Alessio Brugnoli's Blog, page 85
November 25, 2019
Ucronie Sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale
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Ieri pomeriggio, il buon Silvio Sosio, ha postato questo status su Facebook
Storie alternative ne ho lette e viste molte, ma non ho mai sentito parlare di ucronie in cui l’Europa è tutta sovietica. La narrazione costruita dagli americani ci ha convinti che la II guerra mondiale è stata vinta da loro. Al punto che tutte le ucronie che immaginano che gli americani NON siano scesi in guerra prevedono, immancabilmente, che vincano i tedeschi. Ma i tedeschi in realtà stavano già perdendo quando sono arrivati gli americani. È plausibile che se gli americani non l’avessero fatto i russi avrebbero occupato l’intera Europa. Insomma, la “storia la scrivono i vincitori”, anche quando fantasticano sull’idea di perderla.
Status che ha dato il la a una serie di discussioni, che hanno evidenziato un limite di tutti noi che ci dedichiamo, per dirla alla Marx, alla Struttura, alla Grande Politica, ma poco ci occupiamo di struttura, dell’Economia che ne condiziona le scelte. Analogamente, quando parliamo di guerre, ci riempiamo la bocca di Strategia e Tattica, ma poco di Logistica. In fondo, è pure giusto, sono materie piene di numeri, diagrammi e cartine, poco romanzesche e che infiammano poco la fantasia.
Per cui, per una volta, provo a annoiarvi affrontando la questione da questo punto di vista. Cominciamo con una data simbolo, il crollo della Borsa di New York del 24 ottobre 1929, che nella Mitteleuropa ebbe impatti drammatici, causando un collasso sistemico del sistema creditizio.
Il Creditanstalt, la più grande banca mista austriaca, fallì nel maggio 1931. Il governo austriaco intervenne con molto ritardo, nell’ottobre 1931, introducendo un controllo dei cambi e rendendo, de facto, il Creditanstalt una banca statale.
Tale ritardo ebbe delle conseguenze. Andarono in crisi le banche ungheresi e in breve tempo le difficoltà si spostarono in Germania. La Reichsbank perdette metà delle sue riserve auree. Nel luglio 1931 vi fu il crollo della Darmstadt (Danat Bank), la seconda banca mista del paese. Il Governo tedesco ordinò la chiusura degli sportelli bancari per tre settimane e, successivamente, attuò un piano di salvataggio del sistema bancario, rendendo lo Stato socio di maggioranza della Danat (fusasi con Dresdner Bank) e detentore di un terzo del capitale sociale di Deutsche Bank. La Reichsbank volle arginare la fuga di capitali attraverso una serie di misure, tra cui l’aumento del tasso di interesse del 10% nonché un’iniezione di liquidità nelle banche miste.
A questo caos, in Germania, si aggiunsero sia il ritiro dei capitali americani dalla Germania, sia la deflazione accentuata dal rigore depressivo dell’allora vigente gold standard. Di fatto ci fu una colossale stretta creditizia, che fece crollare i consumi e bloccò i finanziamenti alle imprese: tutto ciò portò a licenziamenti di massa, tanto che nel 1933 il 20% della forza lavoro (circa 7 milioni di persone) era costituito da disoccupati al limite della soglia della malnutrizione.
Fu facile, per la retorica di Hitler conquistarne il consenso e utilizzarli come massa di manovra per conquistare il potere: il problema, però era come mantenere le promesse ed evitare che i disoccupati, esasperati, si ribellassero e cacciassero a pedate i nazisti.
Per cui, inizialmente Hitler dovette fare i salti mortali per garantire la piena occupazione al tedesco medio: per fare questo nel 1933, lanciò un piano economico basato su due pilastri: un grande piano keynesiano delle opere pubbliche, visto che una buona percentuale dei tedeschi erano impiegati nell’edilizia e il rilancio delle esportazioni.
Il problema è che per costruire ponti e strade servivano soldi: Hitler non poteva aumentare la pressione fiscale, viste le condizioni del contribuente tedesco sarebbe stato come tirare fuori sangue da una rapa, non poteva stampare carta moneta, per evitare la spirale inflazionistica dei primi anni Venti, né poteva aumentare il debito pubblico, visto che i grandi investitori internazionali, poco si fidavano dei nazisti.
Per uscire da questo vicolo cieco, Hitler mise in piedi una delle più grandi truffe contabili della storia: il famigerato MeFo, sigla di Metallurgische Forschungsgesellschaft m.b.H (“Società per la ricerca in campo metallurgico”) una società fittizia del Terzo Reich.
Questo sistema di finanziamento si basava su uno schema ideato nel 1934 dal ministro del Tesoro nazista Hjalmar Schacht, nel quale era prevista l’emissione di speciali obbligazioni a nome della summenzionata società fantasma, i cosiddetti “Mefo-Wechsel”: grazie all’emissione di tali cambiali, a guisa di titoli di stato, liquidabili l’anno del mai, tramite cui il Tesoro poteva rastrellare liquidità da impiegare per i lavori pubblici
“MeFo” era dunque l’acronimo riferito a una scatola vuota, a nome della quale si emisero siffatte obbligazioni senza gravare sul bilancio pubblico e senza creare inflazione, in quanto tali cambiali erano “spendibili” esattamente come il denaro ma solo entro i confini nazionali. Insomma, una colossale falsificazioni dei bilanci statali, finanziata con i soldi del monopoli, tra l’altro tenuto segreto agli investitori esteri.
Per il rilancio delle esportazioni, Hitler dovette affrontare il problema dalla sopravvalutazione del marco rispetto alle maggiori valute mondiali. A questa debolezza si cercò di rimediare con i mezzi più diversi, uno dei quali fu un complesso sistema di sovvenzionamento alle esportazioni, un dunping legale, finanziato a partire dal 1935 tramite una tassa imposta all’economia secondaria (Exportumlage auf die gewerbliche Wirtschaft), alla razionamento dei beni di importazione e all’autarchia.
In più, a partire dal 1933 il Ministero degli Esteri tedesco sottoscrisse una serie di accordi bilaterali con altri Paesi, soprattutto quelli dell’Europa sud-orientale, che regolavano il commercio estero sulla base del clearing. In pratica questi paesi fornivano derrate alimentari e materie prime al Reich, che a sua volta esportava manufatti finiti (soprattutto armi e macchine utensili). Per funzionare, il saldo doveva essere pari a zero, ma in pratica il Reich costrinse i deboli partner commerciali ad accettare che la Germania accumulasse forti debiti di clearing non pagati. Il sistema del clearing era pensato per evitare la fuoriuscita di valuta dai propri confini: si trattava, di fatto, di un’economia di baratto.
