Alessio Brugnoli's Blog, page 86
November 19, 2019
La caduta di Akkad
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A Naram-Sim successe pacificamente il figlio Shar-Kali-Sharri, il cui regno fu assai pacifico e ricco di benessere: le uniche campagne militari di rilievo furono contro i soliti elamiti, che di pagare le tasse ad Akkad non ne volevano proprio sapere, e nel Luristan, a tutela delle vie commerciali tra la Mesopotamia e l’Anatolia. Alla sua morte, però, si scatenò il caos e la guerra civile, che la lista reale sumerica commenta con un
“chi era re? chi non era re?”
modo elegante per dire che non ci si capiva assolutamente nulla. Caos che durò un paio d’anni e che terminò con la salita al trono di tale Dudu, non imparentato con Sargon; regno che vide la perdita progressiva del controllo sulle Terre Alte, sulla Siria e sull’Elam.
Ancora peggio accadde al suo successore, Shu-Turul; i sumeri stanchi del suo dominio, si ribellarono in massa e chiamarono in loro aiuto i Gutei, pastori nomadi, che sconfissero l’esercito accadico, saccheggiando la sua capitale e impadronendosi della Mesopotamia settentrionale.
I nuovi governanti erano però di cultura nomade e non in grado di gestire la complessa organizzazione statale. In particolare lasciarono deteriorarsi i canali di irrigazione indispensabili per il mantenimento della produzione agricola e la regione decadde economicamente, tanto che, per bloccare l’emigrazione da Nord a Sud, i sumeri costruirono un muro, chiamato pomposamente
Il respingitore degli Amoriti
Ma come è possibile, che un Impero forte e potente, sia crollato in un battito di ciglia ? Il potere di Akkad era basato su tre pilastri: il potere militare, che proteggeva le vie commerciali dirette in Mesopotamia, un’efficiente amministrazione e la cooptazione delle élites politiche e religiose sumeriche nella gestione del potere.
Il primo pilastro implicava la presenza di un numeroso esercito stabile: Sargon, in una sua tavoletta, si vanta
“ogni giorno migliaia di uomini mangiano alla mia presenza”.
Il secondo, implicava una capillare e stratificata burocrazia decentralizzata, che doveva però rispettare una regole precise e definite: Sargon e i suoi successori introdussero pesi e misure standardizzate, un sistema di datazione uniforme, in cui ogni ad ogni anno veniva attribuito in funzione di un importante evento che vi era accaduto, per esempio
“Anno in cui gli elamiti hanno pagato un ricco tributo”
o la forma e lo stile con cui erano compilate le tavolette dedicate alla contabilità; ma i burocrati, ahimé, volevano essere pagati e bene.
Il terzo pilastro, implicava per tenere buoni grandi sacerdoti ed ensi dal pessimo carattere, una continua ridistribuzione di ricchi doni. Per cui, l’Impero, per continuare a funzionare, implicava un flusso continuo di tasse, all’epoca pagate in derrate agricole e beni di consumo.
Questi provenivano da tre fonti primarie: le eccedenze dell’agricoltura irrigata della Sumeria, dato che i capi e il clero locale tendevano a incamerare gran parte della produzione, l’agricoltura secca del Nord della Mesopotamia, i tributi dei vicini.
All’improvviso, però gli inverni divennero assai più freddi e le estati secche: le piene del Tigri e dell’Eufrate furono assai meno abbondanti, provocando una progressiva diminuzione della produzione agricola sumerica.
Al contempo, le minori piogge provocarono il collasso dell’agricoltura secca: le eccedenze del Sud, sempre minori, non furono più utilizzate per pagare soldati e burocrati, ma per nutrire i contadini impoveriti.
Ciò provocò il prevalere delle spinte centrifughe nell’Impero e un minore potere militare, riducendo i tributi e rendendo meno sicuri i commerci; questo alimentò l’ostilità dei leader sumerici, sempre meno intenzionati a sovvenzionare il Nord.
A peggiorare il tutto, fu quanto accadde nelle Terre Alte: i pascoli si disseccarono e divennero steppe e deserto e i pastori nomadi, non più contenuti dal potere militare, si spostarono in massa nei domini accadici, contribuendo al loro collasso.
L’angoscia vissuta in questo periodo è perfettamente rispecchiata dal poema la Maledizion di Akkad, che racconta i tumulti seguiti alla scarsità di acqua e cibo:
… i grandi poderi coltivabili non rendevano il grano, le pianure allagate non davano pesci, più nessuno sciroppo o vino dai frutteti irrigati, la pioggia non cadeva dalle spesse nuvole.
Che prove abbiamo, di questo tragico mutamento climatico ? L’ipotesi fu formulata anni fa da Harvey Weiss, archeologo dell’università di Yale, che nei suoi scavi in Siria settentrionale, trovò le tracce di un repentino abbandono, segnalato dall’assenza di ceramica e di altri resti archeologici, di una regione fino a poco prima prospera.
