Alessio Brugnoli's Blog, page 87
November 15, 2019
La città sotterranea di Camerano
Tornando a parlare dei luoghi misteriosi delle Marche, uno dei più impressionanti è senza dubbio la città sotterranea, non c’è altro modo per definire l’intricato insieme di ipogei che si estendono sotto il centro storico di Camerano, località abitata fin dal secolo XI-IV a.C. dai Piceni (è stata rinvenuta una necropoli del XI-III secolo a.C.) per poi essere frequentata dai Romani e divenire parte della Pentapoli bizantina nel Medioevo.
La più antica fonte documentaria medievale che sembra riguardare Camerano è quella del “Codice Bavaro” (Liber Traditionum Ecclesiae Ravennatis), della seconda metà del X secolo, dove si fa riferimento al monastero femminile di Santa Maria e Sant’Agata, all’interno della diocesi di Numana e che sembrava essere situato a Camerano nella zona circostante l’attuale chiesa di S. Francesco. Altre fonti documentarie importanti sono due privilegi pontifici del 1177 e del 1183 dove viene nominato il paese come «Castro Camurani» , da riconoscere quindi come un vero e proprio castrum medievale. Nel 1198 Camerano figurava, per la prima volta, come comune indipendente e appartenente alla lega di comuni creata per contrastare Marcovaldo inviato da Enrico VI. Nel 1212 a Camerano figuravano anche due consoli: Bernardo Ionathe e Stefano Marchi, chiari segnali di un breve periodo in cui il paese fu libero comune, prima di finire nel periodo successivo sotto il controllo della più grande Città di Ancona, diventando uno dei circa venti castelli di Ancona, ed aveva il compito di difendere l’area del Conero, insieme ai castelli di Varano, Poggio, Massignano, Sirolo. Sulla rupe del “Sassone” sorse probabilmente quello che fu il primo castello o borgo fortificato.
Eppure, nonostante le numerosi fonti che parlano di Camerano, sono rarissimi i documenti che accennano a questi ipogei: il più antico risale al 1759, quando il complesso già esisteva da secoli, data l’esistenza di un’iscrizione su un pilastro che cita l’anno 1327, ed è una relazione di alcuni lavori di consolidamento di una grotta già esistente.
Storicamente rilevante è stato l’uso durante la seconda guerra mondiale, nel luglio del 1944. Per ripararsi dai bombardamenti, l’intera cittadinanza si trasferì sotto terra, dove rimase per circa 18 giorni. Nonostante questo sia l’unico utilizzo documentato dell’ipogeo come rifugio di guerra, si suppone che questa pratica fosse comune anche nei secoli precedenti, in particolare per via della vicinanza di Camerano al mare e pertanto dei rischi derivanti dalle incursioni piratesche.
Da dove saltano fuori questi ipogei? Probabilmente, la loro origine avvenne in modo simile a Taranto. Inizialmente furono scavati in età arcaica e romana, con ridotte dimensioni e scopi funzionali, come cantine, cisterne o cave di materiale edile.
Probabilmente durate l’Alto Medioevo, vi fu la sacralizzazione di questi luoghi, con la loro trasformazione in chiese e oratori, che continuò sino all’epoca barocca; nel Settecento, invece con la diffusione della Massoneria, vennero fondati infine i pochi spazi dedicati ai suoi rituali.
Quali sono gli ipogei più interessanti da visitare ? Di seguito una sintetica e non esaustiva presentazione di quelli più interessanti
Camerone
Il Camerone è una stanza molto ampia, di circa 100 mq, con copertura a volta a botte. Fu adibita a diversi utilizzi, tra cui quello di ospedale e, negli anni ’60, di “balera”. Si trova all’interno del Sassone, sotto il castello, comunica con l’esterno attraverso un’apertura che si affaccia sul mare, utilizzata un tempo per osservare le incursioni dei nemici
La parte enigmatica del Camerone è il fatto che culmini con una parete in cui si apre una nicchia e due colonne ai lati, elementi che ricorderebbero una zona sacra. Il che farebbe pensare come il tutto sia stato una sorta di corpo di guardia, dotato anche di una piccola cappella, per le esigenze spirituali degli armigeri
Grotta Trionfi
La maggior parte dei palazzi che sorgono sul lato sinistro di via Maratti, provenendo dalla piazza, sono di origine nobiliare e appartenevano a facoltose famiglie anconetane che avevano a Camerano possedimenti terrieri e case per la villeggiatura. L’ex palazzo della famiglia Trionfi, una delle più antiche e prestigiose dell’anconetano è riconoscibile per il motto araldico inciso sul bugnato ornamentale del portone d’ingresso: “in Domino confido”. Il complesso delle grotte, già noto come grotte Perugini e Gasparri , nomi risultanti dai frazionamenti proprietari, risulta notevole dal punto di vista architettonico e delle decorazioni a bassorilievo
In questa grotta è presente un tempietto con pianta circolare e 10 colonne, capitelli dorici e 9 nicchie all’interno delle quali è rimasto solo un sedile identificato come lo “scranno del Magister” in relazione alla tradizione che indica la sala come luogo di riunione dei membri di antichi ordini cavallereschi.Al centro della cupola sono scolpiti due cerchi concentrici e ai lati dell’entrata due croci
Viene chiamato come “Grotta dei Frati Guerrieri”, qui i pellegrini trascorrevano la notte in preghiera prima di recarsi all’alba del giorno dopo nella vicina Loreto. E’ possibile che questo aspetto leggendario sia stato favorito dalla presenza a Camerano fin dal Medioevo di un “ospedale dei pellegrini e da un ordine Ospitaliero, come attestato da una chiesa di San Giovanni, demolita nella II metà del XVIII secolo e da proprietà dell’Ordine dei cavalieri di Malta nella stessa contrada.
