Alessio Brugnoli's Blog, page 92
October 19, 2019
Il cimitero degli Inglesi alla fine dell’Ottocento
Il fotografo Giorgio Sommer (1834-1914) pubblicò tra il 1870 e il 1885 un album di fotografie nel quale figura una vista di Palermo da Villa Belmonte. Proprio in corrispondenza della fontana si può notare il cimitero degli Inglesi riconoscibile dalla folta vegetazione circondata da muri.
Giorgio Sommer, N° 1301. Palermo Panorama da villa Belmonte, Bibliothèque Nationale de France
All’epoca era frequente per i fotografi scattare fotografie da uno stesso luogo e punto di vista, e d’altronde la villa Belmonte offriva un bel panorama sulla città. Esiste quindi un’altra fotografia molto simile, questa volta opera di Robert Rive, in cui si vede meglio il cimitero degli Inglesi. La fotografia risale verosimilmente allo stesso periodo di quella fatta da Sommer, almeno tenuto conto dello sviluppo degli alberi.
Robert Rive, N° A. 1601 Palermo. Veduto dalla Villa Belmonte
Ingrandendo l’immagine, si vede meglio il piccolo cimitero nel quale si possono anche notare alcuni…
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October 18, 2019
A difesa del Teatro Massimo Bellini
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Stasera torno a parlare della Sicilia, ma cosa che potrà sorprendere gli abituali lettori, l’oggetto del mio post non sarà Palermo, quello vi tocca domani, ma Catania, in particolare il suo teatro dell’opera, il Massimo Vincenzo Bellini.
Nel 1870, il comune della città etnea decise di affidare al friulano Andrea Scala, che in carriera aveva realizzato o ristrutturato una ventina di teatri lirici, l’incarico di individuare il luogo adatto alla costruzione di un Politeama: dopo lunghe riflessioni, fu scelta Piazza Cutelli.
Il problema, che perseguiterà per tutta l’esistenza il teatro, fu la mancanza di fondi: nonostante questo, il comune chiese un progetto allo Scala, che delegò la sua realizzazione, finanziata da un’improvvisata Società Anonima del Politeama, all’allievo milanese Carlo Sada.
I due erano personaggi tanto diversi, quanto complementari. Scala riservava per sé la realizzazione dei progetti che redigeva, mentre affidava ai propri collaboratori i disegni esecutivi e la realizzazione delle proprie opere. Sada, invece, amava vivere e condurre il cantiere: anche da architetto affermato, continuò, a spendere grandi energie nella direzione dei lavori, restringendo al minimo il margine di autonomia delle maestranze, alle quali forniva grandi quantità di particolari costruttivi e decorativi.
Sada, benché, come gusto, fosse di gusti assai eclettici, qualcuno direbbe passatista, la facciata del teatro in stile neobarocco si ispira infatti al classico sansoviniano della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, aveva al contempo un’idea assia moderna del rapporto tra edificio e città: il teatro non doveva essere una realtà autoreferente e fine a se stessa, ma doveva dialogare con il contesto urbanistico circostante.
Ad esempio, nella relazione che accompagnava il progetto del maestro, scrisse
Diremo poi che tanto il portico di prospetto quanto quelli di fianco, servono pure per la circolazione pubblica e solo nelle sere di rappresentazione sarà regolata la circolazione delle carrozze come meglio converrà per il servizio del teatro
Oppure preoccupandosi della sistemazione della piazza antistante, in cui voleva porre un monumento a Bellini
Una volta sistemata la piazza è qui che vorremmo fosse collocato il monumento del sommo maestro che il Comune sta facendo fare all’illustre scultore Monteverde, non solo per l’ornamento che questa piazza ne acquisterebbe essendo adesso così informe; ma il più sarebbe per principio di logica e quindi in correlazione col concetto estetico, e, cioè che il monumento del grand’uomo fosse situato sulla piazza omonima, ove si trova il tempio a lui dedicato.
Ma ahimè la realizzazione del teatro fu alquanto tormentata: nel 1880 la Società Anonima del Politeama fece bancarotta e Scala, sospettando qualche fregatura, se ne scappò in fretta e furia. Per cui, il Comune prese in carico i lavori, che decise di trasformare il tutto da Politeama, in cui si rappresentava dalla prosa al melodramma, passando per l’operetta, a Lirico vero proprio.
La vittima designata per il completamento dei lavori fu proprio Sada, sia perchè, a differenza del maestro non fu pronto a darsela a gambe, sia perchè, in fondo si era affezionata a Catania. A spizzichi e bocconi, spesso interrotti per la mancanza di denaro, nel 1887 i lavori finalmente terminarono; solo che, non essendo rimasto un soldo in cassa per finanziare un impresario e la sua compagnia, l’inaugurazione avvenne il 31 maggio 1890, ovviamente con la Norma di Vincenzo Bellini.
Nonostante questi inconvenienti, Sada aveva realizzato un ottimo lavoro: l’acustica della sala è considerata tra le migliori al mondo e sala a quattro ordini di palchi oltre il loggione, è di grande ricchezza decorativa ed è una delle più belle tra quelle costruite nell’Ottocento in Italia.
Il soffitto è affrescato dal pittore Ernesto Bellandi con l’apoteosi di Bellini con le allegorie delle sue maggiori opere: Norma, La sonnambula, I puritani e Il pirata. Il sipario storico, illustrante la Vittoria dei catanesi sui libici, battaglia alquanto leggendaria, è del pittore catanese Giuseppe Sciuti. Nel ridotto, molto ampio ed elegante tutto marmi e stucchi, notevole è la statua in bronzo di Vincenzo Bellini, opera di Salvo Giordano.
Nella sua vita, il Bellini ha collezionato tanti successi e trionfi… Nel 1986 il Teatro Massimo Bellini diventa, con legge della Regione Siciliana, Ente Autonomo Regionale.Nel 2002 la Regione siciliana dà il via alla trasformazione dell’Ente autonomo regionale Teatro Massimo Bellini in Fondazione. Nel 2007 l’Assemblea Regionale Siciliana ha riportato con apposita legge il “Bellini” ad Ente Autonomo Regionale.
Per anni, la gestione finanziaria, come in tanti teatri italiani, assai allegra: negli ultimi tempi, però i nodi sono venuti al pettine, in maniera assai drammatica. Il governo siciliano, invece di andare con un minimo di buonsenso, ha tagliato con l’accetta i fondi per la cultura. Tra le vittime di quest ecatombe, c’è proprio il Bellini, a cui, per un triennio, sono stati destinati 8 milioni di euro, a fronte di un costo annuo per il personale e alla gestione ordinaria di 13 milioni di euro… Per cui, un pezzo di storia della cultura italiana rischia così di scomparire…
October 17, 2019
Anniversari e nuove sfide
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Per una volta, non chiacchierò dei massimi sistemi, ma di argomenti più terra terra, ossia di due amici, che in modo differente, si stanno impegnando con il loro lavoro e attività imprenditoriale a rendere, non dico migliore, ma certo più vivo l’Esquilino.
