Alessio Brugnoli's Blog, page 89

November 6, 2019

I figli di Sargon

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Nel condividere un post sulla storia di Sargon d’Akkad, ho scritto una battuta sul fatto che, se gli scrittori di fantasy conoscessero meglio la storia dell’Età del Bronzo, probabilmente dalle loro penne uscirebbero romanzi ancora più affascinanti di quelli del ciclo de Il Trono di Spade.


Ciò vale anche per i tre figli di Sargon e della regina Tashlultum: i due maschi, Rimush, il cui nome significa l’Amato, Manishtushu, ossia Chi è con lui?, e la figlia minore Enḫeduanna, che tradotto in italiano è Sacerdotessa ornamento della dea.


Da quello che sappiamo dalle cronache accadiche, Rimush e Manishtushu erano gemelli: ora, non sappiamo bene per quale motivo, come ben dice il suo nome, era il prediletto di Sargon, tanto da essere nominato suo successore.


Manishtushu, però non gradi tanto la decisione e sin dall’ascesa al trono del gemello, cominciò a complottare per scalzarlo: per prima cosa istigò la rivolta degli ensi sumerici, che sotto il regno del padre avevano progressivamente visto perdere il loro potere e la loro autonomia a favore dei funzionari accadici.


Stavolta, però, invece di preferire il loro passatempo tradizionale, litigare tra loro, al combattere Rimush, come era successo al tempo di Sargon, fecero fronte comune, nominando un leader, Lugalanne, che gli accadici interpretarono come un nome proprio, ma che probabilmente è l’equivalente sumerico di grande capo.


Rimush, nonostante fosse un grande guerriero come Sargon, sudò le proverbiali sette camicie per domare la rivolta sumerica: il tutto perchè Lugalanne, che in teoria avrebbe dovuto appoggiare l’ascesa al trono di Manishtushu, in cambio di una sorta di autonomia feudale per i signori sumerici, tentò un colpo gobbo ai danni dei due gemelli.


Infatti, invece di dichiararsi a favore di Manishtushu e di appoggiare la fazione dell’esercito e della corte che lo appoggiava, chiese e ottenne l’alleanza dell’Elam, che poco gradiva il controllo accadico sulle vie carovaniere, e di Kazallu, sulla cui effettiva identificazione c’è un forte dibattito tra gli archeologi.


La posizione maggioritaria ritiene che fosse una sorta di città mercato degli amorrei, che, a causa della loro economia pastorale, poco gradivano l’estensione dell’agricoltura secca a nord della Mesopotamia favorita da Sargon. Una posizione minoritaria, la identifica invece con Teppe Hasanlu nella porzione iraniana dell’Azerbaijan, a sud del lago di Urmia, sito famoso per la tomba degli amanti, il che ricondurrebbe la sua alleanza con i ribelli sumerici a un tentativo di opposizione al controllo accadico ai commerci e alle miniere.


In ogni caso, Rimush, riuscì a ricondurre, grazie a quantità industriali di randellate in capo, i sumeri a miti consigli; però, ahimè, non riuscì a godersi a lungo i frutti della vittoria. Manishtushu, si infilò nel talamo di sua moglie, spacciandosi per lui, la sedusse e con lei organizzò una congiura di palazzo. Così Rimush fu sgozzato nel sonno dal fratello gemello, che diede la colpa di tutto ai perfidi elamiti.


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Nonostante questi trascorsi turbolenti, Manishtushu non sfogò i suoi istinti omicidi sui sudditi, che, probabilmente per tenerselo buono, nelle tavolette dell’epoca lo ricordano come un re giusto e misericordioso. Tra l’altro, per sottolineare l’unità dei popoli dei suoi domini, cambiò la titolatura reale, rispetto a quanto adottato dal padre e dal gemello.


Invece di farsi chiamare “Re di Accad” e Lugal-kalam-ma, “Re del paese di Sumer”, prese il nome di lugal-kiš, Re della Totalità. Così,mentre la sua politica interna era orientata al mantenimento della pace e della tranquillità, Manishtushu riprese la politica estera aggressiva di Sargon.


Per prima cosa, con la scusa di vendicare il gemello, invase l’Elam: in verità voleva fargli pagare con gli interessi l’appoggio dato a Lugalanne, che vedeva come una sorta di tradimento, e riaffermare il controllo accadico sulle vie carovaniere.


Poi, invase l’area del Golfo Persico, per rafforzare il suo dominio sulla parte terminale delle rotte marittime che collegavano la Mesopotamia con la Valle dell’Indo,da cui arrivavano legni, tra cui forse l’ebano, stagno, oro, argento e rame di una qualità diversa da quello dell’Oman, metalli utilizzati per creare gioielli, decorazioni ed armi.  Le esportazioni sono ancora tema di dibattito: probabilmente ceramiche, granaglie, stoffe e tappeti di lana, datteri, olio.


La conferma degli intensi e duraturi scambi tra la Mesopotamia e la civiltà harappana dell’Indo è testimoniata anche dal ritrovamento di sigilli a stampo quadrangolare, tipici dell’Indo, in contesti geografici mesopotamici. Si suppone anche la presenza di mercanti e artigiani indiani trapiantati nelle città della Mezzaluna fertile.


Commercio che avveniva in maniera alquanto peculiare: le barche fluviali sumere potevano scendere i fiumi con il favore della corrente e potevano tutt’al più svolgere qualche servizio di piccolo cabotaggio nell’ultima parte del percorso, vicino alla foce dell’Eufrate, ma non erano certo adatte alla navigazione marittima. Nella documentazione sumera non si trova alcun accenno a barche in grado di affrontare la navigazione in mare aperto fino all’India o all’Africa. Al massimo, con le loro zattere a vela, potevano seguire la costa della penisola arabica fino a Bahrein e forse anche più a sud.


Talvolta le navi straniere risalivano l’Eufrate e i canali navigabili collegati con il fiume per raggiungere i porti interni: la città di Ur, ad esempio, possedeva addirittura due porti ed era un centro di traffici molto importanti. Però, per la maggior parte, le navi straniere “d’alto mare” si fermavano nel Bahrein, per trasbordare le loro merci nelle barche fluviali sumere. Per cui, per Manishtushu era di fondamentale importanza il controllo di quelle isole.