Questo perchè Camerano era l’ultima tappa della via lauretana; ora senza scomodare misteri alla Dan Brown, è probabile che questo ipogeo fosse una cappella, dalla pianta circolare ispirata al Santo Sepolcro, una sorta di trasposizione simbolica della Terra Santa nelle Marche, in cui Loreto richiamava Nazareth e Camerano Gerusalemme.
Supposizione che potrebbe essere suffragata dalla cosiddetta Grotta con il sole e la luna, chiamata così per la decorazione a bassorilievo al centro della cupola, con un sole a otto raggi in cui è iscritto un cerchio, che, nella pianta, ricorda la Cupola della Roccia, che ai tempi dei Crociati, chiamata Templum Domini, era ritenuta parte del tempio di Salomone.
Partendo da questa chiave di lettura, questa porzione della grotta Trionfi deve essere state edificata post 1292, epoca a cui risale un documento facente parte del Chartularium culisanense (un codice diplomatico di un antico ordine equestre), che riporta l’elenco notarile dei beni dotali di Margherita Angeli (figlia di Niceforo, despota d’Epiro) che proprio in quell’anno sposò Filippo II D’Angiò (figlio del re di Napoli, Carlo II). In questo elenco si legge, tra gli altri, Sanctas petras ex dmo Dominae Deiparae Virgini Ablatas (“le Sante pietre portate via dalla Casa della Nostra Signora la Vergine Madre di Dio”), che ci permette di datare il trasferimenti della Sacra Casa a Loreto
Grotta Corraducci
Le grotte Corraducci, uno dei complessi più vasti della rete sotterranea cameranese si dipartono dai sotterranei del palazzo omonimo. I Corraducci erano un’antica famiglia nobiliare presente nel paese anteriormente al 1400 e si erano compromessi con i Francesi di Napoleone prima e con la Massoneria – Carboneria successivamente alla Restaurazione. Queste circostanze hanno fatto sorgere nel passato una serie di leggende e di racconti di mistero su queste grotte che si addentrano nella rupe del Sassone, scendendo in profondità con una serie di ambienti che vanno a ricollegarsi con la grotta Mancinforte. Particolarmente interessante è la grande sala circolare con 12 nicchie e colonne e capitelli in stile neoclassico, che potrebbe ricordare la tomba di Christian Rosenkreutz, leggendario fondatore dei Rosacroce
La scelta di un ambiente sotterraneo, è una citazione del motto massonico Vitriol
«Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem»
che significa
«Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta».
Stesso simbolismo che si ritrova nella presenza delle dodici colonne: le decorazioni a semilune e lesene risalgono probabilmente alla fine del 1700, purtroppo verso il 1970 la sala è stata fortemente deturpata dalla realizzazione della colonna centrale e dei relativi architravi, non presenti originariamente, cancellando una circonferenza decorata sul soffitto.
Grotta Burchiani
Probabile origine massonica ha anche la Grotta Burchiani, posto sotto l’omonimo palazzo in origine una cisterna dalla pianta a forma di Ankh, il che farebbe pensare come chi commissionò la modifica dovesse essere un seguace del Rito Egiziano di Cagliostro e che quindi il tutto possa essere realizzata a inizio Ottocento
Grotte Mancinforte
La grotta Mancinforte costituisce uno degli assi principali dell’intero sistema che attraversa in senso longitudinale il sottosuolo del centro storico antico. Queste gallerie di notevoli dimensioni si trovano a circa 20 m di profondità rispetto alla superficie esterna e ad un livello più basso rispetto ad altri sviluppi ipogei. Nel complesso sono stati individuati almeno tre piani di gallerie anche sovrapposti ed intersecanti, disposti su quote altimetriche diverse.