Per i casi della vita, entrambi si chiamano Francesco e ahimè, a causa della mia dieta ferrea, provvisoriamente non posso apprezzare il frutto del loro impegno. Il primo Francesco è il proprietario del ristorante Nino, Hosteria Romana.
Ricordo bene il dibattito su Facebook, che nacque quando si vociferò della sua apertura: una delle tante intellettualoidi del Rione, che non sapeva neppure dove fosse il locale, abitando da tutt’altra parte, cominciò a strapparsi le vesti, piagnucolando sul fatto che questo avrebbe aumentato il caos e il degrado del Rione e che non avrebbe fatto dormire i suoi vicini
Io, che vi abito proprio sopra, le risposi che primo, ero felice della sua apertura, secondo, che il vero rischio fossero i camerieri e gli avventori a lamentarsi del mio, di casino.
L’intellettualoide, come fa sempre, essendo dotata di una rara pochezza di argomenti e di una dialettica alquanto traballante, interruppe stizzita la conversazione, dicendo che, come sempre, con me non si poteva parlare.
Alla fine, però, dopo un anno, i fatti mi hanno dato ragione: Nino non è per nulla fastidioso e anzi, ha riempito di vita e di allegria un tratto di Viale Manzoni, una volta scuro e assia noioso. Tutto merito di Francesco, persona squisita, di gran cuore e lavoratore instancabile, che dedica ogni istante a migliorare il suo locale. Per cui, auguro buon compleanno a Nino e che questo anno sia il primo di una lunga, lunga serie.
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Il secondo Francesco è The Man, il grande Francesco Ciamei: chi all’Esquilino non lo conosce o non ha apprezzato il suo caffè ?
Ora Francesco ha preso una decisione, sotto molto aspetti, coraggiosa: tenere aperto il suo locale sino alle dieci di sera, per trasformarlo in un luogo di nuova socialità, per chiacchierare, bevendo gli ottimi drink miscelati da Enrico.
Anche a lui auguro ogni successo e spero qualche volta di riuscire a organizzare da lui qualche conferenza o la presentazione di qualche buon libro…
October 16, 2019
Romani Africani
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Nel 2014, la BBC Teach, il canale dell’emittente inglese dedicato all’educazione dei più piccoli, mandò in onda una serie di cartoni animati dedicato alla storia della Grab Bretagna, intitolato con molta fantasia, The Story of Britain
Nella puntata dedicata alla Britannia romana, il protagonista era un centurione di stanza sul Vallo di Adriano; una scelta alquanto banale, si potrebbe dire, sennonché il questo soldato era un nero africano. Scelta, tra l’altro, in linea con tutta la serie: anche nelle puntate dedicate ai celti, agli anglosassoni e ai normanni, apparvero personaggi di colore. All’epoca nessuno si scandalizzò: era in fondo un’opera di fantasia, in cui si insegnava ai bambini a rifiutare il razzismo e accettare la diversità.
Nel 2017, tale serie fu replicata: inaspettatamente, scoppiarono le polemiche. I critici, invece di notare come fosse alquanto difficile che un nero fosse al seguito di Cassivellauno o di Hengest, si strapparono le vesti per questione del centurione. La polemica fu tanto accesa, che a un certo punto fu coinvolta anche la storica Mary Beard, che magari avrà un rapporto conflittuale con la letteratura latina, ogni tanto ha qualche uscita sopra le righe, ma che di certo è un’autorità in materia, a cui fu chiesto un parere sulla disputa.
Mary Beard se ne uscì con la seguente dichiarazione
Quella romana era una società mista e fra loro ci furono certo africani e persone con antenati subsahariani. Non conosciamo la percentuale. Ma il mix fu l’inevitabile conseguenza di quella combinazione di conquista e assimilazione che fu uno dei principi della dominazione romana fino al 212: quando Caracalla rese cittadino ogni uomo libero dell’Impero
Insomma, per una volta, la Beard se ne uscì con una dichiarazione banale, traducibile in
“L’impero era costituito da popoli e culture differenti e tra questi, vi erano pure, ma probabilmente assai pochi, neri”.
Non l’avesse mai detto: la studiosa fu praticamente linciata sul web. In verità, però, la Beard non è che avesse tutti i torti. A riprova della sua affermazione, cito un brano dell’Historia Augusta, una raccolta di biografie di imperatori da Adriano a Numeriano.
In particolare, parlando di Settimio Severo, il biografo scrisse
Post murum apud vallum visum in Brittannia … volvens animo quid ominis sibi accaderet, Aethiops quidam e numero militari, clarae scurras famae et celebratorum sempre iocorum, cum corona e cupressu facta eidem accadit. Quem cum ille iratus remveri ab oculis praecepet, eius tactus omine et coronae, dixisse ille dicitur ioci causa: Totum fuisti, totum vicisti, iam deus esto victor
che tradotto liberamente suono
Dopo avere ispezionato il vallo al confine della Britannia, mentre si interrogava su cosa gli riservasse il futuro, un Etiope proveniente da un unità delle truppe ausiliarie, famoso tra i buffoni e celebrato per le beffe, gli si avvicinò con una ghirlanda di fronde di cipressi.
Severo, arrabiato, ordinò di allontanarlo dalla sua vista, turbato dal colore dell’uomo e dalla ghirlanda; l’etiope, per reazione, rispose con una battuta
Tu fosti tutto, tu vincesti tutto; ora, o conquistatore, sii un dio
Dal brano possiamo notare diverse cose:
Nei forti del Vallo di Adriano, erano presenti dei soldati di colore nelle milizie ausiliarie
Questi soldati erano però una rarità, tanto da provocare lo stupore di un imperatore superstizioso come Settimio Severo
Questo soldato, probabilmente proveniva dalla Nubia o da qualche area influenzata dall’Egitto: tutto l’episodio è un basato su un equivoco culturale. Per gli egiziani, il cipresso era simbolo di trionfo e di vita eterna, mentre per i latini, come il colore nero, presagiva la morte.
