Alessio Brugnoli's Blog, page 83
December 12, 2019
Megalithic Astronomy at Nilaskal and Baise, India
The megaliths of southern India form a class of enigmatic monuments, though nearly two hundred years of scholarly work has been devoted to them.
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December 11, 2019
Raffaello Architetto (Parte II)
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La seconda commessa nell’ambito dell’edilizia privata giunse a Raffaello dagli Alberini, una famiglia di mercatores e finanzieri, che in cambio di una moratoria sugli interessi su un prestito fatto al Campidoglio, si ritrovarono membri della nobiltà municipale romana, ricoprendo le cariche di Priore, il caporione della Camera Capitolina, il che, in termini moderni, corrisponde a una sorta di mix tra il Presidente del I Municipio e quello del Consiglio Comunale, di Senatore, che nel Quattrocento svolgeva sia un ruolo analogo a quello del nostro Sindaco, sia quello di Presidente dell’assai poco efficiente tribunale capitolini e di Conservatore, un magistrato preposto alla gestione economica della città.
Sia le attività imprenditoriali, sia i proventi della politica, avevano reso gli Alberini ricchissimi, tanto che, da metà Quattrocento in poi, decisero di investire parte della ricchezza nel mercato immobiliare, comprando e costruendo case in un rione, quello di Ponte, che da parte stava vivendo un boom economico, dovuto alla presenza di numerose banche e alberghi, dall’altra, per sfruttare un brutto termine moderno, era oggetto di gentrificazione.
Deciso a sfruttare al massimo il business, Giacomo Alberini decise di costruire in via del Banco di Santo Spirito un edificio che svolgesse una duplice funzione, ossia di centro commerciale ante litteram, richiedendo così la presenza di numerose botteghe, e di albergo di lusso. Per fare questo, comprò un ampio lotto adiacente a una delle case di famiglia.
La sua morte, nel 1505, bloccò il suo progetto; intorno al 1510, però, l’idea di un investimento immobiliare, che avrebbe costituito un’importante fonte di reddito grazie agli elevati affitti, fu ripresa dal figlio Giulio.
Ora, come sta avvenendo a Milano, per rendere più appetibile al mercato sia le botteghe, sia gli appartamenti, l’incarico di progettare e costruire il tutto fu dato alla principale archistar dell’epoca, il buon Bramante, che cominciò a lavorarvi intorno al 1512; ma essendo Donato in tutt’altre faccende affaccendo, ossia a cercare di venire a capo a quel colossale manicomio che doveva essere il cantiere della Basilica di San Pietro, la costruzione proseguì a rilento.
Alla morte di Bramante, nel 1514, non era neppure finito il piano terra; tra il 1514 e il 1515, il lavori furono proseguiti da un altro architetto, forse, dato che le date coincidono con l’ultima fase del suo soggiorno romano, Giuliano da San Gallo, che nonostante il prestigioso titolo di capomastro del cantiere di San Pietro, era quasi disoccupato. In quei pochi mesi, l’architetto completò il piano terra: la sua mano si nota soprattutto nel bugnato, ben diverso da quello rustico bramantesco e che riprendeva quello pacato e morbido delle esperienze fiorentine, innovandolo con l’alternarsi di corsi di bugne alti e bassi, che trova un precedente, non solo nel tempio rotondo del Foro Boario, ma soprattutto dall’illustrazione pubblicata pochi anni prima (1511) da Fra Giocondo nella sua edizione di Vitruvio.
Dal 1515, l’incarico di completa passò a Raffaello, che dal 1518 in poi fu affiancato da Giulio Romano, che stava cominciando così il suo apprendistato architettonico. Alla morte di Raffaello, gli Alberini si sbrigarono a mettere a reddito l’edificio, affittnadolo, non ancora completato, ai banchieri fiorentini Bernardo da Verrazzano e Bonacorso Rucellai.
I due banchieri, noti per la loro tirchieria, non si fidarono di lasciare tutto in mano al buon Giulio Romano, famoso per gonfiare in maniera spropositata le sue note spese, per cui decisero di coinvolgere nel progetto un professionista, non di gran nome, ma noto per la sua onestà e per le sue capacità professionali: Pietro Rosselli.
Dato che non è un nome molto noto al grande pubblico, vi dedico un paio di righe: Pietro era uno stretto collaboratore di Giuliano di Sangallo e si era trasferito a Roma al suoi seguito. Ora, convinto sostenitore del principio
“Gli edifici devono prima rimanere in piedi, poi essere belli”
si specializzò come strutturalista, collaborando in tale ambito con Michelangelo, le cui opere non crollano grazie ai calcoli statici di Rosselli. A testimonianza di questa sua capacità, progettò e realizzò le impalcature per la costruzione della Cupola della Basilica di San Pietro e, in occasione delle festività medicee del 1513 per l’elezione del Papa Leone X, ebbe l’incarico di costruire un teatro in legno sul Campidoglio. Il Vasari narra che la sua abilità tecnica consentì di recuperare un blocco di marmo, caduto nell’Arno durante il trasporto, che lo scultore Baccio Bandinelli aveva scelto per la scultura “Ercole e Caco”, ora in Piazza della Signoria a Firenze
Piero Rosselli murator vecchio et ingegnoso s’adoperò di maniera, che rivolto il corso dell’acqua per altra via e sgrottata la ripa del fiume, con lieve et argani smosso lo trasse d’Arno e lo pose in terra, e di ciò fu grandemente lodato
Dopo essere passato tra tutte queste mani, come si presentava il Palazzetto Alberini? Sia Bramante, sia il suo successore, dato anche la regolarità del lotto comprato da Giacomo Alberini, non patirono le stesse pene d’inferno di Raffaello per il Palazzo Jacopo da Brescia; per cui, la pianta del palazzetto, a forma di quadrato segue uno schema usuale nel panorama edilizio del Cinquecento, con tre lati affacciati su pubbliche vie e uno attaccato un gruppo edilizio contiguo.
L’unica peculiarità, dovuta alle specifiche esigenze del committente, che voleva massimizzare lo spazio da affittare alle botteghe, è il cortile interno, porticato, ma di piccole dimensioni. Inoltre, dato che i piani superiori dovevano essere affittati a denarosi locatari, che avevano necessità di mantenere tutte le apparenze legate al loro rango, Raffaello non dovette lesinare sullo scalone d’onore.