Tra queste spicca una sala a pianta ottagonale divisa da una colonna centrale in due cappelle assolutamente speculari, in cui sono presenti due altari in alabastro cinerino.
Sulla colonna sono scolpiti due bassorilievi danneggiati, che riportano da un lato l’immagine di un cerchio all’interno del quale è inciso “IHS”, al di sopra la croce e sotto tre chiodi della passione di Cristo; dall’altro vi era un calice, oggi scomparso perché scalpellato e profugato.
Cripta Sant’Apollinare
Un tempo, nell’area più elevata della città, sorgeva la chiesa romanica di Sant’Apollinare, la cappella del Castello, tra le più antiche delle Marche, rasa al suolo per dare spazio al mercato, un autentico scempio che fa rabbrividire solo al pensiero e che piacerebbe solo ai redattori di Roma fa Schifo.
Di questa pieve non è rimasto più nulla, se non la sua “gemella” sottoterra, orientata perpendicolarmente alla basilica scomparsa a formare, anche se non sovrapposta, quasi una croce.
Si trova nella Grotta Ricotti ed è una chiesa sotterranea databile 1000-1100 con abside formata da 9 nicchie e un’ulteriore piccola cripta semicircolare con 5 nicchie. E’ un luogo spettacolare e particolarmente suggestivo, a navata unica con 9 nicchie a destra e altre 9 a sinistra e con scolpita al centro, in prossimità del presbiterio, sulla volta una grossa croce greca inscritta in un cerchio, il tutto a bassorilievo.
Croce che potrebbe sia ricordare la presenza di monaci Basiliani, sia di una Commenda templare, come a San Filippo de Plano, a Casenuove di Osimo.
Mycenaean Bridges; in constant operation for at least 3,000 years
The ancient bridges and their remnants located in the vicinity of Mycenae and Arkadico villages are considered to be the world’s oldest bridges. The bridges were built with massive irregular limestone blocks, called Cyclopean boulders, in the Bronze Age. Two of the four objects discussed here are still in operation, occasionally used for the needs of local agriculture.
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November 14, 2019
Naram Sin, il forte
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Naram Sin, il forte, re di Akkad:
quando le quattro parti del mondo insieme si ribellarono, per l’amore di cui Ishtar lo amò, nove battaglie in un solo anno vinse, e catturò i re che si erano opposti.
Poiché da una situazione di difficoltà, le radici della sua città aveva reso salde, (gli abitanti del)la sua città con Ishtar in Eanna (Uruk), con Enlil in Nippur, con Dagan in Tuttul, con Ninkhursag in Kish con Enki in Eridu, con Sin in Ur, con Shamash in Sippar, con Nergal inKuta, come dio della loro città Akkad lo desiderarono, entro Akkad il suo tempio costruirono.
Chi danneggerà questa iscrizione: Shamash, Ishtar, Nergal commissario del re, e la totalità di quegli dei la sua radice strappino, il suo seme disperdano.
Questa è una delle tante iscrizioni con cui Naram Sin, Amato dal dio Sin, nipote di Sargon e figlio di Manishtushu, celebra la sua grandezza: ne ha ben donde, poiché, nonostante la pessima fama che ha goduti presso i posteri, fu uno dei sovrani più capaci della storia mesopotamica, che portò alle estreme conseguenze la politica dei suoi predecessori.
Continuità che si vede nella politica estera: come il nonno e il padre, Naram Sin aveva la necessità di tutelare le vie commerciali che rifornivano di materie prime la Mesopotamia. Per cui, per prima cosa dovette in qualche modo rimettere in riga gli elamiti; invece di seguire i tradizionali approcci sumerici, consistenti o nel mercanteggiare senza ritegno sui dazi imposti dai vicini o applicare lo Shock and Awe, ossia delle scorrerie finalizzate a terrorizzare i vicini con massacri e saccheggi, per renderli meno esosi, decise di trasformarli in sudditi e contribuenti.
Le sue campagne persiane portano all’occupazione permanente dei principali snodi carovanieri dell’Elam; anche se non riuscì ad avere ragione dell’intera confederazione elamita, la perdita di questi snodi, oltre a tutelare definitivamente le finanze dei mercanti sumeri e accadici, provocò loro una grave crisi economica.
Per limitare i danni, i vari potentati locali decisero in qualche modo di accordarsi con Naram Sin: Awan divenne una sorta di protettorato, con i suoi regnanti che pagavano un tributo ad Akkad, mentre Susa finì per essere controllata da un ensi accadico e l’intera Susiana subirà un processo di solida “mesopotamizzazione”.
