Alessio Brugnoli's Blog, page 19

October 18, 2021

Atene contro Siracusa parte XXXII

L’epocale casino avvenuto nella battaglia notturna, che di fatto aveva portato enormi danni agli Ateniesi sia in termini di soldati perditi, sia di armi, parecchi opliti per facilitare la grande fuga, avevano gettato armi, panoplia e scudi. Così i Siracusani, oltre a celebrare la vittoria, riuscirono, sfruttando il materiale abbandonato dal nemico ad armare meglio le truppe fornite dagli alleati. In più, raccolsero anche il capitale politico della vittoria.

Per prima cosa, inviarono una spedizione ad Akragas: in quel periodo la città si stava dedicando al suo sport preferito, la guerra civile, e in qualche modo si voleva impedire che vincesse la fazione filo ateniese. Al contempo, Gilippo, andò a reclutare nuove truppe, per avere una forza sufficiente non solo per rompere l’assedio, ma per conquistare a sua volta il campo ateniese

Quel mattino i Siracusani eressero due trofei: sulle Epipole, nel punto in cui gli Ateniesi erano saliti, e nel luogo ch’era stato teatro del primo vittorioso contrasto dei Beoti. Gli Ateniesi, protetti da una tregua, raccolsero le salme dei caduti. Agli Ateniesi e agli alleati la disfatta costò vittime in grande numero, ma in rapporto ai cadaveri fu ancora più elevato il bottino di armature conquistate. Giacché quelli spinti a gettarsi nei burroni si liberavano dello scudo: e tra costoro, chi morì, chi si rialzò scampando.

Onde i Siracusani ripresero vigore, com’era già accaduto, da questo nuovo e insperato trionfo, e mandarono ad Agrigento, lacerata dalle fazioni politiche, Sicano con una squadra di quindici navi, per assicurarsi possibilmente la adesione di quella città; Gilippo lungo le strade di terra si rimise in giro per i vari centri della Sicilia, con l’intento di reclutare truppe fresche. Dopo il fortunato contrattacco sulle Epipole, covava serie speranze di poter invadere d’assalto anche la linea fortificata ateniese.

Ovviamente, nel campo ateniese l’umore era nero, sia per la sconfitta, sia perchè nel campo era scoppiata un’epidemia: di cosa si tratta, Tucidide è molto vago, ma sia la stagione, stiamo parlando di giugno, sia l’accenno alla zona paludosa, farebbe pensare alla malaria

Nel frattempo gli strateghi ateniesi si consultavano per far fronte alle conseguenze dell’infortunio e per rimediare all’avvilimento che ormai dilagava in ogni reparto dell’armata. Si vedeva che impiegando la strategia d’attacco non c’era verso d’ottenere qualche successo risolutivo: e nelle truppe serpeggiava il fermento per trovarsi inchiodate in quelle posizioni. Infieriva un’epidemia per giunta, alimentata da due fattori: s’era nella stagione dell’anno che più favorisce nell’uomo l’insorgere di malattie, e in aggiunta la contrada in cui si estendeva il campo era acquitrinosa e insana.

Risultato, i due strateghi cominciarono a scannarsi su cosa fare. Demostene suggeriva, approfittando della superiorità marittima, di ritirarsi dall’assedio, che si stava trasformando in un buco nero per le risorse ateniese. In più, era preoccupatissimo per la questione Decelea. Come raccontato, gli spartani avevano finalmente deciso di dare retta ad Alcibiade, occupando la città attica. La presenza del presidio nemico costrinse gli Ateniesi a trasportare il grano via mare, circumnavigando capo Sunio, con grande dispendio di denaro, impedì agli agricoltori attici di lavorare la terra e ostacolò l’estrazione di minerali nelle miniere del Laurio. Gli Spartani inoltre incitarono gli schiavi a ribellarsi ai padroni: Tucidide racconta che 20000 -schiavi fuggirono da Decelea. A Demostene, a differenza di Nicia, tutti questi problemi erano molto chiari. Per cui, piuttosto che perdere tempo in Sicilia, riteneva necessario risolvere problemi in casa.

Elementi che suggerivano a Demostene, l’urgenza di sgomberare da quei luoghi. Come aveva già previsto allestendo l’offensiva contro le Epipole, ora che la prova s’era risolta in un disastro, con la sua parte di autorità prescriveva di allontanarsi senza perdere altro tempo, finché la traversata al largo era ancora possibile, sfruttando la supremazia marina, che per il momento le unità ultime sopraggiunte alla flotta potevano ancora garantire. Proponeva, come linea strategica più conveniente allo stato, d’intensificare la resistenza contro il caposaldo nemico piantato sul suolo dell’Attica e lasciar correre Siracusa, impadronirsi della quale era intralcio ormai troppo complicato. Anche insistere in un vano sperpero di fondi per proseguire il blocco appariva sempre più lontano da ogni logica Sicché Demostene era di questo avviso.

Nicia invece era contrario al ritiro dalla Sicilia, sia per motivi strategici, sia per motivi politici. Dal punto di vista strategico, visto che la maggior parte delle truppe siracusane erano mercenarie, i costi dell’assedio stavano mandando in bancarotta la polis siciliana: se gli ateniesi avessero adottato una tattica temporeggiatrice, alla fine la città si sarebbe arresa. In più, la guerra di attrito, avrebbe probabilmente favorito il partito filo ateniese della città che, o avrebbe aperto le porte agli assedianti, oppure avrebbe imposto la pace.

Dal punto di vista politico, la paura di Nicia, se l’esercito fosse tornato con le pive nel sacco, era di mandare a ramengo la sua carriera politica. Nell’ipotesi migliore, vi era la spada di Damocle dell’ostracismo, istituzione che ogni tanto sarei tentato di voler vedere reintrodotta anche in Italia, specie all’Esquilino, per togliersi dalle scatole qualche ex politico ciarlatano, il cui nome deriva da ostrakon, che significa “coccio di vaso di terracotta” o “conchiglia”: questo perché, in un mondo in cui il papiro scarseggiava poiché costoso prodotto importato dall’Egitto, bozze, appunti e votazioni venivano eseguite su frammenti di vasellame.

L’ostracismo prevedeva il punire con un esilio temporaneo di dieci anni coloro che avrebbero potuto rappresentare un pericolo per la città. Per individuare i potenziali condannati, si procedeva a una votazione: nella sesta pritania, il periodo di tempo, pari a 35 giorni, durante il quale i cinquanta pritani, i rappresentanti, di ogni tribù ateniese esercitavano il potere, si deliberava se decidere su casi di ostracismo: se la risposta del Bouleuteria, l’assemblea dei rappresentanti delle tribù, era affermativa, si procedeva a votare durante l’ottava pritania. La procedura dello scrutinio avveniva entro il momento della giornata in cui fosse ancora possibile leggere le iscrizioni con la luce del sole, per poi proclamare i risultati prima del tramonto

Nella prassi, due erano le ipotesi che si venivano a costituire: quando i votanti dovevano decidere se allontanare o meno un unico cittadino (e in questo caso, per valutare se il risultato finale fosse stato positivo o negativo, si adottava nello scrutinio dei voti il criterio della maggioranza semplice, 50%+1), oppure se la scelta ricadeva tra più cittadini (in tale ipotesi si applicava il criterio della maggioranza relativa, cioè tra “n” nomi quello più ripetuto nello spoglio degli ostraka).

Se il numero necessario per l’esito favorevole del procedimento era raggiunto, il cittadino veniva esiliato per 10 anni, pena la morte se fosse rimasto nell’Attica. Il cittadino poi tornava in possesso dei diritti civili e politici, le sue proprietà non venivano confiscate ed egli poteva nominare una persona che gestisse i suoi affari e gli girasse eventuali proventi. Il provvedimento non colpiva inoltre i familiari, ai quali rimaneva permesso frequentare la polis o continuare a vivervi.

Secondo Aristotele, l’ostracismo fu ideato da Clistene nel 510 a.C.; alcuni, appoggiandosi a un frammento di Arpocrazione, datano la sua istituzione a circa vent’anni dopo, quando ve ne fu la prima applicazione (vittima fu Ipparco di Carmo, della famiglia dei Pisistratidi).

Ma questo era il caso migliore: gli ateniesi erano assai entusiasti di applicare la battuto che Voltaire fece nel Candido sugli inglesi

Dans ce pays-ci, il est bon de tuer de temps en temps un amiral pour encourager les autres

Ossia

In questo paese è cosa saggia uccidere un ammiraglio ogni tanto per incoraggiare tutti gli altri

Pensiamo al casino che successe dopo la vittoria navale delle Arginuse, Terminata la battaglia, i comandanti ateniesi dovettero decidere su quale dei vari compiti urgenti avrebbero dovuto focalizzarsi. Conone era ancora bloccato a Mitilene da 50 navi spartane e un’azione decisiva contro di esse avrebbe potuto affondarle prima che potessero unirsi ai resti della flotta di Callicratida. Al tempo stesso, erano da soccorrere i sopravvissuti delle 25 navi ateniesi affondate o danneggiate durante la battaglia, che erano nel mare davanti alle isole Arginuse.

Per risolvere entrambi i problemi, gli strateghi decisero di andare tutti e otto con gran parte della flotta a Mitilene, dove avrebbero tentato di liberare Conone, mentre i trierarchi Trasibulo e Teramene sarebbero rimasti indietro con 47 navi a recuperare i sopravvissuti; entrambe queste missioni, comunque, furono impossibilitate dall’arrivo improvviso di una tempesta, che respinse le navi in porto: la flotta spartana di Mitilene, comandata da Eteonico, fuggì, e fu impossibile recuperare i marinai in mare, che affogarono.

Ad Atene la gioia provocata da questa vittoria inaspettata fu rapidamente soppiantata dal dibattito riguardante la responsabilità dell’annegamento dei naufraghi. Quando gli strateghi seppero del malcontento della popolazione per il mancato salvataggio dei naufraghi, ritennero che Trasibulo e Teramene, che erano già tornati in città, ne fossero responsabili, e scrissero alcune lettere all’assemblea per denunciare i due trierarchi, incolpandoli del disastro.

I trierarchi risposero con successo alle accuse e l’astio della folla si rivolse agli strateghi; questi ultimi furono esautorati e obbligati a tornare ad Atene per essere processati. Due di loro, Aristogene e Protomaco, fuggirono, mentre gli altri sei obbedirono. Dopo essere tornati furono imprigionati e uno di loro, Erasinide, fu processato e condannato per vari motivi, inclusa una cattiva condotta nella battaglia. Questo processo potrebbe rappresentare un tentativo da parte degli strateghi di verificare l’umore della città, visto che Erasinide, che aveva proposto di abbandonare del tutto i sopravvissuti nelle discussioni dopo la battaglia, potrebbe esser stato il bersaglio più facile tra i sei. La questione di come trattare gli strateghi per non aver recuperato i sopravvissuti fu poi discussa nell’assemblea: il primo giorno di dibattito i comandanti riuscirono a conquistare la simpatia della folla dando la colpa dell’intera tragedia alla tempesta, che aveva impedito ogni soccorso.

Sfortunatamente per loro, comunque, il primo giorno di dibattito fu seguito dalle Apaturie, festività nelle quali le famiglie si incontravano e stavano insieme. In questo contesto l’assenza di coloro che erano annegati alle Arginuse fu dolorosamente evidente e, quando l’assemblea si riunì nuovamente, l’iniziativa passò a coloro che volevano trattare gli strateghi duramente. Un politico chiamato Callisseno propose che l’assemblea votasse subito per l’innocenza o la colpevolezza degli strateghi senza ulteriori dibattiti. Eurittolemo, cugino di Alcibiade, e molti altri si opposero alla mozione, dichiarandola incostituzionale, ma smisero di protestare dopo che un altro politico sostenne che la stessa mozione da applicare agli strateghi poteva essere applicata a loro. Dopo aver messo a tacere l’opposizione, gli accusatori tentarono di portare al voto la loro mozione.

Presiedevano l’assemblea i pritani, consiglieri scelti a caso dalla tribù incaricata di supervisionare i lavori dell’assemblea in quel dato mese. A ogni riunione dell’assemblea, uno dei pritani era nominato presidente dell’assemblea, Per caso il filosofo Socrate, che ricoprì cariche pubbliche una sola volta nella sua vita, era epistate il giorno in cui gli strateghi furono processati. Dichiarando che “non avrebbe fatto nulla di contrario alla legge”,Socrate rifiutò di mettere ai voti la mozione. Incoraggiato, Eurittolemo salì di nuovo a parlare, persuadendo l’assemblea ad approvare una mozione che stabiliva che gli strateghi fossero processati individualmente e non tutti assieme, come già Socrate aveva proposto.

Tuttavia, grazie ad alcune manovre,, questa vittoria fu annullata e alla fine la mozione originale fu portata avanti. Si andò ai voti e tutti gli otto strateghi furono dichiarati colpevoli e i sei presenti al processo giustiziati, incluso Pericle il Giovane, figlio del grande politico. Se sono riusciti a combinare questo a degli strateghi vincenti, pensate cosa avrebbero potuto fare a quelli sconfitti.