Da dove venivano questi ausiliari ? Dalla Nubia, l’attuale Sudan, dallo stesso Egitto, vi erano comunità di immigrati subshariani sia ad Alessandria, sia nel Fayum e forse dall’Auzia, nella provincia della Mauretania Caesariensis (moderna Sour el-Ghozlane, in Algeria); secondo Ammiano Marcellino, in quell’area, che era una dei terminali delle rotte commerciali che traversavano il Sahara, unendo il Mediterraneo romano con l’Africa nera, viveva una tribù di Etiopi…
Per cui, in fondo non aveva poi tutti i torti… All’epoca sicuramente era più facile incontrare un nero nell’Impero Romano che un cinese…
October 15, 2019
Discutendo sulla Teoria delle Finestre Rotte
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Uno dei cavalli di Roma fa Schifo è la cosidetta Teoria delle finestre rotte. Per chi non la conoscesse, questa è una teoria criminologica che afferma come la diminuzione soggettiva della sicurezza, associata al degrado urbano, moltiplichi la probabilità che aumentino esponenzialmente comportamenti antisociali.
Di conseguenza, il mantenere e controllare la città, reprimendo i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi, il bere in pubblico, la sosta selvaggia o l’evasione nel pagamento di parcheggi, mezzi pubblici o pedaggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi.
L’origine delle teoria risale al 1969, quando il professor Philip Zimbardo, condusse un esperimento di psicologia sociale presso l’Università di Stanford, dove insegnava. Egli lasciò due automobili identiche, stessa marca, modello e colore abbandonate in strada, una nel Bronx, zona povera e conflittuale di New York, l’altra a Palo Alto, città ricca e tranquilla della California, entrambe senza targa e con il cofano aperto.
Lo scenario era quindi quello di due identiche auto abbandonate in due quartieri con tipologie molto diverse di abitanti, con una squadra di specialisti in psicologia sociale a studiare il comportamento delle persone in ciascun sito.
Ciò che accadde fu che l’automobile abbandonata nel Bronx cominciò ad essere smantellata in poche ore, perdendo le ruote, il motore, gli specchi, la radio, e così via; tutti i materiali che potevano essere utilizzati vennero rubati e quelli non utilizzabili vennero distrutti. Al contrario, l’automobile abbandonata a Palo Alto rimase intatta. In tali casi è comune attribuire le cause del crimine alla povertà. Tuttavia, l’esperimento in questione fu proseguito. Dopo una settimana, durante la quale la vettura abbandonata nel Bronx era stata completamente demolita mentre quella a Palo Alto era rimasta intatta, i ricercatori decisero di rompere un finestrino della vettura a Palo Alto; in breve tempo i ricercatori assistettero alla stessa dinamica di vandalismo che avevano registrato nel Bronx: furto, violenza e vandalismo ridussero il veicolo lasciato a Palo Alto nello stesso stato di quello abbandonato nel distretto malfamato di New York.
Zimbardo osservò che la maggior parte dei saccheggiatori non parevano affatto criminali o persone disagiate, sembravano invece persone comuni che nessuno avebbe mai considerato dei vandali prima di vederle all’opera. Secondo il professore, il finestrino rotto dell’automobile costituì un indizio di abbandono dell’area, il quale a sua volta era in grado di svegliare in noi peggiori istinti, forti del fatto che difficilmente saremmo stati giudicati o puniti.
Questo esperimento, nel 1982, fu ripreso da nel 1982 sulle pagine di The Atlantic dal sociologo James Q. Wilson e dal criminologo George L. Kelling, enunciarono questa teoria della forma classica, giungendo alla conclusione che la polizia non poteva garantire la sicurezza nelle strade se si limitava a perseguire i crimini, doveva anche fare in modo che fosse la comunità stessa prevenirli. Ciò sarebbe avvenuto, mantenendo l’ordine, al di là dei singoli reati, promuovendo in questo modo meccanismi di controllo informale che permetterebbero a una comunità (per esempio un quartiere) di salvaguardare la propria sicurezza.
Articolo che divenne la base teorica per la Tolleranza Zero di Rudolph Giuliani e dei suoi tanti imitatori; a dire il vero, dando a Tonelli ciò che è di Tonelli, dobbiamo dire che Roma fa Schifo, per avere frainteso il contenuto originale della Teoria o per buonsenso, ne propugna una versione light, alla matriciana, per intendersi, riconducibile a come mi rimproverava mio nonno, quando lasciavo la mia stanza in disordine.
“Monnezza chiama monnezza”.
Ossia che il degrado urbano, se non viene sanato, tende a espandersi e al contempo, interventi di rigenerazione generano al contrario un circolo vizioso.
Ma cosa dice la Scienza e la Statistica sulla Teoria? In realtà, può sembrare strano, l’esperimento di Zimbardo è stato soggetto a verifica sperimentale solo negli ultimi anni.
Le prime serie di verifiche sono state compiute dall’università di Groninga, i cui risultati furono presentati in un report del 2008 pubblicato su Science, in cui si evidenziò come elementi di contesto hanno influenzato in maniera statisticamente molto rilevante i comportamenti di una campione di soggetti ignari di essere oggetto di una ricerca.
Un esempio: i ricercatori hanno appeso volantini a delle biciclette parcheggiate in un vicolo ove non erano presenti cestini. Nel primo caso, i muri del vicolo erano stati disegnati con dei graffiti, nel secondo, al contrario, apparivano puliti ed era stato affisso un cartello che vietava i graffiti. Nella prima situazione, circa un terzo delle persone che si ritrovava un volantino sulla propria bicicletta lo gettava a terra o lo appoggiava su un’altra bicicletta, nel secondo caso (con la presenza di graffiti) la quantità di persone che adottavano questo comportamento socialmente riprovevole saliva a due terzi.
Questo esperimento fu perfezionato nel 2015 in una studio dell’Università di Monaco, fu valutato il cosiddetto “capitale sociale” e le rete di relazioni. I risultati furono alquanto interessanti:
Il capitale sociale fungeva da moltiplicatore: in pratica l’effetto finestre rotte era maggiore un quartiere benestante e ben tenuto, ma a bassa socialità, rispetto a uno più degradato e povero, ma un una rete sociale a maglie assai più strette.
L’effetto finestre rotte diminuiva drastiscamente all’aumentare della gravità della violazione compiuta.
Per cui, possiamo trarre due conclusioni: la versione light, quella alla matriciana, allo stato attuale sembra essere valida. Per cui gli interventi di manutenzione urbana, istituzionali o volontari, senza cadere nell’ideologia del decorismo, il tentativo deumanizzare i più poveri, trasformandoli in immondizia e privandoli di ogni dignità di persone, trasformando il fallimento delle politiche di welfare in una questione di pulizia stradale, hanno la loro efficacia, che è rafforzabile da una strategia di rafforzamento del tessuto sociale e delle relazioni umane.