La politica di Naram Sin, però, ebbe un effetto collaterale inaspettato: la crisi elamita, dovuta al fatto che si era interrotta la principale fonte di reddito, il taglieggiamento dei mercanti sumeri e che le sue risorse erano drenate verso Akkad, si diffuse come un incendio anche ai suoi partner commerciali, principalmente i fornitori di pietre dure, come Shahr-i Sokhta (Aratta?), riducendo di molto l’importanze e i volumi delle vie carovaniere terrestri.
Per reagire a tale imprevisto Naram Sin, per prima cosa decise di rafforzare il su controllo sulle vie marittime che legavano la Mesopotamia alla Civiltà dell’Indo; per cui organizzavo una spedizione navale contro Margan, l’Oman, che divenne un protettorato akkadico.
Poi, dovette trovare altre fonti di approvvigionamento di beni e materie prime, che rimpiazzassero quelle persiane. Il suo primo obiettivo furono gli ensi del Subartu, la futura Assiria, “fino alla foresta dei cedri”, ossia sino all’arco montano definito dall’Amano, dal Tauro, dagli Zagros, in modo da garantirsi il rifornimento di pietre dure e di legno.
Consolidato tale dominio, puntò ancora più a Nord, per sottomettere i signori del “paese alto”, i capi tribali che controllavano le steppe all’epoca presenti nel territorio intorno al fiume Khabur e il medio Eufrate. Le popolazioni seminomadi che vi abitavano, avevano, nela geopolitica dell’epoca, un’importanza fondamentale: oltre ad essere i principali fornitori di lana del tempo, controllavano le vie commerciali con gli staterelli nesiti e hatti dell’Anatolia, tanto ricchi quanto litigiosi.
Staterelli, il cui controllo fu l’obiettivo della terza fase della politica di Naram Sin, la cui realizzazione non fu tanto agevole. Nella tavoletta KBo III 13 (CTH 311.1), figura infatti la lista dei diciassette regni anatolici che si ribellarono al potere ad Akkad, dato che dimostra sia il loro potere, sia la loro capacità di operare militarmente collegati.
In questa tavoletta è citato re di Hattuŝa, Pamba, antenato dei re ittiti, il primo sovrano di lingua indoeuropea di cui conosciamo il nome. Naram Sin, dopo aver vinto un paio di sanguinose battaglie, capì che forse non proprio una mossa intelligente impelagarsi nelle infinite e contorte faide anatoliche: per cui, con il bastone e la carota, riusci a convincere i vari staterelli a riconoscere la sua autorità, a spedire ad Akkad un moderato tributo commerciale, a permettere la fondazione di empori di mercanti mesopotamici alle periferie delle loro cittadine e non esagerare con le loro guerre fraticide.
Uscito quasi indenne da questo pantano, si concentrò sull’obiettivo finale della sua politica estera, la conquista della Siria, distruggendo Armanum ed Ebla, quest’ultima fu un’importantissima vittoria per il prestigio del sovrano, nonostante la città che conquistò non era già più la grande potenza del periodo pertinente il famoso Palazzo G; in ogni caso, questo gli permise di controllare le ricchezze locali e di ampliare le vie commerciali mesopotamiche a Cipro e al resto dell’Egeo.
Al contempo, Naram Sim, seguendo le orme del nonno, dedicò molte energie alla promozione pubblicitaria: costruì un nuovo centro amministrativo, a Nagar, anche se il suo palazzo-roccaforte, più che una residenza sembrerebbe essere il punto di raccolta e magazzinaggio dei tributi e dei prodotti agricoli della zona e fece scolpire una serie di stele propagandistiche, che infestarono quasi tutti gli angoli dei suoi domini, sino al più sperduto.
La più famosa è la cosiddetta stele della Vittoria, che celebra contro i Lullubiti, un popolo che abitava i monti Zagros e che detto fra noi, non erano certo questa grande potenza militare.
L’esercito accadico, collocato nella parte sinistra della stele, è composto da guerrieri che marciano in modo ordinato, il che è in netta contrapposizione con il caos che regna tra i guerrieri lullubi, nella parte inferiore destra della lastra, collocati a terra sul campo di battaglia roccioso e impervio per la natura montagnosa dei monti Zagros. Nel bassorilievo spicca la figura del sovrano, venerato dai suoi guerrieri come un dio, accompagnato dai due vessilliferi alla sua sinistra e reso divino dalla presenza di due astri sopra di lui.