I governi dei Paesi dell’Europa sudorientale (e anche l’Italia) non si resero mai pienamente conto che questo sistema subordinava sempre di più le economie nazionali agli interessi economici della Germania nazista: infatti più esse esportavano in Germania e più dovevano importare dalla Germania, anche se si trattava di prodotti di cui non avevano necessità; ma al tempo stesso la quantità di prodotti esportati verso i cosiddetti “paesi a valuta libera” diminuiva di anno in anno, rendendo impossibile l’acquisizione della valuta estera necessaria per importare da altri paesi.
Nel 1937, questa serie di truffe permisero il completo riassorbimento della disoccupazione: non furono le industrie d’armamento ad assorbire la manodopera; i settori trainanti furono quello dell’edilizia, dell’automobile e della metallurgia. L’edilizia, grazie ai grandi progetti sui lavori pubblici e alla costruzione della rete autostradale, creò la maggiore occupazione (+209%), seguita dall’industria dell’automobile (+117%) e dalla metallurgia (+83%).
Tuttavia, questo castello di carta straccia cominciò a mostrare proprio quell’anno le sue crepe: gli USA, stanchi della concorrenza sleale tedesca, minacciarono una guerra commerciale, imponendo dei dazi, come sta facendo Trumph con la Cina.
Questo avrebbe provocato il crollo delle esportazioni, mettendo in crisi gli industriali teutonici: per cui, Hitler, in linea con la sua retorica aggressiva, lanciò un programma di riarmo, per drogare il mercato interno tramite un nuovo moltiplicatore keynesiano.
Gli industriali ovviamente furono pagati in Me.Fo; in teoria, questi potevanpo scontarli presso la Reichsbank in ogni momento, e ciò costituiva per il Terzo Reich un rischio mortale: se i Me.Fo fossero stati presentato all’incasso massicciamente e rapidamente, l’effetto finale sarebbe di nuovo un aumento esplosivo del circolante e dunque dell’inflazione.
Per cui, per garantire questa cartaccia e giustificare il riamo, dal 1937 in poi, il Nazismo decise di tradurre in pratica la sua retorica aggressiva, mettendo in campo un’economia predatoria ai danni dei vicini, che però, invece di risolvere il problema creò un circolo vizioso.
La corsa agli armamenti fu seguita da Francia e Gran Bretagna: per rimanere in corsa, il Terzo Reich dirottò sempre più risorse sul riamo, emettendo sempre più Me.Fo, a loro volta bisognosi di copertura a scapito dei vicini. Politica estera che a sua volta alzava le tensione con Londra e Parigi, aumentando al contempo i loro investimenti, tra l’altro più sostenibili economicamente, negli armamenti.
A Neville Chamberlain la questione era ben chiara: per evitare la guerra, nell’aprile 1939, la diplomazia inglese fece arrivare alla Germania l’offerta ufficiosa – perché trasmessa per mezzo di uomini d’affari anziché di diplomatici – di un prestito a lunga scadenza e a tassi interesse straordinariamente bassi di 1 miliardo di Dollari per la riconversione industriale dalla produzione di mezzi bellici alla produzione di beni di consumo: in cambio si chiedeva alla Germania di rinunziare all’occupazione militare della Cecoslovacchia (avvenuta appena un mese prima) e ad ogni politica espansionista ai danni dei propri vicini.
Proposta che si scontrò con una serie di questioni che Londra non aveva considerato: la prima che Hitler non voleva rinunciare alla sua ambizione dello Spazio Vitale a est, che riteneva una panacea per tutti i problemi economici della Germania e lo strumento principale per la sua affermazione come grande potenza.
La seconda è che una mossa del genere avrebbe reso la Germania un mercato subordinato all’economia inglese, cosa che non era per nulla gradita dall’alta finanza e dagli industriali tedeschi. La terza è che il mercato interno tedesco non sarebbe stato in grado di assorbire la produzione industriale in beni di consumo, causando a medio termine una crisi economica analoga a quella del 1932, che avrebbe minato le basi dei Terzo Reich, cosa che nessuno dei vertici nazisti voleva.
Così Berlino continuò con la politica dell’azzardo, nell’attesa di completare il riarmo per il 1944, finchè per Danzica Parigi e Londra decisero di vedere il bluff. Hitler se la cavò per il rotto della cuffia, per l’abilità dei suoi generali, ma la Germania non era attrezzata per una guerra di lungo periodo, né vi era inizialmente la volontà politica di farlo: i gerarchi nazisti esitavano a comprimere ulteriormente la produzione di beni di consumo a favore della produzione di armi, temendo che ciò avrebbe diffuso il malcontento tra i lavoratori fino a determinare il crollo del fronte interno (come era già accaduto negli ultimi mesi della Prima guerra mondiale)
A prolungare l’agonia tedesca, che avrebbe potuto collassere , fu il genio, maligno, di Speer, che nel 1944 lo scrittore e giornalista Sebastian Haffner sul giornale londinese The Observer definì:
«Albert Speer non è il solito nazista appariscente e ottuso… è molto più del semplice uomo che raggiunge il potere, simboleggia invece un tipo d’uomo che sta assumendo sempre più importanza in tutti i Paesi belligeranti: il tecnico puro, l’abile organizzatore, il giovane brillante uomo senza bagaglio e senza altro scopo che seguire la propria strada, senza altri mezzi che le proprie capacità tecniche e manageriali. Degli Hitler e degli Himmler ce ne sbarazzeremo, ma con gli Speer dovremo fare i conti ancora a lungo…»
Speer con un miracolo tecnico organizzativo, portò la Germania al colmine della produzione industriale, ma questa era di gran lunga inferiore a quella degli avversari e soggetta a una serie di vincoli esterni, la dipendenza dalle materie prime altrui e i limiti infrastrutturali, che si manifestarono pienamente nel 1944.
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Da una parte il cambio di campo rumeno dell’agosto del 1944, analogo, ma meno noto di quello italiano, privò l’industria tedesca del petrolio; dall’altra la distruzione del ponte Colonia Muelhein nell’ottobre del 1944, da parte dei bomardieri americani.
La Ruhr era isolata, le acciaierie smisero di funzionare per la mancanza di minerali ferrosi ed il carbone non poteva più essere portato fuori dalla regione. Tra l’agosto 1944 e il gennaio 1945 il Reich dovette fronteggiare una massiva penuria di 36,5 milioni di tonnellate di carbone, quasi 6 settimane di normale approvvigionamento. Le fabbriche tra cui la Opel di Ruesselheim la Brown, Boveri, CIE e Krupp a Essen cessarono completamente la produzione nel gennaio 45 per mancanza di materie prime o componenti meccaniche. A marzo la produzione industriale tedesca era totalmente bloccata…
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Analizzando i dati della precendente tabella, sulla produzioni di armi, si possono identificare tre possibili scenari.