Anche perchè Nicia conosceva bene i suoi polli: gli stessi opliti che protestavano per tornare a casa, ad Atene sarebbero stati i primi a metterlo sotto accusa, dicendo che si era ritirato, rinunciando a una vittoria certa, per la corruzione da parte dei Siracusani

Anche Nicia comprendeva che lo stato degli Ateniesi in Sicilia era più che critico, ma non se la sentiva di rivelare apertamente la fragilità delle loro posizioni ed era contrario a proclamare di fronte a una folla numerosa la risoluzione di sgomberare, nel dubbio che il nemico la potesse risapere. Quando si fosse decisa la partenza, sarebbe stato assai più problematico sparire senza dar nell’occhio alle vedette avversarie. Ma c’era dell’altro: non mancavano nelle condizioni del nemico certi aspetti a lui forse più noti che agli altri colleghi del comando, i quali lasciavano trapelare una speranza: che cioè il nerbo di Siracusa, sottoposto a un progressivo inasprimento del blocco, si sarebbe logorato più e prima della potenza ateniese. Si poteva stremarli, colpendo la loro economia fino all’esaurimento dei fondi: tanto più che con le forze della marina attualmente a disposizione era facile ristabilire la supremazia navale.

In seno a Siracusa, poi, operava un certo partito impaziente di aprir le braccia agli Ateniesi e di consegnar loro la città, e a Nicia si recapitavano appelli, nell’intento di dissuaderlo ad allargare la stretta. Al corrente di queste trame, dubbioso, incline a prendersi un po’ di tempo per scrutar meglio ogni fattore, in realtà non s’era ancora risolto, per un partito o per l’altro: ma in quel suo intervento pubblico ad ogni modo, non si dichiarò disposto a ritrarre l’armata. Prevedeva infatti con sicurezza che in Atene l’assemblea avrebbe sconfessato questo ritiro delle forze, privo di espressa convalida popolare. A valutare il loro contegno, avrebbero trovato laggiù gente sprovvista di un’esperienza oculare sui fatti pari a quella ch’essi s’erano formati sui luoghi d’azione.

Né si poteva sperare che ad Atene si desse ascolto per un imparziale apprezzamento alle critiche, ai rapporti equanimi di altri testimoni: ma purché si facesse avanti uno a proclamare menzogne insinuanti, alle sue parole s’accordava senza esitare la più salda fiducia. Nella stessa truppa, proseguiva Nicia, quei tanti che ora strepitavano d’essere cinti dovunque da minacce, appena in patria avrebbero levato ben diversi strepiti: strateghi venduti, vi siete ben lasciati convincere dai denari a disertare! Sicché decideva, conoscendo personalmente il carattere ateniese, anziché farsi uccidere da una sentenza vergognosa e iniqua del tribunale ateniese, di affrontare contro il nemico, se necessario, tra i pericoli della lotta il medesimo destino di morte.

In quanto allo stato dei Siracusani, insisteva Nicia, era ridotto anche peggio del proprio: spendendo senza risparmio per stipendiare i mercenari, per allestire la catena di capisaldi e per equipaggiare, era ormai un anno, quell’immensa flotta, per ora le finanze siracusane avevano l’acqua alla gola: e di lì a poco era il crollo. Duemila talenti se li era già inghiottiti la guerra: e i debiti si accumulavano. Se poi, con un taglio netto inferto agli stanziamenti militari, rinunciavano a parte degli attuali effettivi, i loro puntelli avrebbero ceduto: poiché la massa delle loro divisioni si componeva più di gente stipendiata ché di milizie cittadine, reclutate per obbligo dalle liste di leva, come appunto quelle ateniesi. In conclusione: prostrarli con un blocco assiduo, soffocante. Ecco per Nicia la tattica da scegliere. E non si potesse dire che loro, Ateniesi, battevano in ritirata piegati dalle paghe di soldati mercenari di cui erano invece immensamente più forti

Nicia nutriva ferma fede in questa soluzione, e vi insisteva con energia, poiché disponeva di ragguagli scrupolosi sul tenore di vita a Siracusa, sulle ristrettezze finanziarie che attanagliavano l’avversario sull’attività di un autorevole partito che, incline a favorire un vittorioso intervento ateniese nella politica siracusana, già da tempo negoziava con lui per sconsigliargli la partenza. Inoltre Nicia era preso da una confidenza più viva che in passato sulle felici probabilità d’imporsi, con le navi almeno.

Demostene però non voleva sentire ragioni. Alla fine, per tacitare il collega, propose un compromesso: togliere l’assedio, senza tornarsene ad Atene. Le truppe si sarebbero trasferite a Catania, da cui sarebbero partiti dei raid per saccheggiare le campagne di Siracusa, mentre la flotta, pur abbandonando il porto, avrebbe continuato in mare aperto, il blocco navale, sfruttando la sua superiorità. Nel frattempo, sarebbe stato spedito un messaggio all’Ecclesia nel chiedere di deliberare sul da farsi, esponendo le difficoltà dell’esercito. Se l’assemblea cittadina avesse proposto il ritiro, Nicia non si sarebbe più preoccupato della sua pellaccia e non avrebbe avuto più alibi.

Demostene però rifiutava energicamente l’idea di ostinarsi nell’assedio, a nessun prezzo: convenne che senza l’autorizzazione ateniese era proibito rimuovere l’esercito dalla Sicilia e che quindi si doveva prolungare la ferma delle truppe in quel paese. Ebbene, a suo giudizio, conveniva trasferirsi a Tapso e lì attendere, o a Catania: centri da cui con l’armata terrestre si sarebbero potute lanciare irruzioni a vasto raggio, per sostenersi con i frutti delle razzie e infliggere pesanti perdite al nemico.

Le navi sarebbero venute utili per provocare scontri in aperti tratti di mare, non in quegli angusti spazi che favorivano la tattica nemica. Al largo, con ampi spazi intorno, nei quali sfruttare adeguatamente il bagaglio di esperienza tecnica che tanto li elevava sulla marina siracusana, sarebbero state molto più ariose e libere le loro manovre d’assalto e di arretramento, senza che la distanza troppo scarsa dalle basi, tra l’altro rigorosamente delimitate, mortificasse lo slancio o compromettesse le ritirate. Per tagliar corto, non gli piaceva affatto quello sproposito di indugiare contro la cinta di Siracusa: urgeva toglier le tende, sgombrare, sparire in fretta. Eurimedonte, si associava al consiglio. Nicia opponeva il veto: e di qui insorsero ripensamenti e lentezze, misti al sospetto che l’ostinazione di Nicia mascherasse il possesso di qualche notizia segreta. In questo stato d’animo gli Ateniesi differirono ogni mossa e si trattennero in quella contrada.

Neanche questo andò bene a Nicia… Per cui, si decise di non decidere

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Published on October 18, 2021 02:21

October 17, 2021

Il Ginnasio di Akragas

Il ginnasio di Akragas è ubicato al margine settentrionale dell’agorà inferiore , occupando un settore mediano della città antica, posto tra la grande area pubblica dell’agorà, al centro dello spazio urbano, e l’imponente area sacra che occupa tutto il settore di sudovest della Collina dei Templi. Agorà inferiore che è generalmente identificata con l’area dell’attuale posteggio del Posto di Ristoro, sia sulla base di rinvenimenti operati negli anni ’50, che sulla scorta delle fonti che collocano il foro nei pressi del Tempio di Eracle (Cicerone Verr. II, 4, 43) e vicino alla porta dell’emporion (Porta IV o Aurea; Livio XXVI, 40).

L’edificio infatti si sviluppa alla base del sistema di terrazzamenti che in età ellenistica ha ridefinito i volumi delle pendici della collina su cui si impostava l’agorà di età greca e,successivamente, il foro della città romana, e si inserisce all’interno di un paesaggio urbano costruito di grande impatto scenografico i cui confronti sono stati trovati in ambito microasiatico e nei contesti archeologici delle isole del Dodecanneso.

La scoperta archeologica del complesso risale agli anni cinquanta del secolo scorso quando a seguito di profondi di lavamenti che avevano interessato l’area venne ritrovato parte del portico e di un lungo sedile che recava un’ iscrizione incompleta con dedica ad Eracle e ad Ermes da parte del ginnasiarca Lucio. Proprio la dedica ad Eracle e ad Ermes fece supporre al Moretti, che per primo studiò e pubblicò l’iscrizione che si dovesse trattare di un ritrovamento connesso ad un Ginnasio poiché, come è noto, tra le divinità venerate nei ginnasi la coppia Eracle-Ermes riveste un ruolo di primo piano, soprattutto a partire dall’età ellenistica.

Iscrizione che tradotta dal greco, dice

Durante il principato di Cesare Augusto, essendo flamine Lucio Egnazio, figlio di Lucio, della tribù Galeria (?)……ed essendo duoviri………. e Sesto….. E(gna)tio(?), figlio di Sesto, Rufo, Lucio (Egnatio?), figlio di Lucio, gimnasiarca degli Efebi e dei Neoteroi, a proprie spese dedica i sedili a Ermes e ad Eracle

Oltre alla datazione, l’iscrizione ci da informazioni sulla magistratura elettiva del duovirato in una città che in età augustea ottenne lo status di municipium e, contestualmente, la presenza del flamen, carica sacerdotale non meglio definita nell’iscrizione che la Fiorentini identifica con il Flamen Augusti, il che implica l’esistenza di un culto imperiale e del gimnasiarca, una sorta di direttore sportivo della struttura.

L’indagine archeologica sistematica dell’area fu avviata solo agli inizi del 2000 ed i risultati sono stati pubblicati da Graziella Fiorentini nella prima monografia dedicata agli edifici pubblici di Agrigento Romana. Allo stato attuale delle ricerche, dell’edificio del ginnasio, databile ad età augustea, si conservano i resti di un esteso porticato in ordine dorico, allineato lungo l’arteria occidentale Nord-Sud del reticolato urbano, e una duplice fila di sedili contrapposti disposti lungo il tratto settentrionale di uno spazio identificabile con la pista allo scoperto.

Ogni fila è suddivisa in due settori, ciascuno delimitato da braccioli, mentre uno spesso strato di intonaco ricopriva i sedili che conservano parte di una lunga iscrizione in lettere greche di età augustea (essa si integra con quella a suo tempo trasferita al Museo di Agrigento). Da tali sedili le autorità cittadine assistevano alle esibizioni o alle sfilate degli atleti.

Il portico si apriva su una pista scoperta larga 9,50 m, la cui pavimentazione era costituita da un battuto disabbia e argilla e, in alcuni tratti, da tritume di pietra arenaria ben pressata. La pista, nella parte terminale verso nord,si collegava ad una rampa di lastre di tufo, oggi interrotta da un vallone, che probabilmente doveva essere in relazione con una vasca che si trova a Nord di questo.

La vasca, di notevoli dimensioni,costruita in blocchi di arenaria e rivestita da uno spesso strato di malta idraulica, conserva le tracce di un sistema di adduzione delle acque costituito da un canale realizzato con tubuli fittili e di un sistema di deflusso costituito da un poderoso canale realizzato in blocchi di tufo parallelo al portico ed in pendenza verso Sud. Il sistema di adduzione e di deflusso doveva permettere il riciclo continuo dell’acqua al suo interno. La presenza di una vasca con acqua sempre pulita è un tratto degno di rilievo del Ginnasio di Agrigentum, segno di un progetto ben articolato dell’intero complesso e di attenzione verso le esigenze degli atleti che dovevano lavarsi prima e dopo gli allenamenti.

Risulta abbastanza convincente l’interpretazione funzionale degli ambienti finora riportati alla luce, il portico infatti sarebbe stato uno xystos, per esercitazioni e per gare al coperto, mentre la pista scoperta corrisponde alla paradromis, struttura per la corsa all’aperto. A proposito del portico e della sua funzione ci sembra molto interessante la presenza di piccoli contenitori di forma ovale e bocca circolare scavati all’interno dei blocchi di arenaria che costituiscono lo stilobate e le fondazioni che lo sostengono, posti negli intercolunni e alimentati attraverso piccoli canali che dovevano accogliere l’acqua piovana che proveniva dal tetto del portico. I contenitori potrebbero essere interpretati come contenitori per l’acqua, indispensabile per le pratiche atletiche, che, come sappiamo da numerosi documenti epigragifici riferibili ad inventari ritrovati in contesti ginnasiali, erano presenti all’interno degli edifici come elementi di arredo mobile.

Dato che nel I sec. d. C. in Sicilia i ginnasi hanno smesso la funzione di luoghi di addestramento militare, la struttura di Akragas era essenzialmente un luogo di educazione e di formazione atletica, ispirata ai modelli della paideia greca all’interno di una città che ancora in età imperiale, nonostante le profonde trasformazioni determinate dall’apporto culturale di Roma, rimane saldamente legata al suo passato e sente ancora fortissimo il suo legame con il mondo greco

Altri edifici e strutture di epoca più tarda (due edifici rettangolari speculari con orientamento Nord-Sud e un edificio circolare, con basi di pietra quadrangolari all’interno lungo il muro perimetrale, che interferisce in parte con le strutture del ginnasio) sono ascrivibili ad un complesso a destinazione pubblica di epoca costantiniana (IV secolo d.C.), interpretati dagli archeologi come magazzini o mercati coperti.

Tra la fine del V e il VII secolo, in conseguenza delle invasioni vandaliche, l’area, perdute ormai le proprie funzioni pubbliche, viene destinata ad attività artigianali. Ben conservati il palmento realizzato nel VII secolo d.C. e le due fornaci per la produzione di ceramica dell’XI secolo d.C.