I fertili suoli dei periodi precedenti furono sostituiti da grandi quantità di polvere e sabbia portate dal vento, facendo pensare all’avvento di una siccità. Le analisi effettuate in seguito su alcuni sedimenti marini del Golfo di Oman e del Mar Rosso hanno messo in relazione la comparsa delle polveri nel mare con le quelle presenti nella distante Mesopotamia in quel periodo, offrendo ulteriore evidenze a tale ipotesi.
Nonostante lo scetticismo degli studiosi, nuovi indizio si sono accumulati nel Tempo: uno studio pubblicato nella rivista Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America (PNAS) ha mostrato un accumulo di polveri provenienti della Siria e dell’Iraq nelle stalagmiti delle grotte iraniane.
Le stalagmiti hanno l’ulteriore vantaggio di poter essere datate con grande precisione con il metodo Uranio- Torio. Combinando diversi criteri, i nostri studi offrono una storia dettagliata della presenza di polveri nell’area, identificando due principali periodi di siccità iniziati 4.150 e 4.260 anni fa.
Infine, i ricercatori dell’Università di Hokkaido, quelli del KIKAI Institute for Coral Reef Sciences dell’Università di Kyushu e dell’Università di Kiel hanno effettuato ricostruzioni paleoclimatiche della temperatura e dei cambiamenti idrologici delle aree intorno al sito archeologico di Tell Leilan, il centro dell’Impero accadico.
Hanno campionato sei coralli fossili di porites provenienti dal Golfo dell’Oman e databili a circa 4100 anni fa. I campioni sono stati analizzati mediante datazione al radiocarbonio e geochimicamente trattati per confermare che non sono stati significativamente modificati dal loro stato attuale.
I dati sui coralli sono stati quindi confrontati con campioni di coralli moderni e le informazioni meteorologiche. Sebbene sia normale che l’area di rilevamento riceva una quantità significativa di precipitazioni in inverno, i dati sui coralli suggeriscono che, durante il periodo del crollo dell’impero, l’area ha sofferto di significativi periodi di siccità. I dati prima e dopo il crollo sono inoltre paragonabili ai dati dei coralli moderni, mostrando che i picchi di siccità sarebbero stati improvvisi e intensi.Le prove fossili mostrano che ci fu una prolungata stagione di shamal invernale accompagnata da frequenti periodi di freddo secco.
Cambiamento che non colpì solo Akkad: nella stessa epoca, variando il regime idrografico del Nilo, che alternava piene disastrose ad altre assai poco abbondanti, in Egitto si ebbero lunghe carestie, che provocarono il collasso dell’Antico Regno.
Ne Le lamentazioni di Ipuwer, si narra
“ l’orzo è finito ovunque e gli uomini sono stati spogliati delle loro vesti, delle spezie e degli oli. Tutti dicono: non c’è più nessuno. Il magazzino è vuoto e il suo guardiano è disteso per terra”.
Sempre nella stessa epoca, dati ricavati dagli speleothems cinesi mostrano il blocco dei monsoni in
Asia meridionale, in coincidenza con il crollo della civiltà neolitica locale. Infine, il declino delle piogge monsoniche ha portato a un indebolimento delle dinamiche fluviali e la sparizione della rete idrografica del Ghaggar-Hakra, identificato con il fiume Sarasvati, citato nel Rig Veda. Una catastrofe tettonica avrebbe potuto deviare le acque di questo sistema in direzione del Gange. In effetti le moderne fotografie satellitari permettono di identificare il corso di un fiume oggi scomparso nella regione e alcuni indizi lasciano pensare che eventi sismici di notevole entità abbiano accompagnato la scomparsa della civiltà della valle dell’Indo.
Se un grande fiume si fosse seccato al momento in cui la civiltà della valle dell’Indo era al suo apogeo, gli effetti sarebbero stati devastanti: si ebbero probabilmente notevoli movimenti migratori e la “massa critica” di popolazione indispensabile al mantenimento di questa civiltà si dissolse probabilmente in tempi abbastanza brevi, causando la sua fine.
A questo, poi si aggiunse l’improvviso esplodere di epidemie…
Intentional tooth removal in Neolithic Italy
The Italian Neolithic (c. 6500-3200 B.C.; Skeates 1994), while not a homogeneous period, displays continuity in many aspects of culture. Social life was based upon small villages of 25-200 people, supported by unintensified agricultural economies. In spite of a rich record of art and burial practices, little is known about gender-related behaviour and ritual practices.
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Il mito di Licaone (Paus. VIII 2)
Tracce nel Mondo Classico dello sciamanesimo dell’Età del Bronzo, praticato da Minoici e Micenei
di PAUSANIA, Viaggio in Grecia. Arcadia (libro VIII), a cura di S. RIZZO, Milano 2004, pp. 134-139, e note a pp. 433-436. Testo greco di Pausaniae Graeciae descriptio, vol. 3, ed. F. SPIRO, Leipzig, Teubner, 1903 [perseus.tufts.edu].