A sinistra del porticato si accede a un piccolo andito con un’ampia scala che conduce ai piani superiori. Dalla rampa di scale ci si immette al piano nobile su un ampio corridoio di disimpegno, in asse con il sottostante porticato. Su di esso si affacciano due grandi ambienti coperti con soffitti lignei, destinati agli affittuari più ricchi; la loro ampiezza chiarisce immediatamente l’importanza funzionale nella gerarchia degli spazi di questo piano, occupando tutta la lunghezza della facciata del palazzo.
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Al contempo, per motivi, come dire, di marketing, Raffaello, dato che stava andando parecchio di moda nella Roma dell’epoca, adottò una facciata analoga a quella di Palazzo Caprini e di Palazzo Jacopo da Brescia, articolata su sette assi, con quello centrale occupato dal portale d’ingresso, che si sviluppa per tutta l’altezza del piano terra; ai suoi lati, si aprono invece gli ingressi delle sei botteghe, con porte sormontate da lunette, che delimitano le finestre del primo piano del mezzanino, in parte destinato alla servitù degli affittuari del piano nobile, in parte a svolgere un ruolo analogo a quello dei nostri b&b.
Al primo piano le finestre sono incorniciate con sagome architettoniche rettangolari, i campi murari tra un’apertura e l’altra sono ripartiti da paraste che sorreggono una semplice cornice.
Nel secondo piano troviamo un uso nuovo di elementi simili a quelle del piano nobile, i rettangoli verticali ricordano l’articolazione dell’ordine superiore del tempietto di San Pietro in Montorio; ma diversamente da lì, questi sono staccati da ogni elemento orizzontale, e si trovano sospesi al pari dei riquadri che contornano le finestre, trasformandosi da elemento strutturale a decorazione.
Le finestre che si aprono nelle cornici rettangolari, sempre per le ridotte dimensioni del cortile, dovevano fungere da principali fonti di illuminazione del palazzo; il palazzo poi, probabilmente a seguito di Rosselli, terminava con un monumentale cornicione su mensole.
Nel 1527, però, i piani degli Alberini entrarono improvvisamente in crisi per il Sacco di Roma, che oltre alle immediate ruberie dei lanzichenecchi, ebbe un effetto sistemico sull’economia, che durò sino a inizio Seicento; al tempo del “Sacco”, la città di Roma contava, secondo il censimento pontificio realizzato tra la fine del 1526 e l’inizio del 1527, 55.035 abitanti, prevalentemente composti da colonie provenienti da varie città italiane, a maggioranza fiorentina.
Nel 1528, la cittadinanza di Roma fu ridotta quasi alla metà dalle circa 20 000 morti causate dalle violenze o dalle malattie; ciò causò un’immensa crisi economica, che causò il collasso degli affitti e del mercato immobiliare, mettendo così in crisi le finanze degli Alberini, tanto che nel 1531 la famiglia fu costretta a restituire ai canonici di San Pietro la casa ottenuta nel 1519.
Al contempo, gli Alberini dovettero cominciare a dismettere tutto il loro patrimonio; passato ai Cicciaporci nel Seicento, poi al Calderari, nel 1866 fu restaurato e sopraelevato di un piano, su progetto di Antonio Sarti. Ceduto ai conti Senni nel 1901 passò al Pontificio Collegio Portoghese, che a sua volta, lo cedette nel 1973 alla società Intereuropea.
Nel 2007, il palazzo fu restaurato, recuperando le superfici originariamente chiare della facciate, gli stucchi del portico e le decorazioni ad affresco dei saloni del piano nobile, un tempo ricche di giallo oro, azzurro oltremare e rosa antico come quelle a mascheroni e primaverili festoni di fiori e frutta delle travi.
L’antica basilica di San Pietro
Tutti conosciamo, direttamente o tramite immagini, la basilica di San Pietro nella forma e nelle dimensioni della costruzione cinquecentesca a cui hanno contribuito Rossellino, Bramante, Raffaello, Fra Giacomo da Verona, Antonio Sangallo, Michelangelo e infine Maderno.
L’attuale costruzione deriva, però, dalla distruzione della preesistente basilica Costantiniana, già nel 1380 in condizioni disastrose e in buona parte distrutta dopo un tremendo incendio intorno al 1450.
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Luxury and Corruption in the Eastern Roman (‘Byzantine’) State under the Angeloi Emperors
Modern historians generally hold Isaac II Angelos (1185–95) and his brother Alexios III (1195–1203) in very low esteem on account of the image Niketas Choniates paints of them in his History, and especially in the version written after the conquest of Constantinople by the Fourth Crusade in 1204.
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December 10, 2019
Raffaello Architetto (Parte I)
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A differenza di Michelangelo, risulta difficile alla persona comune associare il nome di Raffaello all’arte dell’Architettura: cosa che di certo non avrebbe fatto piacere all’Urbinate, che vi si dedicò anima e corpo e con ottimi risultati.
Da una parte, l’artista vi si dedicò per un limitato periodo di tempo, dal marzo del 1514, quando morì Bramante e Raffaello, assieme all’attempato Fra Giocondo e a Giuliano da San Gallo, gli succedette come architetto del papa, alla sua morte, il 6 aprile 1520. Dall’altra, molte delle sue opere furono, con il tempo o distrutte o profondamente modificate.
In questo periodo di tempo, Raffaello prese in mano i lavori della basilica di San Pietro, sua fu l’idea, che alla fine l’ebbe vinta di sostituire la croce greca di Bramante con la croce latina, progettò palazzi, una chiesetta, Sant’Eligio degli Orefici e Villa Madama.
Dovette improvvisarsi urbanista, dato che, in collaborazione col Sangallo, dopo il 1517, portò a termine il tracciato di via Ripetta, compresa tra palazzo Madama e piazza del Popolo, da poco dotata di un obelisco ritrovato nei dintorni di San Rocco. Infine, da buon artista rinascimentale, dovette dedicarsi anche al teatro: nel 1519 progettò la scenografia per i Supposti di Ariosto, su commissione del cardinal Cibo, nipote di Leone X.
Il campo di maggior successo di Raffaello fu l’edilizia privata, cosa che dipese da almeno tre motivi: il primo, abbastanza banale, è che in tale ambito, per un esordiente di gran nome, era relativamente semplice, chiedendo minore competenze di statica e di ingegneria strutturale, permettendo al contempo la possibilità di una maggiore sperimentazione rispetto a quanto richiesto dalla committenza ecclesiastica e ufficiale.
