Alessio Brugnoli's Blog, page 90
November 2, 2019
Zhokhov Island in the Siberian High Arctic; long-distance (1,500km) exchange of obsidian during the Early Holocene
Provenancing obsidian facilitates the study of the procurement and exchange of this valuable raw material with a high degree of certainty. It can also be used indirectly to document prehistoric human migrations.
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Aureliano: una riforma graduale
di F. CERATO, Aureliano: una riforma graduale.
L’acclamazione di Lucio Domizio Aureliano[1],magister equitum di Claudio[2], al soglio imperiale, avvenuta nel 270 d.C. a Sirmium, in Pannonia, nell’attuale Serbia[3], ristabiliva una prassi ormai consolidata: già da tempo, infatti, erano le gerarchie militari a scegliere l’imperator e l’avallo del Senato di Roma era una pura formalità. Inoltre, Aureliano apparteneva – tanto come il suo predecessore, Claudio il Gotico, quanto il suo successore, Probo – a quella covata di generali che dovevano la propria fortuna a Gallieno. Per la tradizione storiografica superstite, ancor più di Claudio II, il cui regno fu anche fin troppo breve, Aureliano rappresenta l’anti-Gallieno; e, in effetti, il nuovo Augustus dovette affrontare il difficile problema di rimarginare le ferite territoriali che l’Impero aveva subito proprio sotto Gallieno (253-268). Austerità, disciplina, rigore furono le virtutes che marcano la figura…
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November 1, 2019
Sargon di Akkad
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Se c’è un uomo che ha colpito la fantasia degli antichi abitanti della Mesopotamia, fu proprio Sargon d’Akkad, il grande conquistatore. Di lui sappiamo ben poco, neppure il suo vero nome: Sargon infatti è la traslitterazione dell’accadico Sharru-kin, il vero re, che sembra essere più in titolo onorifico.
Sargon non fu il primo che unificò la Mesopotamia: prima di lui ci riuscirono, con le buone, Lugal-Anne-Mundu di Abab, soltanto che i trattati stipulati durante il suo lungo regno, fa concorrenza a Ramses II e a Luigi XIV, divennero carta straccia alla sua morte, e quel pazzo psicopatico di Lugalzagesi di Umma, una sorta di Pol Pot dell’epoca, convinto che il genocidio fosse il modo migliore per tenere in piedi uno stato.
Lugalzagesi, in una lunga iscrizione che ordinò fosse incisa su centinaia di vasi di pietra dedicati a En-Lil di Nippur, si vantava sia del fatto che il suo regno fosse esteso “dal mare Inferiore (golfo Persico), lungo il Tigri e l’Eufrate, fino al mare Superiore (Mediterraneo)”, sia di costruire ogni giorno una piramide con le teste dei suoi concittadini poco entusiasti nel pagare le tasse.
Sargon seppe coniugare la forza del leone con l’astuzia della volpe, capire il tempo in cui essere spietati e quello in cui essere clementi, e comprendere come una buona propaganda fosse un comodo strumento per puntellare il trono.
Da questa propaganda, nacquero decine di leggende e di storie, che sembra strano, riviste e rivisitate, sono entrate nella nostra Bibbia. Partiamo dalla sua origine
Mia madre fu scambiata alla nascita, mio padre non lo conobbi. I fratelli di mio padre amarono le colline. La mia città è Azupiranu, che è collocata sulle rive dell’Eufrate. La mia madre ‘scambiata’ mi concepì, in segreto mi partorì. Mi mise in un cesto di giunchi, col bitume ella sigillò il coperchio. Mi gettò nel fiume che si levò su di me. Il fiume mi trasportò e mi portò ad Akki, l’estrattore d’acqua. Akki, l’estrattore d’acqua, mi prese come figlio e mi allevò. Akki, l’estrattore d’acqua, mi nominò suo giardiniere.
Ossia, sotto diversi aspetti, la storia di Mosè. Continuando con il racconto, viene detto come Sargon divenne coppiere del re di Kish, Ur-Zababa, e durante quel periodo, sognò la dea Inanna annegasse quel sovrano nel sangue: Sargon rivelò il contenuto del sogno al proprio re e questi decide di farlo uccidere da Belištikal, capo dei fabbri, ma Inanna intervenne in favore di Sargon, racconto che ricorda assai le disavventure di Giuseppe in Egitto.
Tornato Sargon da Ur-Zababa, il re decise di inviarlo dal re Lugalzaggesi di Umma, con una tavoletta d’argilla che decretava la morte di Sargon.
Il nostro eroe, in qualche modo, purtroppo abbiamo perso le tavolette che parlavano di quella vicende, che sarà stata sicuramente romanzesca, riuscì a sfuggire alle grinfie del tiranno e tornato a Kish, la fece pagare con gli interessi a Ur-Zababa, organizzando una sorte di sanguinoso golpe.
Ora Kish, nella Mesopotamia dell’epoca, in cui il regime delle piogge era diverso da quello attuale, aveva un ruolo strategico fondamentale: chi deteneva il potere su quella zona aveva il controllo su gran parte dei canali di irrigazione che attraversavano tutta la regione.
Sargon approfittò di questa posizione di forza, prima per unificare la Mesopotamia del Nord, poi, per conquistare il sud, favorito dal fatto che il sumero medio non sopportava più il terrore e le stragi di Lugalzaggesi.
Per cui i soldati di Kish furono accolti come liberatori: Sargon sconfisse Lugalzaggesi nei pressi di Ur, lo catturò e, prima di farlo uccidere, lo espose al pubblico ludibrio in una gabbia davanti al tempio di Enlil a Nippur.
