Alessio Brugnoli's Blog, page 91

October 27, 2019

La Taverna Ducale di Popoli







Nonostante le vantate parentele con Stuart, affermavano infatti di discendere dal re di Scozia Duncan, ucciso da Macbeth, è probabile che i Cantelmo abbiano origine provenzale, terra da cui proveniva Giacomo, il capostipite della casata.


Condottiero al seguito di Carlo I d’Angiò, dopo la vittoria definitiva sugli Svevi, ottenne dal re del Regno di Napoli dei feudi in Abruzzo (Popoli) e in Valle di Comino (Alvito), territori che da secoli erano oggetto di rivendicazioni da parte di abbazie feudali come Montecassino e Casauria, ai confini della giurisdizione civile dell’Abruzzo.


Giacomo è passato alla storia come una persona di poca importanza, tirchio e senza grandi ambizioni politiche; però, probabilmente, dato che fu vicario angioino in Lombardia e a Roma e Giustiziere, ossia governatore dell’Abruzzo, ebbe doti e capacità maggiori di quelle che riportano gli storici.


Giacomo morì nel 1310, lo stesso anno in cui morì suo figlio Rostaino. Costui però ebbe maggiore successo del padre, perché dal 1292 fu nominato dal re “capitano di Napoli”, titolo che gli garantiva la reggenza dei supremi tribunali del Regno.


Uno dei figli di Rostaino, con lo stesso nome del padre, che aveva ereditato Popoli, si accorse come questo paesino fosse tappa obbligata per tutti i capi di bestiame che da L’Aquila per la transumanza erano condotti in Puglia (circa due milioni di capi di pecore, secondo le stime locali), seguite da mercanti, viaggiatori e quantità industriali di prostitute.


Rostaino II si fece due conti e decise di imporre un pedaggio a tutta questa massa di persone: poi, visto che aveva un certo spirito imprenditoriale, decise anche di buttarsi sul commercio, dato che questa marea di gente, avrebbe anche dovuto mangiare.


Per cui, oltre a organizzare un mercato settimanale, decise di trasformarsi in commerciante, vendendo ai viaggiatori le “decime” ( tributo su beni o rendite, commisurato alla decima parte del loro valore ) che i vassalli dovevano al loro signore per ogni bene prodotto sulla sua proprietà. Ovviamente, serviva una sorta di supermercato, per procedere a tale attività.


Di conseguenza, Rostaino II fece costruire la cosiddetta “Taverna Ducale”, che ripete l’impianto tipologico delle case-bottega del 300 abruzzese, come le cosiddette “Cancelle” dell’Aquila. Al piano terra sono presenti due portoni; il più grande dà accesso all’ampio locale, il secondo, più piccolo, consentiva di raggiungere il piano superiore.


L’arco presente all’ingresso minore rinvia a portali presenti all’Aquila e soprattutto a Napoli. La provenienza di tale profilo è infatti napoletana, ma la sua origine è probabilmente senese. Altri portali di derivazione senese sono presenti in Abruzzo anche a Penne, Guardiagrele e Celano. La taverna popolese invece propone un momento intermedio dell’evoluzione maturatasi a Napoli.


L’intera facciata è eseguita a in conci squadrati di pietra calcarea locale sino all’altezza di una cornice che correndo lungo tutto il fronte funge anche da davanzale per una coppia di bifore divise al centro da un pilastrino; ciascuna di esse presenta al disopra di una colonnina centrale archetti acuti un tempo polilobati e decorazioni elegantemente eseguite in basso rilievo, raffigurante un’insegna araldica della famiglia Cantelmo.


Da notare, gli otto scudi sanniti, decorati da stemmi degli Angioni, dei Cantelmo e delle famiglie a loro imparentate, inframmezzati da bassorilievi con figure allegoriche. Negli anni successivi, per ampliare il business l’edificio divenne anche “Taberna” quando ai tavernieri fu data la possibilità di panificare, per cui ai compratori e viandanti, che si fermavano per l’acquisto delle merci, fu data anche la possibilità di ristorarsi non solo col vino ma anche col pane o altro cibo.


Nonostante questa sorgente infinita di denaro, i Cantelmo furono sempre esosi nei confronti della popolazione, tant’è che la convivenza dei popolesi con i vari esponenti della famiglia, succedutisi nel governo del feudo, non fu mai tranquilla. I cittadini contestarono sempre e con ogni mezzo il dominio dei loro signori, attraverso numerose proteste e istituendo una loro Taverna o Taverna Nuova, accanto alla “Vecchia”, voluta nel 1574 dall’Università, ovvero dal Comune, come testimonia ancora oggi lo stemma collocato al vertice del suo imponente ed elegante portale, che minò nel tempo con la sua attività il prestigio e il potere economico della famiglia feudataria.


A seguito di numerose proteste e rivolte, nel 1602 i cittadini inoltre allestirono una macina del grano prima a Pratola Peligna e poi a Sulmona, forti dell’aiuto dell’Università, per boicottare il mulino del duca. Questo tentativo tuttavia fallì e alla fine i popolesi ottennero in concessione il mulino ducale, dietro il pagamento di un fitto perpetuo, che consisteva in 180 salme di grano pulito, ossia l’equivalente di 226 quintali. Nel 1680 le due Taverne, unite e messe in comunicazione, furono date in affitto a chiunque ne facesse richiesta. Entrambe furono acquistate il 25 gennaio 1875 da Francesco Forniti; adibite a stalla, caddero poi in disuso e furono abbandonate. Successivamente la sola Taverna Vecchia fu acquistata dal Ministero della Pubblica Istruzione, divenendo proprietà dello Stato.


L’edificio ha ospitato per anni un Antiquarium, una raccolta di pezzi lapidei la cui provenienza è sconosciuta, fatta eccezione per l’ara pagana del I – sec. d.C. offerta dal Sevir Augustalis Caius Pontius alla raffigurante Iside vincitrice, al frammento di epigrafe (I -sec, d.C.) e alla colonna ornata da capitello ionico con sottostante figura antropomorfa ed elementi fogliacei in pietra calcarea del XVI secolo, rinvenuti nell’aprile del 1952 da un gruppo di boy scouts dell’ASCI del Popoli 1° nella località di Santo Padre, e i due mensoloni provenienti dal Palazzo Forniti, (sec. XVI) così come l’iscrizione del lanificio edificato da Giovannella Carafa vedova di Restaino Cantelmo e madre di Giovan Giuseppe Bonaventura Cantelmo nel secolo XVI (1519). I restanti pezzi sono di varia epoca e foggia.


Sulla destra spiccano due statue togate di epoca romana in pietra calcarea, non acefale, ma modelli sui quali coloro che, maschi o femmine, volevano lasciare l’effige nel tempo, vi facevano applicare la propria. Era una tipologia molto diffusa nell’Italia romanizzata: poste in luoghi pubblici o in edifici privati spesso funerari, erano eseguite “in serie” poi caratterizzate con l’inserzione della testa-ritratto: In una è raffigurato un personaggio togato , nell’altra è la rappresentazione di una figura femminile panneggiata. Inferiormente è la stele in calcare con cornici decorate e con iscrizioni su tre facce, dedicata alla Magna Mater e ad Attis, con la menzione anche della Sacerdotessa Acca Prima. (I – II sec. d.C.)


Forse provenienti dalla vicina Corfinio o dalla villa estiva dei Cantelmo “Villa Giardino”. I soli pezzi di epoca romana sono sottoposti alla giurisdizione della Soprintendenza Archeologica di Chieti. Gli altri reperti risalenti al XVI e XVII secolo sono di natura civile e religiosa, come il bassorilievo raffigurante l’Onnipotente e l’altro dell’Angelo Annunziante che mostra nel panneggio l’eleganza e la raffinatezza della sua fattura.


Ad oggi, però, la struttura è chiusa, con gravi danni al turismo della cittadina..

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Published on October 27, 2019 05:03

October 26, 2019

La Strage del Pane


In questi giorni, in cui in molti paesi del Sud America, a cominciare dal Cile, le proteste per la crisi economica sono represse nel sangue dai militari, quasi è passato inosservato un anniversario di un evento analogo, che si svolse però qui in Italia, la strage del pane di Palermo, ricordata in una targa in un angolo quasi nascosto di via Maqueda.


Nel 1943, in Sicilia vi era la fame nera: i pochi che si salvavano erano i soldati, e neppure tutti, che a sentire mio nonno


“Mangiavamo poco e da schifo, ma almeno mangiavamo”.