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Tutte queste vicende impattarono anche sulla vita della sorella minore, Enḫeduanna. Il suo nome venne scoperto su due grandi sigilli, rinvenuti nel Cimitero Reale di Ur. Il più importante artefatto collegato a lei è uno splendido disco di alabastro, che contiene non solo il suo nome, ma anche altre informazioni sul suo conto. Venne trovato nel Giparu del tempio di Ur, probabilmente il luogo dove Enheduanna viveva. E’ datato 2000-1800 a.C. e si trovava vicino alla statua di una sacerdotessa, probabilmente la stessa Enduhanna. L’iscrizione sul disco recita


“Enheduanna, sacerdotessa zirru, sposa del dio Nanna, figlia di Sargon, re del mondo, nel tempio della dea Inanna”.


Enḫeduanna è probabilmente la prima poetessa della storia di cui abbiamo il nome. La sua opera principale è Nin-me-šárra (Signora di tutti i “Me”), che noi moderni chiamiamo “L’esaltazione di Inanna”, lungo 153 versi, che racconta le sue avventure ai tempi del fratello Rimush.


Come detto, per la politica di Sargon di alleanza e controllo delle alte gerarchie religiose sumeriche, Enḫeduanna divenne sacerdotessa del dio poliade della città, Nanna; ai tempi della rivolta di Lugalanne, per non essere scuoiata viva e impalata, scappò in fretta e furia nella steppa.


L’inno, di conseguenza, prende quindi la forma di invocazione, affinché gli dèi liberino dall’esilio la sacerdotessa e maledicano il perfido Lugalanne, e si conclude con l’invocazione alla dea Inanna, affinché conceda il ritorno vittorioso della dea, e della sua grande sacerdotessa, nel santuario di Ur. Tale opera ebbe un profondo riconoscimento nella stessa letteratura religiosa sumerica, considerata in quell’ambito come uno dei dieci componimenti religiosi più notevoli, l’unico di cui peraltro conosciamo l’autore.


Di seguito l’incipit di tale componimento


Signora di tutti i Me, risplendente di luce

Donna virtuosa, vestita dello splendore divino, diletta del Cielo e della Terra

Ierodula del dio An, con il grande diadema

Colei che ama la tiara consona alla grande sacerdotessa

La cui mano impugna tutti i sette Me

O mia Signora, tu sei la guardiana di tutti i grandi Me

Tu hai riunito i Me, tu hai legato i Me alle tue mani

Tu hai raccolto i Me, tu hai stretto i Me al tuo petto

Come un drago, tu hai lanciato il veleno sui territori dei nemici

Quando tu ruggisci alla terra come il dio della Tempesta, la vegetazione non può resisterti

Come un diluvio discendi dalla tua montagna

O potente del cielo e della terra, tu sei Inanna

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Published on November 06, 2019 13:30

The negative Eastern Roman (‘Byzantine’) attitude towards a conception of warfare as a divinely ordained means of religion

Novo Scriptorium


The concept of ‘holy war’ is defined and distinguished by two core ideas: First, by the idea that warfare is arbitrarily justified as divine order, i.e. command; second, that warfare is perceived and propagated as a means of religion employed against infidels or heretics, thus granting the believer-warriors absolution and sanctification.


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Published on November 06, 2019 11:12

November 5, 2019

Quattro Novembre

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Ieri ci sono stati due anniversari: il primo, più o meno noto a tutti, è la fine della Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano. Il 23 ottobre, il nostro esercito, dopo uno sproposito di polemiche e discussioni tra Diaz, Caviglia, Cavallero e Badoglio, sottoposti alle pressioni di Roma, che aveva bisogno di in successo da giocarsi sul tavolo della pace per ottenere il rispetto, da parte degli alleati, delle clausole sottoscritte nel trattato di Londra.


Sempre per bieca politica di arruffianamento nei confronto di inglesi e francesi, il comando della 10ª Armata affidata al generale britannico Frederick Cavan, e della 12ª Armata comandata dal generale francese Jean César Grazian; entrambi servirono come frigorifero al polo e la furbata di Vittorio Emanuele Orlando gli si rivoltò contro, dato che favorì l’enfatizzazione propagandistica da parte anglo-francese di un presunto ruolo decisivo degli Alleati nella Vittoria, cosa che costituì un alibi nel non rispettare quanto promesso per spingere l’Italia in guerra.


Nella zona Ponte della Priula-Grave di Papadopoli, nei primi giorni l’ingrossamento del Piave in piena travolse le passerelle gettate e non permise un facile sfondamento. Dopo aver attraversato il Piave, il XXIV Corpo d’armata al comando del generale Enrico Caviglia liberò Vittorio Veneto (al tempo il suo nome era solo “Vittorio”, “Veneto” fu aggiunto nel 1923), avanzò in direzione di Trento, e mandò i reparti celeri (la cavalleria) all’inseguimento del nemico in ritirata. Il 28 ottobre fu proclamata l’indipendenza della Cecoslovacchia, con conseguente disfacimento dell’Austria-Ungheria, che il 29 ottobre chiese la resa.


Il giorno successivo giunse a Villa Giusti la commissione austriaca alla quale furono sottoposte le clausole del testo. L’armistizio fu ivi firmato alle 3.20 del pomeriggio del 3 novembre 1918 ed entrato in vigore il 4 novembre alle ore 15:00.


Spesso mi domando cosa abbiano provato o che sia passato nella mente, proprio un secolo fa, ai miei bisnonni, quando si resero conto che la mattanza in cui erano stati spediti tre anni prima, era improvvisamente finita. Il fatto che dopo tutti gli orrori che hanno vissuto, dopo avere incontrato il peggio dell’umanità, abbiano avuto la forza di voltare pagina e di tornare alla vita normale, mi fa veramente ammirare la loro forza d’animo. Non so veramente quanti di noi, oggi, ce l’avrebbero fatta.


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L’altro anniversario è meno drammatico, però altrettanto importante, dato che è l’anniversario della data di nascita di un uomo poco noto, ma che, con il suo lavoro ha cambiato il nostro modo di vivere, aprendo la strada alla singolarità: Charles Kuen Kao.


Chi sarebbe costui ? Il papà della Fibra Ottica… Per sapere di più della sua vita, scopiazzo qualche informazione dall’ AIF, Associazione per l’insegnamento della Fisica.


La sua famiglia proveniva da Zhangyan, vicino a Shanghai: il nonno Kao Ch’ui Wan era un famoso poeta e letterato durante la dinastia Qing, il padre Kao Chun Hsin si laureò in legge alla Michigan Law School negli USA e fu nominato giudice cinese alla Court for International Law e professore alla Soochow University, trasferendosi con la famiglia a Shanghai.