Le cose cambiarono poco dopo, quando i vari ensi, signori locali di Ur, capirono Sargon non aveva intenzione di tornarsene pieno di lodi e di onori a Kish, ma aveva intenzioni di prendere il posto di Lugalzaggesi.
Per cui, scoppiarono una serie di rivolte, ma le litigiose città sumeriche non riuscirono a fare fronte comune: per cui fu facile per Sargon sconfiggerle una alla volta. Così il re racconta gli avvenimenti.
Sargon, re di Akkad, sovraintendente di Ishtar, re di Kish, sacerdote consacrato di Anu, re della regione, grande vicario di Enlil, soggiogò Uruk e ne distrusse le mura; nella battaglia con gli abitanti di Uruk fu vittorioso; Lugalzaggisi, re di Uruk, catturò in battaglia; lo pose in ceppi dinnanzi alla porta di Enlil. Sargon, re di Akkad, nella battaglia con gli abitanti di Ur fu vittorioso; ne soggiogò la città e ne distrusse le mura. Soggiogò E-Ninmar, ne distrusse le mura, ne conquistò il territorio da Lagash fino al mare; nel mare lavò le sue armi. Nella battaglia con gli abitanti di Umma fu vittorioso; ne soggiogò la città e ne distrusse le mura. A Sargon, re della regione, Enlil non diede alcun oppositore; la regione del mare superiore al mare inferiore Enlil gli concesse
A valle di questa conquista, Sargon cominciò a riorganizzare i suoi domini: fece abbattere le mura alle città sumeriche, per impedire che tentassero a breve nuove rivolte, strinse accordi con le varie gerarchie sacerdotali locali, sua figlia Enkheduanna, la prima poetessa della storia di cui conosciamo, fu nominata sacerdotessa di Nanna, il dio della luna di Ur. Egli stesso si fece chiamare “il sacerdote unto di Anu” e “grande ensi di Enlil”.
In più riempì di monumenti Kish e Nippur: la prima divenne il centro dell’impero, mentre la seconda aveva il compito tradizionale di convalidare l’esercizio della regalità. Inoltre, per ribadire la sua regalità, come Costantino fondò una nuova città, Akkad, che gli archeologi stanno ancora cercando, il cui nome non deriva dal semitico, ma più sicuramente dal sumero. Il nome della città deriva dalla semitizzazione della parola sumera agade, che significa ‘corona di fuoco’, evidente allusione alla dea Ištar, dea della stella del giorno e della sera.
Essendo Sargon convinto di come il modo migliore per governare non fosse tagliare le teste ai sudditi. ma riempire le loro tasche, trasformò Akkad e il suo porto fluviale in un importante snodo commerciale, in cui attraccavano navi provenienti da regioni lontane, come Dilmun (Barain), Magan (Oman), Melukhkha (la nostra Harappa, nella valle dell’Indo).
In più, essendo la Mesopotamia povera di materie prime, Sargon ne doveva preservare, con la forza e la diplomazia, il commercio: per cui conquistò Tuttul, una città posta sull’Eufrate a mezza strada tra Mari e Kish, per facilitare l’interscambio con le città della Siria che orbitavano tra Mari ed Ebla.
Impose poi il suo protettorato sul “paese alto” (la Mesopotamia del medio Eufrate) fino alla “foresta di cedri” (il monte Amano) e alle “montagne di argento” (il Tauro). Infine dovette difendere le carovane sumere dai continui taglieggiamenti subiti dagli staterelli persiani; per cui guida campagne vittoriosie contro l’Elam, una potente confederazione di piccoli stati posta ad oriente della Mesopotamia, nella zona dell’attuale Iran del sud, e Baraši, da collocarsi ancora più nell’interno del territorio iraniano, molto vicino all’attuale Pakistan, che con le cattive, furono costretti ad abbassare i loro esosi pedaggi e dazi.
E per concludere il racconto delle sue imprese, è forse bene lasciare la parola allo stesso Sargon
Nel mio mestiere di giardiniere Ishtar mi amò
e per 54 anni ho davvero esercitato la regalità,
davvero ho governato e guidato le Teste Nere.
Ho tagliato con picconi di bronzo possenti montagne,
son salito più volte sui monti superiori,
ho attraversato più volte i monti inferiori;
per tre volte ho fatto il giro dei paesi del mare
(e) Dilmun si è [sottomessa a me.
Sono salito] sulle grandi mura del cielo (e) della terra
(e) ne ho rimosso le pietre.
Ora, ogni re che vuole chiamarsi mio eguale,
dovunque io andai, che ci vada
Contact Networks during the Middle Palaeolithic in the Northeastern Aegean? Presence of Neanderthals on Agios Efstratios island
In this post we present selected parts of the paper titled “Presence of Neandertals on the Island Agios Efstratios and Probable Networks of Contacts in the Northeastern Aegean during the Middle Palaeolithic“, by A.Sampson et al.
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La “Poetica” di Aristotele
di G. REALE, Il pensiero antico, Milano 2001, pp. 244-247 [= ID., D. ANTISERI, Il pensiero occidentale, 1. Antichità e Medioevo, Brescia 2013, pp. 229-231].
Il concetto di scienze produttive. – Il terzo genere di scienze è dato dalle «scienze poietiche» (o «scienze produttive»), le quali, come indica il nome, insegnano a “fare” e a “produrre” cose e strumenti, secondo regole e conoscenze precise: si tratta delle varie arti o, come noi ancora diciamo con un termine greco, delle tecniche. I Greci, tuttavia, nel formulare il concetto di «arte», puntavano più di quanto non facciamo noi moderni sul momento conoscitivo che l’arte stessa implica, sottolineando in maniera speciale la contrapposizione fra arte ed esperienza: quest’ultima, infatti, implica un ripetersi prevalentemente meccanico e non va oltre la conoscenza del dato di fatto, mentre l’arte è capace di andare oltre, cerca di toccare la conoscenza del perché e…
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October 31, 2019
L’evoluzione dell’esercito miceneo
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Se pensiamo all’esercito miceneo, istintivamente, a causa di Omero, a uno gruppo di carri che trasportano sul campo di battaglia un gruppo poco numeroso di eroi, coperti da pesanti armature, che si sfidano tra loro a colpi di lancia.