La situazione era talmente grave che persino Edda Ciano, la figlia di Mussolini, scriveva al padre segnalandogli che


“da mesi che mancano la pasta e il pane e il problema è gravissimo e può da un momento all’altro diventare catastrofico anche politicamente”


Per questo e non per l’aiuto della Mafia, che ci fu, ma fu alquanto limitato, gli Alleati furono accolti dalla popolazione civile come liberatori; la speranza che aiutassero il palermitano medio a riempirsi la pancia.


Il problema è che l’AMGOT, il governo militare alleato,trascurando la continua polemica tra inglesi e americani, che minava sempre le sue decisioni, non era certo costituito da fulmini di guerra. Da una parte, decise come i salari dei lavoratori fossero fissati ai valori precedenti il momento dell’invasione, a eccezione di quelli dei dipendenti civili delle forze armate alleate ai quali si sarebbero applicati i valori di una scala salariale preventivamente fissata sulla base dell’esperienza della classificazione e dei valori salariali inglesi in Tripolitania e delle vaghe informazioni ricevute dall’Italia.


Peccato che nessuno di quei fenomeni ipotizzò come, in una situazione di occupazione militare, il costo della vita potesse esplodere, anche grazie all’emissione allegra delle Amlire, che alimentò una spirale inflazionistica: di conseguenza, il costo della vita salì del 200%. Per cercare di mettere una pezza, l’AMGOT cercò di congelare i prezzi delle derrate alimentari e dei beni di consumo, allienandoli ai livelli ufficiali prescritti dalle leggi emesse durante la guerra dal Fascismo: come risultato, esplose la borsa nera.


Borsa nera che fu peggiorata dalla disorganizzazione fantozziana degli ufficiali agli affari civili (Civil Affairs Officier’s, CAO’s) e della distorta percezione della realtà dell’AMGOT: di fatto, la razione alimentare quotidiana delle tessere annonarie, 300 gr. di pane e 40 gr. di pasta, non fu mai garantita, a causa dell’inagibilità di dei ponti, delle strade e delle ferrovie, causata dai proprio dai bombardamenti alleati.


La situazione, già brutta di suo, peggiorò l’undici febbraio 1944, quando il proclama numero 16 del generale Alexander, governatore militare di tutto il territorio italiano occupato, sanciva la fine dell’amministrazione Alleata in Sicilia, durata sette mesi esatti, ed il ritorno dei poteri politici ed amministrativi sull’isola al Governo italiano, pur sotto la supervisione della Commissione Alleata di Controllo.


Sia il prefetto Paolo D’Antoni, sia l’Alto Commissario Salvatore Aldisio (ex ministro badogliano, molto legato a don Luigi Sturzo e padrino di battesimo del Presidente Mattarella) cercarono di risolvere quanto possibile il problema, anche per togliere un argomento propagandistico ai separatisti siciliani, ma le risorse erano quelle che erano.


La mattina del 19 ottobre 1944, i palermitani, esasperati, decisero di andare a manifestare davanti Palazzo Comitini, l’attuale sede della Provincia, all’epoca invece occupata provvisoriamente dagli uffici della Prefettura e dell’Alto Commissariato.


La folla, dopo avere percorso via Cavour, cominciò a reclamare pane e generi di prima necessità ed anche per denunciare l’imperante mercato nero dominato da “intrallazzisti” e speculatori senza scrupoli. Una larga fetta di scioperanti era costituita da impiegati comunali che chiedevano l’estensione, anche a loro, degli aumenti di stipendio che il governo centrale aveva riconosciuto agli impiegati statali.


Purtroppo, sia il Prefetto, sia Aldisio, che forse sarebbero riusciti a calmare gli animi, erano a Roma: il Viceprefetto Giuseppe Pampillonia si fece prendere dal panico e decise di telefonare al comando militare della Sicilia (il comandante era quel generale Giuseppe Castellano che firmò l’ armistizio dell’ 8 settembre a Cassibile), per chiedere un congruo contingente di soldati da impiegare per disperdere la folla.


Dalla caserma Ciro Scianna di corso Calatafimi i soldati del 139esimo fanteria Bari utilizzato per costituire la IV Brigata Sicurezza Interna, la Sabaudia, furono fatti partire alla volta di via Maqueda su due camion al comando del giovanissimo sottotenente Calogero Lo Sardo di Canicattì. Ai circa cinquanta soldati, armati con fucile modello ’91 comprensivo di due pacchetti di cartucce, furono consegnate a testa due bombe a mano.


A quanto pare, il sottotenente, prima di intervenire, fece sosta in in Questura, verosimilmente per chiedere istruzioni al governo italiano; presidente del Consiglio e Ministro degli Interni ad interim era Ivanoe Bonomi.


Qualcuno, non si è mai appurato chi, diede ordine di applicare la famigerata circolare, datata luglio 1943, del generale Roatta che autorizzava, in presenza di adunate sediziose, a sparare ad altezza d’ uomo, confermata nell’agosto del 1944 dal governo Bonomi.


Arrivati a via Maqueda, i soldati cominciarono a sparare a destra e manca: fu un eccidio, caddero 24 persone, tra cui due donne e 15 ragazzi, oltre a 158 feriti molti dei quali moriranno nei giorni successivi.


Giovanni Pala, uno dei soldati che apparteneva al secondo drappello, che non sparò, così raccontò la vicenda.


In Via Maqueda non era in corso alcun assalto. Eppure, quando la nostra colonna raggiunse alle spalle la folla, il tenente diede l’ordine di scendere dai mezzi e di caricare i fucili. Tutto accadde in pochi istanti; i soldati che erano in testa al convoglio cominciarono a sparare ad altezza d’uomo e a scagliare bombe. Fu il terrore, una scena bestiale


La notizia della strage fu censurata sia dal governo italiano, sia dalle autorà alleate: fu autorizzata soltanto la pubblicazione, sul Giornale di Sicilia del 20 ottobre 1944, del manifesto a firma del Partito d’ Azione, del Pci, della Dc, del partito della Democrazia del lavoro, del Pli e del Partito socialista nel quale veniva sottolineata la gravità dei fatti affermando che


come vogliamo che nelle masse si accresca la coscienza di popolo civile così esigiamo che la vita dei cittadini sia a tutti sacra.


Furono deferiti al tribunale militare un sottotenente, tre sottufficiali e 21 soldati, ma il processo farsa, tenuto a Taranto, derubricò le accuse a


“eccesso colposo di legittima difesa”


Il che portò alla loro assoluzione


“per essere, i delitti, estinti da amnistia”.


ossia il condono delle pene proposto alla fine della seconda guerra mondiale in Italia dal Ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, approvato dal governo italiano, promulgata con decreto presidenziale 22 giugno 1946, n.4.

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Published on October 26, 2019 10:07

October 25, 2019

Google, Esquilino e Chinatown

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Nonostante gli inviti al boicottaggio da parte di Roma fa Schifo e i costi elevati, almeno nelle zone che sto bazzicando, ho l’impressione che Uber Jump stia avendo un buon successo; speriamo che, terminato l’effetto novità, questo duri nel tempo.


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Solo che, questo interesse, ha avuto uno strano effetto collaterale all’Esquilino. Nell’app di Jump, utilizzata per trovare e prenotare le bici, il nostro rione è identificato come Chinatown. Ora, dato che l’app di Jump utilizza le API di Google Maps, non perchè, come ha affermato Tonelli in commento su una principali pagine Facebook dedicate all’Esquilino,


Jump è di Uber, Uber è di Google. Ergo Jump usa le maps di Google


Dato che il venture capital della società di Mountain View ha una partecipazione minimale, circa un 1%, in Uber, a fronte ad esempio del 6% di Baidu, il suo concorrente cinese, ma per il semplice motivo che, almeno finchè Huawei non si decida a darsi una mossa, non è che ci sia molta scelta in giro, è venuto il dubbio a molti di andare a controllare anche sul WebGis di base.


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Ebbene, i sospetti erano fondati: anche Google Maps indica l’Esquilino come Chinatown. Un complotto? In realtà è un effetto peculiare delle modalità di funzionamento di questo SaaS. Le sua fonte dati primaria, cosa che sembrerebbe a prima vista strano, sono le immagini, raccolte dai satelliti, dalle auto, dai veicoli a guida autonoma, dai doni e dai trekkers (sì, Google paga persone che vanno spasso, con telecamere al seguito, per riprendere il panorama).