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Published on October 17, 2021 04:15

October 16, 2021

Santa Ninfa dei Crociferi

Poco nota ai turisti, nonostante la sua bellezza, a causa anche dei lunghi e tormentati restauri, insomma, era messa abbastanza male, è la chiesa di Santa Ninfa dei Crociferi, a via Maqueda. Come accennato altre volte, sino a fine Cinquecento, Palermo mantiene un’impostazione urbanistica che, vuoi o non vuoi, era ancora quella data dai Fenici, incentrata sull’asse Paleopolis, la zona del nostro Palazzo dei Normanni, Cala, che all’epoca come porto era molto più esteso. Il fulcro di tutto, ovviamente, era il nostro Cassaro.

Questa impostazione della città, però, cominciava a mostrare i suoi limiti, sia in termini di viabilità, sia per le esigenze commerciali della borghesia locale e per quelle di rappresentanza dei nobili, mancava lo spazio per i grandi palazzi. In più era emersa la necessità di valorizzare le tenute agricole. Tutto questo convinse i veceré spagnoli e il Senato cittadino ad avviare un’ambizioso piano di ristrutturazione della città.

Fra il 1567 e il 1581 il Cassaro, che da allora all’unità d’Italia verrà chiamato via Toledo dal nome del viceré in carica, fu rettificato e prolungato sia a monte che a valle. La nuova via tagliava così nettamente in due parti la città ed assunse il carattere di asse direzionale lungo il quale si dislocavano le principali attrezzature urbane. Si costruirono anche due nuove porte ai suoi estremi: Porta Nuova, a sud-ovest, fu progettata nel 1569 e costruita a partire dal 1583; Porta Felice, a nord-est, prese il nome di donna Felice Orsini, la molto cornificata moglie del viceré Marcantonio Colonna, il vincitore di Lepanto, e fu realizzata tra il 1582 e il 1632.

Il 4 novembre 1597 il Senato Palermitano, dopo una ventina d’anni di discussioni, grazie alle pressioni del viceré Don Bernardino Cardines duca di Maqueda, uomo di poche chiacchiere e pure troppe azioni, deliberò la costruzione della Strada Nuova o Maqueda. Lo stesso vicerè il 24 luglio del 1600 diede il primo colpo di piccone che avviò i lavori.

La nostra strada tagliava ortogonalmente la via Toledo nella sua parte mediana, divideva così la città in “quattro nobili parti”, operando a Palermo una radicale ristrutturazione urbanistica. Si trattava di un’operazione senza precedenti nell’Europa dell’epoca, che richiese sventramenti di case, chiese, importanti monumenti, tagli di giardini e campi, riempimento di paludi, stagni, canali e vecchi alvei di fiumi, demolizioni a tappeto per oltre 1400 metri in piena città. Lo sventramento, però, non intaccò le aree interne, ma mantennero un’organizzazione degli spazi, che vuoi o non vuoi, era ancora quella arabo normanna.

La costruzione dei Quattro Canti, avviata il 21 dicembre 1608 dal viceré don Juan Fernàndez Pacheco, marchese di Villena, e definitivamente completata nel 1663, nobilitò, con la sua sfarzosa teatralità, il nuovo crocevia dando origine – secondo le testimonianze del tempo – alla

più superba e beninteso fabbrica non pur nella nostra città; ma etiandio nell’Universo; tanto è mirabile e sopra ogni pensiero umano

Il progetto iniziale, concepito con grande monumentalità dall’architetto fiorentino (o romano) Giulio Lasso, fu portato a compimento nel 1620 dal palermitano Mariano Smeriglio (1561 – 1636), ma le opere collaterali di fregi in stucco, statue e fontane, si protrassero almeno fino al 1663.

Ovviamente, la Strada Nova dovette essere nobilitata con la costruzione di chiese: una delle prime fu proprio quella Santa Ninfa dei chierici regolari Ministri degli Infermi, meglio noti come Crociferi, ordine fondato da San Camillo de Lellis, sì quello che ha dato nome all’ospedale romano.

Camillo, originario dell’Abruzzo, aveva intrapreso la carriera militare seguendo le orme del padre, ma una piaga al piede lo costrinse a trascorrere un lungo periodo presso l’ospedale di San Giacomo degli Incurabili a Roma; giudicato guarito, tornò alla sua professione. Dopo essere stato congedato venne assunto come inserviente dai frati cappuccini di Manfredonia, presso i quali maturò la sua vocazione religiosa e iniziò il noviziato.

La riapertura della sua antica ferita lo costrinse a far ritorno all’ospedale di San Giacomo: durante questo soggiorno a Roma, conobbe Filippo Neri, che pure lavorava al San Giacomo, e si pose sotto la sua guida spirituale. Dopo quattro anni riprese il noviziato presso i cappuccini di Tagliacozzo, ma la sua piaga lo costrinse a far ritorno a Roma dove maturò definitivamente la sua vocazione al servizio degli ammalati.

Camillo venne nominato maestro di casa dell’ospedale San Giacomo, con l’incarico di amministrare l’ospedale e dirigerne il personale. Il 15 agosto 1582, osservando gli infermieri al lavoro, ebbe la prima intuizione di istituire una compagnia di uomini “pii e da bene” che lavorassero al servizio dei pazienti non per la retribuzione, ma

volontariamente e per amor d’Iddio … con quella charità et amorevolezza che sogliono far le madri verso i lor proprii figliuoli infermi”

E proprio questi volontari, divennero i nostri Crociferi. Tornando a Santa Ninfa, la costruzione della chiesa fu iniziata il 10 agosto 1601, proprio alla presenza di Camillo. Così un suo biografo dell’epoca descrive l’evento

Visitò poi la Sicilia, e prima la Casa di Palermo, dove andò à Golfo Lanciato con cinque Galee di Spagna, nella qual Città mai piu non era stato fin dal tempo, che fù soldato, quando ivi si giuocò ogni cosa: Dove fù questa volta con tanta divotione ricevuto, che l’istesso Vicerè Duca di Maqueda, essendo andato Camillo a visitarlo, lo vidde, e raccolse con tanta riverenza, che sempre gli parlò scoperto et in piedi. Anzi si compiacque il medesimo Vicerè, con l’intervento dell’Arcivescovo D. Diego d’Aedo, che benedisse, e consacrò la prima pietra della nostra Chiesa di Santa Ninfa, di buttarla esso ne’ fondamenti con sollenne pompa, et apparato nella presenza di Camillo, per la gran divotione, che gli portava: il che fù nel fine d’Agosto

Ma chi è questa Santa Ninfa ? Una delle cinque patrone di Palermo, con Rosalia, Agata, Oliva e Cristina. Secondo una Passio manoscritta risalente al XII secolo, Ninfa sarebbe stata figlia di Aureliano, prefetto di Palermo al tempo di Costantino, cioè agli inizi del IV secolo. Per la conversione di Ninfa al cristianesimo fu decisivo l’incontro e la frequentazione del vescovo di Palermo, Mamiliano. Il padre, Aureliano, cercò in tutti i modi di far recedere la figlia dalla nuova religione, fece persino arrestare Mamiliano con duecento altri cristiani e li sottopose a torture. Poiché ogni tentativo risultò vano, li fece rinchiudere in carcere, ma un angelo li liberò e li condusse in riva al mare, dove trovarono pronta una barca per prendere il largo. Si diressero verso nord e viaggiarono per mare fino all’isola del Giglio, dove rimasero qualche tempo in preghiera e solitudine.

Il desiderio di visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo li spinse a raggiungere la città di Roma, dove Mamiliano morì subito dopo aver realizzato il suo desiderio e Ninfa lo fece seppellire vicino al mare, ad un miglio da una località denominata Bucina. Un anno dopo, esattamente il 10 novembre, dopo un lungo periodo di stenti, anche Ninfa morì e fu sepolta in una cripta, sempre a Bucina. Gli abitanti del luogo, in seguito all’afflizione provata durante un periodo di siccità, pregarono la santa di intercedere presso Dio affinché piovesse. Si verificò il tanto desiderato miracolo e i fedeli cominciarono a venerarla come una santa.

Le prime notizie riguardanti santa Ninfa risalgono ad un documento pontificio di papa Leone IV (847-855), che cita la chiesa della beata Ninfa martire, nella città di Porto. Successivamente le reliquie della santa furono collocate nella chiesa di San Trifone in Posterula (nel 1113), nella Cattedrale di Sant’Agapito martire a Palestrina (nel 1116), e nella Basilica di San Crisogono a Roma (nel 1123). Fino al 1593, la sua testa era venerata nella chiesa romana di Santa Maria in Monticelli, dove fu portata nel 1098, durante il pontificato di Urbano II. Grazie all’interessamento della moglie dell’allora viceré De Olivares, le reliquie di Ninfa furono traslate a Palermo per essere solennemente deposte nella Cattedrale. Quel solenne ritorno delle reliquie di Santa Ninfa , giunte su un carro trionfale, diventarono poi modello per il futuro Festino di Santa Rosalia.

Tornando alla nostra chiesa, dato che la realizzazione dell’opera era stata incentivata dal Senato palermitano e sovvenzionata con donazioni di nobili famiglie palermitane spinte dalla stima nei confronti del servizio offerto dai crociferi ai sofferenti ed ai moribondi, i nostri religiosi fecero le cose in grande: a Roma idearono un progetto monumentale, che adattato in loco a cura del capomastro Giovanni Macolino. Dato che i crociferi sopravvalutarono di parecchio il budget a disposizione, i lavori proseguirono a passo di lumaca, tanto che la chiesa fu aperta al culto nel 1660, ma ancora priva della facciata e dei decori interni.

La facciata, ideata da Ferdinando Lombardo e concepita secondo gusti rinascimentali, fu iniziata nel 1687 e venne ultimata solo attorno al 1750, dal buon Giuseppe Venanzio Marvuglia, che la terminò nel 1760: dato che i Crociferi, di architettura ne capivano assai, il nostro genialoide preferito fu tenuto sotto controllo e non prese una delle sue solite strambe iniziative.

Ma cosa visitare in questa chiesa ? Cominciamo dalla facciata, in pietra d’Aspra,che si ispira alle linee tardo cinquecentesche degli edifici romani. Articolata su due livelli, sia nel primo che nel secondo coppie di paraste poste a fianco delle aperture, sono collegate tra di loro da una trabeazione; il primo livello si rifà ai caratteri dell’ordine dorico, il secondo a quello ionico. La parte centrale, fortemente elevata, è coronata da un frontone al cui interno campeggia lo stemma dei Crociferi affiancato da festoni; essa presenta un’ampia finestra sormontata da timpano curvilineo, si raccorda mediante volute decorate con festoni a stucco alle due ali laterali, ai cui estremi svettano snelle piramidi; i festoni e gli altri decori in stucco dell’intera facciata sono opera di Luigi Romano.

Si entra tre portali rettangolari, i due minori timpanati, tutti e tre sormontati da rilievi in stucco istoriati: i due riquadri laterali, raffiguranti a sinistra S. Camillo che cura gli infermi e a destra S. Camillo che pone la prima pietra della chiesa di S. Ninfa, sono opere di Vittorio Perez, quello contenuto entro una cornice ellittica, sul portale maggiore, che mostra il Martirio di S. Ninfa, è invece opera di Gaspare Firriolo.

La pianta della chiesa è quella tipica della Controriforma, derivato dalla romana Chiesa del Gesù del Vignola e presenta lo schema a croce, con un ampio presbiterio quadrato al termine di un’unica ampia navata coperta da volta a botte lunettata, affiancata da profonde cappelle tra loro comunicanti. All’incrocio del braccio longitudinale con il transetto doveva essere prevista una cupola, ma mancando i soldi, ispirandosi a quanto fatto da Andrea Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma, nel XIX sec., fu dipinta a “trompe l’oeil” sul soffitto piano una falsa cupola, opera di Gaetano Riolo, fratello di Vincenzo, scenografo del Real Teatro Bellini di Palermo. Nei quattro pennacchi, Giovanni Li Volsi ha dipinto gli Evangelisti.

Accanto all’ingresso della chiesa, vi sono due peculiari monumenti funebri. Il primo è quello di Lord Acton, il comandante della flotta navale del Granduca di Toscana, Pietro Leopoldo, che giunse in Sicilia su richiesta della sorella dello stesso Granduca, la regina di Napoli, Maria Carolina. Fu proprio grazie all’azione svolta da Acton che i Borbone poterono ottenere (in funzione antinapoleonica) l’appoggio navale degli inglesi. Quando i sovrani fuggirono da Napoli e giunsero a Palermo, ebbero al loro seguito l’intera corte, compreso Lord Acton. Fu proprio in quel contesto che maturarono storie e dicerie popolari su tresche e scandalosi amori: si parlò addirittura, oltre che di una relazione tra lo stesso Lord Acton e la regina, anche di una presunta tresca tra la stessa Maria Carolina e la moglie dell’ambasciatore Hamilton; tresca che tra l’altro venne anche rappresentata all’interno della Certosa di Bagheria, un bizzarro museo delle cere (oggi museo del giocattolo Piraino) voluto dall’eclettico Ercole Michele Branciforte Pignatelli alla fine del XVIII secolo. A quanto pare Acton aveva trovato a Palermo il modo per accomiatarsi dalla vita politica, avendo sposato a sessantaquattro anni la nipote di tredici anni, da cui tra l’altro ebbe tre figli.