Il secondo era legato all’esperienza concreta del vivere a palazzo Caprini, il prototipo del palazzetto romano concepito da Bramante, in cui Raffaello abitava e che di certo costituiva un’infinita fonte di ispirazione e di riflessione.
Il terzo era biecamente economico: Raffaello, oltre a essere un immenso artista, era un imprenditore di successo e per lui fu abbastanza immediato identificare un segmento di mercato in forte crescita, costituito dagli alti burocrati della corte pontificia, che pur non avendo le disponibilità economiche dei nobili romani, avevano necessità di mostrare pubblicamente il loro rango.
Per soddisfare tale esigenza, Raffaello standardizzò l’analogo rinascimentale dei villini liberty di inizio Novecento: un’edilizia relativamente economica, ma caratterizzata da un’eleganza formale e da una raffinatezza di dettagli, che in tempi successivi fu vittima della speculazione e dei pennivendoli al suo servizio. Insomma, ogni epoca è stata condannata ad avere il Tonelli di turno.
Il nostro viaggio nell’edilizia privata di Raffaello, comincia con Palazzo Jacopo da Brescia, commissionato dal medico personale di Leone X, tra il 1515 e il 1519. Jacopo, dopo tanto tentennare, per sfruttare le agevolazioni fiscali introdotte anni prima da papa Borgia, il 31 gennaio 1515 acquistò dalla Camera Apostolica l’isolato terminante a punta e posto all’angolo tra via Sistina e via Alessandrina.
Un lotto dalla posizione prestigiosa, dato che dirimpettaio di San Pietro; i problemi erano legati alla sue ridotte dimensioni e alla pianta irregolare, a forma di trapezio scaleno. A peggiorare il tutto, Jacopo da Brescia, nel tentativo di regolarizzare la pianta, acquistò il terreno confinante di Giuliano da Sangallo, il quale già alla fine del 1514 vi aveva cominciato a costruire una casa per sé, ma rimasta incompleta quando lasciò Roma definitivamente nel 1515.
Per cui, Raffaello dovette affrontare tre problemi che farebbero venire il mal di testa a qualsiasi architetto ossia, come sfruttare al meglio uno spazio irregolare, come integrare nel suo progetto un semilavorato e come rispettare i vincoli urbanistici, in modo che il committente potesse usufruire al meglio delle agevolazioni fiscali pontificie.
Come avevo già accennato, papa Alessandro VI aveva fatto aprire la via Alessandrina, un rettifilo che collegava piazza San Pietro a Castel Sant’Angelo, e aveva concesso l’esenzione fiscale a tutti coloro che vi avessero costruito un palazzo di almeno 70 palmi di altezza (15,64 metri).
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Per risolvere tale problemi, Raffaello dovette imporre a Jacopo una serie di compromessi: solo quattro botteghe con un corrispondente mezzanino al piano terra, quindi una ridotta rendita proveniente dagli affitti, e un cortile aveva delle dimensioni ridotte, senza loggia ed una piccola scala male illuminata, che ne riduceva parecchio la vivibilità.
In compenso, rispetto ai locali commerciali messi a disposizione dagli altri palazzi, le camere sovrastanti le botteghe erano collegate da scale proprie, ed il mezzanino era raggiungibile attraverso una scale a chiocciola. Inoltre, sui pianerottoli delle scale erano ricavate nel muro delle nicchie, utilizzate come toilettes: una serie di facility, che avrebbero permesso a Jacopo sia di chiedere un affitto più alto ai locatari, compensando in parte i minori introiti, sia di avere nel proprio palazzo botteghe di prestigio.
Altro compromesso fu legato alla scala principale, che dalla cantina portava all’attico; non era certo monumentale, essendo molto stretta, con gradini alti e poco profondi e scarsamente illuminata, ma almeno il suo lavoro lo compiva decentemente, conducendo alla Sala Grande del piano nobile, di fronte ad uno degli assi delle finestre.
Quello che si perdeva all’interno, però, si recuperava con gli interessi all’esterno, ovviamente ispirato a Palazzo Caprini, con con una forte differenziazione tra la zona delle botteghe al piano terra, trattato come un basamento bugnato di peperino a fasce orizzontali, Raffaello, memore dei problemi di casa sua, si attenne alla soluzione costruttiva tradizionale, evitando la soluzione di “getto” sperimentata da Bramante, e soprastante ammezzato e la zona di rappresentanza al piano nobile riservata al padrone.
Il piano nobile era invece decorato da paraste di ordine dorico e gli intercolumni erano riempiti da edicole con timpani rettilinei e curvilinei alternati e sorretti da volute. Mentre l’attico era scandito da lesene piatte e finestre lobate, la cui dimensione consentiva una migliore illuminazione, in modo da compensare la scarsa luce proveniente dal cortile.
Per soddisfare il requisito dei 70 palmi, Raffaello accentuò l’altezza del piano nobile rispetto all’attico; per compensare questa scelta, che avrebbe reso la facciata meno vivace e più monotona, ne accentuò la dimensione plastica, ispirato dalla rilettura che fra Bartolomeo aveva dato di Vitruvio, decorandola con paraste polistili e con una trabeazione, sostenuta solo dal loro fusto centrale, in cui il ritmo dato da metope e triglifi era interrotto da una metopa larga quanto una parasta, una soluzione ingegnosa che risolveva il problema di usare i triglifi sopra tutti e tre gli elementi.
Questa alternanza, quasi pittorica, di luci e di ombre, era accentuata con l’utilizzo, all’epoca d’avanguardia, di una cortina di laterizio a vista, accostata alle membrature di peperino, creando un’alternanza di ocra e di grigio.
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Infine, il problema dello stretto fianco su Via dell’Elefante fu risolto da Raffaello con una serliana di cui fu uno dei primi utilizzatori.
Nonostante tutti i limiti e compromessi raggiunti da Raffaello e il fatto che la rendita fondiaria fosse ridotta, il palazzetto Jacopo da Brescia fu considerato sin dall’inizio una dimora di prestigio: dal 1519, anno in cui il proprietario lo rivendette per un prezzo spropositato, conobbe molti proprietari tutti legati alla corte papale: Ridolfi, Celsi di Nepi, il medico Agostino de’ Recchi, il segretario apostolico Camillo Costa, il cardinale Michele Monelli ed in fine Paolo Ghislieri, nipote di Pio V
Nel Settecento il palazzo passò dai Colonna ai Ceva. Nel 1825 nel corso di un drammatico restauro furono rimossi lo stemma papale e la lapide sopra la porta, sulla quale apparivano gli emblemi del pontefice. Il palazzo, come tutta la spina del Borgo, fu demolito per i lavori di realizzazione di via della Conciliazione nel 1936. Nel 1940 il palazzo fu ricostruito, utilizzando per la facciata materiale originale, su Via Rusticucci in angolo con Via dei Corridori, non lontano dal sito originario.