Λυκάων δὲ ὁ Πελασγοῦ τοσάδε εὗρεν ‹ἢ› ὁ πατήρ οἱ σοφώτερα· Λυκόσουράν τε γὰρ πόλιν ᾤκισεν ἐν τῷ ὄρει τῷ Λυκαίῳ καὶ Δία ὠνόμασε Λυκαῖον καὶ ἀγῶνα ἔθηκε Λύκαια. οὐκέτι δὲ τὰ παρ᾽ Ἀθηναίοις Παναθήναια τεθῆναι πρότερα ἀποφαίνομαι· τούτῳ γὰρ τῷ ἀγῶνι Ἀθήναια ὄνομα ἦν, Παναθήναια δὲ κληθῆναί φασιν ἐπὶ Θησέως, ὅτι ὑπὸ Ἀθηναίων ἐτέθη συνειλεγμένων ἐς μίαν ἁπάντων πόλιν. [2] ὁ δὲ ἀγὼν ὁ Ὀλυμπικὸς — ἐπανάγουσι γὰρ δὴ αὐτὸν ἐς τὰ ἀνωτέρω τοῦ ἀνθρώπων γένους, Κρόνον καὶ Δία αὐτόθι παλαῖσαι λέγοντες καὶ ὡς Κούρητες δράμοιεν πρῶτοι — τούτων ἕνεκα ἐκτὸς ἔστω μοι τοῦ παρόντος λόγου. δοκῶ δὲ ἔγωγε Κέκροπι ἡλικίαν τῷ βασιλεύσαντι Ἀθηναίων καὶ Λυκάονι…
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Kipple saluta Francesca Fichera
Qualsiasi parola è di troppo….
Kipple intera si stringe agli amici e ai familiari di Franceca Fichera, che ci ha lasciati due giorni fa a causa di un male che non le ha dato tregua.
Prendo spunto da un mio post per parlare di lei, qui su KippleBlog, a nome di tutta la redazione: le parole sono quelle che sono, sono finite, e il dispiacere che è enorme chiude la gola a tutti noi. Vi lasciamo a queste note di lutto, per non dimenticare nulla di ciò che Francesca è stata per noi.
Esprimo il mio sconcerto e il ricordo che ho di lei, mai vista di persona ma frequentata attraverso i suoi scritti e una breve telefonata per alcuni possibili sviluppi editoriali. Inutile dire – o forse no – quanto questa notizia abbia sconvolto me e chi le era intorno, connettivisti e redazione della Kipple che, per prima, aveva trovato in lei…
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November 18, 2019
L’innovazione sociali contro i vuoti urbani
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Ci sono momenti nella vita, in cui bisogna scegliere da che parte stare: o a favore dei diritti e di chi si impegna ogni giorno al servizio degli altri e a costruire, anche con errori e incertezze, un mondo migliore o dalla parte di chi, per paura o per difendere quelli che ritiene, spesso a torto, i suoi interessi, vuole solo distruggere.
Dato che, nella vita, anche nell’Esquilino con le sue infinite beghe di paese, di quest’ultimi ne ho incontrati fin troppi, ho deciso di schierarmi con i primi. Per questo, senza se e senza ma, sono al fianco de La Casa dei Diritti Sociali e farò ciò posso per aiutarli nella loro battaglia. E poco mi importa del giudizio dei benpensanti e degli ipocriti, dei politici trombati e dei borghesi malati di decoro… Come il Cyrano di Guccini
Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato,
spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
e al fin della licenza io non perdono e tocco!
E domani, c’è una delle tante tappe di questa battaglia, alle 18.30, in Via Poliziano 78a con la tavola rotonda
L’innovazione sociali contro i vuoti urbani
dedicato al seguente tema
La burocrazia e un malinteso senso della legalità stanno privando la città di Roma di un prezioso tessuto civile e associativo fatto da decine di soggetti impegnati ogni giorno nella promozione, nell’integrazione, nell’inclusione sociale e culturale. Decine di sfratti desertificano un patrimonio di comunità costruito in decenni di impegno. Al posto di mondi vitali, ricchi di umanità, squallidi vuoti urbani. Questa la politica del Comune di Roma. Per ragionare insieme, acquisire Maggiore consapevolezza e impostare possibili azioni di pressione, abbiamo promosso un incontro con diversi rappresentanti di queste realtà
Dibattito che sarà moderato da Federico Mento, ricercatore sociale, e a cui partecipano Carla Baiocchi, Referente Sportello dei Diritti Sociali, Stefano Greco, Legale e il buon Riccardo Iacobucci, Rappresentante de Il Cielo Sopra l’Esquilino
Mi raccomando, partecipiamo numerosi!