L’altro personaggio il cui monumento funebre si trova vicino l’ingresso della navata di destra della chiesa di Santa Ninfa ai Crociferi, è invece Giuseppe Maria Jurato, giudice della Gran Corte Civile e ricco borghese. Si narra che, dopo aver edificato il palazzo che oggi si affaccia ai Quattro Canti, sul cantone di Santa Ninfa (oggi conosciuto come palazzo Rudinì) il giudice se ne vantasse, soprattutto per disprezzare l’aristocrazia del tempo. Jurato, infatti, per farsi beffe dell’aristocratico dirimpettaio, il ricco Giuseppe Miserendino, una volta terminati i lavori sembra avesse fatto affiggere sul portone d’ingresso la scritta latina “remis et non velis” (“con remi e non con vele”) una chiara allusione al fatto che egli, contrariamente ai nobili, con abnegazione e sacrificio e senza illustri discendenti, fosse stato in grado di raggiungere gli stessi risultati.

La prima cappella del lato destro, un tempo sotto il patronato della famiglia Bologna, è quella dedicata a San Giuseppe, opera dell’architetto crocifero Giuseppe Clemente Mariani. Al suo interno vi si possono ammirare pregevoli opere attribuite al fiammingo Guglielmo Borremans: sull’altare centrale il dipinto che raffigura “il transito di San Giuseppe”, nelle pareti laterali entro cornici ovali, troviamo a sinistra “la Sacra Famiglia” e a destra “San Giuseppe falegname”. La cappella successiva è dedicata a San Venanzio: sopra l’altare a marmi policromi, inserita dentro un’interessante composizione scultorea in stucco con due angeli, opera di Giacomo Serpotta su disegno di Giacomo Amato, si trova un dipinto realizzato da un anonimo artista siciliano nel 1724, raffigurante il martirio di San Venanzio, eseguito su commissione di donna Margherita Castelli-Colonna principessa di Castelferrato. Sulla volta l’affresco dell’Eterno Padre attribuito al pittore palermitano Antonio La Barbera.

La terza cappella della parete di destra é quella del “Sacro Cuore di Gesù”; presenta, sopra un’altare di foggia neoclassica, una statua ottocentesca di pregevole fattura del “Cuore di Gesù”; sulla volta il dipinto che rappresenta la Madonna Assunta (XVIII secolo). Il cappellone e l’altare del transetto di destra, originariamente dedicati a Santa Ninfa oggi sono intitolati alla Madonna Addolorata. Sul sontuoso altare in granito con colonne binate si trova un manufatto ligneo che raffigura l’Addolorata, dell’artista trapanese Giuseppe Milanti. Alle pareti due statue di profeti; a destra “Geremia” di Gaspare La Farina e a sinistra “Simeone” opera di Andrea Sulfarello. In origine sopra l’altare si trovava una pala che raffigurava “Santa Ninfa” dipinto di Filippo Palladini, oggi non più esistente. Nelle pareti laterali, prima di arrivare al transetto, sia a destra che a sinistra si trovano due balconcini tipicamente barocchi, retti da putti alati scolpiti in legno dorato.

L’ampio presbiterio, riccamente ornato di stucchi dorati e di elementi decorativi, fu costruito tra il 1624 e il 1649. Lo sfondo è occupato quasi interamente dalla grande pala d’altare preziosamente incorniciata da un volo d’angeli in stucco, che raffigura le “Quattro Sante Patrone della città”, Ninfa, Agata, Rosalia e Oliva, con la Vergine, San Giuseppe e la S.S. Trinità, opera magistrale di Gioacchino Martorana del 1768, commissionata da donna Francesca Perollo marchesa di Lucca. Anche gli affreschi delle pareti del coro e della volta sono attribuiti al Martorana; a destra troviamo San Gregorio e San Girolamo, a sinistra San Agostino e S. Ambrogio. Sulla volta sempre di G. Martorana, entro una cornice mistilinea, il “Trionfo della Croce” tra i santi Andrea e Pietro. Il magnifico altare maggiore, in marmi policromi, fu disegnato da G.Venanzio Marvuglia.

Nel cappellone del transetto di sinistra troviamo il monumentale altare dedicato a San Camillo de Lellis, originariamente intitolato a San Carlo Borromeo. L’elegante altare ligneo a finto marmo è del 1742. La pala al centro dell’altare che rappresenta “San Camillo che sta per salire al cielo” è probabile opera di Gaspare Serenario. In basso, entro una teca, sono poste alcune reliquie del santo e un busto in cera ricavato subito dopo la sua morte. La cappella che segue, la terza entrando da sinistra, e la “Cappella del Crocifisso” già della famiglia Marassi. Statue in stucco, interpretati qui con mano felice da Giacomo Serpotta, raffigurano “la Triade Dolorosa” con la Madonna, la Maddalena e San Giovanni ai piedi del magnifico crocifisso ligneo dell’altare. Nel pavimento, la cripta della famiglia di G.B.Marassi e ai lati due monumenti funebri di membri della stessa famiglia.

Più avanti la cappella della “Madonna della salute”, un tempo intitolata ai santi Liberale ed Evanzia. Ai lati dell’altare, in marmi policromi, le statue in stucco di scuola serpottiana, che raffigurano “La Giustizia” a sinistra e “La Penitenza” a destra. I due affreschi posti sugli archi di comunicazione si riferiscono ai santi Liberale ed Evanzia. Infine, la prima cappella da sinistra dedicata a S. Rosalia con affreschi (in stato di forte degrado) di Alessandro D’anna che raffigurano “S.Filippo Neri in gloria”, a destra e “S.Maddalena in penitenza” a sinistra. Al centro dell’altare possiamo ammirare la statua lignea di S.Rosalia proveniente dalla cinquecentesca chiesa della “Madonna delle Grazie dei Macellai” semidistrutta dai bombardamenti del 9 maggio del 1943.

La Casa Professa dei Crociferi, in cui è presente l’Oratorio della Oratorio della Santissima Carità di San Pietro, di cui ho parlato in passato, fu costruita nella prima metà del ‘600 e, lungo i secoli ha avuto una storia tormentata. Nel 1866 è passata al pubblico Demanio che l’ha adibita a sede di uffici pubblici. Attualmente è in parte occupata dalla Scuola Superiore di Economia e Finanza “E. Vanoni” ed in parte adibita a canonica. Il fulcro di tutto costituito da un porticato che si sviluppa su tre corsie con in ogni lato sette arcate a tutto sesto,al centro tra le piante v’è un’ancora posta in memoria di marinai morti in mare.Dal chiostro diparte uno scalone in marmo rosso alla cui fine è posta una bellissima statua di San Camillo opera di Giacomo Serpotta.

Anche se poco lo sanno, sotto la chiesa vi è anche la Cripta in cui erano seppelliti i membri della Confraternita della Santissima Carità di San Pietro, risale al 1787. Una rampa di scale da accesso ad un ambiente coperto da volta a botte lunettata. Alle pareti sono scavati 35 loculi orizzontali, oggi quasi totalmente privi di resti mortali. Ad est è l’altare, privo di immagine, mentre sulla parete opposta, entro una cornice, vi è una lapide

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Published on October 16, 2021 06:01

October 15, 2021

Gli esordi di Giorgione nella pittura religiosa

In parallelo alla sua attività di street artist, Giorgione si dedicò alla più tradizionale attività di pittore su cavalletto, incentrato sui prodotti che, all’epoca, andavano per la maggiore nella Venezia dell’epoca: Sacre Conversazioni, finalizzata alla devozione privata, portate alla moda da Giovanni Bellini, Ritratti, in cui la borghesia locale, per celebrare il suo successo economico, comincia a imitare la nobiltà delle corti padane, nella rappresentazione di sé e delle sue aspirazioni e quadri che potremmo definire dei rebus, il cui significato è noto solo al committente.

La diffusioni di quest’ultimi è anche legata al successo dell’Hypnerotomachia Poliphili, letteralmente “Combattimento amoroso di Polifilo in sogno”, è un romanzo allegorico, stampato a Venezia da Aldo Manuzio il Vecchio nel dicembre 1499, con 169 illustrazioni xilografiche. Il racconto descrive un sogno erotico del suo protagonista, Polifilo. Si tratta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico. Il viaggio iniziatico richiama alla mente quello di un altro grande romanzo dell’antichità, le Metamorfosi di Apuleio.

Ora, non sappiamo nulla di chi la scrisse, né dell’autore delle illustrazioni: sul primo, però abbiamo un indizio. La prima lettera di ogni capitolo, decorata in modo elaborato, forma un acrostico:

POLIAM FRATER FRANCISCVS COLVMNA PERAMAVIT

ossia

fratel Francesco Colonna amò intensamente Polia

dove frater poteva avere sia il significato di frate, sia di membro di un sodalizio culturale. In ogni caso, l’autore dove conoscere a fondo sia l’architettura e la cultura classica e doveva essere influenzato dalla visione filosofica di Gemisto Pletone. Si sa ancora meno circa l’autore delle illustrazioni, ma i contemporanei ritenevano che fosse Benedetto Bordon, uno dei principali incisori e miniatori veneti di quel tempo. Ovviamente, per soddisfare queste commissioni private, Giorgione doveva avere una bottega: dato che all’epoca, come oggi, i locali a Venezia costavano un occhio della testa, per affittarne uno, l’artista dovette dividere le spese con un socio.

Si trattava di Vincenzo Catena, poco più grande di lui, era nato infatti nel 1470, che si dedicava principalmente ai ritratti e che rispetto a Giorgione, aveva probabilmente una formazione differente: invece che essere cresciuto nella bottega di Giovanni Bellini, Vincenzo, un altro outsider, proveniente dalla provincia, non quella euganea, ma dalla Dalmazia, era stato prima un allievo dei fratelli Vivarini, per poi avvicinarsi allo stime di un grande e sottovalutato pittore, Cima da Conegliano. Solo dopo la morte del socio e le commissioni di umanisti come il Bembo ed il Trissino, Vincenzo si accostò alle atmosfere artistiche elaborate da Giorgione. Che i due artisti fossero in ottimi rapporti, lo testimonia un’iscrizione presente sulla Laura del maestro di Castelfranco

1506. adj. primo zugno fo fatto questo de mā de maistro zorzi da chastel fra… cholega de maistro vizenzo chaena ad istanzia de mis giacmo…”.

Detto questo, cominciamo a esaminare i dipinti religiosi di Giorgione di quegli anni, tenendo che ahimé ne sono rimasti pochi e dall’attribuzione controversa. Senza dubbio, debbono essere stati più numerosi: la richiesta di questa tipologia di quadri infatti fu trainata dalla diffusione a Venezia della devotio moderna, movimento di rinnovamento spirituale che auspicava una religiosità intima e soggettiva e che aveva uno dei suoi punti saldi nella imitatio Christi, ovvero nell’aspirazione a percorrere la via della perfezione evangelica migliorando se stessi sull’esempio del Cristo.

Le immagini, quindi erano visti come strumento di meditazione e di supporto alla preghiera: ricordiamo come n Italia la «Devotio moderna» ha i suoi centri in S. Giorgio in Alga a Venezia con S. Lorenzo Giustiniani e in santa Giustina di Padova con Ludovico Barbo, entrambi membri delle principali famiglie del patriziato della Serenissima. Sempre a Venezia, fu pubblicata nel 1488 la prima tradizione italiana dell’Imitatio Christi di Tommaso da Kempis.

La prima di queste opere di Giorgione, anche se alcuni la attribuiscono a un giovanissimo Sebastiano del Piombo, è la Madonna col Bambino e i santi Caterina d’Alessandria e Giovanni Battista, conservata alle Galleria dell’Accademia. Il dipinto fu donato nel 1838, a seguito di un lascito di Girolamo Contarini. All’interno di una stanza con una finestra che si apre su paesaggio collinare e un piccolo borgo, la Madonna tiene sulle ginocchia Gesù bambino. Sul lato destro, Caterina d’Alessandria, con la ruota dentata del martirio, e Giovanni Battista con la croce. La croce è priva del cartiglio;con la scritta “Agnus Dei”, ma preannuncia comunque la futura crocifissione di Cristo sul Golgota.

Nella Devotio Moderna, il culto di Santa Caterina d’Alessandria aveva un ruolo fondamentale, a causa della leggenda che raccontava la sua visione della Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola sponsa Christi, obiettivo dell’anima di qualsiasi cristiano. Cosa che fu ampliata anche da un altro bestseller dell’epoca, le visioni della mistica tedesca Matilde di Hackeborn, a cui apparve in visione Caterina, tra l’altro ci sono forti dubbi sulla sua effettiva esistenza storica: entrambe ebbero un dialogo sul significato di un canto in suo onore, sulle sue nozze mistiche con Gesù e sull’Eucaristia, altro fulcro della religiosità dell’epoca. Uno dei brani, infatti diceva

La mia bellezza è quello splendore e quella dignità che Cristo diffonde sopra i suoi fedeli, ornandoli della ricca porpora del suo Sangue. Orbene, sappi che questo splendore si rinnova e si accresce ad ogni Santa Comunione; chi si comunica una volta raddoppia questo splendore; ma chi si comunica cento e mille volte, altrettanto aumenta questa bellezza dell’anima sua

Meno controversa, è l’attribuzione a Giorgione del quadro Madonna col Bambino in un paesaggio conservata a San Pietroburgo: sempre per rispondere a questa richiesta di pittura religiosa destinate alla case private, gli artisti veneziani si dedicavano alla proposizione di nuove iconografie. Ad esempio invece di mettere la Madonna su un trono, circondata da santi, iniziava ad essere frequente la sua collocazione nel paesaggio, ampliando il concetto di giardino mistico.