Queste immagini, devono essere organizzate e strutturate in un insieme coerente: per cui, si aggiunge una fonte dati secondarie, le mappe. provengono da oltre 1.000 fonti di terze parti autorevoli da tutto il mondo. Alcuni forniscono informazioni su un intero Paese, altri sono specifici per le regioni più piccole. I team interni di Google controllano poi attentamente ogni fonte autorevole, per garantire che siano disponibili i dati più accurati e aggiornati.


Un lavoro di data entry di una noia mortale che in attesa che venga affidato a qualche IA, è stato esternalizzato alle pubbliche amministrazione, che hanno tutto l’interesse che Google Maps sia aggiornato, che provvedono loro a caricare dati relativi a nuove strade e indirizzi di pertinenza alla loro area geografica.


Per associare immagini e mappe, si utilizza la solita buona vecchia rete neurale, che permette di ridurre al minimo i tempi operativi; il problema è che un territorio, a causa dell’attività umana, non è statico, ma varia nel tempo.


Per tenere traccia di questi cambiamenti, Google si appoggia alle di Local Guides e agli utenti di Google Maps, che l’azienda autorizza a correggere la mappa tramite il pulsante per l’invio di feedback. Il team interno esamina le informazioni e le pubblica se opportuno.


Per cui, cosa è successo? Qualche buontempone ha fornito a Google un feedback sull’identificazione tra Esquilino e Chinatown, uno sviluppatore a Dublino o a Mumbai, che non ha la più pallida idea di cosa sia il nostro Rione, fa una una ricerca sul suo motore di ricerca e si imbatte per esempio in questo e in quest’altro. Di conseguenza, si convince che la segnalazione sia giusta.


Ora, io, a differenza di Li er Barista, che ha commentato la vicenda con un


se volevo vive a Cianataunne, me aprivo er bare a Shangai, mica all’Esquilino !


avendo tanti amici e conoscenti cinesi, essendo affascinato dalle loro lingue e culture (una delle cose che mi manca nella dieta è la loro cucina) e avendo visto un numero spropositato di volte Grosso guaio a Chinatown e L’anno del dragone, sarei felice di vivere in una vera Chinatown, vivace e piena di turisti.


Ma l’Esquilino non è questo: è un Rione con una sua identità, in cui nel tempo si sono sovrapposte stori e di ogni tipo e che oggi, nel bene e nel male, con tutti i suoi pregi e difetti, è un crogiolo di popoli e culture.


I dati demografici parlano chiaro: a fronte di una popolazione residente di 36.959 abitanti, risultano essere presenti 9.776 stranieri, di cui il 45.1% donne, ossia un quarto della popolazione.


I gruppi più numerosi provengono da: Bangladesh (14.2%); Filippine (7,2%); Romania (7,2%); Cina (5,7%); Eritrea (5,5%); Afghanistan (4,3%); Ucraina (3,3%); Somalia (3,0%); India (2,4%); Costa d’Avorio (2,2%); Perù (2,1%); Polonia (2,1%); Francia (2,0%); Nigeria (2,0%); Pakistan (1,8%); altri Paesi (35,2%).


Definire Chinatown un tale mosaico multietnico, è assai riduttivo e tradisce la sua identità… In ogni caso


Wang Chi : L’uomo coraggioso ama sentirsi la natura sulla pelle.


Jack Burton: …Sì, e l’uomo saggio ama usare l’ombrello quando piove!


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Published on October 25, 2019 12:48

October 24, 2019

L’evoluzione del mercato Telco in Italia

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Un mio vecchio amico è rimasto sorpreso da una dato, che noi che lavoriamo nelle Telco, diamo alquanto per scontato, ossia che un utente americano, per accedere a Internet, paga mediamente 80 dollari al mese, spacca e pesa circa 72 euro.


Ora, trascurando la questione del diverso tenore di vita e del digital divide, che può sembrare strano, ma per motivi logistici, è assai più accentuato negli USA che in Italia, molto è legato al fatto nel Belpaese i costi per le Telco sono assai più bassi, rispetto agli paesi sviluppati. Sempre parlando di medie, conosco singoli che spendono cifre assia più alte di quelle viste negli USA,una famiglia italiana utilizza il 9% del suo reddito per pagare la bolletta del gas, il 4,6% per pagare la bolletta dell’elettricità (entrambe nonostante la liberalizzazioni un 15% superiori alla media europea) e il 2,4% per le spese di Telecomunicazioni.


Ossia tradotto in soldoni, si spendono all’anno per il gas 1112 euro, per l’elettricità 565 e per le Telco, 312. Questo perchè, I prezzi nel settore delle telecomunicazioni hanno subito una fortissima contrazione, pari ad oltre il 40% negli ultimi 16 anni, in controtendenza in quanto avviene in altre utility, luce e gas ad esempio sono aumentate mediamente di un 24%; ciò dalle decisioni, giuste o sbagliate, se ne potrebbe parlare all’infinito, dell’Autority, che a differenza di altri settori hanno impedito di fare cartello, dalla spietata guerra di prezzo tra gli operatori, accentuata dall’arrivo di Iliad, dal fatto che i clienti vedono le telco come una commodity a basso valore aggiunto, a supporto dei servizi erogati sul Web e alla maggiore presenza di centrali d’acquisto pubbliche e private, la Consip e la CRUI di turno, che hanno, per i settori business e public, calmierato i prezzi Questo ha determinato una forte riduzione dei ricavi, pari a circa il 30% nell’ultimo decennio.


Nello stesso periodo gli operatori Telco hanno però continuato ad investire per il rinnovo delle reti e gli effetti di questi investimenti si sono visti chiaramente: nonostante le lamentele, le coperture della rete fissa larga >30 Mbps e della rete LTE sono in linea con le altre nazioni europee e ben superiori, ovviamente per motivi geografici, a quelle degli USA.


Lo so, se vediamo le statistiche, i numeri della nostra connettività internet sono impietosi: la questione però, poco dipende dalla rete e molto dal contesto di mercato. Se vediamo i biechi numeti l’86,8% delle abitazioni italiane è raggiungibile tramite una rete di nuova generazione (FTTC e FTTH), un’ incidenza inferiore a Olanda, Belgio e Uk, ma con la peculiarità che la tecnologia più performante, la tecnologia FTTH (fiber to the houses) che in teoria permetterebbe sino a 1 Gbit/s, rispetto a queste nazioni, ha penetrazione assai maggiore: raggiunge il 21,7% delle abitazioni, percentuale molto superiore a quella di UK e Germania, addirittura ferma al 7%. Eppure, nella media, questa ha disponibilità di banda, che non è velocità, perchè c’è sempre la questione latenza, che è ben superiore alla nostra.


La nostra media è purtroppo così infima, perché l’Italia ha un basso take up del broadband (numero contratti ogni 100 abitanti) con un 26,7%, il valore più basso tra i paesi europei. Significa che un’alta percentuale di utenti, o perché concentrati sul mobile o perchè non ritengono la fibra di loro interesse, dato che c’è una buona metà di italiani che non naviga abitualmente su Internet, preferiscono tenersi l’ADSL, meno performante, e spesso con contratti poco convenienti.


Tornando al discorso sul crollo dei prezzi, la contrazione dei ricavi, da una parte, e i continui investimenti, ha avuto un effetto drammatico sulla generazione – misurata dalla differenza tra Ebitda e Capex, che si è ridotta del 70% negli ultimi 10 anni, che è stata addirittura peggiorata dagli investimenti delle licenze 5G.


Di conseguenza, i consumatori sono mediamente soddisfatti, ma da nel tentativo di ridurre i costi, le Telco stanno cercando di tagliare il personale e diminuire gli investimenti: le poche che relativamente si salvano da questo bagno di sangue, sono quelle che hanno differenziato il business, fornendo sempre più servizi IT.


Detto questo, diamo un sguardo in generale ai conti delle aziende telefoniche europee, dove, nonostante una certa italica tendenza al piagnisteo e al catastrofico, TIM che ha anticipato rispetto ai suoi concorrenti la ristrutturazione del business e dei suoi processi industriali, non è messa poi così male.


La maggiore compagnia Telefónica europea è ovviamente Deutsche Telekom con 74,9 mld di ricavi, in crescita del 2,6% sul 2016 e del 24,6% rispetto al 2013; su quest’ultima performance ha inciso la controllata T-Mobile US, attiva solo nella telefonia mobile con 58,7 milioni di clienti (oltre a 13,9 milioni gestiti in wholesale), i cui ricavi sono quasi raddoppiati nel quinquennio, passando dai 18,6 mld nel 2013 ai 35,7 mld nel 2017, grazie anche all’acquisizione nel maggio 2013 della MetroPCS (con 8.918 mila clienti in abbonamento, rappresentando all’epoca il quinto operatore mobile in USa).