Bronze Age settlement of Scoglio del Tonno, Apulia, Italy; maritime routes connecting the eastern and central Mediterranean
Scoglio del Tonno is presently part of the urban area of Taranto (Apulia) and is among the most important sites of Bronze Age southern Italy. The period of interest examined here is the local Late Bronze Age (LBA), i.e., the Recent Bronze Age (RBA), ca. 1350-1200 BC, and possibly the earliest part of the Final Bronze Age (FBA), ca. 1200-1000 BC.
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November 17, 2019
Relations between the Aegean and Central Mediterranean during the Bronze Age
The discussion of inter-Mediterranean exchanges between the Late Bronze Age and the Early Iron Age is resumed here, seeking to focus upon the period following the great transformations which took place in the Aegean and the Near East around the year 1200 BC, and prior to the first voyages of the Phoenicians and the Euboeans into the central Mediterranean.
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San Clemente a Casauria (Parte II)
Raccontata l’affascinante storia di San Clemente a Casauria, un turista, andando a visitarla, cosa dovrebbe ammirare ?
Potrei cavarmela citando D’Annunzio, che male non fa
Voglio condurti a un’abbazia abbandonata, più solitaria del nostro Eremo, piena di memorie antichissime: dov’è un gran candelabro di marmo bianco, un fiore d’arte meraviglioso, creato da un artefice senza nome…Dritta su quel candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima.
Ma sarebbe troppo comodo… Cominciamo il nostro viaggio proprio dall’esterno.
La facciata di quella chiesa che al Mabillon era apparsa come il monumento più illustre d’Italia eo nullum fere in tota Italia olim illustrius fuit fu costruita durante il periodo dell’abate Leonate, il quale sfrutto a suo vantaggio il fiume di denaro proveniente dai pellegrini diretti a San Michele Arcangelo e in Terrasanta.
Leonate
Ecclesiam opere mirifico renovare coepit (Chron. Cas. 271 v.)
aggiungendo un portico all’antica costruzione
ipsam pulcherrimam porticum quae est ante levavit…. et priori operi coniunxit (Chron. Cas. 271 v.)
L’intento riuscito fu quello di creare un’entrata trionfale, che in precedenza, come dimostrano le basi di colonne cilindriche, era preceduta da un nartece molto più grande, andato distrutto a seguito delle precedenti liti con i nuovi padroni normanni. L’entrata trionfale doveva essere una dimostrazione della storia e della potenza del monastero, in modo da convincere i pellegrini ad aprire il borsellino con maggiore entusiasmo.
Alla sua realizzazione contribuirno schiere di
muratori et magistrorum et coementariorum agminibus aggregatis (Chron. Cas. 271 v.)
provenienti da più parti: sicuramente dalla Puglia, è l’epoca dei grandi cantieri ecclesiatici, e dalla Borgogna…Gavini riconosceva nelle palme ad acroterio, nei capitelli a cesto del portico e in quelli figurati la mano di un valente maestro francese.
Il leone di S. Marco costituisce il punto di unione fra l’arcata di sinistra e quella centrale; la colonna su cui è posto aveva alla base un leone (tolto in un restauro ottocentesco) che faceva da pendant con l’altro alla destra dell’arco centrale. L’arco centrale ha un listellino intagliato a dentelli sulla cornice più esterna, quindi delle decorazioni fitomorfe e, sull’arco più interno, da sinistra verso destra: il Re David, più sopra Gioele (da identificarsi nell’abate, successore di Leonate, che fece edificare le porte in bronzo) poi un angelo, una disposizione di foglie di acanto e, di seguito, un agnello, un angelo, S. Clemente (nel martilogio di S. Clemente l’agnello è accostato a questo santo a ricordo di un miracolo che compì in Chersoneso, quando fece scaturire una fonte d’acqua per i compagni di prigionia dai piedi di un agnello) e Salomone, che, come costruttore del Tempio di Gerusalemme era l’archetipo e il modello di chiunque, nel Medioevo, si impegnasse nel restaurare o costruire una chiesa
Interessanti sono i capitelli delle colonne centrali che mostrano i dodici apostoli: opera di due diversi artisti, si raffrontino con quelli presenti circa vent’anni dopo sul portale di S. Tommaso a Caramanico.
Il bue – quel che resta – simbolo di S. Luca e l’aquila di S. Giovanni sono uniti nell’arco di destra in cui compare un motivo con bastoncelli a fisarmonica di provenienza pugliese, che si può ritrovare a S. Bartolomeo a Carpineto della Nora e nella chiesa di S. Maria Orante in Ortucchio. Mentre il portico risulta concepito secondo un disegno unitario nel prospetto sono presenti alcune irregolarità; i simboli degli evangelisti sono riconducibili, ad esempio, ad un’epoca più tarda: l’angelo di Matteo denuncia stilemi che fanno pensare alla scultura gotica; d’altra parte è ovvio pensare che, con tutti i terremoti che si sono succeduti in Abruzzo, la facciata nel tempo non sia stata soggetta a modifiche
E’ probabile anche che in origine presentasse un rosone, come risulta nelle rappresentazioni presente Chronicon Casauriense, nella lunetta e nell’architrave del portale, nell’ architrave del ciborio, successivamente sostituito dalle quattro bifore.