Al contrario, la versione strong, quella originale americana, invece pare essere campata in aria. Questo , oltre che all’esperimento di Monaco, è suggerito da almeno quattro evidenze empiriche:
Il crimine grave a New York era già in diminuzione prima di Giuliani. Questo tasso di diminuzione non ha avuto nessun incremento con la politica di Zero Tolerance
Analogo trend si è verificato in altre città americane (Washington, Chicago,Boston…) in cui non è stata applicata nessuna politica simile a quella di Giuliani.
Negli ultimi anni, città in cui cui è stata replicata la Zero Tolerance, come Baltimora, non si è verificata nessuna diminuzioni di crimini gravi.
Il caso Roma: all’aumento esponenziale del degrado avvenuto in questi ultimi anni, a parità di reati non denunciati, che risulta essere un’invariante, non è avvenuta nessuna esplosione del crimine
Addirittura, uno studio pubblicato su Nature nel 2017 da Christopher M. Sullivan e Zachary P. O’Keeffe riporta che la repressione di piccoli crimini, non accompagnata da altre contromisure, tra fine 2014 ed inizio 2015 abbia, al contrario, causato un incremento dei crimini maggiori. Insomma la repressione aggressiva di reati minori incita addirittura reati più gravi…
Per cui, piuttosto che alla Zero Tolerance, la diminuzione della criminalità grave sembra essere più legata all’aumento del reddito medio e all’implementazione di politiche di welfare più inclusive. Purtroppo l’Italia sembra percorrere questa strada nel senso contrario..
October 14, 2019
Spam
Oggettivamente, il rapporto tra Casa dell’Architettura ed Esquilino è stato per anni, più che conflittuale, da separati in casa. Ognuno ignorava bellamente l’altro: le attività della Casa dell’Architettura erano troppo spesso autoreferenti e separata dalla realtà locale. Dall’altra, il Rione guardava l’Acquario Romano come un mondo alieno e incomprensibile, che non osava mettere il naso fuori dal giardini di Piazza Manfredo Fanti.
Da qualche tempo, però, le cose stanno cambiando: il muro di incomunicabilità tra i due mondi, degno di in film di Antonioni, si sta lentamente sgretolando, grazie a una serie di iniziative, che li stanno lentamente avvicinando.
L’ultimo di questi eventi è SPAM, il festival dell’architettura della Capitale, in cui dialogano diverse culture e si riflette sulle dinamiche di trasformazione e riqualificazione urbana. Festival con tanti momenti di riflessione.
Il primo sono le lezioni di architettura, aperte ai bambini e ai ragazzi, per avvicinarli a una disciplina, che è in fondo, è la perfetta incarnazione dell’antico motto di Protagora
“L’Uomo è misura di tutte le cose”
Iniziativa che, a breve, potrebbe uscire dalle mura dell’Acquario Romano e diffondersi nelle scuole del Rione.
Il secondo è la splendida mostra dedicata ad Alberto Sartoris, uno dei padri del razionalismo italiano, con gli intensi schizzi architettonici e le immaginifiche assonometrie, che detto fra noi, alle Superiori non mi avevano mai appassionato, che il suo genio ha trasformato in esplosioni di colori, in cui l’equilibrio della ragione sfuma in una dimensione onirica.
Il terzo è la riflessione sul Cinema, condotta dal buon Fabrizio Natalini, il quale ogni giorno mostra, come Roma, con tutti i suoi pregi e difetti, grazie al cinema, ha creato il nostro immaginario visivo, ricreando la nostra percezione dello spazio e del tempo.
Perché Roma, con le sue miserie, eccentricità e lampi di grandezze e genio, come avevano intuito, in maniera differente, Flaiano e Fellini, che romani non erano, perchè chi ha abita all’ombra del Campidoglio alla singolare capacità di ignorare se stesso, è una delle più straordinarie metafore dello spirito umano.
Il quarto è la presenza di uno dei più straordinari architetti moderni: Daniel Libeskind. Può piacere, non piacere, non si può essere d’accordo con le sue idee, ma la sua voce non deve essere ignorata. Molti lo definiscono decostruttivista, ma forse, è l’ultimo degli uomini del Rinascimento.
Perché in un’epoca di disincanto, è l’unico che crede nel potere demiurgico dell’Architetto; in una realtà in cui domina la Tekné, ha il coraggio di affermare il trionfo della forma e dell’immaginazione sulla Materia; in un’epoca di barriere, sostiene l’universalità dello Spirito Umano, al di là delle misere contingenze del contesto.
Una lezione, la sua, a cui, per fortuna, i tanti politicanti che fanno passarella nel Rione non hanno partecipato, non avrebbero portato valore aggiunto, ma che è stata ignorata anche dalla presunta Intelligencija che infesta l’Esquilino, dal Ballatoio al Giardino Confucio; sospetto che ritengano le loro blaterate su Facebook di assai più di valore delle parole, accompagnate dal sorriso, di un sommo artefice…
October 13, 2019
La parabola dell’Esquilino
Ieri pomeriggio, Paola Morano, su uno dei gruppi social dedicato all’Esquilino, ha pubblicato questa riflessione
L’Esquilino è sempre stato volente o nolente al servizio della politica di turno. Crocevia di culture (per forza di cose, c’è la stazione, dicono molti) a turno è stato usato per scopi esclusivamente politici.
Nessuno ha fatto niente per dovere o carità.
“è stato venduto ai cinesi da quello” “è stato usato per la carica politica da quell’altro” “è stato sfruttato per le questioni sociali da tizia” tutto, gira che ti rigira, pare abbia un solo scopo: il vantaggio dei pochi eletti o non eletti.
Sembra impossibile? Eppure…basta osservare. Qui ci capitano solo quando hanno bisogno di visibilità, di riscatto, di brand awareness o di voti. Dopo non si affacciano manco con il lanternino. La sensazione di essere abbandonati (che avevo espresso tempo fa) ha lasciato il posto alla sensazione di essere usati
Purtroppo, visto ciò che è accaduto in questi anni, non posso che darle ragione: la politica, qualunque sia il suo colore, ha un rapporto conflittuale con il Rione, che viene considerato una sorta di male necessario.
Da una parte, viene visto, per la sua densità abitativa, per la sua multiculturalità, per le sue caratteristiche strutturali, un corpo estraneo al resto del Centro Storico e un problema, piuttosto che un’opportunità per costruire una diversa socialità e un nuovo modello di recupero e sviluppo urbano.
Dall’altro, proprio il numero di elettori presenti, chi vince le elezioni all’Esquilino, conquista il I Municipio: questa contraddizione di fondo, riconducibile a “faremmo tranquillamente a meno di voi, ma purtroppo ci servite”, ha portato, da più di un secolo, tranne rare eccezioni, a proclami elettorali seguiti dal nulla e a elemosine a favore di piccole clientele, convinte che controllino chissà quale pacchetti di voti e alla totale mancanza di progettualità, sia tattica, sia strategica.