Ovviamente, il nuovo spazio non aveva tutti i problemi di quello originale, che avevano pesantemente condizionato Raffaello: fu quindi ricostruito con una nuova disposizione interna, sicuramente più regolare, ma ben diversa da quella originaria, soprattutto nell’articolazione dell’attico.
Fortunatamente una serie di documenti, rilievi fotografici e vedute ci mostrano l’aspetto originario dell’edificio; d’aiuto sono le planimetrie dei primi due piani di Cipriani-Navone (1794), confermate anche da uno schizzo di Letarouilly (1849), e i rilievi di Hofmann (1911).
Ouranopithecus macedoniensis; a prehistoric species of the Hominidae family from the Late Miocene of Greece
In this post we present published information, in chronological order, on Ouranopithecus macedoniensis, a species belonging to the Hominidae family, dating back to the Late Miocene.
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December 9, 2019
Geopolitica del Fascismo
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Se, anche per le ucronie letterarie, le ambizioni geopolitiche di Hitler, il Lebensraum, e giapponesi, la Sfera di co-prosperità, sono abbastanza note agli appassionati di letteratura e di storia, lo sono meno quelle del Fascismo, che portarono all’elaborazione dell’idea cosiddetto Spazio Vitale.
Idea a dire il vero, ben diversa da quella tedesca: il Nazismo prevedeva l’acquisizione di territori da mettere in valore per la razza ariana e si fondava sull’espulsione degli abitanti locali in favore dei colonizzatori; in sostanza, un assorbimento territoriale, non di popolazione. L’Impero tedesco avrebbe compreso una sola popolazione, quella tedesca, in cui la cittadinanza sarebbe stata riservata solo ai portatori di sangue tedesco, con conseguente discriminazione ed eliminazione delle altre etnie.
Il Fascismo, considerandosi erede dell’Impero romano e portatore di una civiltà superiore, non aveva nessun interesse al genocidio: per giustificare il suo espansionismo, aveva messo in piedi la sua versione de “Il fardello dell’Uomo Bianco”, basata sul proiettare il suo sistema politico, sociale, economico e culturale nelle aree di interesse di presunto interesse economico per l’Italia.
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Per fare questo, aveva ipotizzato una connotazione dello Spazio Vitale in quattro nuclei concentrici: il nucleo centrale sarebbe stato costituito da Nizza, Savoia, Corsica, Dalmazia,Isole Ionie, Montenegro, Kosovo, Albania, Epiro, Dodecanneso, Malta, Tunisia e costa libica, a cui abitanti, con le buone o con le cattive, sarebbe stata imposta la piena cittadinanza italiana.
Allo scopo di realizzare questo obiettivo, il Fascismo applicò nei territorio occupati durante la Seconda guerra mondiale, una politica del bastone e della carota: da una parte, una battaglia senza riguardi verso chiunque si opponesse all’espansionismo italiano, sfociata nella costruzione di campi di concentramento e in esecuzioni di massa.
Dall’altra, un mix di interventi concreti interventi umanitari, finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita dei locali, e di propaganda, per convincere la popolazione dei vantaggi dell’appartenenza all’Impero fascista.
Il nucleo mediano, costituito dalla Grecia, dalla Provenza, dalla Bulgaria e dall’Egitto e dal Fezzan, sarebbe stato abitato da cittadini di seconda classe, che potevano ricevere la piena cittadinanza per meriti speciali e la cui economia sarebbe stata subordinata a quella italiana.
Il nucleo esterno sarebbe stato costituito dalle colonie africane, Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia e Kenia, i cui abitanti sarebbero rimasti al rango di sudditi. Infine, vi sarebbero stati i Protettorati, che pur mantenendo un’indipendenza formale, avrebbero ceduto la gestione della politica estera e integrato la loro economia a quella italia, ossia Bulgaria, Croazia, Serbia, Ungheria e Yemen.
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Come in Germania, per dare una sorta di giustificazione ideologica a questo progetto espansionistico, nacque in Italia una geopolitica fascista, che trovò il culmime con la pubblicazione della rivista «Geopolitica», raccogliendo attorno a sé i maggiori studiosi dell’epoca, in linea con una visione organica e multidisciplinare delle scienze territoriali, al passo con le più moderne nazioni europee ed extraeuropee dell’epoca.
I fautori del progetto editoriale furono Giorgio Roletto, professore ordinario di Geografia economica all’Università di Trieste, e di Geografia politica ed economica all’Ateneo di Ferrara e di Padova, rispettivamente nella facoltà di Scienze sociali e sindacali e in quella di Scienze politiche, e il suo allievo Ernesto Massi, all’epoca docente di Geografia politica ed economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e all’Università di Pavia, presso la facoltà di Scienze Politiche dei due Atenei.
Il periodico venne poi alla luce grazie Padre Agostino Gemelli e del Ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, allo scopo di sostenere la politica estera del Fascismo e con la speranza di influenzare le scelte strategiche di Mussolini.
Cosa differenziava la geopolitica italiana da quella tedesca ? Tre elementi fondamentali: il primo, paradossalmente, è il trovare il suo fondamento nella Storia, più che nella Geografia. Il ruolo storico dell’Italia, più che dalla sua posizione al centro del Mediterraneo, era ritenuto conseguenza del suo essere erede dell’Impero Romano, ribadita tradizione risorgimentale dei padri della patria, come Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti, e dell’Irridentismo; ruolo frustrato dagli inglesi e dai francesi con la cosiddetta Vittoria Mutilata.
Di conseguenza, per esprimerlo a pieno, la loro presenza nel Mediterraneo doveva essere drasticamente ridotto: il secondo elemento che differenzia la geopolitica italiana da quella tedesca era infatti il primato del controllo delle rotte marittime, rispetto al possesso dei territori interni all’Eurasia.
Terzo punto, le direttrici di espansione, a differenza di quanto teorizzato da Haushofer, non doveva avvenire per meridiani, ma per paralleli, creando aree omogenee per direttrici commerciali e risorse: di fatto la geopolitica che sta attuando attualmente la Cina.