Il porticato, a riprova della presenza di maestranze borgognoni e dell’interesse di Leonate per la cultura francese, è uno dei primi esempi di adozione della volta a crociera con costoloni prismatici in Italia, definita dal Chronicon Casauriense con il termine “tumbam”, e richiama nell’aspetto quello presente nelle cattedrali di S. Trophine di Autun e di S. Filiberto a Digione.
Alla sinistra del portico rimangono i ruderi di una costruzione eseguita in blocchi di tufo che possedeva una volta a botte, come sembra dimostrato dagli accenni di curvatura nella parte superiore del muro. In varie raffigurazioni è possibile vedere alla sinistra della chiesa un campanile: si tratta della torre campanaria fatta edificare dall’abate Oldrio fra il 1146 e il 1152, che crollò durante il terremoto del 1349.
L’oratorio posto sul nartece, proprio delle cattedrali francesi, come ad esempio nelala cattedrale di Vezelay, è un’altra testimonianza dell’influenza borgognona in Abruzzo. In Italia è piuttosto raro; nel meridione lo vediamo poi soltanto nella chiesa del Santo Sepolcro di Barletta. Non ancora edificato alla morte di Leonate
“cui superaedificavit oratorium ad honorem sancti Michaelis Archangeli et sanctae Crucis, sanctique Thome martyris consecrandum. Sed antequam opus ipsum consummare potuisset occurrit ei finis vitae” (Chron. Cas. 271 v.)
era dunque dedicato a S. Michele Arcangelo, alla S. Croce e a S. Tommaso Becket, il protagonista di Assassinio nella cattedrale i Thomas Stearns Elliot
Scelta di puro marketing, per arruffianarsi i pellegrini e per ricordare alla nobilità normanna di non mettere bocca nelle vicende ecclesiastiche. Stessa filosofia è alla base della decorazione dei portali, a cominciare da quello centrale, che presenta tre arcate che vanno rastremandosi e in cui la lunetta è divisa in cinque scomparti. I due laterali presentano una grande rosa (in quello di sinistra la rosa è sormontata da un’aquila che stringe una lepre).
Nel pannello centrale è invece raffigurato S. Clemente assiso in trono con la mano destra in atto di benedire mentre con l’altra tiene il pastorale. Alla sua sinistra Leonate che consegna il modello della chiesa che va ricostruendo: la chiesa è rappresentata con il rosone e le quattro arcate previste forse dal progetto iniziale invece delle tre poi eseguite e raffigurate nell’architrave sottostante.Alla sua destra Cornelio, martire, con il manipolo e S. Febo con manipolo e stola; l’iscrizione incisa nel libro di Febo Homo quidam nobilis è l’incipit della parabola dei talenti rubati mentre il testo di Cornelio si riallaccia ad una epistola letta durante le festività di S. Clemente. La collocazione di S. Clemente al centro dei pannelli vuole quindi simboleggiare nella storia dell’abbazia la continuità, l’unione fra il momento delle origini e quello presente egregiamente rappresentato da Leonate. Nell’architrave viene illustrata, come in un fumetto, la leggenda della fondazione dell’abbazia: le iscrizioni (qui come nella lunetta eseguite con la tecnica del niello: le incisioni effettuate cioè sono riempite con una pasta di rame, piombo, zolfo, argento e borace rosso che, indurendosi, rende la scrittura nera e indelebile) chiariscono fatti e personaggi. La rappresentazione può essere divisa in quattro parti in ognuna delle quali è presente Ludovico II:
In una città simboleggiata da una torre (Roma) papa Adriano II consegna i resti di S. Clemente chiusi in un’urna all’imperatore Ludovico II che li accoglie chino, quasi con deferenza. L’abbazia nasce quindi con il consenso delle due massime autorità del tempo – il papa e l’imperatore – che non hanno però pari dignità: Ludovico II sembra infatti genuflettersi di fronte all’autorità del papa.
Suppone, con la spada simbolo dell’autorità politica di cui è investito, guarda Ludovico II che consegna l’urna a due monaci, Celso e Beato, perché la trasportino sul dorso di un mulo nel territorio dell’erigenda abbazia, allora circondata dalle acque. Anche queste non sono figure secondarie: Celso è il praepositus, cioè l’amministratore dei beni dell’abbazia; Beato è il secondo abate; Suppone appartiene alla potente famiglia dei Supponidi e rappresenta in assenza dell’imperatore l’autorità suprema in Casauria.
Ludovico II consegna lo scettro di primo abate a Romano.