L’Esquilino, per reagire a questo stato di cose, ha seguito una strada bottom-up, con ampio movimentismo dal basso: movimentismo, che però, ha il limite di essere eccessivamente polverizzato. Ci sono decine di associazioni e comitati, ho perso il conto, ognuno dedicato alla tutela, spesso giusta e comprensibile, del proprio orticello, ma trovano difficile anteporre il bene collettivo all’interesse particolare.
Per superare questo impasse, è necessario proporre sempre più progetti condivisi e partecipati, che coinvolgano e facciano sedere a uno stesso tavolo a collaborare assieme associazioni e comitati, anche per dare un segnale forte alla politica sorda e muta…
Lo abbiamo fatto per San Giovanni, lo ha fatto ieri il Mercato Esquilino... Per cui, la strada è aperta, bisogna solo trovare il faticoso coraggio di proseguire..
October 12, 2019
La Reale Casa dei Matti di Palermo
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Pochi, anche a Palermo, conoscono il barone Pietro Pisani ed è un gran peccato, essendo un personaggio straordinario, che meriterebbe di apparire in un film o in un romanzo.
Pietro, figlio del barone Melchiorre e di Anna Maria Perino, Pietro Pisani nacque a Palermo nel 1760, da una famiglia della piccola nobiltà di toga, ossia che traeva il suo titolo non dai possessi feudali, ma dal lavorare da generazioni come funzionari statali.
In particolare, i Pisani coprivano il ruolo, assai poco gradito a Palermo, di esattori delle imposte, con il titolo altisonante di Regio Precettore: compito che permetteva sia larghi introiti, sia rapporti privilegiati con il governo di Napoli, ma che a titolo di blasone, contava assai poco.
I vari principi siciliani infatti guardavano dall’alto in basso Pietro, uomo corpulento, di bassa statura, scuro di pelle e negli occhi, cosa che gli fece sudare le proverbiali sette camicie per ottenere la mano della donna di cui era innamorato, Maria Texeira de Albornoz, imparentata con la famiglia reale portoghese, descritta da un cronista dell’epoca come
bella persona, di cuore ingenuo e pudico, ma spesso combattuto da insanabile gelosia, a cui certo egli dava alimento
In ogni caso, nonostante la gelosia di Maria, il matrimonio fu felice e coronato da ben otto figli: Pietro, per farsi accettare dai nobili palermitani, decise di finanziare con le sue ricchezze, la rappresentazione di melodrammi al Regio Teatro Carolino, il nostro Bellini, soprattutto delle opere del suo amato Mozart.
Predilezione a quanto pare non condivisa dai suoi concittadini, tanto che la prima di Così Fan Tutte, il 4 ottobre del 1811, fu un clamoroso insuccesso: per vendetta, un paio d’anni dopo, Pietro fece recitare – orchestra e compagnia di prim’ordine – Il flauto magico, a beneficio di un solo spettatore (gli ingrati suoi concittadini andavano puniti): lui stesso.
Nel 1812, però, cominciò per lui un periodo nero: nel 1812 fu promulgata la Costituzione Siciliana, a cui seguì una riforma fiscale, che ovviamente favoriva i nobili e i ricchi, in cui però fu abolito il ruolo di Regio Precettore, cosa che impattò notevolmente sia sulle finanze, sia sul ruolo sociale di Pietro.
Nel 1815, poi, perse la moglie, il figlio prediletto e uno dei migliori amici: secondo i cronisti dell’epoca, divenne di umore malinconico, ossia, per usare un termine moderno, entrò in depressione. Il vento cambiò con la restaurazione borbonica: Pietro, per ovvi motivi, apparteneva la fronte legittimista e la sua fedeltà fu ricambiata con la nomina a ufficiale capo del Ripartimento dell’Interno presso la Real Segreteria del Luogotenente Generale. In quella veste, il barone esercitava le sue occupazioni amministrative in più campi: beni culturali, prigioni, sanità.
La nomina e le responsabilità lo fecero uscire dalla depressione e Pietro si gettò a capofitto nel lavoro e da dilettante di archeologia, diede un contributo importante alla salvaguardia del patrimonio culturale siciliano.
Nel 1823 gli architetti inglesi Harris e Angel ricostruirono, a seguito dei loro scavi, le metope dei templi selinuntini e cercarono di trasferirli sottobanco a Londra, per collocarli al British Museum; solo l’intervento deciso di Pietro, impedì la realizzazione del loro disegno e le metope divennero così uno dei pezzi più importanti dello splendido e speriamo a breve totalmente restaurato del Museo Salinas.
Nel frattempo, influenzato dalla sua esperienza personale, Pietro cominciò a studiare quella che oggi si chiamerebbe psichiatria: divorò manuali di frenologia e visitò la Reale Casa dei Matti ad Aversa, uno degli ospedali psichiatrici all’avanguardia dell’epoca. Sapendo di tale interesse, Pietro fu nominato nell’agosto del 1824 dal Luogotenente del Regno, marchese Pietro Ugo delle Favere, Deputato dell’Ospizio dei Matti di Palermo, situato vicino al Palazzo dei Normanni
L’ultrassessantenne barone si gettò anima e corpo nel nuovo incarico: per prima cosa, fece le pulci alla precedente gestione, scrivendo poi un’accurata relazione di tutte le mancanze che vi aveva trovato. Poi, ai primi di settembre, decise di dedicare la struttura, che poco si differenziava da un ospedale generico, alla sola cura delle malattie mentali, con il trasferimento degli altri malati in un’altra struttura vicino alla Zisa.
Pietro riorganizzò l’ammistrazione finanziaria della struttura e alla ristrutturazione dell’ospedale. Al centro dell’edificio vi era un ampio e leggiadro cortile, luogo principale di vita all’aperto della comunità. Attorno al cortile vi erano le stanze per i servizi comuni, il refettorio, la sala medica e i locali dove alloggiavano quasi tutti i pazienti poveri. Dal cortile si accedeva a una scala che conduceva alle stanze del Direttore Amministrativo e del Soprantendente, accanto alle quali vi erano, oltre alle stanze dei medici, quelle dei convalescenti in periodo di osservazione; più in disparte le stanze dei malinconici e isolate quelle di sicurezza riservate ai malati più gravi. Sopra la scalinata un affresco con dipinte le immagini di Ercole, la Forza, e di una bella ragazza, la Ragione, che schiacciano una donna con due ali in testa, la Pazzia. Quel quadro allusivo si trovava in quel posto perché lo potessero vedere tutti, anche i matti che scendevano le scale per recarsi al refettorio.