Ammettiamo ucronicamente, che, in una vittoria dell’Asse, il Fascismo fosse riuscito a realizzare queste ambizioni: poi che sarebbe successo ? Uno sproposito di guai. Inizialmente, per questioni demografiche e di risorse economiche, lo Spazio Vitale Italiano sarebbe stato comunque subordinato politicamente ed economicamente al Lebensraum nazista.
Ancora peggio, sarebbe successo negli anni successivi: la scoperta e lo sfruttamento del petrolio, avrebbe aumentato gli appetiti tedeschi nei confronti dei possessi fascisti, provocando prima o poi uno scontro militare, che difficilmente l’Italia avrebbe potuto vincere.
Se poi, miracolosamente, il Fascismo sarebbe riuscito a sopravvivere a tutto questo, avrebbe avuto enormi difficoltà a gestire la questione della decolonizzazione, in una versione in grande stile delle vicende portoghesi…
December 8, 2019
Il Museo Archeologico di Penne
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Pochi conoscono Giovanni Battista Leopardi, barone e medico, con una passione straordinaria per l’archeologia: eppure, solo grazie alla sua dedizione e impegno, siamo riusciti ad avere un quadro abbastanza precisa della preistoria abruzzese.
Il barone infatti dedicò oltre 30 anni della sua vita allo studio ed alla ricerca dei reperti archeologici che testimoniavano la presenza dell’ uomo nelle Terre Vestine fin dal Paleolotico Superiore, circa 15.000 anni fa.
In particolare, tra il 1950 ed il 1960, rinvenne diversi insediamenti Paleolitici, tra cui, nel 1952, il sito all’ aperto di Campo delle Piane, situato tra il territorio di Penne e di Montebello di Bertona. Dal nome di quest’ ultimo comune venne coniato il termine di periodo Bertoniano. Il sito all’ aperto di Campo delle Piane rivelò la presenza di diverse capanne con focolai dove furono trovati molti reperti.
Scavi successivi furono fatti soprattutto dal 1993 e curati dai ricercatori della Soprintendenza Archeologica dell’ Abruzzo in collaborazione con i ricercatori del Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi.
Una datazione al Carbonio 14 eseguita sui carboni di legna trovati, ha rilevato una età di 14.590 ± 120 anni da oggi. I numerosi reperti trovati hanno permesso di ricostruire lo stile di vita degli uomini presenti in quel periodo, oltre al paleoambiente ricostruito tra l’ area di Campo delle Piane, Farindola e l’ attuale oasi naturalistica di Penne.
Erano uomini che vivevano essenzialmente di caccia, che si spostavano dietro la selvaggina a seconda delle stagioni; nella stagione calda si spostavano verso la montagna e nella stagione fredda tra la collina e la pianura. Altra importante scoperta dell’ archeologo Giovanni Battista Leopardi fu quella che avvenne nel 1957 e relativa al villaggio Neolitico di Pluviano, situato nel territorio del comune di Penne.
La mole dei reperti rinvenuti nel villaggio Neolitico di Pluviano, a partire da grattatoi, oggetti in ceramica, in osso, semi di orzo e farro, hanno permesso di ricostruire una civiltà divenuta ormai sedentaria, che viveva di agricoltura e pastorizia, che allevava maggiormente ovini, e, in misura minore, suini e quindi bovini. Cominciava a diffondersi l’ aratro trainato dai bovini.
Grazie a questo impegno, Leopardi fu nominato ispettore onorario della Soprintendenza e membro del Comitato per le ricerche preistoriche in Abruzzo, fondato da Cianfarani e da Antonio Mario Radmilli allo scopo di promuovere le ricerche nel campo, allora ancora poco conosciuto, della preistoria e protostoria della regione.
Alla sua morte, i reperti da lui conservati furono donati all’Arcidiocesi dalla moglie Susanna: questo diede il via al progetto di un museo archeologico a Penne, a lui dedicato, inaugurato nel maggio 2001 grazie alla collaborazione tra il Comune, la Soprintendenza Archeologica, la Diocesi e l’Università di Chieti, che permise la ristrutturazione del palazzo vescovile, scelto come sede.
L’allestimento, da un lato, propone sotto una nuova luce la collezione Leopardi, dall’altro, arricchisce l’opera del barone con innumerevoli reperti che coprono un arco cronologico dal Paleolitico al Medioevo.
Lo scopo dell’esposizione è l’illustrazione della preistoria del territorio che gravita su Penne e della storia dei Vestini, in particolare l’accento è stato posto sulla parte orientale del territorio occupato dalla comunità vestina che si trova est del Gran Sasso e a nord dell’Aterno, con i centri di Pinna e Angulum (Spoltore o Città Sant’Angelo). Secondo la divisione effettuata da Plinio, si tratta dei Vestini transmontani.
I documenti archeologici sono accompagnati da un ampio corredo di testi, immagini ricostruttive e sussidi audiovisivi.
Il percorso cronologico dell’esposizione si snoda nell’arco di dieci sale e va dal Paleolitico al Medioevo. Fra i complessi presenti nel Museo sono compresi quelli del Paleolitico Superiore di Campo delle Piane a Montebello di Bertona, un accampamento all’aperto databile intorno a 14.000 anni fa, del villaggio neolitico di Pluviano e, sempre da Campo delle Piane, i resti di un villaggio databile fra la fine dell’Età del bronzo e gli inizi dell’Età del ferro
Durante il periodo italico (VI-V sec. a. C.), le testimonianze archeologiche relative al territorio vestino sono quasi esclusivamente necropoli: le più importanti, tutte rappresentate nel Museo, sono quelle di Colle Fiorano, Farina-Cardito, Vestea, Montebello, Loreto Aprutino e Nocciano. Si tratta di complessi di sepolture a inumazione deposte in fosse scavate nella terra, con corredi funerari differenziati per sesso: le sepolture maschili sono accompagnate da armi di ferro (lance, spade, pugnali), mentre nei corredi femminili gli elementi caratteristici sono soprattutto gli oggetti di ornamento personale: fibule (spille) di bronzo e di ferro, collane e pendenti di pasta vitrea.
L’allestimento è reso più accattivante dalla presenza della ricostruzione della tomba di un guerriero di Nocciano il cui corredo è formato da un calderone e una coppia di calzari in bronzo, una spada e una lancia.