Ebbe due figli che sopravvissero, Charles Kuen e Timothy Wu, poi ingegnere civile e professore emerito alla Catholic University of America a Washington, DC. I due fratelli vissero in un ambiente famigliare di una certa agiatezza, molto protettivo, e furono istruiti a casa da educatori privati fino a dieci anni quando frequentarono le scuole, sviluppando così un carattere poco loquace e schivo.


Frequentò una scuola primaria internazionale, in una zona residenziale abitata da famiglie straniere o di alto livello sociale e poco toccata dalla guerra cino-giapponese, ma, dopo l’avanzata dell’Armata Rossa rivoluzionaria, la famiglia decise di lasciare la Cina nel 1948, prima per Taipei poi per Hong Kong, dove abitavano alcuni parenti. (Una storia simile alla famiglia di Li er barista)


Qui frequentò il St. Joseph’s College, con ottimi risultati agli esami finali nel 1952, e decise di studiare ingegneria elettronica a Londra al Woolwich Polytechnic (ora Università di Greenwich), dove si laureò nel 1957.


Per non gravare ulteriormente sulla famiglia, cercò un lavoro alla Standard Telephones & Cables (STC), una consociata inglese della ITT (International Telephone & Telegraph Co.) a North Woolwich, nella divisione che si occupava di microonde. (Piccola nota, l’ITT all’epoca leader mondiale nella produzione di cavi telefonici, ebbe la sfortuna di essere assorbita da Nortel, società che, in una sorta di cupio dissolvi, nonostante i brevetti, le competentenze e il boom di internet, riuscì a fallire nel 2009)


Qui conobbe Gwen (May-Wan Wong), ingegnere che lavorava al piano di sopra, che sposò nel 1959 e dalla quale ebbe un figlio e una figlia, entrambi ora residenti nella Silicon Valley in California. Aveva ottenuto un posto da docente al Loughborough Polytechnic, ma gli venne offerto dalla STC di rimanere con loro e trasferirsi ai laboratori di ricerca di Harlow. Da allora lavorò per i successivi trent’anni per ITT in varie sedi in Europa e USA.


Ad Harlow iniziò a lavorare nel gruppo di Toni Karbowiak, guidato da Alec Reeves, allo studio di guide d’onda ottiche per telecomunicazioni, in particolare sull’attenuazione del segnale, convincendosi che fosse dovuta in gran parte alle impurità del materiale. (Tema di una noia mortale, detto fra noi; ho ancora gli incubi relativi ai capitoli che ne trattavano in Campi Elettromagnetici I)


Nel 1963 fu posto a capo del gruppo di opto-elettronica quando Karbowiak lo lasciò per un posto alla University of New South Wales (UNSW) di Sydney, Australia, e rivolse la ricerca verso le proprietà dei materiali, insieme a George Hockham.Nel frattempo, nel 1965, ottenne il Ph.D. in ingegneria elettronica all’University College di Londra con la supervisione di Harold Barlow.


I risultati delle sue ricerche, contenenti la proposta di usare fibre ottiche per le telecomunicazioni e le caratteristiche strutturali dei materiali usati, furono presentati alla IEE nel 1966 e pubblicati insieme a George Hockham in Dielectric-fibre Surface Waveguides for Optical Frequencies (Proc. IEE 113 (7), 1151–1158, 1966).


In particolare conclusero che la soglia limite di attenuazione per comunicazioni ottiche fosse inferiore ai 20 dB/km, mentre le fibre ottiche allora in commercio avevano attenuazioni anche di 1000 dB/km e si aprì così una corsa alla realizzazione di fibre con materiali a bassa attenuazione.


La proposta di usare fibre di vetro per trasmissione a grande distanza di informazioni, sostituendo i cavi in rame, fu allora considerata poco credibile e abbastanza trascurata, più tardi rivoluzionerà la tecnologia e l’industria della comunicazione.


Lo stesso Kao avrà un ruolo trainante nella realizzazione tecnica e commerciale delle comunicazioni ottiche; nel 1966 si recò negli USA, ma non riuscì a convincere i Bell Labs, mentre ottenne consenso in Giappone dove visitò fabbriche di vetro e polimeri, discusse con molte persone, ingegneri, scienziati e uomini d’affari, sul miglioramento della costruzione di fibre di vetro.


Quando nel 1969, insieme a M.W. Jones, misurò la perdita intrinseca di silicio fuso di 4 dB/km, aprendo la strada ai vetri ultratrasparenti, i Bell Labs cominciarono a prendere sul serio le fibre ottiche e la Corning Glass nel 1970 produsse la prima fibra ottica con attenuazione di 17 dB/km.


Nel 1970 fu chiamato dalla Università Cinese di Hong Kong (CUHK), con un periodo quadriennale di congedo da STL, per fondare un Dipartimento di Elettronica, dove era insegnante e Direttore, istituendo un corso di studio sia di laurea che di dottorato.   L’industria nata attorno alle fibre ottiche stava cominciando a rivoluzionare le telecomunicazioni, così la ITT lo volle alla sua sede di Roanoke in Virginia, USA, dove diventò Vice Presidente e poi Direttore della divisione dei prodotti optoelettronici.


In quel periodò continuò a viaggiare per i laboratori di ricerca di tutto il mondo per discutere e visionare i loro progressi e gli ultimi sviluppi della comunicazione che crescevano esponenzialmente.


Nel 1982 fu nominato responsabile di tutta la ricerca e lo sviluppo di ITT, un posto creato appositamente per lui, e si trasferì al loro Advanced Technology Center in Connecticut. Qui lanciò il progetto ‘Terabit Optoelectronics Technology’, per esplorare le tecnologie necessarie per raggiungere il limite di trasmissione di un Tbit/s, che coinvolgeva dieci tra università e industrie


Nel 1985 fu nominato Direttore Generale della Ricerca di ITT e Professore al Trumbull College della Yale University. A quel tempo la capacità di inviare comunicazioni era enormemente cresciuta ed era nato Internet.


L’università Cinese di Hong Kong lo chiamò ancora nel 1986, come Presidente dell’Università, e si trasferì anche perché ITT stava cedendo la sua divisione tecnica negli USA ad Alcatel, una ditta francese. Nei nove anni cercò di implementare le attività di ricerca dell’Università, istituì la Facoltà di Ingegneria, sviluppando il settore della tecnologia dell’informazione e una Facoltà per formare insegnanti, e raddoppiò gli iscritti portandola a competere con le migliori università straniere.