Il primo, ipotizzato da Paul Kennedy in “Ascesa e Declino delle Grandi Potenze” data l’impossibilità tedesca di realizzare Leone Marino, anche se la Goering avesse vinto la Battaglia d’Inghilterra, mantenendo la strategia iniziale, finalizzata alla distruzione della rete radar e degli aeroporti, lo sbarco delle divisioni di fanteria tedesche, perchè con le chiatte poco altro si poteva fare, dalla mobilità ben inferiore di quelle italiane, questa si sarebbe risolto in disastro per il Reich, e le difficoltà logistiche dell’Asse nel Nord Africa, senza l’intervento di Usa e Russia si sarebbe raggiunto un equilibrio in europa come all’inizio dell’800 tra Gran Bretagna e Napoleone, con una progressiva agonia della Germania continentale dato dal blocco navale inglese.
Il secondo, ipotizza una guerra limitata a Germania e Unione Sovietica, senza gli aiuti materiali anglo americani: il dato che salta all’occhio è il limitato supply chain, causato dall’infimo rapporto tra le dimensioni dell’esercito e il numero di automezzi destinati all’implementazione del treno logistico, ancora peggiore di quello del nostro Regio Esercito.
Per cui, Stalin, si sarebbe trovato davanti a un bivio difficile: o mantenere la produzione secondo quanto avvenuto nella nostra TL con tanti carri armati e pochi camion, ma senza un treno logistico che rifornisce i T34 di benzina, di munizioni e pezzi di ricambio, le grandi offensive non si possono realizzare, per cui l’operazione Bagration rimane un sogno proibito, per cui bisogna procedere a piccoli balzi, oppure produrre meno carri e più camion, raggiungendo assai più tardi la superiorità tattica sui tedeschi. Per cui, pur proseguendo sulle stesse direttive della nostra Timeline, i tempi della presa di Berlino si sarebbero enormemente dilatati.
Il terzo, ipotizza uno scontro USA, Gran Bretagna, Canada e Commonwealth e Germania, senza le masse di uomini dell’Armata Rossa: anche in questo caso, data la superiorità degli Alleati, i tedeschi sarebbero destinati alla sconfitta, ovviamente con modalità e tempi diversi dal nostro mondo.
Detto ciò, quali potrebbero essere i Point of Divergence che permetterebbero la realizzazione dello scenario ipotizzato da Sosio. Me ne vengono in mente tre.
Nel primo Hitler è impegnato, con i Panzer I, che facevano ridere tanto quanto i nostri spernacchiati carri leggeri, alla realizzazione del Fall Weiß in Polonia, gli anglofrancesi invece di rimanersene passivi, attaccano il fronte del Reno, travolgendo le divisioni di terza classe tedesche; di conseguenza la guerra, finisce rapidamente nel 1939, con la sostituzione del regime nazista con una conservatore, costretto ad affrontare il caos economico causato dalla pace e dalle riconversione economica tedesca.
Stalin, privato dei frutti patto Molotov-Ribbentrop, decide di sobillare delle rivolte comuniste nella Mitteleuropa e con la scusa di difendere i diritti del proletariato, fa intervenire l’Armata Rossa nel 1941, che con la forza dei numeri, travolge Francesi e Italiani e impone una pace di compromesso a Churchill.
Nel secondo vi à la vittoria di Goering nella battaglia d’Inghilterra e l’esecuzione dell’operazione Leone Marino, che rapidamente si trasforma in una sorta di immensa Gallipoli per i tedeschi, che si arenano nel Kent. Così, sempre nel 1941, Stalin lancia la mitologica Operazione Grozna, che tanto riempie i sogni degli storici revisionisti, travolgendo con rapidità i tedeschi, presi di sorpresa, gli italiani e i francesi
Il terzo, più banale, prevede che i panzer non si fermino a Dunkerque e ne travolgano il perimetro difensivo, trasformando l’Operazione Dynamo in un disastro: Churchill è costretto alle dimissioni e il suo posto è preso da Lord Halifax, che accetta le proposte di pace di Hitler, il quale, subito dopo, lancia l’Operazione Barbarossa, che lo porterà al disastro
November 24, 2019
Roma: escursione archeologica con il Trenino lungo la via Casilina
(m.v.) – Poco tempo fa, a Roma, abbiamo fatto una piccola escursione archeologica urbana con il trenino “Termini-Giardinetti”. Il Trenino, fino ai primi anni ’80, arrivava sino a Fiuggi seguendo inizialmente il tracciato della Casilina per poi proseguire lungo la via Prenestina. In seguito, la sua corsa fu limitata al solo suo tratto urbano fino alla frazione di “Giardinetti” e pochi anni fa, per evitare che facesse concorrenza alla nuova (e inutile!) Metro C che correva parallela al suo tracciato, si è deciso di fermare la sua corsa a Centocelle.
La tratta superstite del Trenino percorre, come detto, la via Casilina – l’antica via Labicana – costeggiando l’Acquedotto Felice, costruito nel XVI° secolo sotto il Papa Sisto V. L’acquedotto fu chiamato Felice dal nome del Papa, Felice Peretti, e fu costruito lungo il tracciato, e riutilizzando i resti, degli antichi acquedotti dell’Aqua Marcia, dell’Anio Novus
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San Clemente a Casauria (Parte III)
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Tornando a parlare di San Clemente a Casauria, entriamo assieme nella chiesa, con tre navate longitudinali, divise iette campate ogivali ed il transetto adornato di una sola abside semicircolare. La copertura, a capriata con mattoni dipinti a losanghe, originariamente doveva presentarsi nel transetto con volta a crociera sostenuta da pilastri polistili, in analogia ai modelli francesi, mentre era probabilmente a tetto nelle navate come consueto d’altronde negli edifici sacri del XII secolo.
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Ci avviciniamo poi all’ambone, posto fra il terzo e quarto pilastro sulla destra della navata centrale, che rispettando la tradizione del Centro e del Sud Italia, è poggiato su quattro colonne, che hanno i capitelli adornati di palme (simbolo del martirio e della vita eterna), le quali dapprima chiuse (nel primo sulla destra) aprendosi gradualmente nei successivi in senso antiorario, simboleggiano l’animo del cristiano che si apre ascoltando le parole del predicatore.
Opera probabilmente di maestranze adunate da Leonate intorno al 1176; è logico infatti pensare che l’Abate chiamasse i maestri più in voga per l’esecuzione di varie opere (le decorazioni del portico e del portale, il ciborio primitivo) fra cui l’ambone che forse non era completato alla sua morte dal momento che il Chronicon non ne fa menzione, sulla scritta dedicatoria del lato prospiciente l’altare compare comunque il nome di un Fra Giacomo da Popoli non bene identificato.