Sisenando, miles ex genere francorum, e Grimbaldo, vescovo di Penne, cedono i diritti che avevano sul territorio di Casauria a Ludovico II mentre il conte Eribaldo (l’ultima figura) assiste alla cerimonia.
Sisenando uno dei grandi proprietari terrieri di questa parte d’Abruzzo, vende dodici moggi di terreno e viene qui rappresentato anche perché condannato nell’873 per aver sposato una monaca, non si ribella prendendo le armi, bensì si sottomette: un monito Leonate nei confronti dei feudatari normanni, ricordando come una volta la nobiltà locale fosse assai più collaborativa e meno arrogante.
Grimbaldo ha invece abbandonato i diritti religiosi che deteneva sull’isola. Nell’atto di cessione di proprietà il venditore consegnava un coltello, una festuca (paglia) e una zolla di terra dichiarandosene estraneo mentre il compratore versava la somma di denaro; dopodichè avveniva la stesura dell’atto: la pergamena veniva sollevata da terra e consegnata agli interessati per la sottoscrizione, rappresentando questa “sublevatio chartae” un vero e proprio atto giuridico della compravendita. Il territorio di Casauria – rappresentato dal cesto con fiori e frutta, fertile quindi – viene perciò acquistato in maniera legale: le rivendicazioni da chiunque avanzate (il conte Eribaldo viene chiamato a comporre le prime contestazioni) non hanno fondamento giuridico.
Fra l’equipe di maestri che dovette lavorare ai portali di S. Clemente, Gloria Fossi individua nell’autore dell’architrave l’artista di maggior talento. Negli stipiti sono raffigurati (dall’alto): a sinistra Ugo e Berengario; a destra, Lotario e Lamberto. Le quattro figure – evidente l’ispirazione dai modelli delle cattedrali francesi – reggono un rotolo spiegato, due anche lo scettro: questi potenti dovettero contribuire tutti all’accrescimento di beni dell’abbazia; le parti della chiesa sopra le loro teste sono quelle che probabilmente concorsero a restaurare.
Guardando le figure presenti sui capitelli delle colonne e dello stipite a sinistra del portale bisogna tener presente che nella simbologia medioevale la sinistra era ritenuta la regione del male; vi vengono quindi rappresentati i mostri e i vizi: la prima figura (un uomo vestito con le gambe divaricate) raffigurando lo spirito ed i peccati ad esso aderenti simboleggerebbe quindi l’avarizia; il drago con coda e testa di serpente, che sussurra parole all’orecchio di un uomo rappresenterebbe invece la calunnia. Nel capitello dello stipite di destra – la regione dei buoni auspici – sono raffigurati due animali: uno di loro (un toro?) è cavalcato da una figura che sembra congedarsi dal male passato; simboleggerebbe quindi la vittoria della virtù sul vizio.
Le porte di bronzo furono fatte collocare nel 1191 dall’abate Gioele, successore di Leonate e rappresentano una sortad compendio delle proprietà dell’abbazia, anche se il possesso di terre e castelli raffigurati era enfatizzato allo scopo di usurparne già con l’immagine i diritti, non possedendo i monaci in alcuni di questi che qualche villa o casale, non essendo altri più giurisdizione di S. Clemente – e altri ancora forse non erano mai stati .
Paragonate a quelle di Amalfi (1062), Salerno (1099), Monreale (1168), Ravello (1179) in realtà non ne raggiungono lo splendore artistico. Sono in 72 formelle (lo stesso numero che hanno le porte della cattedrale di Benevento): in 20 vi sono raffigurati i castelli proprietà dell’abbazia, in altre distinguiamo tra i vari motivi decorativi la croce di Malta e la mezza luna turca.
Interessante è la prima fila di formelle in alto: da sinistra vediamo un rosone, poi un regnante con corona e scettro (Ludovico II) quindi San Clemente in atto di benedire con mitra e pastorale (e non l’abate Gioele come si legge nella fascia superiore. Ma questa formella, come le due successive, non ha la primitiva collocazione), un altro regnante (Guglielmo II), un monaco (Gioele) e un altro rosone. Due formelle si distinguono dalle altre presentando teste di leone a tutto rilievo aventi nelle fauci anelli tortili chiamati anche delle immunità quando infatti si chiedeva protezione all’abbazia e non si riusciva per qualche motivo ad entrare si era ugualmente immuni dalle offese dei laici aggrappandosi agli anelli.
Nalla lunetta del portale sinistro è raffigurato S. Michele Arcangelo, che atterra con la lancia il drago, simbolo del male. Il propagarsi del culto di S. Michele da Monte S. Angelo, dove sarebbe apparso alla fine del V sec., si ha con i longobardi i quali ne avevano fatto il loro santo nazionale dopo una vittoria sui bizantini nel 663 a Siponto, ottenuta mercè la protezione dell’’arcangelo. Oltre al questione pellegrinaggio, la vicinanza al centro pugliese e i profondi contatti avuti tramite la pastorizia transumante ne favoriscono la diffusione anche in Abruzzo, dove numerosi sono i luoghi dedicati al santo.
