Lanza, principi di Trabia e via Bara all’Olivella, che nulla a che vedere con i becchini; le bare, infatti, sono le vare, le macchine processionali, costruite da artigiani che avevano bottega in quella via.
L’Olivella è una testimonianza concreta del processio di gentrificazione e turistizzazione del centro di Palermo: sino a una decina di anni fa, era considerata una dei luoghi più degradati dell’area. Ora, invece, è una sorta di piccolo San Lorenzo panormita, piena di pub, ristoranti, rosticcerie, di studi d’arte e laboratori teatrali, cosa che ha avuto parecchi vantaggi in termini di riqualificazione e ricadute economiche, ma che ha complicato parecchio la vita ai suoi abitanti storici.
L’Olivella custodisce uno dei tanti gioielli artistici di Palermo, la Chiesa di Sant’Ignazio; la sua storia comincia nel 1592, quando alcuni sacerdoti locali, stanchi degli affanni della vita cittadine, si ritirarono a vita eremitica nella chiesa San Pietro Martire, adiacente al monastero Valverde”, distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Nel 1593, vi capitò ospite padre Pietro Pozzo, amico di San Filippo Neri, che stato tra i fondatori della congregazione romana di Santa Maria in Vallicella; uomo straordinariamente energico, che per anni diresse la comunità partenopea dei Girolamini, che convinse i sacerdoti palermitani, conquistati a passare dalla vita contemplativa a quella attiva.
Così nacque a Palermo la comunità degli Oratoriani o ,per noi romani, dei Filippini; l’anno dopo, questi ottennero dalla confraternita di Santa Caterina all’Olivella la concessione della piccola chiesetta dedicata a Santa Rosalia, che all’epoca era quasi sconosciuta ed era ben lungi dall’essere la principale protettrice di Palermo ed altri piccoli immobili (atto rogato dal notaio Doroteo Landolina il 17 aprile del 1594), affinchè potessero edificare una nuova chiesa.
Decisione che fu approvata dal nostro Pippo Bono, che a quanto pare, profetizzò come in futuro, la chiesa, che ricordiamolo, all’epoca era all’estrema periferia, si sarebbe trovata al centro di Palermo: cosa che effettivamente si è verificata.
Ora, a chi dedicare la nuova chiesa? Sempre san Filippo Neri, consigliò di affidarla a un santo a cui non era dedicata nessuna chiesa a Palermo; gli oratoriani locali, non mettendosi d’accordo, decisero di affidarsi al sorteggio.
Al primo giro, saltò fuori dalla bussoletta il nome di Sant’Ignazio d’Antiochia, padre della chiesa, di cui nessuno dei filippini era particolarmente devoto. Per cui, decisero di ripetere il sorteggio: anche la seconda volta, uscì il nome di Ignazio. Pur perplessi dalla stranezza statistica, non si arresero ed rifecero per la terza volta l’estrazione: anche in questo caso, riuscì Ignazio, costringendo i religiosi ad arrendersi dinanzi a questa strano risultato delle leggi della probabilità.
A partire dal 1598, i padri Filippini diedero incarico all’architetto di origine lombarda Antonio Muttone, che si avvalse della collaborazione del “capomastro” Andrea Fusè, di progettare e realizzare la fabbrica sia della chiesa, sia del nuovo convento.
Scelta alquanto strana, a dire il vero: Antonio, la cui biografia è alquanto fumosa, non era certo noto come specialista in architetture religiose. Sino ad allora, le principali commissioni a cui aveva lavorato erano la ristrutturazione dei moli del porto di Palermo e l’ampliamento, della rete idrica pubblica.
In ogni caso, Antonio si fece onore: ispirato dalle grandi basiliche romane, realizzò una chiesa a croce latina e dal pronunciato andamento longitudinale, a tre navate, una centrale e due laterali più piccole separate da dieci arcate sostenute da una doppia fila di colonne tuscaniche, sei per ogni fianco, in marmo grigio di Billiemi realizzate dal marmoraro Antonino Falcone nel 1611: ai fianchi delle navi laterali si aprono cinque cappelle su ciascuno dei due lati, che custodiscono una significativa antologia di mirabili opere d’arte realizzate da alcuni tra i migliori artisti che operarono in Sicilia tra i secoli XVII e XVIII.