E’ interessante ricordare come la realizzazione degli amboni nella nostra regione ha una cronologia ben precisa: dal 1132 (ambone di S. Maria in Cellis di Carsoli) al 1267 (ambone di S. Stefano di Corcumello). In questo arco di tempo la quantità e la validità artistica fanno della produzione degli amboni una peculiarità abruzzese, che di seguito influenzerà, tramite la mediazione normanna e sveva, anche le successive realizzazione toscane.
Inoltre, questi amboni sono frutto di un’unica bottega, detta di Guardiagrele, dal nome del paese d’origine degli scultori, dei maestri Nicodemo, Roberto e Ruggero, in cui non è collegabile Fra Giacomo, che reinterpreta, seconda i moduli della scultura borgognone, l’iconografia della tradizione locale.
Questo si nota soprattutto nelle decorazioni degli architravi: nella parte rivolta all’ingresso un tralcio di vite che parte dalla bocca di un drago, simbolo del paganesimo – l’ornamento decorativo che si sviluppa dalla bocca di un animale è molto frequente in Abruzzo – , mentre nella parte di fronte al candelabro una decorazione simile nasce da foglie disposte alle estremità. L’iscrizione che si dispiega sopra, che può essere accostata alle iscrizioni pugliesi del coro di S. Nicola di Bari o sul trono di Canosa, e quindi di ispirazione normanna, invita chi predica ad una regola di vita coerente con ciò che va enunciando.
Nel lato prospiciente l’ingresso tre plutei da cui spiccano tre grandi fiori ad altissimo rilievo, sormontati da alberelli: qui il rosone abruzzese può dirsi giunto al più alto grado decorativo. Nel lato di fronte al candelabro: al centro, sotto il leggio, un’aquila che poggia gliartigli su un libro che a sua volta poggia su un leone; nei plutei laterali due rosoni.Gli altri due simboli degli evangelisti (il bue e l’angelo) dovevano essere nella parte rivolta all’altare che è da ritenersi la più infelice: probabilmente un terremoto dovette danneggiare il terzo e il quarto lato dell’ambone, quando si fece il restauro trovarono posto in questo lato anche i frammenti caduti dal quarto.
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Il ciborio d’altare è della metà del XV secolo, a forma quadrata, data dagli angoli trilobi poggianti su quattro colonne, è alleggerito in alto da una terminazione piramidale. Un’iscrizione incisa sul basamento, ricorda la presenza nella chiesa delle reliquie dei Santi Pietro e Paolo, oltre a quelle di San Clemente. Sul frontone del prospetto del ciborio, ci sono i simboli degli Evangelisti, due angeli al centro e la Madonna col Bambino, l’Angelo Gabriele, la Vergine Annunciata sono scolpiti nei lati dell’arco, la cui terminazione triloba è arricchita dal tralcio vegetale.
Sulla destra campeggiano due angeli che sorreggono lo scudo araldico; sul retro sono disposte le storie della fondazione dell’Abbazia, già scolpito sull’architrave del portale maggiore per alto, infine sulla facciata finale, c’è il rilievo che simboleggia il Peccato Carnale e quello Spirituale, scultura tarda, rifatta nei primi anni del Novecento.
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Il candelabro per il cero pasquale si erge su una base a forma di ara con le teste di leone ai quattro spigoli (fine IV – inizio V sec.), probabilmente proveniente da un tempio pagano e qui reimpiegata. La colonna attuale (in pietra di Pescosansonesco) andò a sostituire quella originaria distrutta dal terremoto del 1349. Va datata invece intorno al 1240 la parte superiore che per il Bertaux non può essere anteriore ai capitelli dell’ambone di Prata d’Ansidonia; era comunque uso costante pensare all’erezione del candelabro solo quando l’ambone era terminato; in questo caso l’interruzione dei lavori con la morte di Leonate (1182) avrebbe rimandato molto più in là l’esecuzione.
Nella parte superiore del candelabro un capitello, che si compone secondo lo schema francese già visto in S. Giovanni in Venere di otto foglie ad uncino ripartite in due ordini a forma di bacca entro cui si sviluppa un ramoscello, sostiene un’edicola a due piani che doveva avere dodici colonnine: Serafino Ventura le ricordava ancora integre agli inizi del 1800, mentre nel 1853 rimanevano soltanto le sei del primo piano. I mosaici che adornavano sia l’abaco del capitello che i prismi esagonali delle lanterne paragonati a quelli di S. Pietro d’Alba Fucens hanno in realtà smalti poveri, coi toni del mattone e della terra grigia, in una sorta di reinterpretazione minimalista delle esperienze cosmatesche di Roma e del Sud Italia.
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L’altare è costituito da un sarcofago paleocristiano (per Gavini e Calore è della fine del IV – inizio V sec. : Sotomayor lo data invece al 320 d. C.). Il fronte è diviso in cinque pannelli: quelli pari sono strigilati, presentano cioè una serie di scanalature ad andamento ondulato – motivo decorativo ricorrente nei monumenti funerari romani -; quelli dispari mostrano invece alcune figure (a sinistra forse S. Pietro fra le guardie, in quello centrale Gesù tra SS. Pietro e Paolo o – secondo altri – un orante fra due apostoli; in quello di destra una scena della Negazione – se sulla parte abrasa si ipotizza la presenza di un gallo – o, secondo Calore, Cristo che tenendo in mano un rotolo parla ad una figura maschile imberbe). Il recupero del sarcofago paleocristiano, di probabile origine romana, è tipico della cultura cassinense dell’epoca, con il porre la Chiesa come continuità, culmine e completamento della Classicità greco-romana.
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Il sarcofago appoggiato al muro della navata sinistra fu portato nel 1931 in S. Clemente dalla chiesa madre di Castiglione a Casauria. E’ opera quattrocentesca che ha al centro del lato più lungo della cassa uno stemma araldico( forse dei Brancaccio). Vi è raffigurato, sdraiato con le mani ornate di un anello che reggono un libro, Berardo Napoleoni com’è dato leggere nell’ epigrafe in caratteri gotici che corre lungo i bordi del coperchio. Vescovo di Boiano dal 1364 al 1390 Berardo Napoleoni è ricordato nel 1364 come preposito della chiesa di Santa Maria del Colle in Pescocostanzo. Sarcofago, influenzato dalla scultura del Nord Italia, che mostra come l’Abruzzo, per la sua posizione di snodo geografico sull’Adriatico, fu precocemente convolto nel processo dell’elaborazione della scultura proto-umanista.