Dopo il suo ritiro nel 1996, continuò a tenere lezioni periodicamente all’Imperial College di Londra e a fornire consulenze nel Sud-Est asiatico con una sua ditta, la Transtech Services Ltd, e poi con ITX Services, e a partecipare a comitati consultivi governativi sull’energia ad Hong Kong fino agli anni duemila.  Nel 2003 fu chiamato ad una cattedra speciale all’istituto di Elettronica del College of Electrical Engineering and Computer Science all’Università di Taiwan. Dal 2005 soffre del morbo di Alzheimer e dal 2008 si è stabilito a Mountain View in California, vicino ai figli e nipoti.


Nel 2009 fu insignito del Premio Nobel per la Fisica per groundbreaking achievements concerning the transmission of light in fibers for optical communication. In quell’anno 2009 si celebrava il centenario del Nobel a Guglielmo Marconi per avere aperto la strada alle comunicazioni via radio. Ha pubblicato più di 100 lavori e ottenuto più di 30 brevetti, tra cui quello per le fibre resistenti all’acqua e di alta resistenza usate per i cavi sottomarini a fibre ottiche.


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Ora, se i server sono i motori della singolarità, la fibra ottica ne è il tessuto connettivo: la potenza computazionale, serve a poco, se i risultati dei suoi calcoli non possono essere condivisi e distribuiti con una rete a grande disponibilità di banda e a bassa latenza.


Perchè, la differenza tra la legge di Metcalfe e di Reed, ossia di come cresce il valore di una rete, non dipende dal numero di nodi, ma dalla loro crescente capacità di interagire e scambiarsi informazioni, cosa abilitata proprio dalla fibra.


Ma come siamo messi in Italia? A dire il vero, la situazione reale è assai meno tragica di quanto tendono a descriverla i giornali. L’Agcom che mette anche a disposizione una propria mappa con i dati di copertura del territorio), il 60% delle famiglie è stato raggiunto ormai da rete fissa con velocità di 30 Mbit/s o superiore. Di queste, il 35.3% viaggia a più di 100Mbit/s.


Poi, se togliamo dal computo zone effettivamente difficili da coprire per motivi oggettivi (il Reatino, la provincia dell’Aquila, tra l’altro flagellate dal terremoto, il Sannio, alcune province della Sardegna, la Val d’Aosta e l’intero arco alpino) la media diventa si alza al 73% per i 30 Mbit/s e il 50% per i 100 Mbit/s (a fronte di una media europea rispettivamente dell’80% e del 58%).


In compenso, il trend di crescita nella copertura del nostro paese in questo settore è il primo in Europa: +43,1% contro una media europea di poco più del 15%; il vero problema è la scarsa tendenza delle famiglie italiana, a differenza delle imprese, ad aprire il portafoglio per usufruirne dei servizi.

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Published on November 05, 2019 12:45

Medieval Mediterranean Slave Trade – Slaves in the Eastern Roman (‘Byzantine’) World

Novo Scriptorium


Slavery has existed throughout history in different parts of the world and in different civilizations.


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Published on November 05, 2019 10:34

Il Prometeo incatenato di Eschilo

Studia Humanitatis - παιδεία


di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca, 2, A. Il teatro, Messina-Firenze 2004, pp. 71-73; 80-82.





L’autore

Eschilo. Busto, bronzo, II-I sec. a.C. dalla Meloria. Firenze, Museo Archeologico.





Eschilo, figlio di Euforione, nobile proprietario terriero e discendente da un’antica stirpe, nacque vicino ad Atene, a Eleusi, centro del culto misterico di Demetra e di Persefone, nel 525 a.C. tutta quanta la sua vita si svolse in uno dei periodi più intensi e significativi della storia politica ateniese, interna ed estera. Adolescente, egli assistette alla congiura contro i Pisistratidi e alla cacciata di Ippia, con cui si concluse il regime tirannico; a esso fece seguito la riforma democratica di Clistene, fondata su base territoriale, che garantì la fusione e la concordia sociale delle classi che componevano la cittadinanza ateniese.



Eschilo iniziò la sua attività drammatica, continuata poi fino alla morte, in occasione…


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Published on November 05, 2019 10:31

November 4, 2019

Grotta Ipogeo di Piagge


Il buon Poe, ne La lettera Rubata, evidenziò come il modo migliore per nascondere una cosa, è metterlo sotto gli occhi di tutti; concetto che è ben evidenziato in uno dei cosiddetti luoghi misteriosi delle Marche, la cosiddetta Grotta Ipogeo di Piagge, situata in una frazione del comune di Terre Roveresche.


Ipogeo situato proprio nel centro storico, in prossimità dell’ingresso medievale del castello, per decenni aveva svolto la funzione di cantina e magazzino; tra gli abitanti del paesino, infatti, c’è chi ricorda di avervi conservato lonze, formaggi e prosciutti.


Nel 1996, un architetto e studioso di storia locale, Gabriele Polverari, in una ricerca storica su Piagge, all’epoca comune autonomo, scopri il vero valore dell’ipogeo, che è statoaperto al pubblico il 2 settembre 2016, dopo circa quattro anni di lavori per la messa in sicurezza e restauro.


Così, scendendo una rampa di gradini scavati nel tufo, appartenuti probabilmente all’antico ingresso delle mura del castello, ci si ritrova in ipogeo con impianto basilicale e pianta cruciforme dove al corpo principale si incrociano le braccia secondarie ortogonali; se fossimo nel Sud Italia, parlemmo senza problemi di una chiesa rupestre.


Impressione amplificata dalla presenza di nicchie e della peculiare decorazione, caratterizzata dal “Fiore della Vita”, quello che Bossi ha chiamato impropriamente “Sole Padano”, che nell’immaginario medievale indicava la Creazione, dato che i lobi richiavano i sei giorni della Genesi, e l’intrinseca razionalità dell’Universo, e della presenza del Giglio, simbolo di integrità e moralità.


Ora, proprio questa decorazione porterebbe a escludere qualsiasi orgine paleocristiana, dato che all’epoca non era assolutamente presente e orienterebbe la costruzione attorno al 1200, quando questi simboli decorativi diventano di uso comune.


Per cui, possono essere formulate un paio di ipotesi sulla sua origine, una più fascinosa e una più terra, terra.