Alla tipologia basilicale di Sant’Ignazio all’Olivella si ispirarono altre importanti chiese palermitane controriformate, quali San Domenico, San Giuseppe dei Teatini, San Matteo, il Carmine. Fu una scelta favorita probabilmente dall’arcivescovo di Palermo, Giannettino Doria (1608-1642), molto attivo nell’applicare le norme tridentine all’edilizia sacra. L’impianto con colonne era familiare al Doria perché ad esso si conformava l’antica chiesa di San Matteo a Genova, che era sotto il patronato della sua famiglia e che tra ‘500 e ‘600 influenzò in quella città la realizzazione di basiliche con navate ripartite da sequenze di colonne binate
La posa della prima pietra avvenne il 7 di novembre alla presenza del “Magnus Siculus” don Carlo d’Aragona principe di Castelvetrano e Duca di Terranova e fu fucompletata e solennemente inaugurata nel 1622 in occasione della canonizzazione di San Filippo Neri. In realtà, il cantiere era lungi dall’essere concluso.
Nel 1651 cominciarono i lunghi lavori per la realizzazione della facciata, che terminarono nel 1690, che è una sorta di trapianto a Palermo del Barocco romano, essendosi ispirata, su decisione di padre Talpa, a quella di Santa Maria in Campitelli, sviluppandosi in altezza con due ordini sovrapposti di diversa estensione tripartiti da grandi colonne in pietra fortemente sporgenti.
Nel primo ordine presenta tre portali, di cui quello centrale, di armonioso disegno, è inquadrato da due colonne corinzie in marmo grigio e chiuso in alto da un articolato timpano. I due portali laterali, che corrispondono alle navate laterali, con timpani curvilinei, sono sormontati da ampie finestre rettangolari.
Il secondo ordine, che è limitato alla sola larghezza della navata centrale, con volute laterali e timpano triangolare presenta, al centro, una grande finestra rettangolare chiusa da una vetrata policroma inquadrata da due piccole lesene.
Nel 1711, la chiesa fu solennente consacrata da Bartolomeo Castelli vescovo di Mazara del Vallo e nel 1714 fu affibbiato al domenicano Andrea Palma, architetto ufficiale del Senato di Palermo, l’incarico di portare avanti la decorazione della chiesa; tra l’altro Andrea si ispirò a Sant’Ignazio per progettare uno dei suoi capolavori, la facciata del duomo di Siracusa.
Nel 1732, i Filippini decisero di arricchire la chiesa con una cupola: l’incarico fu dato a uno specialista in materia, Francesco Ferrigno, stretto collaboratore del Serpotta, che nel cantiere fu aiutato dal capomastro Simone Marvuglia, padre di Giuseppe Venanzio Marvuglia, il principale esponente del neoclassicismo siciliano, che ebbe un rapporto assai stretto con Sant’Ignazio.
Nel 1752, l’architetto Giacomo Aragona, modificò la facciata e aggiunse gli alti campanili; nel 1772, Giuseppe Venanzio Marvuglia fu incaricato di ristrutturare in senso neoclassico la decorazione della chiesa, attività a cui si dedicò con immenso entusiasmo.
Il 5 aprile del 1943 la chiesa fu gravemente danneggiata da un bombardamento aereo che causò il crollo delle arcate della tribuna con tutta la cupola soprastante, delle volte ricoprenti la tribuna e del braccio sinistro del transetto; dopo la guerra cominciò la ricostruzione, terminata nel 1950.
Cosa visitare nella chiesa ? Cominciamo dall’abside: secondo una tradizione locale, non confermata dalle fonti, questa inizialmente era decorata dagli stucchi del Serpotta, distrutti dal Marvuglia durante la sua ristrutturazione neoclassica.
Oggi il presbiterio è dominato da un altare maggiore neoclassico in marmi policromi realizzato dai maestri Vincenzo e Salvatore Todaro, esponenti di una operosa famiglia di “petristi, su disegno di Marvuglia, che sostituisce quello ideato nel 1722 da Francesco Ferrigno su disegni di Filippo Juvarra. L’altare presenta un delizioso tabernacolo a forma di tempietto ed è sormontato dalla preziosa pala di Sebastiano Conca che raffigura il Trionfo della SS Trinità. Nella parte superiore, al centro della luminosa “Gloria”, scritto a caratteri cubitali, il tetragramma biblico in ebraico, cioè le quattro lettere “JHWH” (il nome di Dio in ebraico ossia Jehovah “Colui che diviene e fa divenire ogni cosa). Ai lati dell’altare due statue dei Santi Pietro e Paolo di Ignazio Marabitti (1788 ca.).