Sulla lunetta del portale destro una Madonna con Bambino , rappresentata secondo l’iconografia della Hodegetria – protettrice dei viandanti – mostra evidenti reminiscenze bizantine (l’assenza di sviluppo prospettico nella posizione delle gambe, la minuziosità delle decorazioni nelle vesti della Vergine e del Bambino) e presenta ancora tracce della policromia originaria.
November 16, 2019
Palazzo Valguarnera-Gangi
Uno dei luoghi palermitani più presenti nel nostro immaginario, ma meno noti al grande pubblico è Palazzo Valguarnera-Gangi, situato accanto alla Galleria d’Arte Moderna Sant’Anna, proprio a piazza Croce dei Vespri, dove secondo la tradizione la tradizione furono seppelliti gran parte dei francesi trucidati dal popolo durante la furia dei Vespri siciliani, nel 1282.
In memoria di tali avvenimenti nel 1737 al centro della piazza fu posta una colonnetta di marmo con in cima una croce in ferro, che 45 anni dopo, nel 1782 venne spostata in un angolo, per motivi di intralcio di traffico pubblico, in quanto impediva un agevole passaggio alle grandi carrozze dirette alle feste che si tenevano nei palazzi nobiliari..
Palazzo Valguarnera-Gangi è parte del nostro immaginario perchè il buon Luchino Visconti vi girò la scena del ballo del Gattopardo, con Claudia Cardinale e Burt Lancaster, e tanti nobili siciliani a fare da comparse.
Poco noto al grande pubblico, sia per il biglietto alquanto costoso, 50 euro, anche giustificato, per i costi di gestione e restauro che debbono affrontare i proprietari, sia perché non è aperto ai singoli visitatori, ma a gruppi di almeno 20 persone, che spesso e volentieri, sono difficili da aggregare.
La storia del Palazzo inizia verso la metà del XV° secolo, ma la cosiddetta “grande maison” diventa un palazzo soltanto tra il 1749 e il 1759, quando Pietro Valguarnera esponente di uno dei casati più prestigiosi dell’ aristocrazia siciliana, di origine spagnola, sposa la nipote Marianna, dei principi di Gangi, la protagonista del libro La Lunga vita di Marianna Ucria di Dacia Maraini, diventando ricco in maniera spropositata.
Per testimoniare il potere raggiunto e dare maggiore prestigio al suo casato, Pietro decise di ampliare modernizzare e decorare in forme auliche il proprio palazzo nel piano della Misericordia, anticamente chiamato piano della Guzzetta.
Il compito fu dato al trapanese Andrea Gigante, uno degli straordinari architetti del rococò italiano, purtroppo poco noto, sia perché ha lavorato in Sicilia, poco bazzicata nei testi scolastici di Storia dell’Arte, sia perchè molte delle sue opere andarono distrutte nei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Andrea, come il suo maestro Giovanni Biagio Amico, era una strana figura per noi moderni, essendo sia prete, le fonti dell’epoca lo ricordano come un ottimo parroco, alquanto sanguigno, ma di grande carità e comprensione della fallibilità umana, una sorta di don Camillo dell’epoca, e architetto che portò alle estreme conseguenze la sperimentazione formale di Borromini, di Galli Bibiena e di Pozzo; la cosa peculiare è che delle opere di questi architetti non ebbe conoscenza diretta, non essendosi mai mossi dalla Sicilia, ma mediata tramite libri e incisioni.
Andrea, a cui era stata appioppata una parrocchia a Ballarò, all’epoca era quasi un esordiente: aveva appena finito di realizzare la sua prima opera, scalone per la “Casa Grande nella contrada dell’Alloro” (oggi palazzo Bonagia) a Palermo, di proprietà del duca di Castel di Mirto marchese di Bonagia, una delle opere più celebrate del rococò palermitano, purtroppo semidistrutto dai bombardamenti anglo americani, costituito da un corpo dotato di una propria autonomia strutturale e formale, accentuata dall’inserto della serliana, quinta scenica per uno spettacolo destinato a essere recitato da pochi eletti ma contemplato da lontano, come magnifico fondale, da molti altri.
Eppure, Andrea e Pietro, si presero subito in simpatia, tanto da lasciare carta bianca all’architetto e finanziare una serie di opere pie nella sua parrocchia, in una delle zone più malfamate della Palermo dell’epoca.
I lavori del palazzo durarono più di un decennio e Andrea si trovò a gestire uno sproposito di collaboratori, come Mariano Sucameli, ideatore degli stucchi, dei medaglioni, delle cornici e balaustrini in stucco presenti sulla facciata, Giovan Battista Cascione, impegnato anche nella realizzazione del magnifico palazzo Santa Croce di via Maqueda. Lavorarono invece negli interni del palazzo per la decorazione dei superbi saloni, pittori illustri quali: Intergugliemi, Fumagalli, Velasco e Serenario. Quest’ultimo è l’autore dell’affresco centrale “La virtù della Fede” presente nel grandioso salone da ballo.