Giorgione interpretò questo tema, raffigurando Maria seduta di tre quarti verso sinistra, spostata rispetto all’asse del dipinto e piegata verso il Bambino che tiene sulle ginocchia, mentre si protende con il braccio destro per tenergli il capo addormentato. Gesù è nudo, mentre la Madonna indossa un’inconsueta veste verde e rossa, che spicca con un panneggio pesante e sovrabbondante rispetto allo sfondo paesistico, impostato sulle tonalità del verde, del giallo e del marrone, oltre al cielo azzurrino nel quale si confondono, per effetto della foschia, le montagne più lontane. La rappresentazione è altamente lirica, con un legante luminoso dorato che crea un effetto caldo e pacatamente intimo, fondendo le figure col paesaggio.

Il culmine di questa produzione è ne La Sacra Famiglia Benson, un dipinto a olio su tavola, conservato nella National Gallery of Art a Washington. L’opera proviene forse dalle collezioni di Carlo I d’Inghilterra, passata poi a Giacomo II, che la vendette facendola finire al mercante Allart van Everdingen, residente tra Haarlem e Amsterdam. Sarebbe poi passata in Francia e attraverso varie collezioni sarebbe infine comparsa sul mercato nel 1887. Nel 1894 era nelle collezioni londinesi di Robert Henry Benson, che diede il nome all’opera. Nel 1927 la sua intera collezione d’arte venne venduta, tramite i Duveen Brothers, a Samuel H. Kress, che poi la donò alla nascente galleria nazionale americana nel 1952.

Giorgione, per suggerimento o influenza del suo socio Vincenzo Catena, adotta un’iconografia che era stata inventanta da Alvise Vivarini: la Sacra famiglia è raccolta attorno al Bambin Gesù, che si divincola tra le braccia di Maria come un vero neonato, in una rovina, che rappresenta il Mondo Pagano, in cui si apre un arco che inquadra un paesaggio, metafora del mondo dell’Antico Testamento, dominato da una torre. Ricordiamo che uno degli attributi della Vergine nelle litanie mariane è Turris Eburnea: questo perché Maria, nata sotto la Vecchia legge, ha svolto il ruolo di “ponte”, con la Nuova. Giuseppe siede su un muretto grezzo, mentre la Madonna è assisa su una roccia nuda, cose che si riferiscono all’incompletezza del mondo prima della venuta di Cristo.

Se nella la postura delle figure il quadro ricorda il “protoclassicismo” di Lorenzo Costa, mentre la fisionomia di Giuseppe riecheggia Giovanni Bellini; se l’influenza belliniana è abbastanza scontata, più complesso da definire è il legame con il pittore ferrarese. Lorenzo è probabilmente compie un breve viaggio a Venezia nel 1490, ma la data è troppo bassa, per ipotizzare un legame diretto con Giorgione. Si potrebbe invece ipotizzare un viaggio, altrettanto breve, di Giorgione a Bologna e Ferrara: ora, Lorenzo è il primo, nella pittura italiana, con il Concerto della National Gallery di Londra, ha rappresentare questo tema nella pittura italiana, non episodio musicale all’interno di un diverso e più ampio contesto, ma vero e proprio triplice ritratto di cantori. Il fatto che Giorgione sia uno dei primi a proporre questa tipologia di quadro a Venezia, con le cosiddette Tre età dell’Uomo, è un ulteriore di indizio di un possibile contatto diretto.

Nel quadro, poi ci sono, sia nella descrizione dei dettagli minuti in primo piano, sia nel il panneggio sovrabbondante e dalle pieghe secche, come increspate nella carta, in richiamo all’arte nordica, dovuta sia alla diffusione delle stampe tedesche, sia al possibile soggiorno veneziano di Hyeronimus Bosch, magari ne parlerò in un altro post, tipicamente giorgionesca è invece la predominanza del colore, che determina il volume delle figure, steso in strati sovrapposti senza il confine netto dato dal contorno, che tendono così a fondere soggetti e paesaggio, quasi a preannunciare il tonalismo delle grandi opere successive.

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Published on October 15, 2021 05:44

October 14, 2021

Vita e Morte di Pico della Mirandola

Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine

E’ un brano dell’Oratio de hominis dignitate, con cui Pico della Mirandola da una delle più belle definizioni della Natura Umana. Pico, detto fra noi, è un personaggio straordinario, che se fosse vissuto nel mondo anglosassone, gli avrebbero dedicato decine di romanzi e di film: in Italia, purtroppo, è conosciuto, più o meno, per la sua proverbiale memoria e per essere stato l’ispirazione del nome italiano dello zio di Paperino, Ludwig von Drake, il nostro Pico de Paperis, noto per il suo spropositato numero di lauree, spesso bizzarre o inutili.

Pico nasce il 24 febbraio 1463 a Mirandola, presso Modena, il figlio più giovane di Gianfrancesco I, signore di Mirandola e conte della Concordia (1415-1467), e sua moglie Giulia, figlia di Feltrino Boiardo, conte di Scandiano. Come si può intuire, tutto si può dire, tranne che fosse un morto di fame: La famiglia aveva a lungo abitato il castello di Mirandola, città che si era resa indipendente nel XIV secolo e aveva ricevuto nel 1414 dall’imperatore Sigismondo il feudo di Concordia. Pur essendo Mirandola uno stato molto piccolo, i Pico governarono come sovrani indipendenti piuttosto che come nobili vassalli. I Pico della Mirandola erano strettamente imparentati agli Sforza, ai Gonzaga e agli Este, e i fratelli di Giovanni sposarono gli eredi al trono di Corsica, Ferrara, Bologna e Forlì.

Dopo la morte del padre, si scatenano una serie di discussioni sulla divisione dell’eredità, che porta a un accordo tra i suoi tre fratelli maggiori, nel 1469: Pico, sotto la tutela della madre, riceve un vitalizio: l’idea è che, da buon cadetto, prenda gli ordini sacri e si arricchisca con la carriera ecclesiastica, collezionando benefici. A tal proposito, nel maggio o nel giugno del 1473 il cardinale Francesco Gonzaga conferisce a Pico in Bologna il titolo di protonotario apostolico. Ora, con il ritorno del Papa a Roma da Avignone, era sorto il problema di riorganizzare tutta l’ammistrazione della Curia Pontificia; sette notari che assunsero il nome di protonotari, cioè di “primi notari” e avevano il compito di stendere gli atti apostolici della Curia romana, da cui l’aggettivo “apostolici”.

Ovviamente, il numero iniziale si dimostrò insufficiente alle esigenze burocratiche: per cui furono creati i soprannumerari, possiamo definirli notai aggiuntivi e gli ad instar participantium, provvisori, che servivano a gestire improvvisi carichi di lavoro. Dato che questa carica dava potere, soldi e prestigio, si scatenò la corsa per ottenerla. Per evitare problemi e casini, fu istituita una sorta di preselezione, con la nomina dei titolari, una sorta di riserva: questi non facevano parte dell’organigramma della Curia pontificia, non percependo stipendio e non godevano di eventuali benefici ecclesiastici. Però, in caso di morte o indisposizione di un titolare, avrebbero avuto la priorità nell’occupare questo ufficio. Dato che la preselezione era assegnata a vescovi e cardinali, questi non si fecero scrupolo di assegnare il ruolo a amici e parenti. Alla fine ci furono talmente tanti protonotari apostolici titolari, come nel caso di Pico, che questo si ridusse a poco più di un titolo onorifico.

Pico trascorre il biennio 1477-78, godendo di una sorta di borsa di studio pontificia, per studiare giurisprudenza, nell’Università di Bologna, città dove si era trasferita anche la madre Giulia, in lite con il figlio Galeotto, sempre par la questione dell’eredità. Giulia muore il 13 agosto 1478: Pico, che non vuole essere infognato nelle beghe familiari, trova un accordo con i fratelli. In cambio, ottiene un aumento del vitalizio e la possibilità di abbandonare gli studi giuridici e la carriera ecclesiastica e dedicarsi alla sua passione, lettere e filosofia.

Per questo si recò allo Studio di Ferrara, dove giunfe il 29 maggio del 1479 ma, in un mese imprecisato di quell’anno (con ogni probabilità nella primavera del 1479) si trasferisce brevemente a Firenze incontrando forse per la prima volta Marsilio Ficino, Agnolo Poliziano e Girolamo Benivieni, che lo ricorda poi nella sua Bucolica, stampata nel 1482. A Ferrara, dove soggirona tra il maggio 1479 e la tarda estate del 1480, stringe amicizia con Battista Guarino, conosce Niccolò Leoniceno e Tito Vespasiano Strozzi e probabilmente ha i primi contatti con Savonarola.

Nell’autunno del 1480 Pico si trasferisce a Padova per approfondire gli studi filosofici. Il soggiorno, che si protrae sino all’estate del 1482, gli permette di approfondire la conoscenza di Averroè e l’averroismo: a Padova, infatti, Pico ha modo di ascoltare Nicoletto Vernia e soprattutto di incontrare Elia del Medigo, proveniente da Creta, che all’epoca era una colonia veneziana, e già inserito nell’ambiente padovano.

Elia era un ebreo anticonformista e per usare un termine moderno, un libero pensatore, contrario a ogni superstizione: per lui, la conoscenza di Dio e del Mondo doveva basarsi sulla Ragione, non sul misticismo. Per questo, aveva studiato a fondoo Aristotele e soprattutto Averroè, di cui era in grado di leggere anche gli scritti e i commenti tradotti in ebraico nei secoli precedenti e non ancora noti ai latini. Il suo averroismo è in realta un tentativo di esegesi e di ricostruzione del pensiero originale Aristotele contro le mescolanze dottrinarie con il platonismo, dovute dell’avicennismo e della grande scolastica latina. Per questo, Elia ebbe un approccio genetico e filologico al pensiero di Averroè e di Aristotele, insegnando a Pico le stratificazioni temporali, di conquista successiva della verità, che si scorgono all’interno delle opere dei due filosofi. Cosa assa peculiare per l’epoca insegnamento non fu esercitato solo sui problemi dell’intelletto, che formavano l’interesse precipuo degli averroisti padovani, ma anche sulle questioni del corpus biologico e zoologico di Aristotele. Tra l’altro Elia, è uno dei primi a intuire la natura dei fossili, che lui interpreta come resti degli animali morti durante il diluvio universale.

Elia traduce per Pico durante questo primo soggiorno padovano parecchi commenti averroistici ignoti ai latini e continua a farlo anche quando Pico si allontanò da Padova, in particolare nel corso di due altri incontri che h con Pico: a Firenze nell’estate 1485 e a Perugia e Fratta nell’estate del 1486.

Nella primavera del 1482 Pico lascia Padova, probabilmente a causa dello scoppio della guerra tra la Repubblica veneta e il duca di Ferrara, e si rifugia a Mirandola, dove è raggiunto dal grande editore veneziano Aldo Manuzio. Presso Pico Aldo trova un greco, Emanuele Adramitteno, che il conte aveva condotto con sé da Padova come maestro di lingua: Emanuele, pur essendo un esperto umanista, era un uomo dalla profonda religiosità, in perenne polemica con i seguaci di Gemisto Pletone.

Questo umanista greco era accusato di essere neopagano: in realtà sosteneva, neppure a torto, che Ebraismo, Cristianesimo e Islam, non fossero che delle evoluzioni dell’antica religione di Zoroastro e per andare oltre le loro polemiche e divisioni e ristabile una nuova epoca di pace universale, bisognasse tornare a questa radice comune, creando una società ideale teocentrica fondata sul culto del dio Sole. Ovviamente, questo provocò uno sproposito di polemiche all’epoca. Ad esempio, l’umanista greco Giorgio da Trebisonda così racconta

Io stesso l’ho ascoltato a Firenze, poiché egli venne al Concilio insieme ai Greci, affermare che il mondo intero, dopo pochi anni, avrebbe aderito ad una sola ed identica religione, con un solo animo, una sola mente, un solo insegnamento. E quando io gli chiesi: ‘Quella di Cristo o di Maometto’?, egli rispose: ‘Nessuna delle due, ma una non diversa da quella dei Gentili’. Fui così scandalizzato da tali parole che l’ho sempre odiato e l’ho sempre temuto come una vipera velenosa, e non ho più potuto sopportare di vederlo o di ascoltarlo. Ho anche saputo da alcuni greci, che qui erano fuggiti dal Peloponneso, che egli aveva pubblicamente affermato, circa tre anni prima di morire, che – non molti anni dopo la sua morte – Maometto e Cristo sarebbero stati dimenticati e la effettiva verità avrebbe trionfato in ogni parte del mondo

Polemica che portò alla distruzione del suo Trattato sulle leggi, in cui si parlava dei questa società ideale e in cui è presente il suo inno al Sole, il cui incipit è il seguente

Apollo re,
tu che regoli e governi tutte le cose nella loro identità,
tu che unifichi tutti gli esseri,
tu che armonizzi questo vasto universo così vario e molteplice,
o Sole, Signore del nostro cielo,
sii a noi propizi

Pletone morì a Mistrà, la capitale del Despotato di Morea, nei pressi dell’antica Sparta, da cui deriva il nome del liquore, il 26 giugno 1452, quasi centenario. Il cardinal Bessarione, che lo stimava nonostante le differenti idee.