Nell’architettura della Real Casa dei Matti assumeva particolare rilievo il giardino, nel quale spiccavano i gusti eccentrici del barone. Nel giardino vi erano l’angolo “alla cinese” (in quel periodo era diffusa la moda per le “cineserie”, si pensi alla Palazzina Cinese costruita a Palermo qualche anno prima), le cascate artificiali, le gabbie con uccelli canterini, gli affreschi con effetti ottici particolari. All’interno del giardino, inoltre, fu costruito un teatro a imitazione di quello greco di Siracusa.
Ma cosa, più importante, Pietro adottò metodi terapeutici all’avanguardia. Contrariamente a quanto avveniva nella resto d’Europa, nella Real Casa fu abolita la pratica della segregazione dei malati, dell’uso delle catene e delle bastonature. Al contrario, si diede spazio al cosiddetto “trattamento morale”, vale a dire all’approccio psicologico basato sulla separazione dei pazienti psichiatrici dagli altri ammalati, dalla loro osservazione, e dall’applicazione terapeutica di divertimenti e svaghi, nonché dell’ergoterapia.
Lo stesso giardino aveva un valore terapeutico, per permettere ai pazienti di passare del tempo all’aria aperta e, ove ne fossero capaci, dedicarsi alla coltivazione di alimenti poi usati nell’istituto. Pietro, quando possibile, li accompagnava a fare lunghe passeggiate in campagna, e persino a feste campestri, dove essi restavano in grande tranquillità.
Al loro arrivo, i pazienti venivano lavati e cambiati d’abito, ed avviati ad un regime di isolamento dal mondo esterno, se non per le persone dedicate alla loro cura. Tale atteggiamento era derivato dall’osservazione che un ambiente costante e ripetitivo era di giovamento rispetto al ristabilirsi dei pazienti. Anche le visite dei parenti venivano consentite solo nel caso in cui i pazienti fossero praticamente guariti e vicino alla dismissione. Veniva inoltre effettuata una suddivisione tra pazienti “maniaci”, “malinconici”, “imbecilli” ed “ebeti”. Ad essi veniva applicato un approccio differenziato, a seconda dell’appartenenza all’una o all’altra categoria.
I “maniaci” venivano tenuti in libertà, invece che segregati com’era d’uso, anche se sotto stretta sorveglianza. Nel caso in cui scoppiassero in crisi di furore, e rischiassero di nuocere fisicamente a sé stessi ed agli altri, venivano costretti in camicie di forza e messi a dormire in amache, cosa che spesso sortiva l’effetto di calmarli. Per i “malinconici”, invece, veniva usato l’approccio di tenerli tutti insieme in un ambiente con le pareti dipinte a fiori di colori vivaci, con finestre ampie e luminose. La terapia applicata consisteva in passeggiate, nell’ergoterapia, nell’ascolto della musica o di brani di poesia. Tale strategia sortiva buoni effetti, tanto che i malati costruirono un piccolo teatro alla greca, e qui venivano tenuti spettacoli e balli, che ne risollevavano la condizione. “Ebeti” ed “imbecilli” erano anch’essi separati dagli altri, e veniva ad essi applicato il medesimo approccio che ai malinconici.
La struttura veniva tenuta in condizioni perfette di pulizia, e gli stessi pazienti collaboravano a questo lavoro, nonché alle operazioni di cucina, manutenzione, o persino all’acquisto di quanto necessario.
L’esperienza di Pietro divenne rapidamente famosa in tutto il mondo: per una volta, non ebbe valore il solito
Nemo Propheta in patria
Infatti, il “Giornale dell’Intendenza” di Palermo scrisse nel 1825:
Lo spedale dei matti affidato alle cure di un deputato pieno di filantropiche idee, ha grandemente migliorato il suo aspetto e si è già, mercé l’aumento delle risorse, incamminato per quella perfezione che dovrà un giorno portarlo al livello dei primi stabilimenti di materia esistenti in Europa.
Nel 1827 arrivò il duca di Buckingham, che scriverà nel suo libro di memorie:
Al mio arrivo fui sbalordito di essere accolto dal suono di tamburo e da sentinelle che presentavano le armi, mentre un gruppo di venticinque o trenta uomini facevano esercizi militari e sembravano divertirsi e sorridere. Ed erano tutti matti
Nel settembre del 1835 fu la volta del visitatore più celebre, Alessandro Dumas. Che offrì una particolareggiata, ma non fedelissima, descrizione della Real Casa dei Matti in un libro di viaggi circoscritto al Sud dell’Italia e pubblicato nel 1842, quando Pisani era già morto e lo citò anche il Conte di Montecristo. Il barone è così ritratto:
Molte persone diranno che il barone Pisani era altrettanto folle degli altri, ma almeno la sua follia era una follia sublime
L’approccio innovativo di Pietro, la grande accoglienza degli ambienti, la serenità dei pazienti, fu poi riportata da Nathaniel Parker Willis nella sua opera The Madhouse to Palermo, pubblicato su The Metropolitan Magazine, come esempio da seguire per le erigende case di cura negli Stati Uniti. Da quest’opera, e grazie anche alla sua amicizia con Willis, Edgar Allan Poe trasse ispirazione per il suo racconto The system of Dr. Tarr and Professor Fether.
Non passarono neanche due anni dalla visita di Dumas che, nel giugno del 1837, a Palermo scoppiò il colera. Fu l’inizio della fine per la Real Casa dei Matti. La peste mieteva vittime su vittime. Non aveva pietà per nessuno. In poco tempo il colera fece fuori più di un terzo dei ricoverati dell’ospizio, e non miglior sorte spettò a un buon numero di impiegati e medici. A perdere la vita fu prima la seconda moglie di Pisani Maria Antonia, il 6 luglio si spense il barone. Dopo, saranno i figli Melchiorre e Casimiro ad assumere la direzione della Casa. Ma la loro sarà una gestione breve e infelice. Si riveleranno incapaci e alle accuse d’incompetenza si accompagneranno quelle di malversazioni e furti, al punto di essere destituiti.
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Nel 1883, la struttura fu poi trasferita alla Vignacella, così chiamato per la presenza di vigna appartente ai Gesuiti, nei pressi di villa Napoli, luogo attualmente visitabile. Un edificio che pare una fortezza, con una facciata articolata su tre ordini e con un piano rialzato con cinque aperture ad arco: due chiuse da cancellate fisse e due murate.