Al periodo tardo-ellenistico (II-I sec. a.C.) risale la tomba a camera dalla contrada Arce-Conaprato, uno dei complessi più importanti del Museo, che conteneva le deposizioni di una donna e di un uomo accompagnati da un ricco corredo. Gli elementi di maggiore interesse sono i letti decorati da rilievi figurati in osso, una categoria di prodotti artigianali di lusso che viene illustrata più ampiamente attraverso un pannello ricostruttivo e un audiovisivo. Dalla stessa tomba vengono anche i vasetti di bronzo a forma di testa femminile, noti anche da altri complessi del territorio vestino, probabilmente importati dall’Etruria. Le ultime sale presentano la documentazione archeologica relativa alla continuità di vita nell’abitato di Penne dall’età imperiale al Medioevo, risultato dei numerosi scavi condotti nell’area urbana e in particolare nel palazzo vescovile.
Nel novembre del 2001 la piazza del Duomo e in particolare l’area antistante il Museo è stata arricchita dalla presenza del complesso monumentale “La porta dei Vestini” opera del maestro Pietro Cascella e dono della Fondazione Fonticoli
December 7, 2019
Essere musulmani a Balarm
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Il buon Ibn Hawqal, oltre a essere un’utile fonte sulla topografia urbana di Balarm e un nemico dichiarato dell’uso culinario delle cipolle, è anche un importante testimone sulle peculiarità che stava sviluppando l’Islam di obbedienza sciita nella Ṣiqilliyya.
Per capire il suo punto di visita, dobbiamo porsi nei suoi panni… Ibn Hawqal, nonostante le sue simpatie politiche per i Fatimidi, rimane sempre un pio e un poco bigotto sunnita, nato e cresciuto a Baghdad, nel cuore del dār e-Salaam, dove tutto appare semplice, chiaro e lineare e dove il mondo può essere spaccata in due: da una parte dār al-Islām, che con tutti i suoi difetti e incertezze, era uno specchio imperfetto dell’ordine garantito da Dio al Cosmo, dall’altra dār al-ḥarb, la casa della guerra, dove domina il caos e l’ignoranza.
Ebbene, Ibn Hawqal si ritrova all’improvviso in un’area di frontiera, smodatamente ricca, in cui dominano le forze centrifughe, dovute al fatto che i mercanti e possidenti locali hanno poca voglia di pagare le tasse a un governo lontano, che poco si preoccupa dei problemi locali, dove i sunniti, preferiscono migrare in massa nella terra degli infedeli, la Calabria bizantina, piuttosto che sopportare le angherie degli sciiti, dove i rapporti economici, culturali e sociali con cristiani ed ebrei sono strettissimi e dove domina la frammentazione religiosa e il rifiuto del principio di autorità.
A Ibn Hawqal questa complessa realtà dovette sembrare una sorta di colossale manicomio, che non può fare a meno di condannare e deprecare.
Per prima cosa, criticò con ferocia una delle peculiarità di Balarm, la contrapposizione tra la grande moschea gâmic, la nostra Cattedrale, che svolgeva più un ruolo civile che religioso, in cui, come una sorta di reliquia del passato, era conservata la presunta tomba di Aristotele, e le moschee familiari dedicato al culto privato, in cui ognuno si rapportava a suo modo con il divino.
Così Ibn Hawqal esprime il suo stupore per la presenza della tomba di un pagano nella moschea
Ho inteso dire da un certo logico che il filosofo de’ Greci antichi, ossia Aristotile, giaccia entro [una cassa di] legno sospesa in cotesto santuario, che i Musulmani hanno mutato in moschea. I Cristiani onoravano assai la tomba di questo [filosofo] e soleano implorare da lui la pioggia, prestando fede alle tradizioni [lasciate] da’ Greci antichi intorno i suoi grandi pregi e le virtù [del suo intelletto]. Raccontava [il logico], che questa cassa era stata sospesa lì a mezz’aria, perché la gente ricorressevi a pregare per la pioggia, o per la [pubblica] salute e [per la liberazione da tutte] quelle calamità che spingon [l’uomo] a volgersi a Dio e propiziarlo; [come accade] nei tempi di carestia, moria o guerra civile. [Per vero] io vidi lassù una [cassa] grande di legno, e forse racchiudea l’avello.
Piccola divagazione: quella tomba, che alcuni ipotizzano essere un sarcofago egizio, da altri autori, come Ibn Sabbât, l’attribuiscono a Galeno.
Qui invece è espressa la sua perplessità nei confronti della diffusa dimensione privata e famigliare del culto religioso.
[In vero] io non ho visto tanto numero di moschee in nessuna delle maggiori città, foss’anco grande al doppio [di Palermo], né l’ho sentito raccontare se non che da quei di Cordova [per la loro patria]; per la quale città io non ho verificato il fatto, anzi l’ho riferito a suo luogo non senza dubbio. Lo posso affermare bensì per Palermo, perché ho veduta con gli occhi miei la più parte di esse [moschee]. Stando un giorno presso la casa di ‘Abû Muhammad ‘al Qafsî, giureconsulto [specialmente versato] nella materia de’ contratti, e messomi a guardare dalla costui moschea, per quanto si stendea la vista nel tratto che percorre una saetta, io notai una diecina di moschee, che talvolta l’una stava di faccia all’altra e correasi di mezzo la [sola] strada. Avendo chiesto [il motivo] di questo [numero strabocchevole], mi fu detto che qui la gente è sì gonfia di superbia, che ognun vuole una moschea sua propria, nella quale non entri che la sua famiglia e la sua clientela. Accade qui che due fratelli, abitando case contigue, anzi addossate ad un muro [comune, pur] si faccia ciascun di loro la sua moschea, per adagiarvisi egli solo. Una delle dieci, delle quali testé ho fatta menzione, apparteneva al medesimo ‘Abû Muhammad ‘al Qafsî: ed eccoti da canto, ad una ventina di passi, un’altra moschea ch’egli avea fabbricata, perché il suo figliuolo vi desse lezioni di giurisprudenza. In somma ognuno vuol che si dica: questa è la moschea del tale e di nissun altro. Questo figliuolo di ‘Abû Muhammad si sentiva gran cosa: tra ch’egli avea del suo tanti fumi in capo e ch’era il cucco del babbo, egli andava sì gonfio e con viso contento di sé medesimo, come s’egli fosse stato il padre del proprio padre [e non figlio di famiglia].