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L’urna d’alabastro in cui probabilmente, dopo averle avvolte in un manto, l’imperatore Ludovico II pose nell’872 le ossa di S. Clemente “involvit totum Corpus in pretioso pallio. Deinde posuit in vasculo pretioso, quod ipse rex secum habebat factum de alabastro” (Chron. Cas. 18 v. – 19 r.).conteneva anche reliquie di S. Pietro e S. Paolo e fu rinvenuta nel 1104, vicino l’altare, dal cardinale Agostino mandato da papa Pasquale II a verificare se nell’abbazia fossero ancora custoditi i resti del Santo. Profanata e danneggiata nel 1799, quando le truppe francesi alloggiano nella chiesa devastandola, l’urna viene successivamente recuperata per caso da Pier Luigi Calore che pratica un foro nella parte posteriore dell’altare, durante i lavori di restauro terminati nel 1891. Gabriele D’Annunzio, tessendo le lodi dell’amico in un articolo su “Il Mattino” di Napoli del 1892 ricorda che il Calore
“ritrovò dentro un sarcofago cristiano la teca funeraria di marmo greco scolpita a fiorami nel sec. III dopo Cristo, la quale contenne il corpo di S. Clemente”.
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Infine, la cripta è accessibile dal presbiterio, ed è la parte più antica del cenobio, usata per la custodia dei santi e degli abati. Ambiente a pianta centrale, scandito da nove navatelle longitudinali, per due trasversali, con el campate che hanno volta a crociera. Per la sua costruzione fu utilizzato materiale di spoglio, proveniente da edifici romani situati nei dintorni, dato che l’abbazia sorse presso il pagus di Interpromio, distrutto da un sisma, venendo usato per coprire la cripta di San Clemente. Tra il materiale più antico si distinguono 4 capitelli corinzi della parte absidale, la colonna miliare con l’iscrizione che ricorda gli imperatori Valentiniano, Valente e Graziano per il restauro della via Claudia Nuova, iniziati nel 360-63 d.C.
E’ una cripta presbiteriale rialzata (come quella di S. Vincenzo a Milano e S. Marco a Venezia), per andare al presbiterio della chiesa bisogna infatti salire quattro gradini. Vi si accede da due scale poste alle estremità delle navate laterali; G.B. Pacichelli nel 1695 la ricordava colma “ di poco mondo terreno” cioè di cadaveri.
La cripta fu realizzata con tre altari, anche se oggi ne rimane uno, il centrale, nella parte sinistra una parte di intonaco rimane dipinta di colore rosso e verde, a motivi lineari, la presenza dei due recinti absidali, separati dall’intercapedine, ha generato dibattito tra gli studiosi per la datazione.
Gavini lo data al IX secolo, rifatto dall’abate Leonate, per via delle evidenti manomissioni e della grandezza sproporzionata delle forme rispetto all’ampiezza della cripta. La cripta in origine doveva essere più grande, ma poi sarebbe stata ristretta, secondo altri studiosi, per la presenza scoordinata degli archetti ogivali sulla parete destra.
November 23, 2019
La tormentata nascita del Teatro Massimo
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Pochi lo sanno, ma il Il Teatro Massimo Vittorio Emanuele, meglio noto come Teatro Massimo, di Palermo è il più grande edificio teatrale lirico d’Italia, e uno dei più grandi d’Europa, terzo per ordine di grandezza architettonica dopo l’Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna.
E ancora meno, conoscono la travagliata storia della sua costruzione: questa cominciò nel 1848, quando Mariano Stabile, che ricopriva il ruolo di Sindaco di Palermo lanciò l’idea della costruzione di un grande teatro, sia come segno di rappacificazione con l’opinione pubblica dopo i moti di Palermo, sia perchè il glorioso Real Teatro Bellini o Regio Teatro Carolino si stava cominciando a mostrare inadeguato.
Come spesso accade per le grandi opere pubbliche palermitane, tutti applaudirono, per poi, subito dopo, cominciare a litigare selvaggiamente per questioni, che nel resto del Mondo, parrebbero secondarie: nel caso specifico, il nome del teatro.
Il Pretore della città, Principe di Manganello, aveva proposto di chiamarlo “Reale Teatro Ferdinando II”, cosa che assai poco gradita alla nobiltà locale, che poco gradiva Re Bomba, sia per avere fatto prendere a cannonate i suoi palazzi, sia per avere tentato di aumentarle il carico fiscale: con un decreto del re di Napoli del 15 dicembre 1849 venne imposto all’isola un debito pubblico di 20 milioni di ducati, che dopo parecchie polemiche, fu rigirato sui contadini e sui borghesi.
L’Unità d’Italia mise fine a queste polemiche: così nel 1864, il nuovo sindaco, il marchese di Rudinì, bandì un concorso per “provvedere alla mancanza di un teatro che stesse in rapporto alla cresciuta civiltà ed a’ bisogni della popolazione”, aperto ad architetti italiani e stranieri.
Prima polemica, molto salviniana, fu proprio legata all’invito degli stranieri: lo slogan dei giornali locali dell’epoca, fu
Prima i palermitani.
Seconda polemica fu causata dall’idea di esporre i progetti presentati dai trentacinque architetti invitati, di cui un terzo stranieri, nell’interno della chiesa di S. Domenico, perché si riteneva un atto sacrilego usare un tempio cristiano per il concorso di un teatro. Dopo un’epidemia di colera, che rallentò notevolmente i lavori del concorso, la giuria, presieduta da Gottfried Semper, l’architetto autore della Semperoper di Dresda e impegnato proprio in quegli anni nella creazione della Ringstrasse di Vienna, il 4 Settembre 1868 proclamò vincitore del concorso proprio il palermitano Giovanbattista Filippo Basile, assegnandogli un premio di lire 25.000.
Anche il Consiglio Comunale lo approvò. Questa vittoria fu oggetto di critiche, petizioni per riaprire il concorso, opposizioni dovute alle gelosie ed all’invidia di alcuni politici e di certi intellettuali del tempo. Furono anche presentate denunce. Insomma, quanto sta accadendo per le nuove linee di tram o per la chiusura dell’anello ferroviario, è ben misera cosa, al confronto.
A gettare benzina sul fuoco, vi fu la scelta di dove dovesse essere costruito, questo benedetto teatro… Nel 1859 era stata individuata un’area di piazza Marina come sede del nuovo edificio, che fu poi sostituira dalla decisione, oggettivamente sensata e previdente, di costruire il tutto fuori porta Maqueda, al di là delle antiche mura, perché si pensava che la città si sarebbe estesa verso quella parte. La costruzione del teatro comportava però la demolizione dei monasteri dell’Immacolata Concezione e delle Stimmate, sorti nel 1700, della monumentale basilica di San Giuliano, opera dell’architetto Giacomo Amato, e delle chiese di S. Lorenzo, di S. Maria e di Sant’Agata li Scorruggi.