Già, perchè, altra grande intuizione politica di Naram Sim, fu il primo sovrano accadico divinizzato in vita, nei documenti è detto che a seguito delle numerose vittorie riportate sui campi di battaglia, i suoi cittadini lo vollero tributare come un dio e gli costruirono perfino un tempio nella capitale. Di conseguena, cominciò a far premettere a suo nome il determinativo “dingir”, riservato generalmente alle divintà, o in altri contesti a sovrani defunti, oppure appellativi come “dio di Akkad” o “marito di Ishtar-Annunitum”. Altro titolo di Naram Sin, oltre al classico “re di Akkad”, troviamo anche “re delle quattro regioni del mondo”, ossia imperatore.
Essendosi quindi equiparato a un dio, Naram Sin ritenne di potere mettere bocca impunemente nelle vicende religiose sumere: imitando il nonno Sargon, piazzò sue figlie e nipoti come sacerdotesse nei templi di Ur, Lagash, Mari, Nippur e Urkish e si preoccupò anche di riedificare il tempio di Enlil a Nippur e di Ishtar a Zabala.
In più, essendo un dio, ritenne di sua proprietà i beni di templi, incamerandoli nel demanio accadico e utilizzandoli come entrate nel bilancio statale: dato che non modo migliore per fare irritare un sacerdote del costringerlo a pagare le tasse, tale mossa, nonostante i suoi buoni propositi, trasformò Naram Sin in spregevole e deprecabile nemico della religione e della morale.
Così il clero si vendicò, dato che vi facevano parete i pochi che sapevano leggere e scrivere, lanciando una campagna di diffamazione del re accadico, culminata nella “Maledizione di Akkad”.
Secondo tale testo, la dea Inanna abbandonò l’antica capitale Akkad a causa del saccheggio effettuato da Naram-Sin del tempio del dio Enlil (il tempio è chiamato anche Ekur o Duranki) a Nippur. Irato, Enlil avrebbe fatto scendere la tribù dei Gutei dalle colline, portando malattie, carestia e morte in tutta la Mesopotamia. Per impedire questo tragico destino otto altre divinità decretarono che Akkad dovesse essere distrutta per poter risparmiare le altre città.
Racconto che, in chiave simbolica, racconta i grossi problemi che avrebbe dovuto affrontare l’impero accadico, dovuti a un qualcosa che né l’intelligenza politica, né le capacità militari, sarebbero riuscite a fronteggiare: il cambiamento climatico…
Eastern Mediterranean influence and possible Colonization of Prehistoric Iberia
The main problem to evaluate the real knowledge of the Mycenaean contacts with Iberian Peninsula is the few excavations with levels of the Late Bronze Age IC and II, 1425-1150 BC.
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November 13, 2019
Al fianco de La Casa dei Diritti Sociali
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Un paio d’anni fa, accennai in un post alla famigerata delibera 140/2015, nata in fondo per una ragione abbastanza banale. La Corte dei Conti, a seguito del clamore mediatico sul cosiddetto scandalo di Affittopoli, decise di di mandare uno sproposito di inviti a dedurre e atti di citazione a numerosi dirigenti del comune, accusati di danno erariale.
Per mettere freno a questa deriva giudiziaria e per porre il freno agli abusi sugli immobili sfruttati per finalità commerciali, invece che sociali, fu promulgata quella famigerata delibera, che però prevedeva forme di tutela favore dei soggetti che occupano gli spazi per portare avanti progetti di pubblica utilità.
Fino a quel momento, infatti, in base alla delibera 26 del 1995 il Comune poteva dare in locazione i propri immobili abbattendone il costo fino al 20%, per quelle attività di interesse sociale. Cacciato Marino, la delibera 140 è stata interpretata in maniera estensiva dal Commissario Tronca e dalla Corte dei Conti. Chiunque abbia ricevuto questo trattamento di favore, se pur legittimamente e pagando regolarmente quanto richiesto, è stato chiamato a “restituire gli arretrati”, che nel corso degli anni, hanno raggiunto cifre esorbitanti che le associazioni di volontariato e no profit non erano in grado di coprire
Di conseguenza, queste hanno cominciato a ricevere lettere dal Dipartimento Patrimonio in cui chiedeva di lasciare bonariamente il bene entro dieci giorni dalla ricezione della raccomandata. Contestualmente, si comunicava l’impossibilità di procedere al rinnovo della concessione e, ciliegina sulla torta, si chiedeva di corrispondere un’indennità d’uso del bene che dovrà essere versata al 100% del valore di mercato. Una cifra che doveva essere corrisposta a partire dalla data di scadenza della concessione, in quanto, come scritto nelle lettere del Dipartimento
in quanto come indicato dalla Magistratura Contabile, in mancanza di perfezionamento del titolo concessorio, non è applicabile il beneficio dell’abbattimento dell’indennità d’uso
La Raggi, non solo ha confermato tale delibera, ma con la delibera n.19 del 22 febbraio 2017, nasconendosi dietro i soliti slogan sulla necessità di non procedere agli sgomberi indiscriminatamente ma con gradualità e senza prescindere dalla natura delle attività svolte dagli assegnatari degli immobili, pianificava una graduatoria di interventi che tendevano a colpire principalmente le associazioni no profit poco allineate con la visione del mondo pentastellata.