In realtà, l’arte della guerra micenea era assai più complessa di quanto appaia nell’Iliade, assai più tarda; il wanax o chi per lui era in grado di mobilitare e comandare un esercito tanto ampio, quanto differenziato.
Vi erano, senza dubbio, i carri, che non fungeva solo da mezzo di trasporto o da piattaforma mobile per gli arcieri, come in Egitto, ma dovevano compiere anche delle cariche; vi è ad esempio la testimonianza iconografica di una stele di Micene, mostra un guerriero che dal carro trafigge con la lancia uno spadaccino.
L’alto numero di carri elencati nelle tavolette (più di 400) suggerisce che i Micenei ne facessro un uso massiccio come arma tattica, una sorta di carro armato dell’epoca, e non solo decorativo, perché anche perché i carri da parata (trentatre carri con intarsi in avorio) sono elencati separatamente nelle tavolette.
Uso che in qualche modo colpì la fantasia degli Ittiti, che tutte le volte che parlano dei capi dei loro rivali micenei in Anatolia, ne citano il grande numero di carri; ma questi, per ovvi motivi di scenario operativo, l’orografia greca, in cui mancano ampie pianure, non ne favorisce l’utilizzo, non erano il nerbo dell’esercito del Wanax.
Potevano fungere da martello, per colpire ai fianchi i nemici, scompaginare le loro formazioni e incalzarli durante la fuga, ma non da incudine, ossia resistere ai loro assalti; tale compito era svolto dalle fanteria.
Da quello che siamo riusciti a ricostruire, tra il 1400 a.C. e il 1300 a.C. era divisa in due diverse tipologie: la prima era la fanteria pesante, che indossava la to-ra-ka, una corazza di bronzo battuto: dal ritrovamento di Dendra, questa era costituita da quindici lamine separate e tenute insieme da cinghie di cuoio e proteggeva il guerriero dal collo alle ginocchia.
A completare il tutto, vi erano parabraccia, schinieri, che coprivano solo una parte degli stinchi ed erano portati sopra a protezioni di lino e un elmo costituito da un berretto di cuoio di feltro, ricoperto da diverse file di zanne di cinghiale cucite su di esso.
Una protezione aggiuntiva era data dal grande scudo, che poteva assumere due diverse tipologie, ad otto e a torre. Il primo aveva l’aspetto di due scudi rotondi sovrapposti e collegati fra loro da una strozzatura centrale, il secondo una forma rettangolare con un semicerchio superiore sporgente a protezione del viso.
Lo scudo veniva normalmente sorretto con una striscia di cuoio – il telamon – portata attorno al petto e lasciato ricadere sul fianco sinistro in atteggiamento da battaglia o appeso dietro la schiena in marcia e probabilmente dotato una maniglia che permetteva al guerriero di controllarne meglio il movimento e all’occasione in impugnarlo come avverrà poi per gli scudi di epoca storica. Alcuni affreschi trovati a Cnosso testimoniano come questi scudi potessero essere rinforzati al centro da una struttura fusiforme, probabilmente lignea che svolgeva esattamente le funzioni di un umbone.
L’armamento offensivo era invece costituito da una lancia pesante, lunga forse più di tre metri, dotata di una grande punta affilata su entrambi i lati in modo da poter essere utilizzata sia come arma da affondo sia da taglio, per questioni statiche doveva avere un contrappeso metallico nella parte inferiore. Questa veniva portata obliqua durante la marcia con la punta rivolta verso l’alto ed orizzontale sopra la testa in fase di carica, lo scudo ad otto permetteva di tenere la lancia sottobraccio scoprendo il corpo in misura minore e questo potrebbe spiegarne la più lunga fortuna.
Di fatto, somigliava molto agli opliti dell’età classica, anche come velocità di movimento, tutta quella panoplia pesa solo 18 Kg, e probabilmente combatteva allo stesso modo, a ranghi serrati; ma il wanax, a differenza degli strateghi lacedemoni e ateniesi, pur apprezzandone la forza d’urto e la capacità di resistere alle cariche, però era consapevole anche dei suoi limiti di mobilità e di flessibilità.
Per questo, la integrava con una fanteria leggera, difesa da una corazza a scaglie simile a quella egiziana, l’ o-pa-wo-ta (letteralmente “cose che stanno attaccate”), di cui si sono trovate tracce a Salamina, sempre dotata di elmo a zanne di cinghiale, ma priva di scudo: la sua arma era infatti la spada, che in quel periodo, assume, nel mondo miceneo un aspetto particolare.
Erano infatti molto allungate e con cordoli poco resistenti e sarebbero risultate molto fragili se usate di taglio, per cui dovevano fungere da armi da affondo pensate per infliggere stoccate, come le spade usate in Europa a partire dal XVI secolo. Considerando che la tipologia di un’arma influenza inevitabilmente lo svolgersi di un combattimento appare verosimile immaginare un combattimento fra due spadaccini minoici o micenei molto simile ad un duello del XVII o XVIII secolo. Questo tipo di scherma è fatto di movimenti rapidi e veloci e si basa in gran parte sulla capacità di schivare i colpi dell’avversario, non sulla robustezza delle difese.