Ciò scatenò il finimondo: il Monastero e la Chiesa delle Stimmate di San Francesco, ricca di stucchi del Serpotta, era il luogo preferito dalle famiglie nobiliari palermitane per liberarsi delle figlie zitelle. La chiesa di Sant’Agata li Scorruggi, dal nome degli ex voto a forma di mammella, realizzati in argento o in cera, e per forma assomiglianti a scodelle denominate in dialetto “scurruie”, recipienti con i quali i fedeli erano soliti addobbare il simulacro durante le processioni, costruita su una delle tante presunte case della santa, era uno dei luoghi più venerati della città. Infine, San Giuliano, una sorta di gemella del Santissimo Salvatore, era una delle principali attrazioni turistiche della Palermo dell’epoca, a causa della straordinaria vista che si godeva dal lanternino della sua cupola.
Di conseguenza, ci furono proteste e petizioni a non finire, firmate dal palermitano medio e cause intentate dalle suore francescane e teatine, che non avevano molta voglia di essere sfrattate dai loro conventi. A fatica iniziarono i lavori di demolizione, che misero a disposizione del Comune un’area di 25.000 metri quadrati.
Leggenda vuole che lo spirito dell’ultima Madre Superiora di uno dei conventi demoliti, ancora di pessimo umore, giri per le sale vuote del teatro e che gli scettici, compreso il sottoscritto, sono condannati a inciampare in un particolare gradino, chiamato proprio gradino della suora.
Il 12-01-1875, anniversario dei moti di palermo con solenne cerimonia preseduta dal Sindaco Emanuele Notarbartolo, venne dato inizio ai lavori e affidata la direzione degli stessi all’architetto Giovanbattista Filippo Basile, il quale, per rivaleggiare con le antiche costruzioni, fece riattivare le cave di pietra di Solanto, Cinisi, Aspra, e Billiemi, tenendo nel contempo lezioni serali per intagliatori di pietra, in modo da ricostituire le antiche maestranze ormai scomparse, per il fatto che l’architettura ottocentesca usava ormai intonacare i prospetti degli edifici.
Dopo tre anni di lavoro, si constatò che i due milioni e mezzo stanziati dal Comune, portati poi a tre milioni e trecentomila lire, non sarebbero stati sufficienti per il completamento del teatro, per cui la giunta comunale, pressata da innumerevoli accuse di sperpero del pubblico denaro, decise di sospendere i lavori.
Per cui nel 1878, i lavori vennero sospesi: nel maggio 1881, poi, l’assessore ai lavori pubblici, Fortunato Vergara di Craco, nel consiglio comunale accusò pubblicamente Basile di avere gonfiato i conti di 420.000 lire e di avere trasferito tale cifra in un conto estero.
La polemica che seguì, fece togliere l’incarico a Basile: per sostituirlo, fu chiamato l’architetto Antonelli, ideatore della famosa Mole Antonelliana di Torino. Non l’avessero mai fatto: sempre al grido di prima i palermitani, avvampò la protesta contro il Comune, che, visto anche che il teatro stava rischiando di crollare prima del completamento dei lavori.
Tra le angosce, vicissitudini, battaglie burocratiche, traversie e contrasti di ogni genere, giungeva notizia a Palermo che per i teatri di Parigi e di Vienna erano stati spesi rispettivamente trenta e venti milioni di lire, mentre si sentiva nel contempo la necessità di portare a termine l’opera prima dell’Esposizione Nazionale di Palermo, programmata per il 1891. Ma da un completamento affrettato, del teatro si oppose il Basile, per il fatto che era suo intendimento portare a termine la sua opera nella maggiore completezza possibile, e il suo rifiuto gli procurò ulteriori accuse e critiche, che culminarono in pieno Consiglio comunale, dove si grido:
“Questo teatro è una disgrazia per la città!”.
Anche perchè, diciamola tutta, l’architetto, oltre ad essere integerrimo, stava facendo del suo meglio assieme all’impresa edile di Giovanni Rutelli, antenato del sindaco di Roma, ed Alberto Machì, che addirittura sperimentò per l’epoca delle tecnologie all’avanguardia per completare quel maledetto teatro: Rutelli inventò una speciale gru a vapore che si rivelò fondamentale durante lo svolgimento dei lavori, soprattutto nel sollevamento dei pesanti blocchi di pietra fino a 22 metri di altezza. Di detta gru il Comune di Palermo custodisce oggi il relativo prototipo in scala donato al tempo dallo stesso Rutelli.
Nel 1891 moriva Giovanbattista Basile, sfiancato da tutte queste polemiche prima che vedesse compiuta la sua opera. Il cordoglio e la commozione della cittadinanza furono immensi e il frontone del teatro, ancora incompiuto, venne listato a lutto. Il Comune, per farsi perdonare quanto combinato negli anni precedenti affidò al figlio di questi, Ernesto, la continuazione dell’opera, che venne portata a termine nel 1895 e il 1896, dedicandosi alla decorazione, che grazie alla collaborazione di Ducrot, Lentini ed Ettore De Maria Bergler, è uno dei primi esempi del liberty italiano.
In realtà, a dire il vero, il Teatro Massimo è rimasto incompiuto per mancanza di soldi: infatti manca di alcuni dettagli, quali la quadriglia centrale, i due gruppi laterali e il genietto alato che si sarebbe dovuto collocare sul timpano del portico.
Alla fine fu inaugurato il 16 Maggio 1897, tra uno sfarzo di luci e di colori, con il Falstaff di Giuseppe Verdi, nonostante una gaffe del re d’Italia Umberto I che se ne uscì con un
“Ma che bisogno ha, Palermo, un un teatro del genere?”
Le malelingue, poi, raccontato di una riunione finita in rissa del Comitato di Gestione del Teatro, guidato da Vincenzo Florio, per la scelta dell’opera inaugurale.
Ad assistere allo spettacolo inaugurale sono stati ammessi tre mila spettatori, quanti, cioé, ne può contenere il teatro. Gli altri sono rimasti fuori e possono consolarsi ammirando i due gruppi scultorei su due podi laterali della scalinata di ingresso (quello di destra di Bruno Civiletti, quello di sinistra di Mario Rutelli) o estasiandosi davanti alle armoniose basi dei candelabri che
sostengono i lampioni per l’illuminazione della piazza e ai due chioschi liberty, il Ribaudo e il Vicari, sempre di Basile
Ed è anche, per quanti quella sera si attardano ai piedi della scalinata, motivo di dotte disquisizioni sulla paternità dell’epigrafe posta nel fregio del portico:
“L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano è delle scene il diletto, ove non miri a preparare l’avvenire”.
Che alcuno attribuiscono a Gioberti e altri a Basile padre
November 22, 2019
Tornando a vantarsi
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Tra i tanti clienti che hanno la sfortuna di sopportarmi, vi é CRUI, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, che, per chi non lo sapesse, svolge il ruolo di Centrale di Acquisto per le Università e i Centri di Ricerca (es. ASI, ISF, CNR) in Italia, per quei prodotti IT, per i quali, in alternativa al tradizionale listino Governement in carico a Consip, ne esiste anche uno Educational, più economico e, a volte, con proprie specificità.