L’ipotesi fascinosa fa riferimento ai Templari, che usavano decorare le loro commende con tali simboli: per cui, l’ipogeo potrebbe essere una sorta di cappella, connessa, come in altre località marchigiane, a una domus che svolgeva sia un ruolo di gestione della proprietà agricola, sia di xenodochium per i pellegrini diretti ad Ancona, per imbarcarsi per la Terra Santa.


Cappella parzialmente smantellata dopo la condanna dell’Ordine; ipotesi purtroppo non supportata da nessuna fonte.


Quella più terra terra, fa riferimento ad analoghe esperienze abruzzesi, dove decorazioni del genere risultano essere associate ad eremi benedettini: ora Piagge, storicamente, è appartenuta, sino al 1300 inoltrato ai domini dell‘Abbazia benedettina di San Paterniano, distrutta a fine Quattrocento, per cui è possibilissimo che si tratti di un eremo frequentato da qualche monaco particolarmente asociale o in vena di penitenza…

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Published on November 04, 2019 05:43

The therapeutic use of sport in the Eastern Roman Empire

Novo Scriptorium


Exercises that aimed at maintaining and promoting health are found in the Byzantine literature under the terms physiotherapeutic and training gymnasiums.


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Published on November 04, 2019 04:18

November 3, 2019

San Clemente a Casauria (Parte I)

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Uno dei luoghi più affascinanti dell’Abruzzo è senza dubbio l’abbazia di San Clemente a Casauria, fondata come ex voto dall’Imperatore Ludovico II, pronipote di Carlo Magno, nell’871, a seguito delle complesse vicende che lo videro prima collaborare con i bizantini nella distruzione dell’Emirato di Bari, poi finire prigioniero del suo ex alleato, il duca longobardo di Benevento.


Secondo il Chronicon Casauriense, un cartularium, ossia come una raccolta di atti di acquisto, vendita, privilegio, donazione e di altri documenti regali o papali relativi alla costituzione del patrimonio dell’abbazia, redatto verso la fine del XII secolo, dal monaco Giovanni di Berardo (Johannes Berardi) che agì su impulso dell’abate Leonate, per difendere le proprietà di San Clemente dell’avidità dei vicini baroni normanni e per ridurre al minimo le tasse pagate agli Altavilla, l’imperatore Ludovico rimase talmente affascinato dalle bellezze del luogo, ricco di


“cervi che popolano selve, aquile che nidificano sovrane in rupi precipiti, falchi rapaci, fiumi ricchi di trote e di anitre selvatiche, fiumi in ogni modo ricchi di pesci…”


nella cosiddetta Insula Piscariense o casauriense, vicino una chiesa dedicata a S. Quirico e lungo le sponde del fiume Pescara che sin dall’801 aveva diviso naturalmente i confini dei ducati longobardi di Spoleto e Benevento.


Il motivo, ovviamente, era assai più politico, che religioso: a Ludovico serviva un avamposto, controllato da un ecclesiastico fedele, per tenere a bada gli inquieti e intriganti ducati longobardi del Sud, spesso e volentieri alleati e protetti dall’Abate di Montecassino.


Dedicato inizialmente alla SS. Trinità il cenobio,con l’attiguo convento sorto secondo la regola di San Benedetto, mutò successivamente nome con l’acquisizione delle ossa di San Clemente nell’872: nell’architrave del portale d’ingresso è raffigurata la leggenda della traslazione.


San Clemente Papa, a cui è dedicata una spledida chiesa nella valle tra l’Esquilino e il Celio, fu forse il terzo successore di S. Pietro, nel 96 o 97 sarebbe stato gettato in mare in Chersoneso per ordine di Traiano con un’ancora attaccata al collo; i suoi resti vennero ritrovati da Cirillo e Metodio, gli apostoli degli Slavi e riportati a Roma nell’868.


Il primo abate è Romano, scelto per santità di costumi ma anche per una saggia amministrazione dei beni; le prerogative eccezionali e le ripetute donazioni concesse prima da Ludovico II e poi dai suoi successori (il diritto di eleggere l’abate in maniera autonoma, il diritto di giurisdizione civile sui territori soggetti, l’uso dello scettro) portano l’abbazia dotata inizialmente di dodici moggi di terreno appartenenti alla diocesi di Penne ad averne millenovecento l’anno successivo.


Nel 911 fu abate Lupo, e accrebbe i beni territoriali sino ad arrivare alla costa del mare Adriatico, al massiccio della Majella e ai fiumi Pescara e Trigno, di fatto coprendo buona parte della regione. La ricchezza dell’abbazia, però, cominciò a fare gola alle bande di Saraceni, che sfruttando la complessa politica locale, bazzicavano il Sud della Penisola, che nel 916 saccheggiarono l’area; i monaci, per non sapere né leggere, né scrivere, se la diedero a gambe levate e il monastero, secondo il Chronicon


ut nihil funditus in eo remaneret


Passato il pericolo, i monaci si rifecero vivi e, sotto l’abate Alparo, cominciarono a recuperare le cose perdute e ad iniziare i lavori di restauro. Dato che Enrico I, impegnato nel suo duello mortale con i nomadi magiari, aveva tutt’altro a che pensare che a un’abbazia in Abruzzo, il tentativo di battere cassa per farsi finanziare i lavori dall’Imperatore fallì miseramente.


Per cui, per coprire le spese impreviste, i monaci dovettero vendere e a prestare terre; in un modo o nell’altro i lavori terminarono nel 970, realizzati al risparmio, tanto che nel 1025 l’abbazia mostrava nuovamente i segni dello sfacelo. Di conseguenza, a malincuore, vedendo


ruinam parietum, fracturas domorum, pane et vino penum vacuum, nudos fratres, destructum monasterium


l’abate Guido dovette mettere mano alle tasche. Sempre nel tentativo di ottenere qualche finanziamento dall’Imperatore,nel 1047 l’abate Domenico spedì un’ambasciata a Enrico III di Sassonia, il quale, si limitò a concedere solo un diploma, più teorico che reale, visto che agli inquieti nobilastri abruzzesi poco importava di quei proclami, di conferma dei beni dell’abbazia, senza accompagnarlo neppure da un’oncia d’ora.


Per cui, imparata la lezione, gli abati non si rivolsero più all’imperatore per tutelare i loro diritti e ottenere denari, bensì al papa, assai più vicino e interessato alle vicende abruzzarsi. Nel 1051 il nuovo orientamento della politica monastica, articolato nella fedeltà ai pontefici, era in fase di avanzata attuazione.