Per cui, probabilmente, mentre il fante pesante impegnava frontalmente gli avversari, i leggeri li attaccavano ai fianchi, in attesa della carica dei carri; a completare il dispositivo i lanciatori di giavellotti, che probabilmente servivano a scompaginare lo schieramento nemico prima dell’urto e gli arcieri, che protetti dalla fanteria pesante, potevano infastidire il nemico con una tattica mordi e fuggi.
Tutto questo dispositivo tattico, cambia nel 1200 a.C., quando si perde la distinzione tra fanteria pesante e leggera: tutti i fanti adottano l’armature a scaglie e sono introdotti due nuovi modelli di scudo che venivano retti con il braccio sinistro, ossia lo scudo rotondo (aspis) e quello a mezzaluna capovolta (pelta), che permette al guerriero di correre senza che il bordo inferiore dello scudo sbatta contro le cosce.
L’elmo di zanne di cinghiale rimane in uso fino al periodo tardo, ma sono introdotti nuovi modelli, come l’elmo “cornuto” e l’elmo a “punte di riccio”, dei quali però non conosciamo i particolari poiché non ci è giunto nessun esemplare.
Cambia anche l’armamento offensivo: la lancia si accorcia notevolmente, raggiungendo i 150-180 centimetri di lunghezza, utilizzabili sia per infilzare che per lancio. Si adotta poi un nuovo tipo di spada, di origine alpina, la Naue Type II, in cui la lama più o meno lunga si congiunge all’impugnatura senza soluzione di continuità; la spalla convessa della lama si unisce alla lingua da presa con margini
rilevati e andamento più o meno curvo sino a concludersi in un allargamento, o in una linguetta per il fissaggio di un pomolo deperibile.
Lungo la curva della spalla della lama, così come al centro dell’impugnatura, il bronzo era attraversato da vari fori passanti coi quali, grazie a ribattini, veniva fissato il manico deperibile formato da due guancette distinte prolungantisi sino alla spalla, dove formavano un arco.
Tale spada, rispetto al precedente modello, permette una scherma più varia, che permette di alternare stoccate a colpi di taglio; di conseguenza il fante tardo miceneo combatte in un ordine di battaglia flessibile e aperto, più simile a un legionario romano che a un oplita.
Questo cambiamento è da molti studiosi interpretato come un segno dell’imminente decadenza: il commercio con la Sardegna e le Colline Metallifere della Toscana entra in crisi, in Grecia non si ha più disponibilità di rame e bronzo, per cui il wanax è costretto ad arrangiarsi in qualche modo.
Però, se si considerano altri aspetti della questione, la realtà sembra differente:
I micenei non smettono di commerciare, ma cambiano interlocutori, non più i popoli nuragici o le tribù tirreniche, ma i popoli di cultura appenninica dell’Adriatico e non cercano più metalli, ma olio e lana, da trasformare in tessuti e profumi, da scambiare con i beni di lusso egiziani e siriani.
Chi sembra soffrire di tale interruzione, non sono i micenei, ma i loro ex partner sardi e italici, che reagiscono cambiando interlocutori commerciali, facendo la fortuna dei ciprioti, e cominciando a prodursi i casa beni di consumo di imitazione elladica
La potenza militare micenea è tutt’altro che indebolita, dato che per ancora un secolo passerà il tempo a combattere con gli Ittiti per il possesso dell’Anatolia.
Per cui, è probabile in contrario: è esistito forse una sorta di Ificrate miceneo, che cambiò la tattica e l’armamenti. Ciò diminuì la richiesta di metallo dall’Occidente e di conseguenza le rotte commerciali.
October 30, 2019
Ricordando Daitarn 3
Una dei cartoni animati che ho più amato da bambino è Daitarn 3. A Yoshiyuki Tomino, autore di profonde e drammatiche riflessioni sulla guerra, come Zambot 3 e lo stesso Gundam, viene commissionata una serie diretta a un pubblico infantile, utile a fare vendere tanti modellini del robottone alla casa produttrice di giocattoli che ha finanziato l’anime.
Ma Tomino ha un talento straordinario, che lo porta ad andare oltre la visione manichea delle precedenti serie robotiche; in più, a quanto pare, in quel periodo soffre di una profonda depressione, che tende a trasferirsi in maniera più o meno evidente, nelle sue opere. Infine, a quanto pare, alcuni episodi vengono, come dire, sceneggiati in outsourcing, da altri membri dello studio di animazione con cui collabora.
In casi analoghi, genio, depressioni e intervento di terze parti, genererebbero un pastrocchio senza capo né coda; invece, per una strana combinazione astrale, qui hanno portato a un’opera complessa, ambigua, in cui i piani di lettura si intrecciano in nodo intricato.
Un’opera aperta, per citare Eco, che ogni spettatore vive e interpreta a modo suo: forse questo è la chiave per spiegare il suo successo in Italia, paese di individualisti, ognuno convinto che la sua opinione sia una verità assoluta, e non in Giappone, società assai più omologata, in cui si amano le forme nette e semplice e si considera l’ambiguità non libertà del possibile, ma come incompletezza, incapacità a esprimere a pieno una verità chiara ed evidente.
Daitarn 3 è un cartone animato postmoderno: nell’aspetto più ovvio e superficiale, cita, deformandoli in una gamma di sfumature che vanno dall’ironica malinconia alla parodia più spinta e sgangherata, tutti i canoni del genere dei Robottoni.