Segue il Gruppo Telefónica con 52 mld (invariato sul 2016) e Vodafone con 46,6 mld, in diminuzione del 2,2% rispetto al 2016, anno in cui la società ha proceduto al deconsolidamento delle proprie attività in Olanda (con ricavi pari a 1,9 mld nell’esercizio 2015-16) e all’inclusione tra le attività in via di dismissione della controllata in India, entrambe conferite a due joint-venture di nuova costituzione. A questo vanno poi aggiunti i problemi legati alla perdita di quote di mercato nel redditizio mercato italiano.


Sotto il profilo reddituale, a Tim spetta nel 2017 la seconda più elevata redditività industriale: il margine operativo netto della società è pari al 18% del fatturato, inferiore solo al 21,4% di Telenor; segue la BT Group (16,7%), mentre Altice e Vodafone riportano le incidenze minori (rispettivamente 3% e 9,4%). Nel 2017 Altice è l’unico Gruppo a chiudere l’esercizio in perdita per 0,5 mld, comunque in miglioramento rispetto ai -1,6 mld del 2016 (anche grazie agli effetti della riforma del fisco Usa), mentre Vodafone è tornata in utile con i conti non più appesantiti dalle svalutazioni contabilizzate nel 2016 per 4,5 mld e relative alle attività indiane nell’ambito del loro conferimento alla joint-venture con il Gruppo Aditya Birla.


L’utile di TIM si è contratto del 38% fermandosi a 1,1 mld, dopo l’iscrizione di oneri non

ricorrenti sul personale per circa 700 milioni (a fronte dell’uscita programmata di circa 4 mila dipendenti, in ottica di riduzione del personale), con l’incidenza sul fatturato scesa dal 9,7% nel 2016 al 5,8% rispetto al 9,6% della norvese Telenor. Gli utili di Deutsche Telekom sono passati da 2,7 mld a 3,5 mld (+29,4%), sfruttando anche un beneficio per 2,7 mld derivanti dalla riforma fiscale di Trump, che ha impattato notevolmente sulle sue consociate americane .


Telecom Italia segna anche la seconda migliore produttività, con un valore aggiunto netto per addetto pari a 130 mila euro (lo stesso valore segnato da Telenor), cui si abbina un contenuto costo del lavoro procapite pari 53 mila euro, inferiore al dato di Deutsche Telekom (69m), Orange (62m) e BT Group e Altice (con 57m ciascuno), ma superiore ai 42 mila euro della norvegese Telenor, il cui relativamente modesto costo del lavoro si giustifica principalmente analizzando il dislocamento geografico dei propri addetti, per lo più concentrati in paesi a basso costo della vita: 5 mila in Europa dell’est (Serbia, Montenegro, Bulgaria e Ungheria; attività cedute nel luglio 2018 insieme alle attività indiane), 16,8 mila nel sud-est asiatico (tra cui Malesia, Bangladesh, Myanmar, Pakistan e India) e solo 9 mila in Nord Europa.


Da queste considerazioni consegue che nel 2017 i Clup migliori (costo del lavoro su valore aggiunto netto) sono appannaggio di Telenor con un’incidenza pari al 32,4% e di TIM con il 40,9%, seguite da Telèfonica con il 48,6%. I valori meno soddisfacenti sono quelli di Deutsche Telekom (61%) e Orange (60,8%) che risentono di elevati costi unitari del lavoro.


Insomma, nella storia, meglio degli impiegati TIM hanno fatto probabilmente i muratori egiziani che hanno costruito le Piramidi per Cheope !


Sotto il profilo patrimoniale, Vodafone ha di gran lunga la maggiore solidità finanziaria, con debiti finanziari sul patrimonio netto pari al 63,1%. Per TIM, che si porta ancora sul groppone le conseguenze delle scalate di Colaninno e di Tronchetti Provera, la stessa incidenza è più che doppia con un valore che sfiora il 130% ma che è comunque in forte diminuizione sia rispetto al 138,2% del 2016 sia, soprattutto, al 173,2% del 2013.


Telefónica ha una leva maggiore (209,4%) mentre Deutsche Telekom e BT Group segnano valori simili a quello di TIM (rispettivamente 135,5% e 138,5%). La norvegese Telenor si contraddisitngue anche per la più elevata incidenza della liquidità sull’indebitamento finanziario (30,3%), con Altice agli antipodi (2,2%) e Telecom Italia con un valore intermedio (11,6%).


Il che a fronte della crescita dell’Ebitda e alla maggiore generazione di cassa, rende la situazione non dico rosea, ma neppure così tragica…

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Published on October 24, 2019 13:19

Dylan Dog e Batman (con Joker) insieme in un fumetto

Batman Crime Solver


Storica partnership tra Bonelli, Dc Comics e Rw Edizioni: nasce una miniserie con eroi e anti-eroi dei due universi. Il numero zero a Lucca Comics.

Se il Joker cinematografico vi ha folgorato e non vedete l’ora di rituffarvi nelle atmosfere di Gotham City, ma al tempo stesso siete appassionati di fumetto «scuola italiana» questa notizia è destinata a sconvolgere ogni vostra certezza: l’universo di Batman incontra quello di Dylan Dog. Una coproduzione italo-statunitense che abbraccia Sergio Bonelli Editore e Dc Comics con Rw Edizioni porta a una particolarissima miniserie crossover che avrà per protagonisti Batman, Joker, Dylan Dog e Xabaras.



Il numero zero a Lucca Comics

Il numero zero del crossover, intitolato Relazioni Pericolose, scritto da Roberto Recchioni e disegnato da Gigi Cavenago e Werther Dell’Edera, sarà incentrato sui personaggi di Dylan Dog e Batman, con le nemesi Xabaras e lo stesso Joker, e verrà proposto in esclusiva allo…


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Published on October 24, 2019 11:09

October 23, 2019

IA e Archeologia

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Può sembrare strano, ma il rapporto tra IA, archeologia e filologia non è recente: di fatto, è una trentina d’anni che si ne discute. Ora, benchè tutti gli strumenti fossero disponibili sin dagli anni Novanta, la teorizzazione delle reti neurali nasce nel 1943 e di fatto gli studi più importanti si chiudono nel 1986, all’epoca chi affrontava questo tema si trovava davanti a un problema all’apparenza insormontabile: mancava la capacità computazionale, tra l’altro assai costosa e quindi poco appetibile agli scarsi fondi degli archeologi, per implementarli nel concreto.


Grazie alla Prima Legge e Seconda di Moore, la capacità computazionale disponbile è tanto aumentata, quanto calata di prezzo: per cui, oggi è possibile realizzare progetti che, sino a un lustro fa, sembravano fantascienza.


Ne cito tre, di cui se ne è parlato molto. Il primo riguara l’epigrafia, i cui studiosi spesso si dannano l’anima a capire testi resi mutili dal tempo. Un gruppo di lavoro del Google DeepMind e dell’Università di Oxford, composto da Yannis Assael, Thea Sommerschield, Jonathan Prag ha messo a punto il sistema Pythia, un algoritmo basato su reti neurali, che prende nome dalla profetessa di Apollo nell’oracolo di Delfi, in grado di completare le parti mancanti degli antichi testi greci, vecchi di oltre 2600 anni.


Le reti neurali di Pythia, un deep learning concettualmente simile a quello che sta dietro a Google Translate, sono state “allenate” con oltre 35.000 frammenti, contenenti oltre 3 milioni di parole, imparando a riconoscere schemi ed elementi ricorrenti nei testi, tenendo conto del contesto in cui le parole compaiono, della grammatica e persino sulla forma delle lettere sulle iscrizioni.


Attualmente il sistema è progettato per ricevere in input un testo incompleto e fornire in output 20 differenti suggerimenti che potrebbero completarlo, con l’idea che un esperto possa in seguito selezionare quello che meglio si adatta alla frase. Pythia è stato poi testato contro un team di esperti: dopo aver selezionato circa 3000 iscrizioni danneggiate, la frequenza di errore dell’algoritmo si è attestata al 30.1% contro il 57.3% degli epigrafisti umani.


Inoltre, nel 73.5% dei casi la sequenza giusta compariva tra le prime 20 ipotesi suggerite da Pythia che ha analizzato l’intero corpus in pochi secondi, laddove gli esperti riuscivano a elaborare circa 50 frasi ogni 2 ore. Per come è stato impostato, approccio comune a tutti gli strumenti di IA dedicati all’archeologia, Pythia non vuole sostituirsi agli studiosi, ma supportarli al meglio nell’identificare l’interpretazione più sensata.