Il che fu una fortuna per i monaci, che all’orizzonte apparve presto una nuova rogna, i normanni, che stavano allungando i loro tentacoli sull’Abruzzo. Il capofila di quest’orda di cavallette fu il condottiero Hug de Malmozet, Ugo Malmozzetto (cioè “brutto ceffo”), comandante al servizio di Roberto di Loritello, braccio destro del Guiscardo, che si insediò ad Ortona e da lì cominciò una serie di aggressioni violente e vittoriose ai danni dei Signori e degli Abati dell’Abruzzo costiero e pedemontano, allo scopo di arraffare il più possibile e di farsi nominare Conte dagli Altavilla.


Nel 1066 Ugò attaccò Penne e la occupa, spodestando l’assente Conte in carica, Bernardo o Berardo di antiche origini franche, che, grande seguace della teoria


la miglior difesa è la fuga


si era già rintanato nel Monastero di San Bartolomeo di Carpineto fatto costruire nel 962 dal suo antenato omonimo e da cui in quello stesso 1066, scacciandone a pedate i monaci. Avutane notizia, Malmozzetto si portò all’assedio dello stesso Monastero, costringendo il defraudato Conte alla fuga e liberando il Monastero dagli scrocconi laici, per farvi poi tornare i legittimi proprietari.


Fu così che nella “Cronaca” del Monastero di San Bartolomeo, redatta alla fine del secolo successivo dal Monaco Alessandro sulla base dei documenti conservati nell’archivio abbaziale, il condottiero normanno viene descritto come un uomo giusto e magnanimo, amico di Dio e dei Cristiani, generoso, forte e molto bello, a dispetto del suo soprannome.


Nonostante questo, Gregorio VII poco si fidava di Ugo, tanto che Papa Gregorio VII, nel 1074, nominò vescovo di Valva ed abate di San Clemente a Casauria Trasmondo, figlio di Odorisio, Conte dei Marsi, e fratello di Attone, vescovo di Chieti, e di Desiderio, abate di Montecassino.


Trasmondo, per contrastare le ambizioni di Ugo, iniziò subito a realizzare il castello di Popoli, il monastero-fortezza di S. Benedetto in Perillis ed altre fortificazioni. Inoltre, per consolidare il suo prestigio vescovile, Trasmondo, nel 1075, cominciò a restaurare la Chiesa forse già intitolata a S. Pelino e, a protezione di questa, fondò il “Castrum de Pèntoma”, poi divenuto “Pentima“.


Fu tutto inutile; nel 1076, Ugo penetrò nei territori dell’abbazia e, incurante delle minacce di scomunica di Gregorio VII, piegò la resistenza dell’energico abate Trasmondo incarcerandolo e devastando il cenobio. Ovviamente, viste queste vicende, il Chronicon descrive un Ugo ben diverso da quello che appare dai documenti di San Bartolomeo: un ometto deforme, sfregiato nel volto da una lunga cicatrice obliqua, iracondo e violento, appassionato di stragi e stupri, ignorante e puzzolente


Per circa un ventennio l’abbazia subì i più umilianti arbitrii e le più capillari spoliazioni complice anche la mutata politica del papa, impegnato nella Lotta delle Investiture, che nel 1080 a Ceprano aveva raggiunto un accordo con i normanni per cui, pur di averne l’appoggio, aveva finito di avallarne l’operato.


La fortuna, però, girò dalla parte dei monaci: nel tentativo di congiungersi all’altra colonna dei Normanni, in marcia verso Avezzano, lungo la valle del Liri, l’esercito di Malmozzetto cinse d’assedio Prezza. Ma qui la sua epopea si fermò qui, in quanto i prezzani, con uno stratagemma, lo attirarono ad un convegno amoroso con la contessa Sansonesca, di cui si era invaghito, lo imprigionarno chiudendolo in una segreta e buttando la chiave.


La notizia fu celebrata dai monaci, tanto che Chronicon Casauriense indugiò sulla descrizione della cattura con dovizia di particolari paragonando la vicenda a quella di Sansone e Dalila o di Giuditta e Oloferne, e l’abbazia ricominciò a prosperare, grazie anche a una serie di abili abati.


Il primo fu l’abate Grimoaldo che nel 1097 incontrò papa Urbano II a Chieti, impegnato a raccogliere mercenari da spedire in aiuto ad Alessio Comneno, vicenda che, in maniera alquanto inaspettata per Papa e Basileus, si trasformò nella Prima Crociata.


Grimoaldo, dopo avere narrato a Papa tutte le peripezie subite dal cenobio ottenne come segno di potestà non lo scettro, ma l’anello e il pastorale; al di là dell’aspetto coreografico dell’incontro tramandatoci dal Chronicon Casauriense c’è dunque da registrare il passaggio dell’abbazia dal potere temporale a quello spirituale.


In più, l’abate decise di buttarsi nel business del pellegrinaggio, sfruttando il fatto che il monastero stava sulla strada che portava santuario di San Michele Arcangelo sul Garbano; ritirò fuori le reliquie di San Clemente, le piazzò all’interno dell’altare maggiore e, con l’occasione, organizzò un’opportuna festa.


L’arrivo dei pellegrini, portò parecchio soldini all’abbazia, così Grimoaldo ne approfittò per cominciare i grandi lavori di ristrutturazione: fece costruire sul lato settentrionale del monastero il palazzo abbaziale, facendolo riccamente decorare con pitture ispirate all’antico Testamento, e una serie di camere del tesoro, per custodire i preziosi dell’abbazia, tra cui una croce d’argento del peso di 15 libbre, un calice d’oro puro del peso di una libra per la celebrazione eucaristica nelle principali festività del calendario cristiano e un messale con la copertina esterna d’argento per le celebrazioni domenicali e festive.


L’opera di ricostruzione continuò anche con gli abati successivi; con Gisone nel 1113 viene edificata la sacrestia dove venivano conservati i tesori e i paramenti della Chiesa – in quegli anni era attivo anche un infirmatorium (ospedale) – apparendo sempre di più l’abbazia non solo realtà religiosa ma anche organizzata istituzione sociale. Al suo successore Oldrio si devono l’ampliamento delle abitazioni dei monaci e l’erezione della torre campanaria.


Ma è soprattutto con Leonate, consacrato abate da papa Adriano IV nel 1156, che l’abbazia conobbe il periodo di maggior splendore. L’elezione di Leonate, già accolto nel monastero da Oldrio come oblato, fu contrastata da Ruggero II e dai conti normanni di Manoppello per la loro politica di usurpazione e confisca delle terre della chiesa; viceversa permise a papa Adriano IV di controllare una regione vicina ai territori pontifici, rappresentando Leonate uno strumento della politica pontificia nei confronti del regno normanno in un periodo di grande tensione.