Così, sono cominciate a fioccare le lettere di sfatto: questa guerra spietata al volontariato ha mietuto tante vittime all’Esquilino: l’ultima di queste è La Casa dei Diritti Sociali, che da più di vent’anni, difende i diritti degli ultimi nel nostro Rione e che al contempo è uno splendido laboratorio di integrazione, che il 4 dicembre potrebbe vedere messa la parola fine alla sua esperienza.
Per cui, è giusto lasciare la parola a loro
La città di Roma si sta impoverendo. Sempre meno diritti, sempre meno opportunità di sostegno e confronto e sempre meno spazi destinati ai bisogni sociali e alla cittadinanza attiva.
Il principio del recupero del patrimonio perseguito da ROMA CAPITALE, la costante e disperata ricerca di “soldi facili”, decade nel momento in cui va a colpire realtà che portano un contributo essenziale alla tutela dei diritti della cittadinanza più svantaggiata, ledendo la soglia minima della convivenza sociale. L’effettuazione di sgomberi senza progettualità e senza programmazione degli interventi sul territorio, azzera l’intervento di mutuo soccorso civile, che è presente proprio lì dove l’amministrazione e lo stato non riescono ad intervenire e non hanno mai cominciato a farlo. Ignorare, o peggio, rifiutare questo principio vuol dire avviare la città verso un futuro fatto di disuguaglianze sempre più marcate, di scarsa e più difficile solidarietà e di povertà civica e culturale.
Tra un mese, il prossimo 04 dicembre 2019 ci sarà l’udienza di discussione avanti al T.A.R. Lazio a seguito dell’ingiunzione di rilascio e sgombero della storica sede dell’Associazione Focus-Casa dei Diritti Sociali in Via G. Giolitti 225 in base al provvedimento di “riordino gestionale del patrimonio capitolino”.
Roma Capitale chiede l’interruzione dei servizi alla cittadinanza, ma senza che i medesimi beni vengano messi a bando per una nuova assegnazione, disperdendo cosi il patrimonio immobiliare del Comune ed anche il sistema di conoscenze e buone pratiche di intervento in un rione come Esquilino.
La sede in Via G. Giolitti 225 di Focus-Casa dei Diritti Sociali ospita da più’ di vent’anni un centro polifunzionale dotato di uno sportello socio-legale che svolge attività di segretariato sociale e orientamento ai servizi per le persone italiane e straniere in condizioni di vulnerabilità economica e sociale e una scuola di italiano per stranieri che ogni giorno accoglie decine di stranieri, migranti e non, fornendo gratuitamente lezioni di lingua italiana e tutta una serie di esperienze di inclusione sociale collaterali (laboratori di teatro, scacchi, fotografia, passeggiate culturali e conoscenze e ricerca).
Ribadiamo quanto detto al commissario straordinario Tronca nel 2016: i diritti non si sfrattano!
Invitiamo associazioni e cittadini romani a mantenere alta l’attenzione, a condividere quanto sta avvenendo in Via G. Giolitti e a sostenere questa e le altre vertenze simili in corso al fine di contrastare insieme questa logica di disgregazione e annullamento dell’insieme delle esperienze umane, sociali e civili dal forte valore civico.
Tutti noi, che in un modo o nell’altro in questi anni abbiamo collaborato in tanti progetti promossi dalla Casa dei Diritti Sociali, non possiamo rimanere indifferenti a tale grido di dolore: per cui, faremo di tutto per mobilitare l’opinione pubblica contro questo furto di diritti ipocritamente mascherato da legalità, dai convegni a flash mob.
Perchè i diritti si vivono e non si sfrattano !
Woman’s position in the Eastern Roman (‘Byzantine’) society
The Byzantine noble women were burning with anxieties and were passionately pursuing to participate in political chess, to excel in letters and to spread the culture of Byzantium.
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November 12, 2019
Il primo frutto della collaborazione tra Tim e Google Cloud Platform
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Diciamola tutta, negli ultimi, a seguito della notizia della partnership tra TIM e Google Cloud Platform, tra me e i miei colleghi sono fioccate le scommesse su dove sarebbe nato il primo Data Center comune. I luoghi più gettonati, detto fra noi, erano Acilia, accanto all’ex sede Italcable progettata da Nervi, in cui già esiste un Data Center TIM Tier IV, all’avanguardia ed Europa, o a Rozzano, in cui invece ve ne è uno tra i più grandi.
Poi, all’improvviso, c’è capitato sotto gli occhi questo articolo di Repubblica, che ha sorpreso un poco tutti.