Il secondo progetto, basato sull’utilizzo della rete neurale, è dedicato allo studio dei sigilli del Vicino Oriente, in cui il deep learning, identificando le relazioni, le occorrenze e i cluster dei simboli che vi appaiono, aiuta a interpretare al meglio l’universo spirituale che vi era dietro.


Il terzo progetto è assai più ambizioso: usare l’intelligenza per decifrare scritture per noi oggi incomprensibili. Jiaming Luo e Regina Barzilay del Massachusetts Institute of Technology di Boston insieme a Yuan Cao dal laboratorio di intelligenza artificiale di Google a Mountain View in California, hanno sviluppato un sistema di apprendimento automatico in grado di decifrare automaticamente la Lineare B. L’équipe di ricerca è stato in grado di tradurre correttamente il 67,3% dei tratti della Lineare B, percentuale assai buona, tenendo conto degli apax e delle forme che contengono in nuce le peculiarità dei dialetti dell’epoca classica.


Il passaggio successivo, sarebbe la decifrazione della famigerata Lineare A. L’idea di base dell’algoritmo è assai semplice: l’idea alla base dell’algoritmo è che le parole siano correlate tra loro in modi simili, indipendentemente dalla lingua in questione, secondo quanto affermato dalla linguistica generativo-trasformazionale di Chomsky.


Le parole in lingue diverse occupano gli stessi punti nei rispettivi spazi dei parametri, cosa che rende possibile mappare un’intera lingua su un’altra lingua con una corrispondenza uno a uno. In questo modo, il processo di traduzione delle frasi diventa il processo di ricerca di traiettorie simili attraverso questi spazi, e la macchina non ha nemmeno bisogno di “sapere” cosa significano le frasi.


Il problema è nell’apprendimento delle reti neurali: o si ha un’ampia disponibilità di testi della lingua da tradurre da dargli in pasto, oppure bisogna addestrarle con una lingua simile, partendo dall’idea che una lingua possa mutare solo in limitato numero di modi.


Per cui, i simboli nelle lingue correlate, hanno distribuzioni simili, le parole correlate hanno lo stesso ordine di caratteri, le strutture grammaticali si somigliano… Il dramma della Lineare A è che i testi da processare sono pochini e ancora non abbiamo chiaro a quale lingua possa essere imparentata. Però, l’attuale disponibilità di potenza computazionale, rende possibile in tempi brevi un approccio a forza bruta, riconducibile al


“Proviamole tutte, prima o poi qualcuna la prenderemo!”.


Come siamo messi in Italia, in questo campo? Può stupire, ma siamo all’avanguardia, con due peculiarità, rispetto alle università anglosassoni. Da una parte, l’utilizzo degli strumenti di Google è meno diffuso, per la scarsa propensione dei suoi commerciali a bazzicare l’ambiente universitario; sono assai più diffuse la piattaforma di Azure e IBM Watson.


Dall’altra invece che dedicarsi a un utilizzo spinto delle reti neurali, si preferisce un approccio misto, con la loro associazione con reti bayesiane, per affinare, con regole predefinite, il set di dati utilizzati per l’addestramento.

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Published on October 23, 2019 13:25

October 22, 2019

Bike Sharing all’Amatriciana

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Diciamola tutta: sotto certi aspetti, il termine bike sharing non è proprio corretto. Perché l’economia collaborativa, è caratterizzata da almeno tra aspetti:



condivisione, cioè utilizzare in comune una risorsa, di solito privata;
relazione orizzontale tra persone o organizzazioni, dove spariscono i confini tra finanziatore, produttore e consumatore;
presenza di una piattaforma tecnologica, in cui le relazioni digitali vengono gestite e promosse grazie alla fiducia generata da sistemi di reputazione digitale

Caratteristiche che sono rispettati da Airbnb, ma non certo da bikesharing, almeno come è visto in Italia e in Europa, che può essere considerato come una sorta di noleggio pubblico delle bici. Noleggio che funziona bene se si integra con il trasporto pubblico, risolvendo il problema dell’ “ultimo chilometro”, cioè quel tratto di percorso che separa la fermata del mezzo pubblico alla destinazione finale dell’utente e se è protetto da furbi, coloro che sottraggono il mezzo all’uso pubblico, e dai vandali.


In Italia, tale servizio è diffuso e funziona in numerose città, tra loro diversissime, come Milano e Palermo. Il sistema di bici condivisa di Milano (BikeMi) con 283 stazioni attive e 4.650 biciclette (di cui circa 1.000 elettriche e alcune decine per bambini) è il sistema più esteso ed utilizzato d’Italia e rispetta concetto della bicicletta come integrazione e completamento dei mezzi pubblici.


Nel 2016 sono stati effettuati 3,6 milioni di prelievi e gli abbonamenti sono 55.000. Il 21 settembre 2016 si è raggiunta la cifra record di 21.699 prelievi. Dal 30 aprile 2016 è il primo sistema integrato al mondo con biciclette tradizionali, elettriche e per bambini. Il PUMS della città prevede un ampliamento del sistema a 650 stazioni e 13.500 biciclette entro il 2020.


A Palermo, BiciPa, sicuramente meno immediato e con meno penetrazione territoriale di Milano, però svolge un ruolo differente, non di integrazione, ma di sostituzione del trasporto pubblico: spesso e volentieri conviene farsela in bici da Piazzale Don Bosco al Politeama, piuttosto che aspettare il 101.


L’unica città italiana in cui il bike sharing ha fallito è Roma, dove è esistito per alcuni mesi, dieci anni fa. Partì nel 2008, nello stesso anno di Milano e sull’onda di una simile scelta in altre grandi capitali europee. L’amministrazione guidata dall’allora sindaco Walter Veltroni introdusse un bike sharing cittadino – gestito dalla società spagnola Cemusa, senza che Roma dovesse pagare nulla – che nei primi mesi arrivò a circa tremila abbonamenti con circa 400 bici in giro la città, soprattutto nel Centro, poca roba, a dire il vero: ma era un inizio. Nell’aprile del 2008 Gianni Alemanno divenne nuovo sindaco di Roma e decise di cambiare modello: affidò la gestione del bike sharing cittadino ad ATAC, che non sapendo gestire i bus, il suo core business, fece carne di porco del servizio.


Nel 2010, sempre durante la giunta Alemanno, la gestione del bike sharing passò a Roma Servizi per la Mobilità, una società partecipata al 100 per cento da Roma Capitale. Nel 2013 il servizio fu sospeso e mai più riattivato.


Perchè Alemanno cacciò a pedate Cemusa? Il suo servizio funzionava come quello attivo ora a Milano (dove è offerto dalla società Clear Channel) e come quelli di molte altre città del mondo. Una società privata si impegna a installare in città bici e stazioni per bici, e curarne il servizio e la manutenzione, in cambio di spazi per affissioni pubblicitarie. La città ci guadagna perché offre un servizio ai suoi cittadini senza spendere un soldo; l’azienda ci guadagna perché ottiene molti spazi – comprese le bici e le stazioni – per mostrare le pubblicità, per cui è pagata dagli inserzionisti.


Il problema è che tale modello dava fastidio alla lobby delle società che già gestivano gli spazi pubblicitari di Roma, che non volevano nuovi concorrenti tra le scatole; per cui Alemanno, per farle contento, prese la sua decisione suicida.


Marino annunciò l’intenzione di reintrodurlo, ma non ebbe il tempo e forse la voglia, di tradurre le parole in fatti. La Raggi si è resa conto, nonostante i proclami, che il bike sharing a Roma avrebbe dovuto affrontare una serie di problemi non presenti in altre città: la presenza ampia e diffusiva di stalli in tutto il territorio, data la dispersione urbana della Città Eterna, la condizione delle ciclabili, poche, progettate male e pure disastrate e la necessità, data l’orografia, della fornitura di biciclette a pedalata assistita.


Tutte cose che implicano investimenti consistenti, in periodo di vacche magre, e una pianificazione strategica che, indipendentemente dalle amministrazioni, latita nella burocraziona capitolina. Per cui, la Raggi, per togliersi questa rogna, ha pensato di affidarsi ai privati. Inizialmente, ha puntato sul bike sharing free floating, cioè delle bici lasciate per così dire libere e localizzate tramite una app. Il problema è che il modello ipotizzato dai principali provider di questo servizio non era economicamente sostenibile; a questo si è aggiunto il comportamento scorretto di numerosi utenti, che, nonostante i piagnistei di Tonelli, non si è verificato solo a Roma.