Ricomposte le liti con i conti di Manoppello, l’abbazia ritrovò di nuovo prestigio e potenza recuperando i beni temporali. Cardinale, monarca di uno stato con oltre trenta castelli Leonate profuse ogni sua energia nella ricostruzione della chiesa: dopo aver raccolto somme di denaro e chiamato le più abili maestranze cominciò dal 1176 a trasformarla con intenti monumentali; morì però nel 1182 prima di portare a termine la sua opera e venne sepolto nella parte destra della chiesa in un tumulo preparato precedentemente. A Leonate successe l’abate Gioele al quale si devono le porte di bronzo dorate divise in compartimenti nei quali si legge il nome dei castelli soggetti all’abbazia.


La decadenza di San Clemente fu dovuta all’imprevista e inaspettata concorrenza dei monasteri dei Cistercensi nella val Pescara, come la Badia di Casanova e l’abbazia di Santa Maria Arabona, che minarono sia il potere, sia le rendite dell’abbazia.L’abbazia divenne “commenda” di Santa Maria Arabona e di Casanova,secondo l’uso invalso da parte della Sede apostolica di affidare (commendare) i monasteri in difficoltà economiche o disciplinari a prelati o cardinali per risollevarne le sorti; ma la tentazione di usarne i proventi per i propri interessi invece che per la restaurazione della vita monastica è assai forte e quasi tutti i commendatari vi cedono.


Nel XIV secolo, dei possedimenti avuti non rimangono che l’isola di Casauria, Alanno, il castello di Valignano e Castelvecchio Monacisco. Anche le calamità naturali concorrono alla sua decadenza; nel 1349 un terremoto arrecò danni ingenti (si rompe fra l’altro la colonna originale del candelabro) mentre nel 1456 un altro sisma definito dal Baratta “il massimo dei massimi” provocò gravi guasti: l’opera di ricostruzione è riconducibile ad un abate della famiglia Sangro.


Una piccola ripresa si ebbe con l’abate commendario Giovanni Battista Branconio dell’Aquila, personaggio straordinario, orafo e protonotaro apostolico, amico di Leone X e di Raffaello Sanzio.


Fu inoltre custode dell’elefante Annone, donato a Leone X dal re Manuele I del Portogallo nel 1514 ed alloggiato nei giardini del Vaticano. L’esotico animale, proveniente dall’India, divenne oggetto di curiosità per tutta la città venendo ritratto da molti artisti ma morì prematuramente già nel 1516; Branconio dedicò ad Annone un epitaffio latino.


Nonostante si riempisse le tasche con le rendite di numerosi beni ecclesiastici, forse perché di origine abruzzese, tratto sempre con riguardo Casauria, tanto da pagarne i lavori di ristrutturazione e ampliamento.


Nel 1703 e nel 1706 il complesso fu ulteriormente danneggiato dai terremoti, senza che gli abati commendari si preoccupassero delle riparazioni; Antonio Ludovico Muratori nel 1726 si rammaricò di trovare la sede deserta, le antiche rendite dissipate, quelle che rimangono gestite dagli abati nel loro personale interesse. Con una sentenza dell’8 agosto 1775 si decretò l’abbazia di regio patronato: Don Francesco Caracciolo ne diventa primo abate.


Nel 1799 vi alloggiarono le truppe francesi comandate dal generale Ruscha che la spoliano derubando il braccio d’argento con la reliquia di S. Clemente e bruciandone l’artistica statua. Nel 1850 venne trasferita alla diocesi di Diano, in provincia di Salerno, appena costituita. Con regio decreto del 1859 la chiesa ed il locale annesso furono ceduti ai francescani, che ne vengono successivamente espulsi a seguito dell’Unità d’Italia nel 1865 in forza della legge di soppressione degli ordini monastici; il fabbricato venne quindi ceduto nel 1869 al comune di Castiglione a Casauria, in virtù della legge 7 luglio 1866. Poi gli eventi precipitano; lasciata dai monaci e ridotta a magazzino, stalla, ripostiglio.


Così la ricorda D’Annunzio


Più di dieci anni fa, nell’adolescenza lontana, vidi per la prima volta l’Abbazia di San Clemente a Casauria. Mi parve, al primo sguardo, una rovina. Tutto il suolo intorno era ingombro di macerie e di sterpi; frammenti di pietra scolpiti erano ammucchiati contro i pilastri; da tutte le fenditure pendevano erbe selvagge.La cosa bella rimaneva perduta in quella solitudine, pericolante, sotto una continua minaccia, condannata forse a sparire


Per fortuna lo storico locale Piero Luigi Calore si fece in quattro per recuperare e valorizzare l’abbazia, ma nessuno se lo sarebbe filato, se non l’avesse aiutato il Vato, che così ricorda l’amico


Questo piccolo uomo di Pescosansonesco è riuscito a raggiungere quel che nessuno di forse raggiungerà mai. Egli si è composto un sogno e lo abita. Egli ha acceso in se amore e lo va alimentando… Questo piccolo uomo dal gesto veemente ama una grande cosa morta, e l’ama con tutte le forze della passione umana…


Di conseguenza, l’abbazia fu dichiarata munumento nazionale nel 1894 e fu oggetto finalmente di restauro… Il Vate, per celebrare l’evento, citò l’abbazia nell’ultima revisione del Trionfo della Morte


E si ricordò dell’abbazia di San Clemente a Casauria, veduta in un giorno lontano dell’adolescenza e si ricordò di averla veduta in compagnia di Demetrio. Come tutti i ricordi legati all’immagine del consanguineo, anche quello era lucido e preciso quasi fosse del giorno innanzi. Bastò ch’egli gli raccogliesse per rivivere quell’ora, per risuscitare i fantasmi di tutte le sensazioni. – Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l’abbazia che ancora gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitari e grandiosi, su quell’ampia via d’erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d’orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre.


“Voglio condurti a un abbazia abbandonata, più solitaria del nostro Eremo, piena di memorie antichissime: dov’è un gran candelabro di marmo bianco, un fiore d’arte meraviglioso, creato da un artefice senza nome… Dritta su quel candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima.

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Published on November 03, 2019 06:07

The Antikythera mechanism: an ancient Greek (2nd century BC) mechanical analog computer with gears

Novo Scriptorium


The Antikythera mechanism is an ancient mechanical analog computer (as opposed to digital computer) designed to calculate astronomical positions.