“La joint venture di Tim con Google farà a Torino il primo investimento su un data center”. Lo ha annunciato l’ad di Tim Luigi Gubitosi, in occasione del lancio nel capoluogo piemontese della prima rete live 5G Edge Cloud d’Europa con droni connessi. Accanto a lui la sindaca Chiara Appendino. “Ci piace pensare che sarà una cosa che faremo velocemente insieme”, ha aggiunto Gubitosi.
“Il nostro obiettivo è avere un data center tra i più avanzati d’Europa. È un settore che sta crescendo molto velocemente, del 20% l’anno in Italia”, ha spiegato Gubitosi. “Non posso ancora quantificare l’investimento, sarà un impegno molto importante. Faremo molto velocemente”, ha detto l’ad di Tim che non ha indicato il luogo in cui sarà ma si è limitato a spiegare che potrebbe essere un’area industriale dismessa della città.
Premesso che io, da buon sentimentale, avrei scelto Ivrea, per omaggiare la memoria del grande Adriano Olivetti, lo straordinario papà dell’informatica italiano, non ho problemi ad ammettere come si tratti di un’idea geniale.
Perché di fatto, la città sabauda gode degli stessi vantaggi logistici e di copertura di mercato di Milano, a costi assai più bassi e in un ambiente assai meno saturo di Data Center, come può essere la città lombarda.
Perché permette di coniugare l’innovazione di Google con quella del Tilab, che, dal 1961, è uno dei centri d’avanguardia nella ricerca in ambito ICT; esperienze e competenze che tra l’altro non vanno in conflitto, ma che si completano e si arricchiscono.
Perchè Torino, assieme a Roma, è uno dei due poli della Taskforce Multicloud, una delle grandi idee del nostro marketing, diamo a Cesare quel che è di Cesare, che costituisce uno dei punti di forza di TIM rispetto alla concorrenza, dato che ha messo assieme un gruppo di persone che, con creatività, fanno ogni giorno dialogare diverse esperienze e competenze. Un approccio multidisciplinare e trasversale, che ben si sposa con l’approccio dei partner di Google Cloud Platform.
Sports and Games in the Eastern Roman (‘Byzantine’) Empire
From the fourth century A.D. until the fall of Constantinople in 1453, the people of the Byzantine or Eastern Roman Empire participated in a wide range of sports and physical recreations.
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November 11, 2019
Arabi e Zero
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Su un gruppo Facebook che amministro, si è scatenata qualche giorno fa una discussione sul ruolo che hanno avuto gli arabi nella diffusione della numerazione posizionale, dello zero e della matematica. Da una parte, ci sono i negazionisti, che affermano come il loro ruolo sia abbastanza marginale, altri invece che ne ribadiscono con forza l’importanza.
In realtà, come spesso avviene in questi casi la realtà è assai più complessa di quella che appare a prima vista.
Per prima cosa, non sono gli arabi i primi a fare da ponte da Occidente e Oriente e viceversa, specie nell’ambito della matematica: dai tempi dei Persiani, tra addetti a lavori del Mediterraneo e dell’India, c’è una sorta di continuo scambio di idee, diretto o mediato.
Ad esempio che Aryabhata, nel 476 d.C. scrivendo il primo trattato di geometria indiana, l’Aryabhatiya, tutto in versi, cosa che può sembrare strana a noi moderni, tradusse pari pari alcune dimostrazioni degli Elementi di Euclide.
OppureVarahamihira che nel V secolo studiò le equazioni trigonometriche, scrisse due trattati, il Romaka Siddhanta (“Dottrina dei Romani”) e il Paulisa Siddhanta (“Dottrina di Paulo”, dove questo fantomatico Paolo è esplicitamente citato come matematico di Alessandria d’Egitto), in cui si discute delle geometria e dei calcoli astronomici ellenistici.
E al contempo, i matematici greci studiavano le opere indiane, tanto che un commentatore del VI secolo del Brihat-Samhita, sempre opera di Varahamihira, scrive:
“I Greci, benché barbari, devono essere onorati poiché hanno mostrato enorme interesse per la nostra scienza...”
Un esempio di questo nel fatto che Antemio di Tralle, l’ingegnere che fece i calcoli statici per Santa Sofia, nello scrivere il suo libro Perì paradòxon mechanemàton, nel capitolo dedicato alle Coniche, riprende un paio di dimostrazioni, tradotte in greco, contenute nel trattato indiano anonimo Sulba Sutras, la cui compilazione ultima risale probabilmente al II secolo d.C.
Per cui, indipendentemente dagli arabi, le idee circolavano: se non fossero esistiti, il ruolo di mediatori culturali lo avrebbero svolto i Sasanidi.