Nelle nicchie delle pareti laterali sono inserite quattro pregiate statue in stucco modellate da Gaspare e Giuseppe Firriolo 1786-90, che raffigurano i santi Evangelisti insieme ai rispettivi simboli iconografici. Notevole è la seconda cappella a destra,tutta incrostata di marmi mischi e con un apparato decorativo di grande effetto, realizzato tra il 1656 e il 1659 dagli artisti Giuseppe Marino, Ottavio Bonomo e Carlo D’Aprile su disegno dell’architetto del senato Gaspare Guercio.
Nella prima cappella a sinistra, vi è la pala d’altare dedicata all’Arcangelo Gabriele, dipinta dal solito Novelli, presente in tutte le chiese seicentesche di Palermo, mentre è doveroso soffermarsi sulla cappella successiva, intitolata al Santissimo Crocifisso, decorata nel XVII sec. per volontà del padre Giuseppe Gambacorta che vi spese una somma ragguardevole per i tempi, oltre 40 mila scudi (tutta la sua eredità).
Tutt’intorno un profluvio di pietre rare, agate, ametiste, lapislazzuli, topazi, granatine, eliotropie e fregi dorati. Degno di nota lo splendido Crocifisso ligneo seicentesco, opera di Alessandro Algardi posto su un reliquario in lapislazzuli e rame dorato chiuso da una vetrata a disegni geometrici. Ai lati le statue dell’Addolorata e San Giovanni Evangelista, commissionati a Genova da padre G.ppe Gambacorta alla famosa bottega degli Orsolino, stucchi e affreschi di Vincenzo Riolo.
L’altare su colonne in diaspro massiccio realizzato dal marmoraro Giovan Giacomo Ceresola su disegno di Mariano Smiriglio rappresenta una mirabile sintesi di architettura e di scultura di straordinaria bellezza. Gli affreschi nella volta sono stati realizzati nel 1621 dal pennello di Pietro Novelli: il pavimento, tutto lastricato di porfido e marmi di vari colori è stato realizzato nel 1669. La cappella è chiusa da una artistica cancellata in ottone.
La quinta cappella, realizzata nel 1622, è dedicata a San Filippo Neri. Al centro dell’altare, composto da due colonne di diaspro e due di pregiato granito, vi è collocato il settecentesco dipinto raffigurante L’apparizione della Vergine a San Filippo Neri del pittore romano Sebastiano Conca, che sostituisce la tela, purtroppo deteriorata che raffigurava il santo titolare, opera del famoso Guido Reni.
Nella sacrestia, è conservato un presunto dipinto del Tiziano: nei pressi della chiesa meritano di essere visitati lo straordinario museo archeologico Salinas, nel vecchio convento dei Filippini, lo splendido Oratorio di Santa Caterina, con gli stucchi del sottovalutato Procopio Serpotta e l’oratorio di San Filippo Neri, in cui Marvuglia si dedicò alle prime sperimentazioni dello stile neoclassico.
September 30, 2019
Il Carmine Maggiore
[image error]
Il Mercato di Ballarò è uno scrigno che nasconde anche grandi tesori artistici: uno di questi è la chiesa del Carmine Maggiore. Sino a qualche anno fa, questa era assai poco accessibile al turista: al massimo ci si poteva imbucare durante le cerimonie religiose, con i fedeli e i preti che, giustamente, guardavano male gli estranei.
Ora, come conseguenza della crescita turistica di Palermo, il Carmine Maggiore è diventata assai più accessibile: dalle otto di mattina alle undici è accessibile a tutti i fedeli, mentre dalle undici a alle sedici, pagando due euro, si ha la possibilità di partecipare a una visita guidata, condotta da giovani storici dell’arte, pieni d’entusiasmo.
Questa chiesa ha una storia molto lunga e complessa: secondo la tradizione, l’arrivo dei carmelitani dalla Palestina a Palermo, risale al 1118, al seguito della gran contessa Adelasia del Vasto, al ritorno della sua fallimentare esperienza come regina di Gerusalemme.