Poi, altro dato assai evidente, la serie è anche una sorta di frullatore dell’immaginario pop dell’epoca. Sono presenti dozzine di citazioni da cinema, letteratura, fumetti e televisione: ad esempio, nell’episodio 32 la base dei Meganoidi è uguale alla Morte Nera di Guerre stellari; nell’episodio 36, dove Banjo è oggetto di tortura psicologica, uno dei cattivi si chiama Phroid, parodia di Sigmund Freud; nell’episodio 10 Banjo prende parte alle riprese di un film di Kung Fu.
Per citare il grande saggio DocManhattan
I comandanti meganoidi che si trasformano in Megaborg sono un delirante frullato di spunti diversi, che comprende Biancaneve, i super-eroi USA, le stelle del cinema di Hong Kong e quelle di Hollywood, con il biondo Jimmy Dean.
Lo stesso Banjo (Haran è il cognome, ricordiamolo) gioca di continuo a fare il James Bond. Reika è un’ex agente dell’Interpol, la svampita Beauty chiaramente una Bond Girl. Il maggiordomo Garrison, invece, ricorda fin troppo l’Alfred Pennyworth di Batman.
Inoltre, in maniera assai sottile, per parafrasare Jean-François Lyotard, il postmodernismo di Daitarn è incredilità nei confronti delle metanarrazioni, i sistemi e le prospettive teoriche della modernità: la volontà illuminista di emancipazione dai dogmi religiosi, l’idea hegeliana di una fine della storia nel trionfo della razionalità, le ideologie egualitarie e totalizzanti (socialismo, comunismo), lo sviluppo dell’economia e della ricchezza, l’onnipotenza della scienza e della tecnica, l’idea di una giustizia universale.
La trama di Daitarn è il trionfo del disincanto: la trama è il trionfo del caos, un succedersi di momenti ed episodi, che spaziano tra generi differenti, che paiono sempre prossimi allo sfuggire di mano, che negano l’essenza stessa di un universo narrativo, concluso, autoreferente e ordinato.
Disincanto anche nella tematica di fondo dell’opera: non la contrapposizione favolistica tra Bene e Male, ma un tema ben diverso. Da una parte, i Meganoidi vogliono superare, con la tecnologia, la condizione umana; dall’altra Banjo Haran, nella suo tentativo, sempre frustrato, di realizzarsi pienamente come Oltreuomo. Per lui
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e l’oltreuomo, – un cavo al di sopra di un abisso.
Insomma, in fondo Daitarn può essere anche letto come un ambiguo duello tra Nietzsche e il Transumanesimo. Banjo Haran è un antieroe cialtrone e superficiale, che in fondo vuole continuare a imporre lo status quo, mentre i meganoidi sotto la maschera di uomini di successo, sono inquiete, che non si riconoscono nei valori della società in cui sono costretti a vivere, spesso reduci da storie drammatiche e a differenza dei buoni, spesso capaci di compiere azioni valorose e degne di rispetto.
Ed è splendido il malinconico finale: troppo spesso, nella vita, legami che riteniamo forti e consolidati, svaniscono senza un apparente perché e all’improvviso, ti ritrovi accanto degli estranei. E il rimpianto, purtroppo, non riesce a fare tornare indietro le cose.
Il nuovo doppiaggio della Dynit del 2000, più aderente all’originale rispetto a quello di quando ero bambino, evidenzia ancora un altro strato di lettura, modificando la percezione che abbiamo del finale e mostrando sotto un’altra luce l’intera storia.
Per prima cosa, pare evidente come Haran Sozo, papà di Banjo, e Don Zauser siano la stessa persona. Di conseguenza, Koros, deve essere l’amante che Sozo ha preferito alla moglie. In più, Banjo, dopo averle sparato non le dice più
“Hai avuto quello che ti meritavi, maledetta”
come nella vecchia versione, ma
“Ma che cosa ho fatto?”,
come se, resosi conto delle sue azioni, ne provasse all’improvviso un immenso rimorso. Per cui, forse il protagonista non è che uno psicopatico, che pieno di rancore e desiderio di vendetta nei confronti del padre che lo ha abbandonato, per distruggere il sogno e l’opera della sua vita, compie una sorta di genocidio.
E per giustificare il tutto, mente a se stesso e a coloro che gli sono accanto; alla fine, questi, dinanzi alla verità, lo lasciano al destino che merita, la solitudine…
October 29, 2019
Tornando a parlare della Pietra di Palermo
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Poco tempo fa, ho parlato della Pietra di Palermo: da pochi giorni, però, grazie a un progetto di ricerca dell’università Carlo IV di Praga, guidato dall’egittologo italiano Massimiliano Nuzzolo, assieme ai colleghi Kathryn Piquette, della University College di Londra, e Mohamed Osman, della Free University di Berlino, ha ampliato la ricerca non solo al frammento conservato al Museo Salinas, ma anche su altri, più piccoli, che sono custoditi al museo del Cairo (5 frammenti, molto piccoli, tranne uno, il cosiddetto “Cairo Fragment 1”, che ha pressappoco le stesse dimensioni della Pietra di Palermo) e al Petrie Museum di Londra (1 frammento).
In pratica, questo gruppo di lavoro ha analizzando il tutto tramite le più moderne tecniche di documentazione fotografica, in particolar modo la fotogrammetria combinata con la “Reflectance Transformation Imaginig” (RTI), che ha permesso di ampliare esponenzialmente la leggibilità dei manifatti.
Come per la Pietra di Palermo, anche nel caso dei frammenti del Cairo non sappiamo praticamente nulla della loro provenienza dal momento che i frammenti furono acquistati sul mercato antiquario del Cairo in un arco di tempo che va dal 1910 al 1963.