Lo stesso vale per lo 0 e la notazione posizionale. Come tutti sanno, nel Vecchio Mondo, questa viene concepita in India, in un processo lungo e controverso: la prima citazion nota è presente nella Sezione I manoscritto di Bakhshali, una di sorta di manuale di aritmetica, con regole ed esercizi,scritto per fare entrare in testa la materia a Hasika figlio di Vasistha, il cui autore è un brahmino che si fa chiamare “il figlio di Chajaka” o “re dei calcolatori”.
Che sia “il figlio di Chajaka” sia il geniale inventore dello 0 o un povero insegnante alle prese con un allievo somaro, non è dato saperlo: tuttavia, nonostante questa precoce apparizione, il concetto di zero stentò a decollare in India. Ad esempio, nel trattato Vasavadatta, scritto da Subandhu, datato tra il 385 e il 465, il concetto di zero, interpretato come non numero, è analogo a quello che ne avevano i greci e i romani.
Bisogna aspettare Brahmagupta e Bhaskara I, immensi matematici per la completa teorizzazione dello zero e il suo inserimento nella numerazione posizionale: ciò avviene nel VII secolo. Il primo riferimento allo zero e alla numerazione posizionale decimale nel Mediterraneo, tra l’altro, avviene già intorno al 662, a opera del vescovo siriano nestoriano Severo Sabokt, di lingua e cultura bizantina.
Se i trattati di Brahmagupta e Bhaskara I sono stati compilati intorno al 640/650 a.C. l’informazione è arrivata nel mondo bizantino indipendentemente dagli arabi e in tempi assai ristretti: solo, che rimane confinata agli addetti ai lavori, dato che la conoscenza specialistica è qualcosa di ben diverso dall’uso comune. A riprova di questo contatto diretto, vi è il termine che usano i matematici bizantini per indicare lo zero: típota, niente, traduzione letterale del sanscrito sunyia.
Solo nella seconda parte dell’VIII secolo, nel 766 per la precisione, che giunge a Baghdad la copia di una delle versioni del Siddhānta, probabilmente del Brahmasphuta Siddhānta, con tanto di riferimento al sistema di numerazione hindu e alla trigonometria indiana. Il libro viene ben studiato e nel 775 è tradotto in arabo. Anche in questo caso, nessuno del grande pubblico si fila lo 0, tranne i professionisti del settore.
Un contributo determinante per la sua diffusione lo da al-Khwārizmī con il suo Al-jabr wa’l muqābalah scritto verso l’825; ora benché, dal punto di vista teorico sia inferiore all’algebra ellenistica di Diofanto e all’algebra indiana di Brahmagupta, è un testo comprensibile ed efficace nel trattare l’aritmetica e le equazioni di secondo grado. Insomma un utilissimo bignami matematico, che in occasione del boom economico del mondo arabo del X secolo, frutto dei commerci di una società globalizzata, diventa il principale strumento di diffusione della notazione posizionale tra i mercanti.
Intanto, che succede a Bisanzio e nel resto d’Europa ? Lo zero, pur conosciuto, è patrimonio di pochi: una delle testimonianza dell’epoca è legata a un monastero della Chora di Rhegion, in Calabria, una delle zone più ricche tra i domini del Basileus, dove l’egumeno lo utilizzava nei conti delle entrate e uscite.
Mentre tra noi barbari, il primo a usare la notazione posizionale indiana e lo zero è il codice di Barcellona di Gerberto di Aurillac, del 967, in cui si cerca di spiegare la matematica a quel testone di Borrel II; scherzando, all’epoca eravamo così incivili da scambiare l’abilità nei calcoli del futuro papa Silvestro II per magia…
In verità, pur avendo a disposizione tale strumento, l’economia dell’epoca, assai poco sviluppata, non vedeva il bisogno di utilizzarlo. Fu il boom economico e la crescita degli scambi del 1200 a renderlo indispensabile e questo fece la fortuna di Fibonacci che nel Liber Abaci scrive
Novem figure indorum he sunt 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Cum his itaque novem figuris, et cum hoc signo 0, quod arabice zephirum appellatur, scribitur quilibet numerus, ut inferius demonstratur
Ora, il boom economico e la trasmissione delle idee sarebbero avvenuti anche senza arabi… Però avrebbe avuto forme differenti e di certo, non sarebbe stato accompagnato anche dai loro contributi originali nella matematica.
The Juffain Dolmen Field; Megalithic structures in Jordan
The Juffain Dolmen Field is located on the southwest border of the modern town Juffain. The site measures 1 km east to west and 1.3 km north to south, and is broken by six major and five minor valleys. Preliminary analysis of dolmen groups shows clear separation for autonomous groups.
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