Critica che si estende alle madrase, le scuole che proponevano un percorso formativo basato specie sullʼacquisizione dei principi della religione islamica, la cui comprensione, poi, giustificava lʼapprendimento della lingua araba (fonetica, morfologia e sintassi) e della storia e letteratura sacra dellʼIslam, e alle ribat, l’insieme di strutture fisse poste lungo i confini dei domini islamici, finalizzata ad ospitare volontari che potessero assolvere al contempo al dovere di difendere le frontiere dell’Islam e al rafforzamento della fede islamica grazie a esercizi spirituali e devozionali.
Ibn Hawqal da questo tranciante giudizio sulle madrase
Va messo anco nel novero [il fatto] che qui v’ha più di trecento maestri di scuola che educano i giovanetti. A sentirli, essi sono nel paese gli uomini di Dio, sono la gente più virtuosa e degna: non ostante che ognun sappia la poca loro capacità e la loro leggerezza di cervello, sono adoperati come testimonii [ne’ contratti] e come depositarii. Ma il vero è che costoro si buttano a quel mestiere per fuggir la guerra sacra e scansare ogni fazione militare. Io ho composto un libro su questi [musulmani di Palermo?], nel quale ho raccolte le notizie che li concernono.
a cui, per mettere il carico da undici, aggiunge
I maestri di scuola sono abbondanti in quest’isola poiché ci sono scuole in ogni località.
Sono di differenti categorie, ed occupano differenti gradi nel campo dello squilibrio e
dell’imbecillità, in tutti i modi superando la demenza dei maestri di tutti i paesi e degli imbecilli di ogni regione. Questo va tanto lontano che essi discutono sui sovrano, sul suo modo di vivere, le sue preferenze, ed essi impiegano espressioni ingiuriose parlando dei suoi difetti imputando persino le sue buone qualità alle sue traversie.
Leggendolo, cadono gli occhi su due peculiarità locali: il rapporto peculiare dei musulmani di Balarm con la jihad e la politica. I musulmani di Sicilia non sono dei pacifisti, ne sono riprova le lunghe lotte che sostengono con i domini bizantini del Sud Italia, ma hanno una concezione laica della guerra: questa non ha uno scopo religioso,l’espansione dell’islam al di fuori dei confini del mondo musulmano ma politico, estendere i domini dell’emirato, favorire i propri mercanti e imporre tributi ai vicini.
Al contempo, data la distanza da Il Cairo e la relativa mancanza di autorevolezza che spesso hanno gli emiri, si sviluppa l’idea che la gestione della politica non sia responsabilità di una persona, ma dell’intera Umma, in uno sviluppo analogo alle altre città italiane, che porterà alla strana esperienza comunale di Balarm…
Ma se la jihad non è rivolta contro i sudditi di Rum, allora che valore ha ? Nell’Islam siciliano, questa indica sopratutto lo sforzo di miglioramento del credente (il «jihad superiore»), etico e intellettuale, rivolto per esempio allo studio e alla comprensione dei testi sacri o del diritto e al miglioramento di se stessi.
Per cui le ribat, non svolgono il ruolo tradizionale di fortezze, ma sono più simili ai monasteri basiliani, in cui oltre che ai lavori manuali, ci si dedica allo studio, alle preghiera e alla meditazione. Cose che risultano incomprensibili a Ibn Hawqal, che spara giudizi ad alzo zero
Giaccion su la spiaggia del mare molti ribât pieni di sgherri, uomini di mal affare, gente da sedizioni, vecchi e giovani, ribaldi di tante favelle, i quali si son fatta in fronte la callosità delle prosternazioni per piantarsi lì a chiappare la limosina e sparlar delle donne oneste. La più parte son mezzani di lordure o rotti a vizio infame. Riparan costoro nei ribât, come uomini da nulla ch’e’sono, gente senza tetto, [vera] canaglia.
Tutto ciò, secondo il nostro mercante provoca una rilassatezza di costumi, in cui sono trascurati i doveri imposti dall’Islam
Essi non fanno le preghiere, non si purificano, non danno l’elemosina legale, non fanno pellegrinaggi; ci sono coloro che osservano il digiuno del ramadan e che mentre digiunano, compiono la grande abluzione dopo un’impurità
E in cui i rapporti con gli infedeli sono particolarmente distorti
La maggior parte degli abitanti delle piazze forti, delle zone rurali e dei villaggi sostengono l’opinione che sia permesso concludere dei matrimoni con donne cristiane a condizione che i ragazzi nati da tali unioni seguano la religione del padre, mentre le ragazze rimangano cristiane come la madre
Insomma, peggio di così, non poteva andare: agli occhi di noi moderni, però, il mondo eterodosso descritto da Ibn Hawqal ha ben altro valore… Descrive infatti una terra dagli enormi contrasti, ma ricca di fervore intellettuale e di tolleranza, una sorta di comune modello per il futuro…
December 6, 2019
Diomede e il Commercio Miceneo
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Di solito, quando si parla di Diomede, la memoria torna alle vicende della guerra di Troia, oppure al canto ventiseiesimo dell’Inferno, dove Dante lo piazzò tra i consiglieri fraudolenti, a fare da muta spalla di Ulisse.
Pochi ricordano invece il suo Nostos, il ritorno a casa da Ilio, che forse comprende le vicende più affascinanti del suo mito: appena lasciate le coste della Troade, l’eroe dovette subire la vendetta della dea Afrodite, che mesi prima aveva ferito in battaglia, perchè aveva osato mettersi in mezzo nel duello tra lui ed Enea.
Dopo essere spinto da una tempesta sulle coste della Licia e fuggito per il rotto della cuffia all’ira di Lico, che voleva sacrificarlo a Zeus per vendicare la morte di Sarpedonte, Diomede rischiò di finire linciato ad Atene; fuggito dal porto del Falero l’eroe, improvvisamente, trovò il vento a favore. Così tirando un sospiro di sollievo, si diresso verso la sua patria d’origine, Argo, dove ebbe però una pessima sorpresa: né sua moglie Egialea, né i suoi sudditi lo ricordavano più, in quanto Afrodite aveva cancellato il suo ricordo dalla loro memoria.