Ad esempio, Gobee dichiarò


mediamente il 60 per cento della flotta europea ha subito danneggiamenti, vandalismi o è stato oggetto di fenomeni di privatizzazione


In più, dalle statistiche, sembrerebbe come il tasso di vandalismo romano sia notevolmente al di sotto della media europea. Dopo questo fallimento, la Raggi sta cercando di riprovarci, affidandosi al free floating di Uber Jump, che prevede l’impiego di biciclette elettriche a pedalata assistita, a copertura delle zone del Centro e della Roma bene.


Il servizio, più costoso della media, prevede bici con una velocità massima di 25 chilometri orari, dotate di GPS e di un sistema di blocco necessari a localizzarle sulla mappa, monitorarle e ad iniziare ad utilizzarle tramite l’app di Uber, disponibile per Android e iOS. I passaggi da compiere sono molto semplici: è sufficiente selezionare “Bici” tra le opzioni di prenotazione, verranno quindi visualizzate le bici disponibili nei dintorni e si potrà individuare quella più vicina; lo sblocco della bici scelta avverrà mediante la scansione di un apposito codice QR.


Al termine della corsa si dovrà parcheggiare la bici lontano da zone di passaggio pedonale e di altri veicoli. Le zone vietate sono chiaramente segnalate in rosso nell’app di Uber: provando a parcheggiare in tali aree la bici, l’app inviterà l’utente a spostarla per evitare l’applicazione di una sanzione La bici dovrà essere legata ad una rastrelliera o a un palo sfruttando il lucchetto a U in dotazione. Il servizio fornito da Uber comprende una copertura dei danni che si potrebbero causare a terzi e alle loro proprietà.


Quello di Uber non è servizio pubblico, ma un sistema di mobilità alternativa, orientato a un preciso target di clientela, turisti e romani benestanti. Per fare questo, il pricing e le sanzioni definiscono una precisa barriera d’accesso; la società americana ha deciso di investire a Roma secondo un preciso business plan, che oltre ai ricavi materiali, per raggiungere il punto di pareggio, sia “politici”, per contrattare da una posizioni di vantaggio, l’estensione del suo servizio di sharing economy o in futuro, il trasporto con auto a guida autonoma.


Difficilmente, nonostante le lamentele di Roma fa schifo, farà concorrenza ai negozi che affittano bici al centro di Roma, perché il target di mercato e il servizio che offrono è differente; ma anche se fosse, sarebbe interessante capire da Tonelli il perché Uber va bene quando fa concorrenza ai tassisti e non quando la fa ai biciclettari…


Ora, sperando che Uber Jump non faccia una pessima fine a Roma, come si può passare in futuro da un costoso servizio privato a uno pubblico ?


Da una parte, il Comune deve tornare a investire nel suo bikesharing, con soluzioni efficaci all’avanguardia. Ad esempio, per progettare al meglio la disposizione degli stalli, individuando le aree che ne abbiano maggiore necessità potrebbe una delle soluzioni di Big Data territoriale e di City Forecast, forniti da TIM o da Vodafone, tanto per non fare pubblicità occulta, che aiuterebbero anche l’ottimizzazione della gestione dei flussi di traffico veicolare.


Al contempo, proprio perché Roma, per distribuzione territoriale, non è Milano né Palermo, per evitare che intere periferie rimangano scoperte dal servizio, deve per forza integrarsi con operatori privati, meno elitari di Uber.


Per evitare le sole del passato, i provider del servizio dovranno rispettare delle norme di convivenza civile dettate dalle autorità locali; in un’ottica di decentralizzazione e di partecipazione, i Municipi , a cui verrebbe concessa un’autonomia finanziaria nel campo, potrebbero premiare con sgravi fiscali le società solerti nel prevenire e curare situazioni di degrado e multare e applicare penali, a quelle che invece facciano pesare sull’amministrazione pubblica i costi di recupero di bici vandalizzate o abbandonate.

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Published on October 22, 2019 13:49

October 21, 2019

Parlando di Piazza Ragusa

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Come detto altre volte, Roma fa Schifo, nonostante i suoi proclami, ha le idee alquanto confuse sul Tactical Urbanism, visto che ha difficoltà a comprenderne i pilastri principali: partecipazione, perfettibilità, provvisorietà.


La riprova di questo è nella posizione di Tonelli e assistente sulla polemica sulla riqualificazione di Piazza Ragusa, questione assai complessa, per una serie di motivi difficili da gestire: l’incanalamento dei flussi del traffico, una progetto di riqualificazione stabile e definitivo per l’ex deposito Atac, è assurdo che Roma non riesca a imitare quanto fatto a Palermo per la Stazione Sant’Erasmo e l’ex stand Florio e la presenza della Stazione Tuscolana, uno degli snodi più importanti, per chi vuole raggiungere l’aeroporto con i mezzi pubblici.


Piazza che è stata ripulita di recente dai ragazzi del Retake, anche se spesso siamo in disaccordo, sono il primo a riconoscere quando fanno un buon lavoro e su cui si confrontano due diversi progetti di recupero: uno calato dall’alto, dal Municipio e l’altro, che nasce dal basso, da un tavolo partecipato a cui hanno partecipato tutti i cittadini dell’area.


Il primo, tra l’altro, per motivazioni politiche legati agli equilibri interni ai Cinque Stelle, in cui con 164 voti, non è che abbia fatto questa brillante figura (basti pensare che la manutenzione dei Portici di Piazza Vittorio, che temo non si faccia mai, per la strana abitudine del Campidoglio, che dura dal 1881, di evitare come la peste i doveri legati alla servitù di passaggio, ne ha collezionati 624), prevede cito testualmente


la pedonalizzazione di due dei quattro lati di Piazza Ragusa, con la creazione di “salotti urbani” che colleghino la piazza con il resto del quadrante in modalità pedonale e sostenibile. Il salotto urbano sarà realizzato con pavimentazione rialzata ed ospiterà al suo interno arredi urbani e giochi in muratura. Resterà il transito veicolare a senso unico per i veicoli sotto i 35 quintali da Via Mestre verso Via della Stazione Tuscolana. In base al progetto proposto vi sarà una riduzione dei parcheggi auto, riduzione che in sede di Conferenza di servizi si tenterà di limitare quanto più possibile. L’analisi di fattibilità tecnica della viabilità alternativa sarà valutata sempre in sede di CdS dai soggetti competenti.


Il tutto al modico costo di un 1.000.000 di euro. Insomma, un accrocco in cui non si è considerato il problema della viabilità, che dovrebbe essere centrale, per garantire la vivibilità dell’area, dai costi gonfiati senza alcuna percezione della realtà, che lo rendono infattibile, tempistiche non definite, che rischiano di imitare quanto sta succedendo nei giardini di Piazza Vittorio, i cui lavori, in teoria da terminare a ottobre, non si sa bene quando avranno fine.


A questo si contrappone il progetto dell’A.P.R.E.D (Associazione Piazza Ragusa e dintorni), frutto di un tavolo partecipato


1. I Principi ispiratori sono un rallentamento del traffico, una diminuzione consistente dei parcheggi in superficie con la costruzione di parcheggi sotterranei , una aumento della viabilità del mezzo pubblico con corsie privilegiate, aumento dell’area verde pubblica a piazza Ragusa e d costruzione di nuova area a via ella stazione Tuscolana nella quale può essere istituita anche una corsia ciclabile che partendo da piazza Ragusa raggiunge da un lato Via del Mandrione e via Tuscolana area anche archeologica e dall’altro via Prenestina ed il Pigneto quartiere storico con ampia zone pedonale. Infine il riuso del giardino dell’Acquedotto Felice con i suoi due edifici da destinarsi a utilizzo sociale diurno di centro giovanile per minori e adolescenti con attività ludico-culturali, educative e didattiche e formative nonché si può istituire per favorire l’occupazione giovanile e professionale un centro di co working (come a Garbatella).

Quindi meno parcheggi in superficie, più mezzi pubblici, più spazi verdi per la socialità , cultura, aggregazione e aiuto alle persone -occupazione professionalità giovanile.

2. Piazza Ragusa dalla attuale rotonda possiamo costruire una piazza che mettendo il divieto ai parcheggi intorno al giardino e a spina di pesce lungo il perimetro della strada, aumentando il giardino fino alla ex rimessa degli autobus e togliendo parte del marciapiede sul lato dei portici – fermata atac- e sul lato destro del giardino con le spalle al ex deposito otteniamo un aumento della viabilità della strada per il flusso a senso unico dei mezzi pubblici e auto private.