CRUI, diamo a Cesare, ciò che è di Cesare, sta svolgendo un ruolo tanto importante, quanto poco noto, nel supportare i suoi associati nel processo di innovazione e trasformazione digitale. In particolare, ben prima di parecchie aziende, ha puntato con decisione ed energia sul paradigma del Public Cloud. Per questo, ha messo gara numerose convenzioni per la sua fornitura.
TIM l’anno scorso ha vinto quello relativo ad Azure; quest’anno è stato invece il turno di IBM Cloud, sempre grazie alla stessa agguerrita squadra, amichevolmente soprannominata il Mucchio Selvaggio, costituita da commerciali, progettisti, sales specialist, membri della Task Force Multi Cloud, che hanno uno spropositi di difetti, ma certo non sono secondi a nessuno, per esperienza, competenza e dedizione.
Accordo quadro presentato oggi e che prevede la fornitura di servizi relativi a:
IaaS e PaaS sul Public Cloud
Intelligenza Artificiale di IBM Watson
IBM Quantum Computing
Una gara importante per TIM, perché rafforza il suo ruolo preminente nel Multi Cloud e per il mondo dell’Università, dato che:
Permette di ottimizzare gli investimenti, evitando di comprare hardware e software inutile e di concentrarsi su ciò che è veramente essenziale nei progetti di ricerca.
Dona la possibilità di ampliare i servizi agli studenti, ad esempio modernizzando i portali web e introducendo chatbot per ottimizzare gli iter burocratici.
Mette a disposizione dei ricercatori strumenti innovativi di IA e Quantum Computing
Poggetti Vecchi, Tuscany, Italy; evidence of the use of fire for working wooden implements by Neanderthals (∼171,000 years B.P.)
Wooden artifacts were found in the stratified site of Poggetti Vecchi in southern Tuscany (central Italy) that was dated to the final Middle Pleistocene.
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November 21, 2019
Piani Quinquennali !?
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In questi giorni, al lavoro, mi sono trovato davanti parecchi clienti, che desiderosi di imitare i piani quinquennali della vecchia Unione Sovietica, mi hanno chiesto una serie di progetti IT dalla durata variabile tra i cinque e i dieci anni.
Premesso che hanno sempre ragione, almeno finché pagano, però leggendo i loro capitolati tecnici, in cui si stima quante e quali applicazioni possano essere migrate nel luglio 2028, dentro di me ho sorriso. Per un momento, ho ripensato a come fosse il mondo dell’IT in Italia appena sette anni fa, nel 2012.
Cloud: All’epoca, le nostre aziende guardavano con molta perplessità le soluzioni di private cloud di Telecom Italia e di Aruba, che all’epoca muovevano i primi passi e ben pochi avevano chiaro cosa fosse il public e l’hybrid cloud.
Non esisteva ancora la filiale italiana di AWS, che se non ricordo male risale al 2014, e ben pochi clienti usavano il Cloud di Amazon. Le riviste specializzate dell’epoca parlavano con stupore di Lamborghini, che vi aveva implementato una componente, assai ridotta dell web farm e di Decysion, la software house nata a Latina, ora multinazionale con sede negli USA, che vi erogava i sofware per gestire reti di sensori e addirittura per la gestione di un parco eolico.
Di Azure e GCP se ne parlava molto, all’epoca ho assistito almeno a tre o quattro presentazioni sul tema, ma di concreto, in giro, almeno in Italia, c’era assai poco. In generale, sul public cloud, molti erano gli scettici, convinti al massimo che potesse avere spazio di mercato solo nelle PMI
Container: all’epoca, dato che non era ancora stato lanciato Docker e la loro orchestrazione era fatta manualmente, cosa che spesso e volentieri portava a bagni di sangue e disastri, molti addetti ai lavori li consideravano un vicolo cieco
Software Defined Data Center: Era un termine che appariva spesso negli articoli accademici, ma che non si aveva la più pallida idea di come si potesse realizzare nel concreto. Il che non significava che fossimo tutti scemi: Nutanix stava muovendo i primi passi, Datacore aveva lanciato SanSymphony e il Software Defined Storage era considerato come un oggetto assai esotico, Rubrik era ancora lontana dal nascere.
In ambito rete, Openflow era considerato poco più che un giochetto per nerd, c’erano appena stati i primi sviluppi da parte di Google e almeno ufficialmente, il termine di SD-Wan ancora non era nato
Big Data: Ci si era appena conto del fatto che Hadoop potesse essere una macchina da soldi e non un giochetto per accademici.
IoT: a differenza delle tecnologie che ho citato in precedenza, c’era molto interesse sul tema: si erano già svolte le prime European IoT Conferences ed era appena nata la Ipso Alliance, ma di certo giravano assai meno soldi di quelli attuali
Blockchain: Sui giornali cominciavano ad apparire i primi articoli sui Bitcoin, ma solo pochi visionari ipotizzavano un utilizzo diverso dalle criptovalute.
Intelligenza Artificiale: Avevano appena fatto scalpore i successi di Watson al quiz televisivo Jeopardy!, in cui sconfisse i suoi avversari umani, ma IBM non aveva ancora lanciato le sue prime applicazioni commerciali
Quantum Computing: era al massimo il tema del Premio Urania di quell’anno, l’Uomo a un grado Kelvin di Pietro Schiavo Campo
Un panorama IT ben diverso dall’attuale… Per cui, almeno io, non me la sento di fare previsioni su cosa possa accadere tra il 2026 e il 2029 e tanto meno, buttare giù un paio di piani quinquennali!
November 20, 2019
Osimo sotterranea
Da ragazzo, sono capitato qualche volta a Osimo: ho passeggiato per le sue vie, ho ammirato le sue porte e le sue chiese, tra cui san Filippo, precettorie templare, ho riso al loro soprannome di senzatesta, dovuta al gran numero di senzatesta… Ebbene, il fatto è dovuto ad una serie di statue acefale di epoca romana ritrovate in città durante i secoli, ora custodite nel locale lapidario.
Però, ignoravo che esistesse, come a Camerano, una città parallela, che si estende sotto la superficie: come in altri casi, gli ipogei venivano dati per scontati e utilizzati come cantine, finché, durante l’emergenza dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, alcuni abitanti si accorsero come molti comunicassero tra loro e fossero articolati su più livelli di profondità, da 5 a 15 metri sotto il livello stradale e raccordati da pozzi circolari, che potevano comunicare anche con l’esterno e da cui giungeva una minima illuminazione e ricambio d’aria.