Ho saputo che il nostro comune padre e maestro ha lasciato ogni spoglia terrena ed è salito in cielo…per unirsi agli dèi dell’Olimpo nel mistico coro di Iacco. Ed io mi rallegro di essere stato discepolo di un tale uomo, il più saggio generato dalla Grecia dopo Platone. Cosicché, se si dovessero accettare le dottrine di Pitagora e Platone sulla metempsicosi, non si potrebbe evitare di aggiungere che l’anima di Platone, dovendo sottostare agli inevitabili decreti del Fato e compiere quindi il necessario ritorno, è scesa sulla terra per assumere le sembianze e la vita di Gemisto. Personalmente, dunque, come ho già detto, mi rallegro all’idea che la sua gloria si rifletta anche su di me; ma se voi non esultate per essere stati generati da un padre simile, voi non vi comporterete come si conviene, perché non si deve piangere un tale uomo. Egli è diventato motivo di grande gloria per l’intera Grecia; e ne sarà l’orgoglio dei tempi a venire. La sua reputazione non perirà, ma il suo nome e la sua fama saranno perennemente tramandati a futura memoria

Nè fu dimenticato da Sigismondo Malatesta, quello che Ezra Pound definiva il migliore perdente della Storia, che nel suo tentativo di liberare il Peloponneso dai Turchi, portò i suoi resti in Italia, per seppellirli nel Tempio Malatestiano di Rimini. Tornando a Pico, Emanuele Adramitteno, oltre a fargli approfondire la conoscenza dei classici, rafforza la sua profonda religiosità, che ogni tanto fa capolino nella sua vita.

Nel settembre 1483 Pico accompagna Adramitteno a Pavia, dove il greco aveva trovato forse una condotta di insegnamento. Ma presto ritorna indietro; Aldo lo incontra infatti di nuovo a Carpi, nel novembre 1483, presso la sorella Caterina, vedova ormai di Leonello Pio, signore della cittadina. A Carpi Pico si ferma sicuramente sino al luglio, ma già nella tarda estate o nel primo autunno del 1484 si recò a Parigi, per un viaggio di cui non si sa quasi nulla. Ritornato dalla Francia, si reca sui primi di dicembre del 1484 a Firenze, desideroso di approfondire lo studio di Platone: Pico, per gli studi compiuti con Adramitteno, nonostante l’opinione del suo primo maestro Elia del Medigo, si era convinto che analizzando in profondità – di là dalla corteccia delle parole – le soluzioni ai diversi problemi filosofici elaborate da Platone e da Aristotele, si poteva dimostrare la sostanziale loro concordanza,

A Firenze Pico incontra una società ben diversa da quella feudale e cortigiana che aveva conosciuto sino ad allora, in cui, a prescindere dalla gerarchia sociale, che certo esisteva, contavano soprattutto il sapere e la cultura. Qui poté vivere davvero ciò che dall’inizio della rivoluzione petrarchesca aveva significato l’adozione del ‘tu’ latino e umanistico, e così si trovò a cooperare con uomini come Ficino e Poliziano, di famiglie borghesi, che dovevano il loro riconoscimento sociale solo alla loro capacità di studio e insegnamento.

L’incontro con la cultura fiorentina comporta poi anche fare i conti con una tradizione volgare ben più cólta e articolata di quella praticata nelle corti settentrionali, in cui di fatto si parlava un mix tra dialetto locale e calchi dal latino e dal toscano, e con una lingua non solo volta al verso, ma anche a prose morali, religiose e filosofiche, in cui si esercitava anche il primo cittadino di Firenze, Lorenzo il Magnifico, che sempre ammirò, amò e protesse Pico, il quale, alcuni anni dopo, il 15 luglio 1486, gli indirizzò una lettera, dove si trovavano acuti giudizi sulla poesia di Dante e Petrarca.

Nell’estate del 1485 lo raggiunge a Firenze Elia del Medigo, che, tra l’altro, tradusse per lui la parafrasi di Averroè della Repubblica platonica. Una lettera di Ficino a Domenico Benivieni databile al 1485 rivela delle dispute frequenti, avvenute nella casa di Pico, che Elia e un certo Abraham avrebbero sostenuto contro l’ebreo converso Guglielmo Raimondo Moncada (meglio conosciuto poi con il nome di Flavio Mitridate) a proposito della veridicità delle profezie veterotestamentarie riguardanti Cristo.

Guglielmo è un altro personaggi da romanzo che appaiono in questo post: figlio di un rabbino arabo-spagnolo, si convertì al cattolicesimo poco prima del 1470. Verso il 1477 si trasferì a Roma, dove, per la sua conoscenza delle lingue orientali e della letteratura cabalistica, si conquistò la stima del card. Giovan Battista Cybo (il futuro Innocenzo VIII) e di Sisto IV, ed entrò in rapporto con Federico di Montefeltro duca di Urbino: per gli uni e per l’altro eseguì la traduzione in latino di numerosi testi cabalistici. Nel 1482 insegnava teologia alla Sapienza. Costretto per un oscuro delitto a lasciare Roma, si recò a Colonia (dove nel 1484 pubblicò Dicta septem sapientium), poi a Lovanio, per poi tornare a Firenze.

Al 1485 risale anche una delle polemiche culturalmente più significative sostenute da Pico. Barbaro, infatti, gli aveva scritto per esortarlo a proseguire gli studi greci, mostrandosi d’accordo sulla sua idea di una concordia tra Platone e Aristotele, ma aveva poi inveito contro l’ultima Scolastica, contro i ‘Teutoni’ «sordidi, rudes, inculti, barbari»; quasi ci fosse un nesso necessario tra l’eleganza dello stile e la capacità di indagare il vero. Pico rispose prontamente, il 3 giugno 1485, con una lettera, subito celebre, in cui difese la tradizione filosofica dell’antica e moderna scolastica, con il suo patrimonio di distinzione e di chiarezza, ma anche con una sua particolare e rispettabile lingua e sintassi (lo stilus parisiensis), elevando di fronte al più vecchio e rispettabile amico una coraggiosa e ferma protesta contro la vuotezza di certa cultura del suo secolo, unicamente letteraria e retorica. Questa difesa di Pico, alla fine del XV secolo, non deve essere considerata alla stregua di neomedievalismo, bensì come atteggiamento caratteristico di alcuni dei meno convenzionali e più aperti ambienti umanistici e di quella parte, altresì, dell’aristotelismo universitario che più era volta al rinnovamento della propria disciplina.

Pico trascorre a Firenze l’inverno tra il 1485 e il 1486, probabilmente impegnato, assieme a Flavio Mitridate, nello studio dell’ebraico, dell’arabo e forse già della Cabala. Ma il 1486 è segnato anche da uno scandalo amoroso: Pico si è innamorato infatti, corrisposto, di Margherita, moglie di Giuliano di Mariotto di Medici (un ramo povero della grande famiglia), che esercita le gabelle di Arezzo. Il 10 maggio 1486, mentre la donna è uscita fuori dalle mura di Arezzo, il conte, probabilmente diretto a Roma con un nutrito gruppo di suoi servitori, finge di rapirla portandola verso i confini della Repubblica di Siena. Arezzo tutta è messa a rumore e il podestà fiorentino della città, Filippo Carducci, inseguì Pico e la sua scorta. Alcuni sono uccisi nello scontro e Pico è fatto prigioniero nelle vicinanze di Marciano, vicino al confine senese. Era un’intrapresa che il conte si sarebbe potuto permettere impunemente con un piccolo borghese dei suoi paesi, ma non in Toscana, adusa da tempo ad alcune garanzie di protezione legale. Per sua fortunaLorenzo de’ Medici interviene e tutto si risolve in un congruo versamento di denaro al marito. Dopo quest’incidente – forse anche per dimenticare e far decantare il clamore dello scandalo – Pico si trasferisce a Perugia e poi a Fratta, presso l’amico perugino Alfano degli Alfani. Qui compose la sua prima opera di impegno filosofico, il Commento sopra una canzona de amore composta da Girolamo Benivieni, in cui critica l’interpretazione neoplatonica di Marsilio Fucino.

A Perugia e a Fratta Pico ha di nuovo ospite Elia del Medigo, con cui lavorò ancora su testi di Averroè. Nell’autunno e nel primo inverno 1486, fatto ritorno a Firenze, si immerge completamente, con l’aiuto di Flavio Mitridate, nello studio dell’arabo e dell’ebraico. Questo converso, di bizzarro e protervo carattere, ma grande conoscitore dell’ebraico, dell’arabo e della tradizione cabalistica, traduce dapprima una serie di testi esegetici ebraici medievali (come il commento al Cantico dei Cantici di Levi ben Gershom), poi inizia la versione di una lunga serie di scritti cabalistici, il primo dei quali fu probabilmente il Commento al Pentateuco di Menachem da Recanati. Era un interesse, questo per la Cabala, che Ficino condannava, ma da cui dissentiva fortemente anche Elia – odiatissimo da Mitridate – come appare in una lettera che il Cretese scrisse a Pico allorché questi, sul finire dell’anno, si trovava già a Roma.

Lo studio della Cabala – con quelli precedenti sulla tradizione aristotelica, platonica e scolastica – doveva servire a Pico alla compilazione nell’autunno del 1486 di novecento tesi che egli voleva discutere a Roma in una grande disputa da tenersi nei giorni successivi all’Epifania dell’anno seguente, in cui avrebbe potuto dimostrare la convergenza di tutte le grandi tradizioni filosofiche e teosofiche dell’Occidente e dell’Oriente. Le Conclusiones nongentae publice disputandae, pubblicate a Roma il 7 dicembre 1486, sono tesi tratte dal patrimonio di tutte le scuole filosofiche e teologiche antiche e moderne; vi sono presenti opinioni non solo dei filosofi antichi, degli arabi, degli ebrei, degli scolastici, ma anche di Ermete Trismegisto, degli antichi maghi e dei cabalisti. Tratte dalla Cabala, le Conclusiones sono veramente la prima notizia fedele delle dottrine segrete del misticismo e della teurgia ebraica che gli intellettuali latini abbiano avuto a disposizione.

A introduzione della grande disputa Pico scrive nell’autunno del 1486 l’Oratio de hominis dignitate: il problema è che tutto questo sforzo di sintesi, nel far convergere posizioni differenti, somigliava parecchio a quello di Gemisto, che papa Innocenzo VIII, molto liberal quando si trattava di questioni di figli illeggittimi e corruzione, guardava con il fumo negli occhi. Il 20 febbraio 1487 il papa emana un breve con cui sospendeva la discussione, affidando a una commissione di teologi il compito di esaminare le Conclusiones e che, riunitasi il 2 marzo 1487, decretò che sette conclusioni risultavano eretiche, mentre altre sei erano in odore di eresia. Pico risponde con la pubblicazione, nel maggio di quell’anno, dell’Apologia conclusionum suarum, in cui si esaltava la libertas philosophandi su tutti i punti che la Chiesa aveva lasciato indecisi. Importanti furono per i contemporanei i chiarimenti dati nell’opera a proposito della magia naturale e della Cabala e l’aperta rivendicazione della possibilità della salvezza eterna di Origene, che fece grande impressione a Erasmo e alla teologia umanistica francese dei primi anni del XVI secolo.

Difesa che Innocenzo VIII non gradisce, tanto da sottoporlo al processo dell’Inquisizione, che condanna in blocco tutte le Conclusiones e ordina l’arresto di Pico, che per non fare una pessima fine, scappa in Francia a gennaio 1488. Varcato il confine, è arrestato nel febbraio 1488 nei dintorni di Lione dagli uomini di Filippo di Savoia, signore di Bresse, che lo consegnò a Carlo VIII, grande amico dei Pico. Il re, più che altro per offrirgli protezione contro le rimostranze dei nunzi papali, lo fece ‘imprigionare’ nella rocca di Vincennes, da dove, rilasciato ai primi di marzo del 1488, facendo una lunga diversione verso il Reno per visitare la biblioteca legata all’ospedale di Kues dal cardinale Cusano, faritorno a Firenze. Tuttavia, il contrasto con Roma, soprattutto mediante i buoni uffici di Lorenzo il Magnifico, poté essere chiuso solo il 18 giugno 1493 con una bolla di assoluzione di Alessandro VI, che nonostante la sua brutta fama, era di parecchie spanne superiore al fenomeno da baraccone del predecessore.

Il nuovo soggiorno fiorentino vede Pico, nuovamente immerso nello studio della Sacra Scrittura, sempre più dibattersi in problemi religiosi e teologici. Lo coadiuvava ora nello studio dell’ebraico Jochanan Alemanno, un ebreo, stabilitosi nel 1488 a Firenze, grande esegeta della Scrittura. Frutto di tali studi sono, tra le altre cose, la traduzione di Giobbe dal Vaticano Ottoboniano latino 607, il commento ad alcuni Salmi e l’Heptaplus, stampato alla fine del 1489, che dimostra come Pico non avesse rinunciato alle sue idee: vi è fatto grande uso dell’esegesi ebraica alla Genesi, è continuamente richiamata l’esegesi cabalistica e vi si trovano idee dell’Oratio e delle Conclusiones. E non a caso l’opera irrita ancora di più Roma, da cui lo difendeva vivacemente Lorenzo, con la mediazione degli ambasciatori fiorentini presso la Curia.