L’apertura centrale, che funge da l’ingresso, è chiusa da una pesante cancellata e a cui si accede da una scala a due rampe in stile vagamente spagnolo. Entrando,si nota nella parete di sinistra un affresco che nella parte superiore rappresenta un pergolato con un pavone al centro “poggiato” su una fascia di piastrelle di maiolica che a mò di mosaico riproduce angeli musicanti circondati da un bel paesaggio,che fa da cornice ad una fontana ormai inesistente.
Al piano terra si trovano le celle nelle quali venivano rinchiusi gli ammalati più gravi, la cucina oggi trasformata in museo dove sono esposti antichi strumenti medici ed attrezzature usate per la cura ed il contenimento degli ammalati e l’ex refettorio dei Gesuiti adibito a sala congressi. Al primo piano, invece, vi sono cinque celle chiuse dalle pesanti e tristi porte originali con lo spioncino che serviva a controllare i degenti .
Al secondo ci sono due stanzoni e i servizi igienici e le due antiche celle d’isolamento. Ai piedi della scala d’ingresso si notano tre aperture protette da grate che conducono al qanat che occupa buona parte del sottosuolo di Palermo.
Il complesso comprende anche la chiesa dedicata alla Madonna dello Scibene con la particolare forma a croce e il bellissimo giardino con un colonnato che reggeva il pergolato e una grande “gebbia” (dall’arabo gabiya) una vasca che attingeva direttamente dal qanat usata per l’irrigazione dei campi.
Oggi nel giardino c’è un orto botanico con piante grasse provenienti da diversi continenti. Accanto alla chiesa vi è un edificio dove è visibile una meridiana che porta la data del 1762.
Nel 1912, la Vignacella viene chiusa e i pazienti furono trasferiti al nuovo ospedale psichiatrico, abbandonato a seguito della legge Basaglia, un più grande complesso fu terminato tra padiglioni progettati da Francesco Paolo Palazzotto e rigogliosi giardini.
Una città nella città circondata da alte mura per impedire ai malati di scappare con laboratori per disegnare o fare lavori manuali, aiuole, viali alberati, orti e stalle.
Ma cosa rimane della sede originale di Pietro ? Trasformato in un carcere militare con l’Unità di Italia, non solo è in stato di abbandono, ma, per fare cassa, è in fase di dismissione da parte dello Stato Italiano.
October 11, 2019
RECUPERIAMO CIBO, COLTIVIAMO UMANITÀ
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Come sapete, il Nuovo Mercato Esquilino è al centro di uno scontro di civiltà: c’è la minoranza dei tizi con la puzza sotto al naso, che in fondo non rappresentano che loro stessi, pronti a sparare sui social giudizi su tutti e tutto, che lo considerano sporco, brutto, volgare, caotico.
Non è che in fondo abbiano poi tutti i torti: molti dei problemi di cui si riempiono la bocca di lamentele, esistono. Ma invece di lavorare per risolverli, con proposte concrete, la loro soluzione consiste nel buttare il bambino con l’acqua sporca.
Chiudere il mercato, per sostituirlo con un non luogo asettico, scenario ottimo per i loro aperitivi e le loro cervellotiche discussioni.
Dall’altra, c’è la maggioranza degli abitanti del Rione, che non saranno amici dei politici, che non frequenteranno i salotti giusti o partecipano ai vernissage più alla moda: gente semplice, di ogni popolo e cultura, rumorosa, ma capace di pensare con la propria testa.
Persone consapevoli del fatto che il Nuovo Mercato Esquilino abbia uno sproposito di difetti, che non si possono rivolvere con uno schioccare di dita, ma con un lento e continuo lavoro, che richiede la collaborazione di tutti e non i colpi di testa delle prime donne.
Che il Mercato sia il cuore e ventre di Roma, un pezzo della nostra storia e del nostro immaginario e un laboratorio in cui si costruire la città del futuro, con le sue miserie, grandezze e contraddizioni. Come ripete sempre il presidente del Co.Ri.Me, Salvatore Perrotta
Il Nuovo Mercato Esquilino rappresenta una realtà unica nella Capitale. Luogo simbolo, crocevia di viaggiatori e punto di riferimento per le comunità internazionali che vivono a Roma.
Non capirlo, è da sciocchi; chiuderlo, renderebbe tutti più poveri.
E il Mercato ricambia questo affetto, diventando spesso un crogiolo di iniziative. Una delle più belle e generose è il progetto “Roma salva il cibo” che nasce nel settembre 2017 al mercato rionale dell’Alberone e che da ottobre 2018 opera ogni sabato al Nuovo Mercato Esquilino, grazie all’associazione ReFoodGees, con il patrocinio del municipio I al nuovo mercato Esquilino, che dalla fine di ottobre, ogni sabato pomeriggio tutte le eccedenze alimentari, ancora edibili redistribuisce ai cittadini in difficoltà economica: frutta e verdura che altrimenti finirebbero tra i rifiuti vengono raccolte e consegnate a chi ne ha bisogno, grazie a un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati provenienti da diversi paesi riuniti nell’Associazione “Ecomori”.
Un circolo virtuoso e un grande esempio di economica circolare, alimentato con il coinvolgimento dei migranti, di cui l’Esquilino deve andare fiero e che dovrebbe essere imitato di più. Domani pomeriggio, dalle 16.30 in poi questa iniziativa sarà celebrata proprio nel Mercato Esquilino, con una festa organizzata proprio da ReFoodGees assieme a Mercati d’Autore e con il patrocinio di Caritas Roma e Municipio I Roma centro, incentrata sul tema del Riuso.
Ci saranno i laboratori creativi per i più piccoli con l’Associazione Eduraduno ed ai laboratori musicali con i Butta Beat Riciclato, il gruppo che trasforma oggetti da buttare in strumenti musicali. Il Coro di Piazza Vittorio, alle ore 19.00 chiuderà l’evento con un concerto nel “Giardino di Confucio”.
Per cui, partecipate numerosi…
October 10, 2019
La stele di Nora
Pochi conoscono il sito archeologico di Nora, che sorge sulla penisola che chiude a sud-ovest il golfo di Cagliari e fu uno dei maggiori centri della Sardegna di età fenicia, punica e romana.
La città, abbandonata in età tardo antica, venne riportato in gran parte in luce negli anni Cinquanta del secolo scorso da Gennaro Pesce ed è oggi un parco aperto al pubblico in cui lavorano contemporaneamente quattro Università italiane in sinergia con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio.
Il buon Pausania, che la considerava la più antica città della Sardegna, nella Periegesi della Grecia così ne racconta l’origine
Gli Iberi, dopo Aristeo, si trasferirono in Sardegna sotto la guida di Norace e da essi fu fondata la città di Nora, e tramandano che questa fosse la prima città dell’isola. Si dice che Norace fosse figlio di Hermes e di Eritheia figlia di Gerione.