3. Il giardino di Piazza Ragusa proponiamo che mantenga l’area per lo sgambettamento dei cani dalle ore 7 alle ore 22,30, l’area dei bambini , ampliare di un metro la stradina centrale del giardino potenziandola di qualche panchina per ospitare gli abitanti in quanto spazio aggregativo e socializzante.

4. Via Verbania proponiamo di chiuderla al traffico mantenendo il parcheggio non a spina di pesce ma lineare nel lato delle abitazioni mentre, nel lato dell’ex deposito destinarlo ad un uso temporaneo e per singoli eventi secondo le normative vigenti per l’occupazione di suolo pubblico per mercatino dell’artigianato, delle arti e mestieri, di eventi culturali espositivi,

5. Via della stazione Tuscolana proponiamo che come a via Vercelli sia aumentato la larghezza del marciapiede sia provvisto di panchine e nuova illuminazione, sia anche provvisto di un murales artistico realizzato con vernici ecologiche che catturano ed eliminano le molecole inquinanti da effettuare sul muro dell’istituto Giannelli, questo nel lato degli edifici abitativi, mentre dall’altro lato proponiamo di non essere venduta l’area demagnale delle ferrovie ma costruito un giardino ampio per i giovani, i bambini, gli adulti e anziani come luogo di socialità e aggregazione ludico-culturale e aggregativo.

6. I parcheggi proponiamo che sia costruito il parcheggio sotterraneo comunale nell’area delle ferrovie delle Stato da via della stazione Tuscolana a vai Assisi e da dalla stazione Tusolana dove insediare la entrata e uscita fino all’Acquedotto Felice per i residenti e i lavoratori del territorio commercianti, artigiani, professionisti e i 400 dipendenti della TIM .Questa opera avrà l’effetto di: togliere i parcheggi in superfice, dare viabilità ai mezzi pubblici e incentivare le persone all’uso del mezzo pubblico poiché si può offrire il costo del parcheggio nel costo dell’abbonamento annuale dell’ATAC.

7. Le strisce pedonali proponiamo che tutte le strisce pedonali di piazza Ragusa, Via dei Rogazionisti, Via Taranto, Via Enna , Via Domodossola, Via della stazione Tuscolana, via Mestre e via Verbania siano non in prossimità delle curve ma leggermente rientrate nelle suddette strade ed inoltre fosforescenti e rialzate dal livello della strada con dosso.

8. La viabilità Proponiamo che via Mestre e il lato destro della piazza sia a senso unico all’altezza del BAR Tabacchi le auto possono proseguire a destra verso Piazza Lodi per Via Casilina, Prenestina e anche per la Tangenziale e via La Spezia. Gli autobus 85,16, 412 invece, proseguono verso sinistra ancora in senso unico effettuano la fermata davanti i portici, come ora, il 16 e 412 proseguono su Via Enna come ora è il loro tragitto e le attuali fermate, mentre la line a 85 prosegue e gira di nuovo a sinistra per prende Via Taranto ed il suo tragitto come ad oggi è previsto. Via Enna è quindi a doppio senso di circolazione come ora ed usata dal 16 e 412 per andare e venire da piazza Lodi quindi nel venire da Piazza Lodi le due linee di autobus proseguono sulla sinistra della piazza e percorreranno via dei Rogazionisti per raggiungere piazza Asti e via Tuscolana come farà la linea 85 venendo da via Taranto. Ovviamente il parcheggio in superficie non può essere a spina di pesce ma bensì lineare. Le strisce pedonali debbono essere visibili al buio e su superficie rialzata dal livello stradale in modo di costruire delle “cunette” di rallentamento del traffico al fine di imporre il rispetto della velocità a 30KM orari.

9. Infine per eventi di carattere cittadino è necessario costruire il numero definiti di posti sul suolo pubblico comunale, quindi posti sorvegliati dalla polizia municipale che al raggiungimento del numero dei posti riservati agli utenti dell’evento con caratteristiche cittadine coloro in esubero debbono essere allontanati dal quadrante, quindi costretti a prendere i mezzi pubblici. Infine il promotore dell’iniziativa deve avere l’obbligo di provvedere ai posti auto per i propri utenti da presentare al municipio al momento delle opportune autorizzazioni anche se sono interne a locali privati come ogni esercizio commerciale.


Un progetto molto più dettagliato, che affonta il nodo centrale della mobilità, basato su un insieme di interventi a basso costo, perfettibili, reversibili, i cui feedback possono essere utilizzato come base per un intervento stabile di recupero urbano: ossia il perfetto esempio di cosa è il Tactical Urbanism.


Roma fa Schifo, tra lo spreco di soldi pubblici e il Tactical Urbanism, cosa poteva preferire ? Ovviamente, nonostante la sua retorica milanolatrica, essendo il frutto delle ehm fatiche di buoni intellettuali capitolini, cortigiani per indole e scelta, non poteva che schierarsi a favore del “magna magna”.


A questo, aggiungiamo due grossi difetti degli autori di Roma fa schifo, a cominciare dal loro direttore: l’essere soggetti all’effetto Dunning-Kruger, che li fa credere di essere onniscienti e di potere aprire bocca a sproposito anche su temi che ignorano bellamente, e la fascistoide idea che la democrazia dal basso e la partecipazione abbiano torto a prescindere.


Cosa che, diciamolo tutta, assieme alla loro incoerenza e una buona dose di cialtronaggine, per attaccare il progetto dell’A.P.R.E.D sono per esempio ricorsi a una fake news e quando gli è stata chiesta una prova concreta della loro affermazione, si sono improvvisamente ammutoliti, li rende sempre più spesso ridicoli e poco credibili.

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Published on October 21, 2019 12:58

October 20, 2019

Il Museo Civico Aufidenate






Dopo una pausa, dovute a varie e complesse vicende, riprende il mio viaggio in Abruzzo, parlando in particolare del Museo Civico Aufidenate, che, nonostante il nome, si trova non ad Alfedena, ma a Castel di Sangro.


Il motivo è abbastanza banale: nel 1898, il sindaco di Castel di Sangro, Clemente Marchionna, ex ufficiale dell’esercito borbonico e maggiore dei carabinieri, decise di ascoltare le richieste di Vincenzo Eugenio Balzano, grande studioso di storia locale, storico dell’arte e cosa che gli fa poco onore, magistrato del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, un organo speciale del periodo fascista, competente a giudicare i reati contro la sicurezza del Regime.


Balzano proponeva l’apertura di un museo che raccogliesse tutti i reperti archeologici rinvenuti nel territorio di Castel di Sangro, all’epoca ritenuto, a torto coincidente con quello dell’antica Aufidena.


Il nucleo originario del museo contava 335 reperti archeologici e 130 monete, fu oggetto nel 1924 di un grave furto; il peggio però successe nel 1944, dato che il paese si trovava proprio nel bel mezzo della Linea Gustav e divenne in campo di battaglia.


Ora benché il museo fosse relativamente poco danneggiato dalle cannonate, sia qualche tedesco, sia qualche canadese, decise di portarsi a casa qualche souvenir archeologico. Inoltre, buona parte dei reperti andarono dispersi per le case del paese.


Ci volle tutta la pazienza dei membri dell’archeoclub locale, che, con il catalogo originale in mano, compilato a suo tempo dagli storici Vincenzo Balzano e Antonio De Nino, riuscirono negli anni Novanta a recuperare parte dei reperti, che furono radunati nell’Antiquarium Comunale, al Palazzo del Principe e nel 1999 trasferiti nella sede originale presso il Convento della Maddalena con inaugurazione ufficiale nell’anno 2000. Nel 2002 il Museo è stato classificato come Museo di 2° categoria.


Nel Museo è possibile visitare la Sezione di Preistoria e Protostoria che espone collezioni di fossili e testimonianze del periodo italico con ornamenti della persona (bracciali, collane, anelli, fibule e cinturoni) di provenienza funeraria; due bronzetti mutili raffiguranti Ercole all’assalto; due importanti iscrizioni in lingua osca di cui una rinvenuta nell’estate del 2009 da alcuni soci dell’Archeoclub


Tra i reperti archeologici di epoca romana in esposizione si segnalano diverse epigrafi e due statue togate, acefale e mutile, nonché una raccolta di antichi bronzi tra i quali un toro sannitico rinvenuto nel 1957 nei pressi del fiume Zittola (“che è anche il simbolo di questo museo”, Carlo Alberto) e una rarissima urna in piombo.


Nella Sezione Medievale – Moderna sono invece conservare interessanti ceramiche settecentesche di varia provenienza e ricca collezione di frammenti che vanno dal IX-XI al XIX sec., una scultura policroma raffigurante S. Michele Arcangelo e un presepe di scuola napoletana.