Di almeno 3 di essi, i trafficanti di antichità riferirono agli archeologi del Museo Cairota che la provenienza era dal Medio Egitto, e precisamente dalla zona dell’odierna città di Minya, situata non lontano dal famosissimo sito di Tell el-Amarna, la città del faraone eretico Akhenaton, informazione, per ovvi motivi, da prendere con le molle.
Solo di uno di essi, il cosiddetto “Cairo Fragment 4”, si sa che fu trovato durante degli scavi effettuati nel 1912 in uno dei cortili, di epoca Ramesside, del tempio di Ptah a Memphis, l’odierna Mit Rahina. Si tratta, però, di un contesto non primario: il pezzo si trovava infatti in un grosso butto insieme a materiale eterogeneo quanto a contenuto e datazione
La RTI ha mostrato una serie di dati molto interessanti: l’analisi paleografica e della composizione del testo, facilitata enormemente da questa tecnologica, che solo 3 frammenti del Cairo, incluso il “Cairo Fragment 1”, appartengono alle stessa stele di origine della Pietra di Palermo. I rimanenti, pur essendo realizzate nello stesso materiale, ossia basalto olivinico, però sono stati incisi da mani differenti.
Per cui si possono formulare delle ipotesi: un faraone della V dinastia, magari Niuserra o Menkauhor, la cui successione pare essere stata alquanto contrastata, per legittimare la sua ascesa al trono, fa scrivere dalla sua cancelleria di corte una sorta di storia sacra, che culmina nel suo regno.
In una fase successiva, da ordine di replicarlo su pietra, più per mantenerne memoria e consacrarla agli dei, che per motivi di propaganda, dato che il geroglifico delle steli è di dimensioni minuscole, dell’ordine di un centimetro o poco più, tanto da sembrare una trasposizione, in scala 1:1, di un testo papiraceo, cosa che ne renderebbe difficile la lettura anche da media distanza.
Il fatto che la trasposizione si stata realizza in una medesima officina, ma da due mani differenti, sembrerebbe implicare la necessità di parallelizzare il lavoro, per fare fretta e creare più copie possibili: per cui, per il committente, l’essere legittimato dinanzi agli dei doveva essere un’esigenza assai pressante.
E dato che ne sono state fatte più copie, non è detto che con il tempo non saltino fuori altri frammenti di steli analoghe. Ho ipotizzato Niuserra o Menkauhor, come possibili committenti, perché, grazie alla RTI abbiamo identificato un punto fermo della cronologia.
Infatti, tra gli ultimi faraoni citati nella stele appare il nome Sahura, successore di Userkaf, di cui abbiamo scoperto qualche notizia in più, come la fabbricazione (tecnicamente chiamata nel testo “nascita e apertura della bocca”) di 7 statue del faraone in rame asiatico, o la realizzazione di una spedizione commerciale nella Terra del Turchese, (probabilmente le cave dello Uadi Maghara nella penisola del Sinai).
La citazione del rame asiatico, sotto molto aspetti, è assai interessante: i sovrani egizi, anche prima dell’unificazione forse compiuta da Namer, mandavano spedizione nel Sinai, la terra dei minatori, per ottenere il rame; l’iscrizione più antica in tal senso, risale ai tempi del famigerato e discusso Iry-Hor.
Per cui, l’attributo asiatico, come forma di vanteria, doveva indicare una provenienza assai più esotica e lontana: le grandi miniere di rame dell’area chiamata Wadi Feynan, un territorio collocato a ridosso fra gli odierni stati di Israele e Giordania, che gli Egizi controlleranno nel Medio Regno, oppure dal porto di Byblos, ottenuto dalle rotte commerciali provenienti dall’isola di Cipro.
Che poi Sahura fosse amante delle grandi spedizioni commerciali, lo sappiamo dalla Pietra di Palermo: in questa viene riportata una spedizione alla misteriosa terra di Punt, ossia il nord della Somalia, per ottenere incenso, mirra e avorio.
Incenso che svolgeva un ruolo fondamentale nella celebrazione delle cerimonie in onore del dio Ra; in particolare la RTI ha permesso di leggere una citazione del tempio solare del faraone Sahura, chiamato “I Campi di Ra”.
I templi solari erano un monumento unico che i faraoni della V dinastia fecero costruire, ufficialmente, per il culto del dio sole ma, nella pratica, per il loro stesso culto, come incarnazioni viventi del dio sole, dal cui culto ricevevano, indirettamente, linfa e legittimazione costante. Ebbene, il tempio solare di Sahura non è mai stato trovato e alcuni studiosi in passato hanno persino ipotizzato che non sarebbe mai stato costruito, dal momento che il tempio è menzionato solo nei testi autobiografici di due funzionari della V dinastia.
Invece, sia la spedizione a Punt, per recuperare la materia prima per il culto, sia la citazione in documento ufficiale, sono indizi a favore della sua effettiva realizzazione. Insomma, un altro luogo che aspetta di essere scavato dagli archeologi.
Prossimi passi? Io, da profano, sarei curioso di vedere applicato a questo testo una versione evoluta del progetto Hieroglyphics Initiative, che sfruttando l’intelligenza artificiale come Pithya, aiuti gli archeologici a integrare parzialmente i frammenti mancanti.
Tornado a parlare della Pietra di Palermo
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Poco tempo fa, ho parlato della Pietra di Palermo: da pochi giorni, però, grazie a un progetto di ricerca dell’università Carlo IV di Praga, guidato dall’egittologo italiano Massimiliano Nuzzolo, assieme ai colleghi Kathryn Piquette, della University College di Londra, e Mohamed Osman, della Free University di Berlino, ha ampliato la ricerca non solo al frammento conservato al Museo Salinas, ma anche su altri, più piccoli, che sono custoditi al museo del Cairo (5 frammenti, molto piccoli, tranne uno, il cosiddetto “Cairo Fragment 1”, che ha pressappoco le stesse dimensioni della Pietra di Palermo) e al Petrie Museum di Londra (1 frammento).