Invece, Gaio Giulio Solino, autore della Collectanea rerum memorabilium, una sorta di “Forse non tutti sanno che” del mondo latino, attribuisce a Norace una provenienza dalla mitica città di Tartesso.
a Norace Norae oppido nomen datum
ossia
da Norace fu dato alla città il nome di Nora
La sua area fu sicuramente frequentata nell’età del bronzo, data la presenza di un pozzo nuragico presso le “Terme a Mare” e di insediamenti nell’immediato entroterra, come “Sa Guardia mongiasa” e Antigori di Sarroch. Dato il ritrovamento di ceramiche e manufatti sia del miceneo III b, sia della cultura iberica di El Argar.
Il che farebbe ipotizzare come all’epoca Nora fosse una sorta di hub, dove i mercanti provenienti dall’Ellade e da Cipro, scambiavano il rame e la lana di provenienza locale con i beni di lusso orientale e un terminale della via marittima dello stagno, che partendo dalla Cornovaglia e costeggiando Francia e Spagna, giungeva sino alla Sardegna. Via in cui i nuragici avevano un controllo più o meno diretto sul tratto finale; è molto più realistico ipotizzare una sorta di thalassocrazia nuraghica nel Mediterraneo Occidentale, integrata con i commerci micenei e levantini, piuttosto che fantasticare su ipotetiche invasioni sarde d’Egitto.
Con la ripresa dei commerci susseguente alla crisi dell’età del Bronzo, Nora riprende il suo ruolo commerciale, con la presenza di un emporio stagionale di mercanti fenici, le cui prime testimonianze archeologiche risalgono alla fine del VII sec. a.C. A questo periodo si può riferire infatti una serie di buche di palo pertinenti a tende e ad altre strutture provvisorie in materiali deperibili che sono state recentemente individuate nel settore orientale della penisola, al di sotto del complesso del foro e del vicino “Tempio romano”.
Realtà in cui, progressivamente, passando dalla commercio muto all’economia del dono, i mercanti levantini si erano progressivamente integrati nelle élite locali, creandosi una sorta di seconda famiglia “coloniale”, parallela a quella della madrepatria, che sarà all’origine della società mista e ibrida punico sarda dei secoli seguenti.
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Processo che deve essere cominciato almeno tra il IX e VIII secolo, come testimoniato da uno dei ritrovamenti più importanti dell’epigrafia fenicia, la cosiddetta “Stele di Nora”, un blocco in pietra arenaria (alto 105 cm, largo 57) recante un’iscrizione che la quasi totalità degli studiosi ritiene eseguita in alfabeto fenicio. Fu rinvenuta nel 1773 inglobata in un muretto a secco di un vigneto in prossimità dell’abside della chiesa di sant’Efisio a Pula, centro urbano situato nella Sardegna, che prese il posto di Nora a seguito della crisi dell’alto Medioevo.
Conservata nel Museo archeologico nazionale di Cagliari, la stele svela il primo scritto fenicio mai rintracciato a ovest di Tiro, è molto probabile che si tratti di un’iscrizione molto più lunga, distribuita su più pietre, per un’altezza che doveva raggiungere almeno i due metri e sopravvissuta ad oggi solo nella sua parte in basso a destra.
Ma quale è il contenuto dell’iscrizione? Difficile a dirsi ed è motivo di infinite discussioni e litigate tra studiosi.
L’interpretazione più antica è forse quella di William Foxwell Albrigh, risalente al 1941: l’archeologo americano, all’epoca la massima autorità mondiale dell’epoca in materia di manoscritti ebraici antichi, ipotizzo che fosse una sorta di decreto di ostracismo, in cui un maggiorente locale veniva mandato in esilio come punizione per avere tentato di rovesciare il governo della città
Il problema è che tale interpretazione non si sposa con la realtà socio economica ricostruita dall’archeologia, in cui, come già evidenziato, non era presente una città, ma un emporio frequentato solo nei mesi estivi, che si interfacciava con una serie di oppida cantonali, distribuiti sul territorio: di conseguenza, i complessi meccanismi istituzionali ipotizzati da Albrigh difficilmente potevano avere senso.
Un’intepretazione che è andata molto per la maggiore è stata quella della stele celebrativa di una grande vittoria militare, una sorta di ex voto associato al tofet della città: vittoria che a seconda degli studiosi poteva essere stata ottenuta sui nuragici, oppure sulla semimitologica città di Tartesso in Spagna. Anche in questo caso, oltre a una mancanza di una città vera e propria, le modalità di occupazione del territorio evidenziate dall’archeologia, facevano pensare a un rapporto collaborativo con i locali, piuttosto che a una conquista. Né, a differenza di quanto avverrà con Cartagine, non vi era nelle città fenicie una spinta imperialistica, specie su territori ben difficilmente controllabili per distanza e semplice logistica
Stesso problema, è l’interpretazione che ne ha dato nel 1972 l’orientalista J. Brian Peckham, secondo il quale la stele parlerebbe di una fallita (o parzialmente fallita) penetrazione in Spagna e quindi del necessario ritorno in una base meno occidentale (appunto la Sardegna), ai tempi di Pumayaton di Tiro (831-785 a.C.), conosciuto presso i greci come Pigmalione.Al di là dei problemi evidenziati in precedenza, sarebbere difficile comprendere il perché i fenici avrebbero eternato per i posteri il ricordo di una batosta ricevuta.
Richard Miles, la star dei documentari della BBC, che è esperto di storia cartaginese e di tarda antichità, ha invece ipotizzato che la stele sia una sorta di ex voto al al dio Pumay, che apparterrebbe al pantheon nuragico, dedicato da un alto funzionario fenicio di nome Milkaton, dopo che la sua nave e tutto il suo equipaggio erano riusciti a sopravvivere a una grande tempesta nel viaggio verso la terra di Tartesso.
Il che implicherebbe l’esistenza di un santuario, forse inizialmente associato al pozzo sacro nuragico, che poi si evolverà o nel presunto tempio di Tanit o a quello di Eshmun, dio della guarigione, che in età romana diventerà il santuario di Esculapio.
Ipotesi che rientra in quella più generale, con le infinite sfumature del caso, che ipotizza come la stele celebri la fondazione di un tempio o di un santuario: ipotesi che ritengo forse più probabile, in cui probabilmente lo spazio sacro, in cui uno dei Di indigetes locali, onorato anche dai mercanti, garantiva l’extraterritorialità dell’emporio e la correttezza degli scambi commerciali…
Alessio Brugnoli's Blog