Pico aveva ottenuto dal Magnifico di far tornare Savonarola a Firenze, dove il frate giunse nell’estate del 1490. Il rapporto con Pico, vòlto ormai alla meditazione religiosa, è subito molto stretto: Savonarola sperava presto o tardi di farne un grande luminare dell’Ordine domenicano osservante, ma la cultura dei due aveva una genesi troppo diversa. Pico aveva ben più alta stima dei pensatori antichi, credeva fermamente ancora – come disse in un colloquio con il frate, conservatoci da Pietro Crinito – «posteris etiam se probaturum Christi religionem magna ex parte cum veteri philosophia consentire»; ma soprattutto esitava di fronte alle insistenze di Savonarola a prender l’abito, perché, diciamola tutta era un grande donnaiolo.

Altrettanto stretto diventa anche il rapporto con Poliziano per cui compose verso la fine del 1490 l’opuscolo De ente et uno, frammento, nelle intenzioni di Pico, di una progettata concordia tra Platone e Aristotele. Nell’aprile 1491 – per attendere più quietamente agli studi – Pico cede al nipote Giovan Francesco dei suoi redditi feudali in Mirandola e Concordia dietro il compenso di trentamila ducati d’oro.

Nel giugno 1491 si reca in compagnia di Poliziano a Venezia facendo sosta a Bologna, Ferrara e Padova: in ogni città cercarono libri e rividero amici letterati. L’8 aprile 1492 muore Lorenzo de’ Medici, uno dei più sinceri sodali e patroni di Pico, che accorse subito – come è descritto in una famosa lettera di Poliziano ad Antiquario – al capezzale del morente assieme a Savonarola. Aderendo probabilmente a un progetto ideato da quest’ultimo, teso alla confutazione di tutte le pratiche divinatorie e superstiziose, nel corso del 1492 Pico inizia le Disputationes adversus astrologos, pubblicate postume dal nipote Giovan Francesco.

L’opera è tesa a dimostrare che i cieli e le stelle non emanano alcun influsso, ma solo luce e calore, che essi non sono cause dirette dei fenomeni, ma cause remote e lontanissime, uniformemente determinanti tutta la realtà sublunare e quindi non suscettibili di dare indicazioni utili intorno agli accadimenti terreni particolari. Nel restituire ai fenomeni le cause proprie e prossime, Pico oppose alle pseudoragioni della letteratura astrologica antica e medievale il recupero della genuina filosofia naturale e biologica di Aristotele, tentando di comprendere le esigenze psicologiche e sociali cui cercava di rispondere questa vera e propria sopravvivenza degli antichi culti astrali all’interno della civiltà cristiana che era l’astrologia. Nel condurre questa ‘storia filosofica’ della superstizione, Pico ebbe modo di iniziare la confutazione di quel particolare modo di concepire il succedersi delle grandi religioni profetiche che da Abumasar in poi è noto come ‘oroscopo delle religioni’. Come Pico si era a suo tempo ben reso conto della pericolosità del sincretismo neoplatonico, così, dopo che Ficino mostrò di credere (nel De vita del 1489) all’astrologia talismanica, egli appuntò la sua polemica di filosofo cristiano contro questo miscuglio, creatosi nei secoli precedenti, di aristotelismo e teorie astrologiche che portava a considerare l’uomo, la sua volontà, i profeti, i miracoli, le religioni – e le costituzioni politiche che ne derivavano – semplicemente alla stregua di capricciose e variopinte forme di cui gli astri si divertirebbero ad adornare la materia sublunare.

A due mesi dalla morte dell’amico Poliziano (24 settembre 1494), anche Pico cessava di vivere, vestendo finalmente l’abito domenicano, il 17 novembre 1494: all’epoca si parlò, conoscendo le abitudini del filosofo, di sifilide. Uno studio,nato dalla collaborazione fra le università italiane di Pisa, Bologna e del Salento con quella spagnola di Valencia, la britannica di York e il tedesco Max Planck Institute e con gli esperti del Ris di Parma, ha però mostrato dopo secoli, una realtà differente. Ossa, unghie, tessuti molli mummificati, vestiti, legno della cassa trovati nella sepoltura e conservati in un chiostro vicino alla basilica fiorentina di San Marco, sono stati sottoposti a una serie di analisi di carattere biologico e chimico-fisico sia per confermare l’identificazione dei resti, sia per rilevare l’eventuale presenza del veleno; le analisi hanno mostrato segni riconducibili a intossicazione da arsenico e che i livelli del veleno erano potenzialmente letali, compatibili con la morte per avvelenamento acuto.

Un’analisi analoga è stata eseguita sui resti di Angelo Poliziano, sepolti in una tomba vicina a quella di Pico. In questo caso però non risulta confermata l’ipotesi dell’avvelenamento perché i livelli di arsenico trovati sono piuttosto attribuibili a un’esposizione cronica al veleno, causata probabilmente da fattori ambientali o trattamenti medici. Ora, questa ricerca conferma quanto sospettato all’epoca.

Nei Diari del letterato Marino Sanudo si legge che il 22 aprile del 1497, circa tre anni dopo la morte di Pico, il Governo di Firenze, capeggiato allora da Savonarola, fece arrestare un certo numero di cittadini accusati di parteggiare per Piero de’ Medici, che voleva riconquistare la città. Cinque di loro furono addirittura decapitati. Fra questi, Cristoforo di Casalmaggiore, che era stato segretario di Pico e che – chissà perché – confessò di averlo avvelenato. L’avrebbe fatto perché, il giorno prima della morte, Pico aveva intestato al fratello di Cristoforo, Martino, amministratore dei suoi beni, tutto il bestiame, e soltanto la morte del Signore poteva rendere disponibile subito quell’eredità. Così, per una bieca questione di soldi e di politica, Cristoforo era filo mediceo, mentre Pico era ormai passato all’opposizione, fu ucciso uno dei geni del Quattrocento…

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Published on October 14, 2021 01:32

October 13, 2021

Osteria del Curato

La villa dei Sette Bassi non è l’unico importante resto archeologico presente nella zona dell’Osteria del Curato. Zona che, ovviamente, prende il nome da un casale con un’osteria, che era tra le più antiche e famose di Roma. Bartolomeo Pinelli, noto disegnatore e incisore romano del XIX secolo, fece una incisione della località con un suo autoritratto. Posta sulla via percorsa dai carretti che portavano il vino dei Castelli Romani fino in città, era un punto di sosta utile perché isolato nella campagna.

Aveva anche una piccola cappella, come spesso accadeva, per i viandanti e gli abitanti della campagna intorno. Era proprietà della parrocchia e prebenda di San Giovanni in Laterano e proprio questa peculiarità, l’ha fatta identificare come Osteria del Curato, ossia del prete. Non si hanno notizie certe sulla prima edificazione, probabilmente assai antica, in quanto posta sulla strada Anagnina, molto utilizzata nel periodo medievale

I resti più antichi presenti nella zona, sono associati al villaggio preistorico di Via Cinquefrondi, che si estendeva lungo il fosso sinistro di Fosso di Gregna, che in realtà era un tratto dell’Acqua Mariana, per un paio di ettari; il luogo, adiacente al lahar, una colata di fango composta di materiale piroclastico e acqua che scorre lungo le pendici di un vulcano, specialmente lungo il solco di una valle fluviale, conseguenza di un’eruzione preistorica di Monte Albano, era stata scelta per la fertilità dei suoi campi e per la disponibilità di terre disboscate, che questa aveva provocato. Nell’area immediatamente a Oveste dell’abitato è stata identificata una ne-cropoli costituita da tombe a fossa, tutte riferibili ad inumazioni singole, tranne una, in cui sono seppellite due salme.

Questo villaggio ha una vita lunghissima: la prima frequentazione, testimoniata da due tombe a forma di forno, risale alla cultura di Rinaldone, di cui purtroppo, in generale, abbiamo solo testimonianze funerarie. Questa cultura si è diffusa in Toscana e nel Lazio centro-settentrionale (area “nucleare” e gruppo Roma-Colli Albani), nelle Marche (entroterra di Ancona) e in Umbria durante l’eneolitico, intorno alla la metà del IV e per buona parte del III millennio a.C.. Prende il nome dalla località di Rinaldone presso Montefiascone, in provincia di Viterbo, dove fu effettuato il primo rinvenimento di tombe a grotticella.

Nelle tombe di questa cultura sono stati ritrovati vasi a fiasco, scodelle, ciotole e altre forme ceramiche e un considerevole numero di armi fra cui teste di mazza, punte di freccia e di lancia e pugnali. Inoltre elementi decorativi quali collane di antimonio, perle di osso e argento, e pendagli di steatite.

La fase successiva, è legata alla cultura di Laterza, dell’età del Rame, che si è diffuda in alcune regioni del sud e centro Italia nel III millennio a.C. (2950-2350 a.C. circa). Come la maggior parte delle culture dell’età tardo-preistorica è riconoscibile essenzialmente per la forma e la decorazione delle ceramiche rinvenute nei diversi siti archeologici. È stata definita nel 1967 da Francesco Biancofiore a seguito delle ricerche nella necropoli omonima situata a nord-ovest di Taranto, nel sud della Puglia.

Similmente alle altre culture italiane neolitiche e calcolitiche, la popolazione viveva principalmente di agricoltura e di allevamento, come testimoniano i resti scheletrici di animali domestici (ovini, caprini, bovini, suini) e di piante addomesticate e la presenza di strumenti (macine). La pastorizia era importante soprattutto in alcune regioni. La scoperta di ami in osso testimonia inoltre la pratica della pesca, tuttavia questa era forse un’attività marginale. Praticata anche la tessitura (fusaiole e pesi da telaio).

Per quanto concerne la metallurgia, anche tenendo conto di eventuali casi di riciclaggio o di degrado naturale nel corso del tempo, gli oggetti metallici associati alla cultura di Laterza sono molto rari. Tra questi sono documentati alcuni pugnali in rame. Nella grotta di Cappuccini nella zona di Lecce, oltre ad un pugnale, è stata rinvenuta una capocchia di spillo a forma di disco.

Le scoperte dell’Osteria del Curato hanno permesso di capire molte più cose su tale cultura, visto che, sino alla scoperta di quel vllaggio se ne conoscevano solo le tombe. In questo sito, le capanne della fase Laterza sono di forma ellittica e furono realizzate in materiali deperibili. Sempre nello stesso sito, sono stati scoperti inoltre un silo, delle case e un forno. In più, ci sono indizi di una sorta di culto religioso:sono stati scoperti due pozzi, probabilmente utilizzati per il culto data l’insolita presenza di ossa di capre e pecore e ceramiche, come se vi si svolgessero sacrifici e libagioni rituali.

I contatti con la cultura del vaso campaniforme, che si era sviluppata in Spagna e che si era diffusa grazie ai commerci nel resto d’Europa, portarono alla nascita nel Lazio della Cultura di Orticchio, di cui l’Osteria dell’Osa è stato uno dei siti principali. Cultura che per un lungo periodo è convissuta con quella di Laterza, ancora presente nella parte meridionale della regione e in altre province del sud Italia. Il passaggio tra la due culture, tra l’altro, fu graduale. Un progressivo e lento cambiamento si osserva nelle produzioni artigianali, ad esempio nelle forme e decorazione della ceramica. Tuttavia, lo stile di vita di sussistenza rimase lo stesso, i villaggi si trovano nelle stesse aree e le pratiche funerarie rimangono immutate. Si registra lo sviluppo di nuovi piccoli siti nelle zone limitrofe alla cultura e nella zona costiera del Lazio. La cultura di Ortucchio si esaurisce prima dell’avvento delle prime fasi dell’età del bronzo con cui sembra segnare una rottura completa, intorno al 2100-2000 a.C.

Il villaggio doveva essere connesso alla cosiddetta via Castrimeniense è una delle più antiche che attraversano il suburbio di Roma (l’area che dalle Mura Aureliane si estende fino ai confini con i territori amministrativamente indipendenti da Roma), ripercorrendo una delle creste radiali al cratere albano, generatosi in seguito all’attività del Vulcano Laziale, utilizzato sin dal Neolitico. Nonostante l’antichità, la via fu interamente basolata solo nell’età tardo Repubblicana, per collegare Roma al municipium di Castrimoenium, la nostra Marino, fortificato in età sillana

Nei pressi del villaggio preistorico, vi è la fattoria di Gregna, un insieme di edifici di cui il più antico è quello meridionale, costruito sopra una cisterna romana a 2 piani. La cisterna di impianto rettangolare è della fine del II sec. d.C.; è a 2 piani in laterizio, fornita di grossi e alti speroni. Nel complesso è presente un’antica vasca alimentata dall’acquedotto rurale della Barbuta.Il nome Gregna deriva dalla famiglia Gregni che fu proprietaria della fattoria nel ‘500. Nella località furono rinvenuti importanti pezzi archeologici poi portati ai Musei Capitolini, a Villa Albani, al Museo delle Terme di Roma e a Berlino. Il ritrovamento di questi pezzi e la presenza della cisterna testimonierebbero l’esistenza un tempo di una villa romana oggi del tutto scomparsa.

Più a nord in quest’area sono presenti i ruderi di un sepolcro. Il sepolcro è del IV sec. d.C. , a pianta quadrata ed 2 piani con parte della copertura originale. E’ in opera listata di tufo e laterizio con tracce in opera reticolata di tufo. Ha subito restauri anche in età medievale con l’inserimento di tasselli calcarei. Cisterna e sepolcro erano orientati proprio lungo la via Castrimeniense. Poco più in là, lungo l’attuale via di Casale Ferranti, vi sono i resti dell’antica via Latina: sulla sinistra, è conservata una cisterna rettangolare della metà circa del III secolo, con grandi speroni di rinforzo esterni. L’interno ha un’unica camera ed era ricoperto a volta.