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Published on November 03, 2019 06:01

November 2, 2019

La Festa dei Morti a Palermo

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Anche se questa tradizione si sta progressivamente spegnendo, in Italia era uso, celebrare il giorno dei morti donando dolci particolare ai bambini, come a creare un ponte tra Passato e Futuro, tra il mondo della luce e quello tenebre.


Ad esempio, a Milano, si davano ai donavano ai bambini, il Pan di mort, dolce a base di pan di spagna, nocciole, mandorle, miele, uva sultanina, cacao e cannella, che in Valtellina veniva anche distribuito durante i funerali come segno di rappacificazione e di carità, le oss de mord, biscotti che ricordano le ossa, come dice il nome, e giocattoli, per ricordare loro la presenza degli avi.


Analoga abitudine, vi era a Palermo. Antonino Buttitta, celebre antropologo e storico delle tradizioni siciliane racconta infatti che


contrariamente a quanto si costuma nel resto d’Italia, in Sicilia e in qualche altro luogo del Meridione vige l’uso di fare le strenne ai fanciulli il 2 novembre, giorno tradizionalmente consacrato alla celebrazione dei defunti. I doni li portavano i morti per questo si lasciavano le porte aperte la notte fra l’uno e il due novembre.


Abitudine che essendo presente anche in Messico, nel “Dia de muertos”, farebbe pensare a una comune radice iberica, persa però con il tempo nella patria d’origine.


A Palermo, l’associazione regali e dolci, culminava nel “u cannistru”, il canestro pieno di delizie: l’immancabile frutta martorana, i crozzi ‘i mottu, che a differenza della versione milanese, sono duri e aromatizzata con chiodi di garofano, i taralli,ciambelle rivestite di glassa zuccherata, i nucatoli, biscotti a forma di S e aperti sulla superficie, da cui esce la farcia, un impasto variabile di fichi secchi, uva passa, miele o mosto cotto, noci o mandorle, scorza d’arancia o limone e aromi, i tetù e teio, biscotti il cui nome deriva dai termini dialettali “tieni tu – tetù” e “tengo io – teio”, ossia uno a me, uno a te, realizzati con pasta frolla con la farina di mandorla, il cui nome dotto, catalani, ne mostra la derivazione dai barcellonesi panellets, in catalano “paninetti”, piccole palline di marzapane ricoperti di pinoli.


E su tutti, dominavano i Pupi di zuccaru o Pupaccena, dolci antropomorfi, cioè a forma umana. statuette cave fatte di zucchero indurito e dipinto, che rievocano figure tradizionali quali Paladini di Francia, ballerini e personaggi tipici del teatro dei pupi siciliani.


Ci sono diverse diverse leggende sulla sua origine: alcune racconte di un nobile arabo caduto in miseria a offrirli ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo, mentre altre parlano di Enrico III di Francia, che, a Venezia, organizzò una pantagruelica mensa spettacolarizzata dalla presenza di queste sculture dolciarie, realizzate grazie ai marinai palermitani che avevano trasportato lo zucchero, che riportarono l’abitudine in patria.


Dato che, a Cadice, in Andalusia, nei giorni dei Santi e dei Morti si donano ai bambini bambolotti di frutta, verdura e frutta secca, che rappresentano in maniera umoristica la realtà sociale dell’anno, è probabile che l’origine dei Pupaccena sia araba e che nel Trecento, con il boom della produzione saccarifera palermitana.


Produzione che, per la grande quantità d’acqua necessaria, sia per irrigare le canne, sia per la loro lavorazione, si concentrava a Ponte Ammiraglio, Falsomiele (da qui il suo nome), Acqua dei Corsari, Villabate, Bagheria e Altavilla Milicia


Il processo di produzione, infatti, iniziava dalle piantagioni, dove le piante venivano irrigate almeno 3 volte a settimana, soprattutto nel periodo estivo, quando registravano la maggiore crescita. Dopo 3 o 4 anni, quando le canne raggiungevano la giusta maturazione, venivano raccolte e trasportate agli impianti di produzione, spesso tramite piccole imbarcazioni che facevano la spola tra i porticcioli costruiti appositamente nei pressi delle piantagioni e dei trappeti.


Qui le canne venivano macinate con delle mole di pietra e poi lasciate a decantare in un contenitore vegetale, prima di essere spremute “a vite”, con un processo manuale simile a quello per la produzione del vino. In seguito il succo veniva cotto e asciugato in apposite caldaie di rame (che venivano prodotte solo a Venezia) e poi filtrato in contenitori di terracotta dotati di piccoli buchi. Tale processo veniva ripetuto per tre volte, sino a raggiungere un grado di purezza adatto alla vendita.

Infine lo zucchero raffinato veniva imballato in una speciale carta azzurrina (da qui il colore carta da zucchero) e spedito in tutta Europa.


Probabilmente, a quei tempi, l’aspetto dei Pupacena non aveva nulla a che fare con gli eroi del ciclo carolongio: fu forse solo a fine Settecento, quando cominciò il boom dell’opera dei pupi, che questi cominciarono a essere rappresentati nelle statuine di zucchero.


Come si realizzano questi dolci ? Tramite calchi di di gesso e terracotta, con la matrice frontale ovviamente assai più dettagliata della posteriore; lo zucchero viene sciolto in acqua ad alta temperatura in un tegame di rame e mescolato ad un concentrato di limone cremortartaro, per assicurare la necessaria sbiancatura, e poi versato con attenzione nel calco, in modo che occupi, con un sottile spessore, le rispettive pareti e resti vuota la parte interna dello stampo.


Si lascia raffreddare e con estrema delicatezza si estraggono i pupi dalle formelle e si passa alla colorazione con colori alimentari: il giallo si ricava dallo zafferano, il rosso dal pomodoro, l’azzurro brillante dal miglio di tinte vegetali, il bianco dal latte e farina, il bruno dal cacao, il nero brillante dalla seppia, il verde brillante da alcune verdure.


Dopo il necessario tempo di posa per l’asciugatura del colore si passa alla decorazione e la statuetta viene impupata con lustrini di carta colorata, palline di zucchero argentate e nastrini di ogni forma e colore. Il tutto per essere divorate in una sorta di Eucarestia pagana, quasi a simboleggiare come le anime dei defunti, rappresentate dai pupi, diventino parte del loro Essere e della loro vita…


 

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Published on November 02, 2019 10:00

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Alessio Brugnoli
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