Il convento ospita poi anche altri due musei, come dire, di nicchia. Il primo è il Museo Internazionale della Pesca a Mosca Stanislao Kuckiewicz, che pur essendo ignorante in materia, a sentire colleghi appassionati del tema è uno dei migliori al mondo.


Per chi poco mastica il tema, La pesca con la mosca è un tipo di pesca sportiva definita così perché vengono utilizzate particolari esche artificiali costruite a imitazione, in tutte le loro fasi di sviluppo e vita, di insetti che nascono, si sviluppano, si riproducono e muoiono nell’ambiente acquatico, in modo da ingannare i pesci che ne vanno ghiotti.


L’altro è il Museo civico della Guerra, dove sono conservati tanti cimeli databili al secondo conflitto mondiale, molti donati dagli abitanti del luogo…

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Published on October 20, 2019 08:55

October 19, 2019

La chiesa anglicana della Santa Croce a Palermo







Può sembrare strano, ma a Palermo abbondano anche le chiese cristiane non cattoliche, come la chiesa valdese, nei pressi del Teatro Politeama, dove si svolsero i funerali di mio suocero, a quella anglicana, dedicata alla Santa Croce, costruita all’angolo tra via Roma e via Mariano Stabile.


La storia di quest’ultima chiesa è alquanto affascinante: da fine Settecento in poi, il numero di inglesi che frequentavano Palermo aumentò esponenzialmente, per motivi biecamente economici, a causa del boom dei commerci dello zolfo e del vino Marsala (detto fra noi, benché io sia un grande amante dello Sherry, del Madera e del Porto, negli ultimi anni lo sto apprezzando sempre più: prossima gita extra moenia sarà proprio alle sue cantine).


Così, il governo borbonico dovette in qualche modo provvedere anche alle necessità spirituali dei nuovi arrivati: nel 1787 l’ex lazzaretto dell’Acquasanta, grazie al bando emesso dal viceré Francesco d’Aquino, principe di Caramanico, che obbligava tutti i residenti di Palermo, a seppellire i loro morti in cimiteri pubblici invece che nelle chiese, veniva trasformato nel cimitero acattolico.


Poi, nel 1795, era concesso all’ambasciata britannica di organizzare funzioni religiose anglicane nei suoi locali. Il grosso problema, però, consisteva nella mancanza di un cappellano fisso: essendo occasionalmente e saltuariamente presente solamente quello che era imbarcato nelle navi della Royal Navy che erano alla fonda e stazionavano nel Porto della città. Questo stato delle cose creava spesso disfunzioni e disservizi, essendo spesso i sudditi della corona di Inghilterra costretti a recarsi a Napoli o a Malta per ratificare le loro unioni matrimoniali o creava ritardi colossali nella sommistrazione del battesimo.


Solo dal 1840 le funzioni della chiesa anglicana di Palermo furono celebrate regolarmente. Si tenevano nel grande salone dipinto di Palazzo Lampedusa, recentemente restaurato dai danni provocati dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, residenza di John Goodwin, console britannico in Sicilia per oltre 32 anni. Quando John Goodwin si trasferì a Palazzo Campofranco, anche le funzioni trovarono una nuova dimora, nella grande sala da ballo del palazzo.


Dopo il ritiro di Goodwin (1866) e dopo l’Unità d’Italia, il problema del luogo di culto per la comunità si presentava con più urgenza, così Benjamin Ingham Jr., che si era arricchito con la produzione ed esportazione del Marsala decise di donare il terreno di fronte a Palazzo Ingham perché vi fosse edificata la nuova chiesa.


Palazzo Ingham, che sul finire del XIX secolo fu al cavaliere Enrico Ragusa che, nel 1907, diede incarico all’architetto Ernesto Basile di trasformarlo nel Grande Albergo delle Palme diventando così un hotel di lusso simbolo della Belle Époque, dove Wagner terminò la composizione del Parsifal e dove Patton ebbe il suo quartiere generale.


La zona dove erigere la Chiesa era particolarmente ricca di orti, in specie finocchi di cui si faceva sovente uso nelle taverne per mitigare l’acidità del vino che durante lo sciabordio delle navi cui era stato sottoposto durante i trasporti, si alterava e andava a male. Da quest’uso improprio e fraudolento del suddetto ortaggio, nasce il modo di dire entrato poi nell’uso comune di volere “infinocchiare” quando si vuole prendere in giro qualcuno.


Benjamin Ingham Jr. però morì prima che morì prima che i lavori di costruzione della chiesa avessero inizio e la vedova Emily e il cugino, Joseph Whitaker, portarono a compimento la costruzione, iniziata nel 1872 e terminata nel 1877.


Il progetto della chiesa fu affidato all’architetto londinese William Barber, assistito da Henry Christian, genero di Whitaker, mentre il colonnello Henry Yule fu incaricato della direzione dei lavori. Barber, come andava di moda all’epoca, immaginò una chiesa in stile neogotico, con pianta a tre navate e vetrate ogivali, decorato marmi e pietre provenienti non solo da Palermo e Carrara (bianco) ma anche dal Devonshire (nero) e dalla Cornovaglia (verde), a simboleggiare un legame tra le due terre.


Questa combinazione di marmi si può notare nel pulpito, progettato da un architetto inglese ma scolpito dal noto scultore palermitano Benedetto Civiletti. L’architettura e le decorazioni rimandano allo stile gotico tipico nel Nord Europa, ma i mosaici dorati dell’abside sono di ispirazione bizantina e rimandano allo stile Arabo-Normanno elaborato in Sicilia, “di moda” nel periodo del revival medievale dell’Ottocento.


Le vetrate sono state progettate a Londra da Lavers, Barraud e Westlake e costruite da Cox & Sons. Alcune, distrutte dai bombardamenti del 1943 sono state ripristinate da Pietro Bevilacqua, che aveva realizzato altre splendide vetrate a Palermo, come quelle a Palazzo Alliata di Villafranca a Piazza Bologni. Tra quelle ricostruite dal Bevilacqua degne di nota sono le tre aperture sul prospetto principale le cui decorazioni simboleggiano la Beata Vergine Maria, Santa Maria Maddalena e San Giovanni ai piedi della santa Croce. Sopra di esse, nel grande rosone originale, è raffigurato il tema dell’Adorazione dell’Agnello.


Il punto focale della chiesa è la meravigliosa abside, con le affascinanti decorazioni disegnate dal famoso architetto britannico Francis Cranmer Penrose e realizzate dalla Ditta Salviati di Venezia. All’interno di una serie di nicchie trilobate si trovano dei mosaici che raffigurano i dodici apostoli (con San Paolo al posto di San Simone) e al centro il Cristo risorto venerato dagli angeli. Un fregio corre lungo le pareti dell’abside e l’iscrizione recita: “Him that cometh to me I will in no wise cast out” (Colui che viene a me non lo respingerò). In alto nell’abside ci sono cinque vetrate che rappresentano la prova, la crocifissione, la risurrezione, l’ascensione di Gesù e l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste.


Anche il soffitto dell’abside è decorato con mosaici dorati che rappresentano i quattro evangelisti con Cristo al centro e sotto sono collocati i quattro dottori della Chiesa d’Occidente – Sant’Ambrogio, San Girolamo, Sant’Agostino e San Gregorio Magno. Interessanti sono le teste sui peducci che sorreggono i pilastri di marmo intorno all’abside, che rappresentano figure importanti per la Chiesa e la Riforma inglese: Sant’Agostino di Canterbury, Wycliffe, Cranmer, Edward VI, Lord Burghley e la regina Elisabetta I.


I quattro capitelli ai lati della pala dietro l’altare rappresentano, da sinistra a destra, l’Inghilterra con la rosa, l’Irlanda con il trifoglio, il Galles con l’iris, e la Scozia con il cardo. Sulle pareti, tra le lapidi e le placche che i ricordano i membri e gli impiegati delle famiglie Whithaker e Ingham, molte provenienti da Marsala, a seguito della chiusura della locale comunità anglicana, spicca quella donata dal Generale Patton, che ricorda gli Americani uccisi durante la Campagna di Sicilia del 1943.


Per gli amanti della musica, notevole è l’organo, realizzato nel 1903 dalla ditta Walker di Londra su modello di quello della Cattedrale di York, che è restaurato nel 2003, per celebrare il centenario della sua realizzazione e viene suonato in occasione delle messe domenicali.

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Published on October 19, 2019 09:37

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Alessio Brugnoli
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