In pratica, questo gruppo di lavoro ha analizzando il tutto tramite le più moderne tecniche di documentazione fotografica, in particolar modo la fotogrammetria combinata con la “Reflectance Transformation Imaginig” (RTI), che ha permesso di ampliare esponenzialmente la leggibilità dei manifatti.
Come per la Pietra di Palermo, anche nel caso dei frammenti del Cairo non sappiamo praticamente nulla della loro provenienza dal momento che i frammenti furono acquistati sul mercato antiquario del Cairo in un arco di tempo che va dal 1910 al 1963.
Di almeno 3 di essi, i trafficanti di antichità riferirono agli archeologi del Museo Cairota che la provenienza era dal Medio Egitto, e precisamente dalla zona dell’odierna città di Minya, situata non lontano dal famosissimo sito di Tell el-Amarna, la città del faraone eretico Akhenaton, informazione, per ovvi motivi, da prendere con le molle.
Solo di uno di essi, il cosiddetto “Cairo Fragment 4”, si sa che fu trovato durante degli scavi effettuati nel 1912 in uno dei cortili, di epoca Ramesside, del tempio di Ptah a Memphis, l’odierna Mit Rahina. Si tratta, però, di un contesto non primario: il pezzo si trovava infatti in un grosso butto insieme a materiale eterogeneo quanto a contenuto e datazione
La RTI ha mostrato una serie di dati molto interessanti: l’analisi paleografica e della composizione del testo, facilitata enormemente da questa tecnologica, che solo 3 frammenti del Cairo, incluso il “Cairo Fragment 1”, appartengono alle stessa stele di origine della Pietra di Palermo. I rimanenti, pur essendo realizzate nello stesso materiale, ossia basalto olivinico, però sono stati incisi da mani differenti.
Per cui si possono formulare delle ipotesi: un faraone della V dinastia, magari Niuserra o Menkauhor, la cui successione pare essere stata alquanto contrastata, per legittimare la sua ascesa al trono, fa scrivere dalla sua cancelleria di corte una sorta di storia sacra, che culmina nel suo regno.
In una fase successiva, da ordine di replicarlo su pietra, più per mantenerne memoria e consacrarla agli dei, che per motivi di propaganda, dato che il geroglifico delle steli è di dimensioni minuscole, dell’ordine di un centimetro o poco più, tanto da sembrare una trasposizione, in scala 1:1, di un testo papiraceo, cosa che ne renderebbe difficile la lettura anche da media distanza.
Il fatto che la trasposizione si stata realizza in una medesima officina, ma da due mani differenti, sembrerebbe implicare la necessità di parallelizzare il lavoro, per fare fretta e creare più copie possibili: per cui, per il committente, l’essere legittimato dinanzi agli dei doveva essere un’esigenza assai pressante.
E dato che ne sono state fatte più copie, non è detto che con il tempo non saltino fuori altri frammenti di steli analoghe. Ho ipotizzato Niuserra o Menkauhor, come possibili committenti, perché, grazie alla RTI abbiamo identificato un punto fermo della cronologia.
Infatti, tra gli ultimi faraoni citati nella stele appare il nome Sahura, successore di Userkaf, di cui abbiamo scoperto qualche notizia in più, come la fabbricazione (tecnicamente chiamata nel testo “nascita e apertura della bocca”) di 7 statue del faraone in rame asiatico, o la realizzazione di una spedizione commerciale nella Terra del Turchese, (probabilmente le cave dello Uadi Maghara nella penisola del Sinai).
La citazione del rame asiatico, sotto molto aspetti, è assai interessante: i sovrani egizi, anche prima dell’unificazione forse compiuta da Namer, mandavano spedizione nel Sinai, la terra dei minatori, per ottenere il rame; l’iscrizione più antica in tal senso, risale ai tempi del famigerato e discusso Iry-Hor.
Per cui, l’attributo asiatico, come forma di vanteria, doveva indicare una provenienza assai più esotica e lontana: le grandi miniere di rame dell’area chiamata Wadi Feynan, un territorio collocato a ridosso fra gli odierni stati di Israele e Giordania, che gli Egizi controlleranno nel Medio Regno, oppure dal porto di Byblos, ottenuto dalle rotte commerciali provenienti dall’isola di Cipro.
Che poi Sahura fosse amante delle grandi spedizioni commerciali, lo sappiamo dalla Pietra di Palermo: in questa viene riportata una spedizione alla misteriosa terra di Punt, ossia il nord della Somalia, per ottenere incenso, mirra e avorio.
Incenso che svolgeva un ruolo fondamentale nella celebrazione delle cerimonie in onore del dio Ra; in particolare la RTI ha permesso di leggere una citazione del tempio solare del faraone Sahura, chiamato “I Campi di Ra”.
I templi solari erano un monumento unico che i faraoni della V dinastia fecero costruire, ufficialmente, per il culto del dio sole ma, nella pratica, per il loro stesso culto, come incarnazioni viventi del dio sole, dal cui culto ricevevano, indirettamente, linfa e legittimazione costante. Ebbene, il tempio solare di Sahura non è mai stato trovato e alcuni studiosi in passato hanno persino ipotizzato che non sarebbe mai stato costruito, dal momento che il tempio è menzionato solo nei testi autobiografici di due funzionari della V dinastia.
Invece, sia la spedizione a Punt, per recuperare la materia prima per il culto, sia la citazione in documento ufficiale, sono indizi a favore della sua effettiva realizzazione. Insomma, un altro luogo che aspetta di essere scavato dagli archeologi.