Pozzi che si trovano soprattutto nei cortili di palazzi e conventi, permettendo sia l’accesso alle grotte, sia alla falda freatica. Sorpresa ancora maggiore ebbero i visitatori casuali, quando si accorsero come alcune delle gallerie fossero decorate con sculture di ogni tipo.
Negli anni, il comune di Osimo ha commissionato una serie di mappature di questa città sotterranea: allo stato attuale sono state censite 88 grotte per una lunghezza complessiva di più di 9 chilometri. A queste si devono aggiungere altri cunicoli che paiono appartenere ad un’epoca più antica. Sono stati contati oltre cento pozzi circolari, del diametro medio di 90 centimetri, mentre l’altezza media delle grotte è di 2,5 metri e un’apertura media di 1,40 m.
Il tutto scavato nell’arenaria, che in fondo non è nulla più che sabbia compatta, assai facile da lavorare. Inizialmente, il tutto nacque per scopi puramente utilitaristiche, cantine o poco più, per poi essere progressivamente sacralizzate nel Medioevo e infine, nel Settecento e Ottocento, alcune furono utilizzate come luogo di riunione per la Massoneria e la Carboneria.
Quali sono gli ipogei più interessanti? Il più semplice da visitare è senza dubbio il cosiddetto Cantinone, con ingresso in via di Fonte Magna sotto il Mercato coperto, attrezzate come rifugio antiaereo nel 1944, mentre in superficie un tempo sorgeva la chiesa di S. Maria Maddalena che nel 1234 venne sostituita da una chiesa in forme romanico-gotiche dedicata a S.Francesco (l’attuale chiesa è dedicata invece a S.Giuseppe da Copertino). Data la presenza di sculture di frati in atteggiamento contemplativo e di altri soggetti religiosi, come san Francesco che riceve le stimmate, è possibile che fosse utilizzato come eremo per la preghiera.
Altro ipogeo visitabile è quello delle grotte di Piazza Dante, in cui si accede scendendo nelle vecchie cantine dell’elegante Palazzo Fregonara-Gallo, dietro le botti impolverate. Disposte su due livelli di profondità, a 10, 5 metri dalla piazza da cui prendono il nome, queste grotte appaiono di fattura più recente rispetto a quelle del Cantinone, ma, a differenza di questo, sono decorate da altorilievi di carattere esoterico, inquadrabili tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Nei palazzi sovrastanti affacciati sulla piazza, hanno vissuto personaggi storicamente legati alla carboneria e affiliati a logge massoniche, come il Conte Cesare Gallo.
Nelle vicinanze, sotto palazzo Campana, vi è un altro ipogeo, dalle pareti decorate con rilievi che rappresentano guerrieri, divinità e scene mitologiche, che sono tratte dall’opera di Cesare Ripa (Perugia,1560 –Roma 1622) Nuova Iconologia nella quale vengono descritte e illustrate le personificazioni di virtù e vizi sulla base di particolareggiate ricerche e rinvenimenti storici e documentari.
Per la datazione di tali decorazioni deve essere successiva alla prima metà del Seicento: dato che molte di tali motivi appaiono anche nelle facciate di tanti palazzi di Osimo è probabile che il luogo non fosse nulla più che una sorta di laboratorio-scuola di scultura.
L’ipogeo successivo si sviluppa sotto Palazzo Simonetti, una potente famiglia di Jesi cacciata dai Malatesta nel XV secolo e quindi trasferita prima a Cingoli e poi ad Osimo, che, tramite una serie di matrimoni divennero possidenti di numerose terre. Il Palazzo risale al XVIII secolo e presenta una elegante facciata di finestre sormontate da timpani di stucco e un portale d’ingresso con balconcino. Questo palazzo fu eretto nel XII secolo dalla famiglia guelfa dei Sinibaldi, che ebbe quattro capitani dell’Ordine degli Ospitalieri. Data la presenza di numerose loro croci, poteva costituire un luogo di preghiera, meditazione e riunione: dato che molti Simonetti divennero massoni, è possibile che il luogo possa essere diventato successivamente sede di una loggia.
Sempre legato agli ordini religiosi cavallereschi e con funzione analoga al precedente è l’Ipogeo di Palazzo Riccioni, una volta sede di una domus templare: si accede alla grotta percorrendo un cunicolo che sfocia in una grande sala. All’ingresso si incontra una croce con otto braccia detta anche croce di San Giovanni e adottata dai Cavalieri dell’Ordine di Malta. La sala ha pianta a stella con 5 punte, a conclusione di queste ci sono altrettanti “sedili” scavati nell’arenaria che, molto probabilmente, venivano utilizzati per le riunioni dei membri dell’ordine.
I sotterranei di Casa Polidori invece custodiscono i resti di una vasca romana, probabilmente legato al collegium dei Centonariorum, l’equivalente dei moderni ‘pompieri’ che avevano lo scopo di sedare gli incendi.
Infine, vi sono le grotte Buglioni, che si aprono su via Pompeiana, alla profondità di 9 metri, in cui la presenza del monogramma cristologico IHS, fa pensare a un luogo di preghiera di qualche ordine religioso…
Metal sources and Trade networks in Bronze Age Europe
The Bronze Age was the first long period in human history when widespread trade networks connected Europe and the wider Eurasian continent, defining a pre-modern era of globalization, or, ‘bronzization’. One of the driving forces behind the inter-regional trade was the constant need for metals, and other raw materials and goods available only in certain parts of Europe.
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I Neuri, gli sciamani-licantropi (Hdt. IV 105)
Sempre parlando di sciamanesimo nell’Antichità
di ERODOTO, Storie. Volume secondo (libri III-IV), a cura di A. IZZO D’ACCINNI e D. FAUSTI, Milano 1993, 282-285; HERODOTUS, The Histories, ed. by A.D. GODLEY, Cambridge 1920 [perseus.tufts.edu]
Nel brano seguente, Erodoto parla dei misteriosi Neuri (Νευροί), un popolo nomade del Nord Europa, che occupava la regione (τὴν Νευρίδα γῆν) che si estendeva a nord-est dei monti Carpazi, a nord delle sorgenti del Dnestr (Τύρης, IV 51) e lungo il bacino meridionale del Bug (Ὕπανις, IV 17) – insomma, un’area posta fra le attuali Polonia e Lituania. È probabile che la regione chiamata Nurskazemja, presso i fiumi Narew e Nur, debba il suo nome proprio ai Neuri (cfr. P.J. Šafárik, Slawische Alterthümer, Prag 1839, I, 1, 186; 194 sgg.). Molto tempo prima della spedizione di Dario contro gli Sciti (515-505 a.C.), i Neuri erano stati costretti a lasciare le loro sedi originarie, perché infestate…
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Alessio Brugnoli's Blog