Adelasia regalò ai religiosi una piccola cappella romanica all’Albergheria, dedicata alla Pietà, che, nei primi anni del Duecento, fu ampliata secondo lo stile gotico, con i costoloni del soffitto ad arco acuto e l'”Agnus Dei” nella chiave pensile e fu decorata con affreschi rappresentanti il Redentore e i profeti Elia ed Eliseo.
A ridosso della Cappella della Pietà, diventata angusta per il culto, fu costruita dai Frati nel 1243 una seconda chiesa. La dedicarono alla SS. Annunziata, come tutte le prime chiese fondate dai Carmelitani in Occidente, per il forte legame che essi avevano con Nazaret, luogo della casa della Madonna e dell’annuncio dell’Incarnazione del Cristo. Essa successivamente fu chiamata anche Madonna del Carmine.
Questa seconda chiesa aveva un’orientazione opposta all’attuale: l’ingresso si trovava al posto dell’attuale abside e relativo coro (nell’attuale Via Angelo Musco). Di essa rimangono i ruderi a fianco destro dell’attuate chiesa, all’interno della cappella di Gesù Bambino, le due colonne lungo il portico del chiostro.
La costruzione della chiesa attuale è invece condotta dal 6 marzo 1627 al 1693, con alcune interruzioni sotto la direzione di Mariano Smiriglio, uno dei protagonisti della stagione tra il manierismo e il barocco in Sicilia nella prima metà del Seicento.
L’edificio si presenta a forma di basilica a croce latina, con tre navate, sorretta da 12 colonne in pietra di Billiemi con capitelli dorici. La semplice e disadorna facciata è aggiunta nel 1814, nella nicchia sopra la porta centrale è collocata la statua della “Vergine del Carmelo” opera settecentesca. Nella navata principale, sul soffitto campeggia l’affresco “Il dono dello scapolare” opera di Giovanni Patricolo del 1814 unica porzione degli affreschi pervenuti.
Che si può visitare nella Chiesa? Si può cominciare, paradossalmente, Ex Cappella di Sant’Elia, chiusa quasi tutto l’anno, in cui è conservata la splendida statua della Madonna del Carmelo, una delle tante patrone di Palermo, portata in processione per il mercato di Ballarò nell’ultima domenica di Luglio, in quello che è chiamato
U secunnu fistinu
Sulla grande “vara” rotonda, dotata ruote per via della pesantezza del fercolo ( kg. 200 ) trasporta la prominente statua argentea, come una reale persona ( cm. 180 ) rappresentata in posa frontale, fuori esce da una nuvola dove si intravedono delle teste di tre cherubini.
La Vergine regge nel braccio sinistro il bambino ignudo che consegna un giglio d’argento e, con la mano destra porge l’abitino. In particolare, la statua di legno policromo è ricoperta nella veste e nel mantello di una lamina d’argento, frutto della fatica di Giuseppe Castronovo, che detto fa noi, ebbe una pazienza di Giobbe nei confronti dei Carmelitani
Incominciata, in un primo momento dall’argentiere nel 1723, fu intimato, durante l’esecuzione dei lavori dai frati che la testa e le mani dovevano essere fatti a getto, per il resto si poteva procedere con la lavorazione a sbalzo; dinanzi a tale pretesa, Giuseppe entrò in sciopero e di conseguenza, i religiosi scissero il contratto.
Giuseppe, non domo, si rivolse alla sua associazione di categoria e tutti gli altri argentieri di Palermo, in segno di solidarietà, rifiutarono la commissione dei Carmelitani, che così tornarono a più miti consigli.
Nel 1725, il lavoro fu ridato a Giuseppe, con i Carmelitani che si limitarono a chiedere di rivestire un modello in legno di una nuova statua con argento lavorato, un lavoraccio che durò sei anni e finì solo nel 1729, anno in cui si procedette alla prima processione.
Nel 1773 l’argentiere Domenico Russo ritoccò il manto argenteo e vengono aggiunte due corone “all’imperiale” per la Madonna e il Gesù bambino, in modo da aggiornare la statua all’incipiente gusto neoclassico. Nuovi interventi si eseguirono nel 1813 dove intervenne Girolamo Bagnasco per eseguire il volto della Vergine e gli arti e, rimodellare il bambin Gesù.