Diede una mano anche lo scultore Marabitti, autore delle statue che deconorano lo scalone monumentale. A tutti questi si aggiunse una fitta schiera di pittori ornatisti, marmorari, intagliatori, indoratori, stuccatori e mobilieri; il risultato però, rese merito sia al denaro, sia al tempo speso.
Come Alberto Angela in una puntata di Ulisse, varchiamo un portale con due colonne in pietra grigia e con stemma della famiglia Mantegna principi di Gangi, che introduce alla magnifica corte porticata, tra le più belle dei palazzi palermitani, da cui ha inizio l’originale scalone d’ingresso a più rampe, che porta al grande vestibolo con proporzioni di un vero salone, che, con la ricchezza delle decorazioni, la raffinata bellezza degli ornati, e la policromia dei marmi anticipa l’esuberanza delle sale seguenti.
Varcando la sala d’ingresso si apre la spettacolare sequenza di saloni dove si rimane ammirati dallo sfarzo dei preziosi arredamenti, dalla ricercatezza e dall’estrosità dei decori, dai mobili, dalle tappezzerie ricamate e dal ragguardevole numero di oggetti raffinati e rari.
Passando dal salone Neoclassico, con i dipinti del Velasco, dal salone Rosso (nel settecento si usava chiamare le stanze con il colore della tappezzeria predominante), ricco di preziosi arredi e dal salone Celeste,con la vetrina che ospita una pregiata collezione di ventagli e antiche cristallerie, si arriva al grande salone da ballo, splendido nei suoi magnifici arredi, con divani, consolles, sedie intagliate, pareti decorate, boiseries, porte dipinte in oro zecchino, e alte specchiere d’epoca che riflettono eleganti soprammobili. Ma quello che più colpisce è l’originalissima volta traforata, una struttura architettonicamente audace attribuita al genio del Gigante e ispirata al gusto del più scenografico barocco, in particolar modo a quello dei Bibiena. Questo soffitto doveva dare degli effetti fantastici, soprattutto quando venivano accesi i grandi lampadari in vetro di Murano a candele, di cui quello centrale di ben 102 bracci, proviene dalla “rinomata bottega del Briati”.
Si deve con molta probalità al Serenario la decorazione del soffitto traforato dipinto con finte architetture, trionfi floreali e giochi di putti. Splendidi i pavimenti maiolicati della sala da ballo con scene di battaglie e della galleria raffiguranti le Fatiche di Ercole
Un fronte del palazzo prospetta su piazza Sant’Anna, con un suggestivo giardino pensile da cui si può ammirare la facciata della chiesa di Sant’Anna, tra le più scenografiche del Barocco palermitano, progettata proprio dal maestro di Andrea. Nella parte inferiore di questo fronte, era aggregato il piccolissimo teatro Sant’Anna, compreso tra il palazzo e l’oratorio secentesco di Santa Maria di Gesù del 1852.
I Valguarnera mantennero la proprietà del palazzo fino al 1820, quando la principessa Giovanna Valguarnera ultima erede del prestigioso casato convolò a nozze con Giuseppe Mantegna principe di Gangi (titolo ceduto al nipote da don Fabrizio Alliata e Valguarnera, proprio in quella occasione) portandogli in dote la magnifica dimora, in cui ospitarono principi e teste coronate di tutta Europa: sopra tutti, memorabile è il pranzo dato in onore di Edoardo VII d’Inghilterra e della consorte Alessandra in visita a Palermo nel 1907
Dama bellissima e di altissimo lignaggio fu la Principessa Giulia Mantegna di Gangi, nata Alliata e Notarbartolo dei Principi di Montereale che insieme alla sorella Annina Alliata di Montereale, prima moglie di Vincenzo Florio, fu una delle donne più in vista nella Palermo di fin-de-siècle. Di lei rimangono numerosi ritratti e immagini d’epoca: attraverso il suo sguardo e la sua altera eleganza sembra trapassare un’epoca. Nata all’indomani dell’unità d’Italia, vivrà abbastanza a lungo per vedere anche il nascere della Repubblica e con essa il primo dopoguerra.
Oggi il palazzo appartiene ai principi Vanni Mantegna di San Vincenzo, subentrati nella proprietà del palazzo per trasmissione ereditaria nel 1995.
Wine production in the Early Neolithic South Caucasus
The earliest biomolecular archaeological and archaeobotanical evidence for grape wine and viniculture from the Near East, ca. 6,000–5,800 BC during the early Neolithic Period, was obtained by applying state-of-the-art archaeological, archaeobotanical, climatic, and chemical methods to newly excavated materials from two sites in Georgia in the South Caucasus.
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