Prossimi passi? Io, da profano, sarei curioso di vedere applicato a questo testo una versione evoluta del progetto Hieroglyphics Initiative, che sfruttando l’intelligenza artificiale come Pithya, aiuti gli archeologici a integrare parzialmente i frammenti mancanti.
October 28, 2019
Cronaca di un suicidio annunciato
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Non mi capita spesso di parlare di politica in senso stretto e sinceramente non mi andava molto di fare eccezione a tale regola per l’Umbria, perchè, con tutto il rispetto per gli amici che vi abitano, il numero di elettori è paragonabile a quelli di un paio di municipi romani.
Per cui, il suo risultato può essere un’indicazione su come si orienta l’opinione pubblica, ma certo non è tale da condizionare l’intera politica italiana: insomma, bisogna mantenere il giusto senso della misura. Tuttavia, il fatto che i miei amici di Destra sanno esultando oltre ogni limite, mentre quelli di Sinistra hanno cominciato a insultare gli elettori umbri, dandogli dei retrogradi e degli ignoranti, mi ha costretto a cercare di esaminare, sine ira et studio, le cause di quella che, in fondo, era una disfatta annunciata, figlia di tre elementi: un peciliare momento storico, una crisi sistemica e una serie di peculiarità locali e boiate tattiche.
Cominciamo dal momento storico: per usare una terminologia marxista, le innovazioni tecnologiche indotte da Internet e dalle Leggi di Moore, stanno mutando profondamente i rapporti di produzione, la Struttura. A loro volta, questi cambiamenti si ribaltano drammaticamente sulla Sovrastruttura; la Politica, indipendentemente dalla sua ideologia, non riesce a comprenderli, a limitare i loro effetti sui ceti e classi più deboli e a imporre loro una direzione. Insomma, naviga a vista.
In condizioni del genere, le analisi razionali e le ammissioni di fallibilità, sono destinate a essere oscurate da slogan che parlano alla pancia del cittadini; in questa corsa all’istintualità, il Centro viene annichilito e la Destra, che riesce a creare dei capri espiatori della crisi più concreti e tangibili di quelli della Sinistra, prevale. Trend che allo stato attuale, si sta verificando in quasi tutte le democrazie.
Il secondo tema, la crisi sistemica, è legato all’economia dell’Umbria, basata su tre pilastri: un sistema di ridistribuzione delle finanze pubbliche e welfare non ufficiale, che a Roma e al Sud verrebbe definito clientelismo, un tessuto industriale basato sulle PMI e il turismo.
Il sistema di ridistribuzione, è banale dirlo, funzionava finché c’erano i soldi: quando questi sono finiti, si è interrotta la cinghia di trasmissione verso il basso, causando malcontento e trasformando gli amministratori locali, in maniera giusta o sbagliata, nell’oggetto della deprecazione e dell’ostracismo.
Lo Sanitopoli umbra, che ha riguardato 11 concorsi pubblici per una trentina di assunzioni tra medici, infermieri e personale ausiliario, è oggettivamente una questione da ladri di polli: però, in questo contesto, ha svolto il ruolo di catalizzatore del malcontento.
Gravissima e poco nota è la crisi del tessuto produttivo umbro. All’inizio del 2007, l’Umbria partiva da livelli di produttività industriale superiori a quelli registrati nel resto del Paese. A causa della crisi, nel giro di poco meno di un decennio, l’industria è crollata ai minimi, accumulando un ritardo superiore ai 20 punti percentuali nel 2014. Oggi le prestazioni in termini di produttività dell’industria risultano inferiori sia ai valori dell’Italia che del Centro.
La regione ha perso l’enorme progresso da cui partiva e non si è più ripresa. Dal 2008, secondo le stime della Banca d’Italia, il numero di occupati nel comparto industria si è ridotto di circa un sesto. Tra tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico, cessazioni definitive, contratti di solidarietà e richieste di accesso alla cassa integrazione, la mappa del settore metalmeccanico in Umbria è un bollettino di guerra.
Dal 2008 al 2016, secondo la Cgil, l’Umbria complessivamente ha perso quasi 7.000 posti di lavoro. Il Pil pro-capite della regione (24.300 euro) certificato dall’Istat è inferiore non solo rispetto alla media italiana (28.500 euro), ma anche a quella del Centro (30.700 euro). Numeri che avvicinano l’Umbria più alle regioni del Sud che del Centro.
La Sinistra non è stata in grado non dico di fornire soluzioni a questa crisi, ma neppure di fornire speranze. Crisi analoga, dovuta anche all’incapacità di gestire al meglio la ricostruzione post terremoto, è avvenuta nel turismo.
Gli Umbri insomma erano più poveri e disperati e a torto o a ragione, hanno dato la colpa a chi li ha governati.
Infine, le questioni tattiche: Bianconi, che ho avuto la fortuna di incrociare per motivi di lavoro, è una persona squisita e un signore, attaccato gratuitamente durante la campagna elettorale, ma probabilmente era la persona sbagliata al posto sbagliato e detto tra noi, umanamente mi spiace che sia stato spedito al massacro.
Il PD, indebolito dalla questione Renzi, ha accettato una fusione fredda, innaturale e imposta dall’alto, con i Grillini, che invece di aiutare a risalire la china, ha affossato entrambi.
Infine, se Salvini ha battuto palmo per palmo la regione, ha tenuto un comizio o fatto una visita in almeno 50 dei 92 comuni della regione, Zingaretti, Di Maio, Conte si sono limitate a fare delle comparsate, culminate in foto, che pareva più falsa di una moneta da tre euro…
Alessio Brugnoli's Blog