Così, straniero in patria, decise di andarsene in esilio in Italia, insieme ai suoi compagni: Acmone, Lico, Idas, Ressenore, Nitteo, Abante. In questo viaggio, Diomede, da feroce guerriero, si trasformò in una sorta di eroe civilizzatore, insegnando alle popolazioni locali la navigazione e l’addomesticamento ed allevamento del cavallo e fondando decine di città, tra cui Vasto (Histonium), Andria, Brindisi, Benevento, Argiripa (Arpi) presso l’attuale Foggia, Siponto, presso l’attuale Manfredonia, Canusio (Canosa di Puglia), Equo Tutico (Ariano Irpino), Drione (San Severo), Venafrum (Venafro) e infine Venusìa (Venosa). La fondazione di quest’ultima città, come lo stesso toponimo (da Venus) ricorda, coincise con il tentativo inutile di ottenere il perdone da Afrodite, in seguito al quale si stabilì in Italia meridionale e si sposò con la figlia del Re del popolo dei Dauni: Evippe.
Stretto fu il rapporto tra l’eroe e la Daunia. Il primo contatto con questa terra si ebbe con l’approdo alle isole che da lui avrebbero preso il nome di Insulae Diomedee (le isole Tremiti). Sbarcò quindi nell’odierna zona di Rodi, sul Gargano alla ricerca di un terreno più fecondo e si spostò a sud dove incontrò i Dauni, che prendevano il nome dal loro re eponimo, Dauno, figlio di Licaone e fratello di Enotro, Peucezio e Japige.
Diomede si guadagnò le simpatie di Dauno il re che “pauper aquae agrestium regnavit populorum” e dopo avergli prestato valido aiuto nella guerra contro i Messapi, per il suo alto valore militare – victor Gargani – ebbe in sposa la figlia Evippe (secondo alcuni si chiamava Drionna, secondo altri Ecania) ed in dote parte della Puglia – “dotalia arva”-, i cosiddetti campi diomedei, “in divisione regni quam cum Dauno”. Fu allora che fondò Siponto, detta così dal nome greco sipius, a motivo delle seppie sbalzate sulla riva da onde gigantesche.
Nei pressi del Gargano gettò in mare tre grandi sassi che aveva raccolto a Troia e questi riemersero sottoforma di isole: le Tremiti.
Virgilio nell’Eneide ci racconta che i Latini e i Rutuli, bisognosi di alleati per scacciare Enea dalla loro terra, chiedono aiuto a Diomede, ricordando i trascorsi tra i due eroi. Diomede, però sorprende gli ambasciatori a lui pervenuti, rifiutando di combattere il suo antico nemico ed anzi invocando la pace tra i popoli.
Sentendosi prossimo alla morte, l’eroe decise di abbandonare i suoi domini e si trasferì alle Tremiti, dove trascorse i suoi ultimi giorni vivendo in una grotta: dopo essere sceso nell’Ade, Afrodite, secondo Virgilio per vendetta, secondo altre fonti per compassione, trasformò i suoi fedeli seguaci, affranti e inconsolabili per la perdita del loro capo, in uccelli, conosciuti ancora oggi come Diomedee.
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Mito che forse nasconde il ricordo, nell’età arcaica, di quelle che erano le rotte commerciali micenee nell’Adriatico. Consideriamo un momento i siti dei loro principali ritrovamenti archeologici in Italia:
nella zona del Delta del Po: a Frattesina, sul Po di Adria, un antico ramo deltizio del Po, a Legnago, lungo il tratto finale del fiume Adige, e a Torcello, nella Laguna veneta;
nelle Marche: ad Ancona, a Treazzano di Monsanpolo, presso la foce del fiume Tronto, e a Cisterna di Tolentino;
in Puglia: nella Grotta di Manacore e a Coppa Nevigata (nei pressi di Siponto), sul Gargano, a Roca Vecchia (si può ricordare anche una località pugliese sullo Ionio: lo Scoglio del Tonno, nei pressi di Taranto);
nella costa dalmata: a Capo San Niccolò e nell’isola di Brazza;
nelle isole di Pelagosa.
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Vi è una fortissima correlazione tra questi luoghi e quelli citati nella leggenda di Diomede. Rotte commerciali che seguivano almeno tre principali rotte. La prima, molto banalmente, traversava il canale di Otranto, per giungere in Puglia e risalivano lunga la costa, sino al Gargano e alla Capitanata; negli empori elladici, si scambiavano i beni prodotti in Grecia o provenienti dall’Oriente, con l’olio locale, che i micenei utilizzano per la produzione degli unguenti esportati in Siria ed Egitto, con la lana e i formaggi provenienti dall’Abruzzo, tramite i tratturi della transumanza.
Se la lana alimentava l’industria della tessitura elladica, i cui panni venivano esportati in Anatolia, i formaggi invece erano destinati alle tavole di Pilo e di Micene.
La seconda rotta, era invece diretta nell’Adriatico settentrionale, sulle cui coste terminavano sia via dell’ambra, che partiva dal mar Baltico, sia dello stagno, che iniziava dalla Cornovaglia e dalla Germania.
Per giungervi, i micenei evitavano quindi la costa adriatica occidentale, da Brindisi al Cònero, per l’assenza di porti naturali: Tito Livio la chiama importuosa Italiae litora e Strabone definisce i litorali adriatici occidentali alímenoi (ἀλίμενοι), ossia “importuosi”. Gli antichi navigatori risalivano invece questo mare lungo le sue coste orientali, partendo da Kòrkyra (l’odierna Corfù) e poi procedendo lungo l’articolatissima costa dalmata, ricca di ripari, sino a giungere all’estremo nord dell’Adriatico e riscendendo lungo la costa occidentale.
La terza rotta, invece, all’altezza dell’attuale città di Zara affrontavano il mare aperto facendo rotta verso il promontorio del Conero e continuavano a procedere verso nord sino a giungere nell’area del delta del Po.
L’attraversamento dell’Adriatico in corrispondenza del Cònero era scelto perché questo promontorio si spinge verso la costa dalmata, rendendo più breve l’attraversamento del mare e assumendo anche la funzione di traguardo visivo per i navigatori provenienti da est. Nella rotta di ritorno, invece, il traguardo visivo era garantito dalla visibilità del monte Drago, sui monti Velèbiti. In questo modo il tratto di mare aperto senza visibilità della costa era ridotto al minimo.
Questa rotta, oltre a facilitare il contatto con i terramaricoli e castellieri, si collegava alle vie commerciali interne che collegavano il Tirreno, in cui si era diffusa la thalassocrazia nuragica, all’Adriatico e permettendo così l’accesso alle risorse metallifere della Toscana
Alessio Brugnoli's Blog