[image error]
Accanto all’ex cappella di Sant’Elia, vi è quella di Spiridione di Trimitonte, santo venerato anche dagli Ortodossi e protettore dell’Isola di Corfù, caratterizzata dalla decorazione a marmi mischi, realizzata da Francesco e Gerardo Scuto, gli stessi che parteciparono al cantiere della Casa Professa, nel 1667.
Molto interessanti, sono le cappelle dei due transetti, dedicate alla Madonna del Carmine e al Crocefisso, le cui colonne tortili, ispirate a quelle del baldacchino di San Pietro, sono decorate dagli eleganti stucchi di Giuseppe e Giacomo Serpotta,che nel primo caso rappresentano le vicende connesse alla fondazione dell’Ordine dei Carmelitani, mentre nel secondo, le scene delle passione di Cristo.
Colonne, che sono causa di lunghe discussione tra gli studiosi dell’artista rococò: anche se non è documentato dalle fonti, nelle sue prime opere sono innegabili le influenze berniniane, comprensibili solo se si ipotizza un soggiorno romano.
Ma quando sarebbe avvenuto? I più ipotizzano che sia antecedente alla sua prima opera documentata, nel 1677, la decorazione con fregi e angeli, della chiesa della Madonna dell’Itria di Monreale, realizzata in collaborazione con Procopio de Ferrari.
Altri invece, visto il buco temporale tra i putti dell’Oratorio di San Mercurio e dell’Oratorio di san Manuel Loiacono, entrambi del 1678, la statua di Carlo II di Spagna a Messina, realizzata nel 1679 e distrutta dai buddaci nel 1848, e le colonne del Carmine Maggiore, risalenti al 1684, ipotizzano il viaggio in tale quinquennio.
[image error]
Sempre a Giacomo Serpotta, sono attribuiti da Donald Garstang, uno dei massimi esperti dell’artista, gli stucchi che decorano la cappella di Santa Caterina d’Alessandria; in ogni caso, assieme la vicina Cappella della Madonna dell’Udienza, questa rappresenta una sorta di antologia dell’opera scultorea della famiglia Gagini, di origine genovese, che ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione del Rinascimento in Sicilia.
[image error]
La Madonna è opera infatti del capostipite Domenico, che esordì come architetto nella città ligure, si trasferì a Napoli, dove collaborò alle decorazione scultorea dell’arco trionfale di Castelnuovo, per poi trovare pace in Sicilia, dove Mastru Duminicu marmuraru, oltre che all’Arte, si dedicò con enorme successo al commercio dello zucchero.
Santa Caterina è invece stata scolpita dal figlio Antonello, che ebbe talmente tanto successo, tanto da avere due botteghe: una presso il Duomo, vero cantiere di lavorazione, l’altra al porto dove mostra lavori finiti, pronti all’esportazione in tutta la Sicilia e in Calabria, e scalo per commercio non solamente di marmi.
Nella cappella dedicata a Sant’Andrea Corsini, vi è una tela che rappresenta l’apparizione del Vergine al santo, realizzata da Pietro Novelli, uno dei pittori di maggiore successo nel Barocco siciliano, durante il suo periodo caravaggesco.
[image error]
Infine dal Chiostro cinquecentesco, si può ammirare la splendida cupola, Costruita nel 1680 grazie all’impegno di Fra Angelo La Rosa, carmelitano, che diede fondo alla sua fantasia, s’innalza su tre ordini: tamburo, volta e lanternino.
I pilastri sono ornati da quattro statue di stucco, di Vincenzo Messina, del 1681 e raffigurano: Mosè, S. Elia, profeta, S. Giovanni Battista e Giona. La parte interna della volta è rivestita di stucchi ornamentali con festoni di fiori e frutta. Le quattro finestre sono ornate di putti, vasi e fiori in stucco.
All’esterno, invece vi sono quattro coppie di colonne scanalate di pietra con capitelli dorici intramezzati da quattro grandi telamoni, uomini goffi e muscolosi in atto di reggere la cupola. La cupola, poi, tutta convessa è rivestita da maioliche smaltate i cui colori richiamano il mondo arabo. Essa è divisa in quattro sezioni o punti cardinali ove viene messo in evidenza lo stemma carmelitano. In alto è sormontata da un cupolino, la palla e la croce.
Alessio Brugnoli's Blog