Più oltre, sempre a sinistra, si eleva un sepolcro laterizio della seconda metà del II secolo, dalla pianta quadrata, che si conserva per tre piani ad eccezione della facciata che risulta crollata. Rientra nel tipo di sepolcri che utilizzano il cotto elegantemente come rivestimento esterno anche per le modanature architettoniche, le cornici e i capitelli. Poco distanti vi sono i ruderi di un sepolcro a camera rettangolare absidata, in listato. Più a sud sorge un sepolcro a torre rettangolare, che era rivestito in blocchi di travertino sui tre lati visibili da via Latina., in blocchi di tufo sul retro. Un altro sepolcro si vede, sulla destra della via antica, m 85 verso SE, di forma quasi quadrata, del quale si conserva la cella seminterrata con volta a botte e ingresso sul lato opposto alla strada

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Published on October 13, 2021 05:24

October 12, 2021

Galvano Fiamma, Markland e l’America

Sino a qualche settimana fa, il nome di Galvano Fiamma era noto solo a qualche erudito, ed è un peccato, perchè, a modo suo, è un personaggio molto interessante. Galvano nacque a Milano, nell’anno 1283 come racconta nella sua opera Chronica parva. Benché non abbiamo idea di chi fossero i membri della sua famiglia, una serie di indizi ci fanno pensare che fosse assai benestante. Da quanto risulta dai documenti dell’epoca, quasi tutti gli esponenti della famiglia “de Flama”, figurano come affermati e ricchi notai. Tra l’altro i domenicani, a differenza dei francescani, tendevano a “reclutare” novizi tra famiglie benestanti della borghesia e della media nobiltà. Un secondo indizio è nel nome, ispirato ai romanzi del ciclo arturiano, che rispecchia i gusti culturali di un certo ambiente sociale.

Il buon Galvano entrò nel convento milanese di Sant’Eustorgio, vicino alla mia casetta sul Naviglio Pavese, il 27 aprile del 1298, come racconta sempre nella Chronica parva: avendo quindi anni e non rispondendo ai requisiti richiesti all’epoca dai domenicani per i postulanti fruisse per l’occasione di una speciale dispensa rilasciata dal padre provinciale, che all’epoca era Bonifacio di Riva d’Asti, sempre a testimonianza dell’influenza della sua famiglia.

Sant’ Eustorgio era allora sede dell’Inquisizione, tanto che i roghi venivano eseguiti nella vicina Piazza Vetro e di un vivace e affollato studium, dove Galvano portò a compimento la maggior parte del curriculum previsto per conseguire il titolo di “lector sacrae theologiae”, di cui egli si fregia abitualmente nei suoi scritti. Invece l’ultimo biennio di studi potrebbe essere avvenuto a Genova, dove dal 1304 era stato istituito lo studio generale della nuova provincia domenicana della Lombardia superiore.

Abilitato a insegnare nell’Ordine – il che, in ragione delle norme che regolavano la durata del noviziato e del cursus studiorum, non poté avvenire prima del 1308 o del 1309 – Galvano fu inviato per qualche tempo a Pavia, presso il convento di S. Tommaso, in cui professò teologia, tenendo tuttavia anche lezioni extraordinariae sulla Fisica di Aristotele agli studenti secolari di medicina, a riprova del suo interesse, per quelle che chiameremmo scienze naturali, che lo portò anche a scrivere un trattato di alchimia. Proprio a Pavia, come racconta lui stesso, stanco del fatto che i suoi allievo sfottessero i milanesi, dicendo a torto o a ragione, che la città meneghina non era nulla più che un villaggio di barbari incivili, decise di dedicarsi alla storiografia, per celebrare le vicende della sua madrepatria.

Il 12 febbraio 1313 Galvano era di nuovo a Milano e sembra del tutto naturale che, fin dal suo rientro nella città natale, insegnasse a Sant’ Eustorgio. Quando nel 1315 il capitolo generale dell’Ordine decise che in ogni convento gli studenti seguissero una volta alla settimana lezioni di filosofia morale, il primo a tenere tale insegnamento a Milano fu proprio Galvano, che tenne lezioni sul’etica, la politica, l’economia, la retorica di Aristotele, infilandoci pure il trattato della sfera di Giovanni di Sacro Bosco, il trattato di astronomia più diffuso nel Medioevo. Il Tractatus de sphaera, essenzialmente basato sull’Almagesto di Tolomeo, è diviso in quattro capitoli: il primo tratta la struttura generale dell’universo; il secondo le sfere celesti; il terzo la rotazione giornaliera del cielo e le zone climatiche terrestri; il quarto i movimenti dei pianeti e le eclissi. In particolare, particolare interessante per il continuo del discorso, questo libro la Terra in cinque zone climatiche separate dai circoli polari e dai tropici. Viene spiegato che solo la zona intermedia tra i circoli ed i tropici è abitabile, mentre le zone polari ed equatoriale, rispettivamente troppo fredde e troppo calda, non permettono la sopravvivenza.

Nel frattempo, però, la politica, con la rivalità tra Giovanni XXII e i Visconti che era degenerata in una guerra sanguinosa, complicò la vita al nostro professore: a causa dell’interdetto papale, i domenicani, il 15 febbraio 1323, dovettero abbandonare Milano. Da quel momento in poi, sino al 1330, perdiamo tutte le tracce di Galvano e non abbiamo la più pallida idea di dove sia vissuto e di cosa abbia combinato. Lo vediamo ricomparire a Bologna il 30 gennaio 1330, come indica uno dei documenti del processo tenuto dall’Inquisizione contro i fautori di Ludovico il Bavaro, in cui è menzionato insieme con un altro domenicano, Tommaso da Modena, che a titolo di curiosità, è uno dei primi uomini medievali rappresentato con gli occhiali.

In ogni caso, nel 1333 Galvano tornò finalmente a casa, dove, da una parte, per la sua amicizia con i Visconti, mediò tra loro e il papato, dall’altra si dedicò completamente alla storiografia, scrivendo una quantità industriale di cronache su Milano. Nel 1344 si perdono definitivamente le tracce di Galvano. Considerando che la Chronica Maior si spinge fino a tale data, il 1344 è stato considerato come il suo anno di morte.

Dicevo, il nome di Galvano non avrebbe mai detto nulla al grande pubblico, se non ci fosse stato uno scoop un paio di settimane fa. Un progetto scientifico e didattico attivo da alcuni anni presso il dipartimento di Studi Letterari Filologici e Linguistici dell’Università Statale di Milano, coordinato da Paolo Chiesa, docente di Letteratura latina medievale e umanistica, ha trovato nella sua Chronica Universalis. riferimento a una terra di nome Marckalada, così descritta

“I marinai che percorrono i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un isola detta Grolandia…; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche”.

Ora, per chi non lo sapesse, il Markland è uno dei tre territori dell’America del Nord descritti nelle saghe norrene note come la Saga di Erik il Rosso e la Grœnlendinga saga. Helluland e Markland, che secondo queste fonti vichinghe medievali, furono prima individuate da Bjarni Herjólfsson, un mercante islandese del secolo X, e raggiunte successivamente dall’esploratore Leifr Eiríksson, anche lui islandese, intorno al 1000.

Nella Grœnlendinga saga si narra che Leif Eriksson dispose nell’anno 1002 o 1003 di seguire la rotta descritta precendetemente da Bjarni Herjólfsson. Il primo territorio che Eriksson toccò era coperto da rocce piatte e assegnò a questo territorio il nome di Helluland (“Terra delle rocce piatte”). Successivamente raggiunse un altro territorio, anche questo pianeggiante, con spiagge bianche e coperto da una foresta, al quale attribuì il nome Markland (“Terra delle foreste” o “Terra di confine”). Il viaggio poi continuò e raggiunse la più ospitale Vinland (forse l’odierna Terranova) o altre zone ancora più a sud.

La notizia ha scatenato la fantasia di parecchi giornali, che hanno parlato, a torto della scoperta dell’America da parte di marinai italiani 150 anni prima di Colombo: in realtà, l’esistenza di quelle terre era abbastanza nota ai dotti medievali di Germania, Inghilterra e Paesi Scandinavi e a quelli della Corte Pontificia. Nel 1112 Eirik Gnupsson fu nominato da Pasquale II vescovo di vescovo di Groenlandia e Vinland e le cronache dell’epoca citano il suo tentativo, che non è stato molto fruttuoso, di convertire gli indigeni.

Oppure, nel Nuzhat al-Mushtak, l’opera di geografia scritta dall’arabo al-Idrisi per il re normanno di Sicilia Ruggero I intorno al 1150, si parla parla degli abitanti delle isole interne dell’Atlantico settentrionale che usavano le ossa dei grandi mammiferi marini per costruire case e utensili vari. Dato che la cultura di Dorset non aveva questa abitudine e la cultura Thule, quella dei nostri Inuit, era ancora limitata all’Alaska, ben lontana dai viaggi vichinghi, questi non potevano che essere le tribù di lingua e cultura algonquina.

Inoltre, l’esistenza di quelle terre erano nota anche ai dotti spagnoli del Quattrocento, che la usarono come strumento per contestare le richieste di finanziamento di Colombo: evidenziarono infatti che il navigatore non avrebbe raggiunto la Cina, ma le terre inospitali abitate da feroci selvaggi, esplorate dai navigatori del Nord.

Per cui la citazione di Galvano non è un unicum, ma si inserisce in una lunga tradizione; ovviamente, i dotti medievali erano convinti che quelle terre fossero un arcipelago, più o meno esteso, ma una parte di un nuovo continente. Tra l’altro, se questa informazione era nota a tizi che difficilmente mettevano il naso fuori dal proprio convento, pensate quanto potesse essere diffusa tra i marinai e gli addetti ai lavori.

Tra l’altro, la descrizione di Galvano non deriva dalle fonti nordiche, che pur essendo stringate, sono realistiche nella loro rappresentazione di quelle terre: la fonte dipendeva da una tradizione orale, che ne accentuava gli elementi favolistici di non raggiungibilità e pericolosità, probabilmente diffusi in origine proprio dai groenlandesi, che praticavano il commercio muto con gli indigeni nord americani, nel loro viaggi per raccogliere legna nel Markland e nel Vinland, ottenendo da questi pellicce e avorio di tricheco, esportati in Europa, e che non volevano inopportuni concorrenti nell’area.

Contatti continuati sino a fine Trecento, come testimoniato sia dai diversi annali islandesi, 1347 diversi annali (Skalholtbok, Gottskalk’s e Flateyjarbok) riportarono la notizia dell’arrivo in Islanda di una nave groenlandese con a bordo diciassette o diciotto uomini, che aveva perso la rotta mentre cercava di rientrare in patria dopo aver raccolto appunto della legna nel Markland, sia dalle recente scoperte dell’archeologa Patricia Sutherland nella Valle di Tanfield, sulla costa sud-orientale dell’Isola di Baffin, che hanno permesso di identificare una stazione commerciale groenlandese.

Questo non significa sminuire il ruolo storico di Colombo: con la sua visionarietà, rilanciò le esplorazioni e i contatti transatlantici, che per problemi economici e climatici, stavano lentamente sfiorendo.

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Published on October 12, 2021 03:28

October 11, 2021

Atene contro Siracusa parte XXXI

Dopo l’ennesima batosta subita, nel campo ateniese regnava lo sconforto, mentre a Siracusa l’euforia era massima, tanto che la vittoria sembrava a portata di mano: per cui, potete immaginare la doccia fredda che subirono i difensori della polis siciliana, quando videro arrivare i rinforzi guidati da Demostene: 5000 opliti, supportati da truppe leggere, la cui quantità non è specificata da Tucidide. Di fatto, la strategia spartana, di creare un caposaldo nell’Attica, per costringere i nemici a impegnarsi nel cortile di casa e ritirare le truppe dalla Sicilia, era fallita. In più, diciamola tutta, il rischio di vedere rimessi in discussione i successi ottenuti da Gilippo pareva concreto

Con quest’animo dunque allestivano da capo una duplice offensiva, di fanterie e di navi. E proprio in quella compaiono Demostene ed Eurimedonte alla testa dei rinforzi provenienti da Atene: settantatré navi circa, incluse quelle forestiere, con a bordo circa cinquemila opliti ateniesi ed alleati, una massa non indifferente di lanciatori di giavellotto, frombolieri e arcieri barbari e greci, oltre al resto degli armamenti in proporzione. In quei primi istanti tra Siracusani e alleati si diffuse una costernazione non lieve, l’angoscia di quell’incubo perenne, da cui chissà se e quando ci si sarebbe potuti liberare! Ormai era sotto gli occhi di tutti: l’aver fatto di Decelea una fortezza non era servito ad impedire l’assalto di un esercito poderoso quanto il precedente, mentre la grandezza d’Atene si ostinava a sfolgorare possente in ogni campo. E nell’armata ateniese già in linea, benché a fatica tra sacrifici e prove risorgeva il conforto.

A Siracusa, però, si ignorava un dato di fatto: i costi della spedizione stavano cominciando a diventare insostenibili per Atene: la strategia attendista di Nicia, era considerata, a torto o a ragione, fallimentare. Per cui, a Demostene era stato dato un mandato preciso: conquistare la città prima possibile, costi quel che costi. Demostene, anche per rafforzare la sua posizione politica e scalzare Nicia, per raggiungere tale obiettivo, voleva attaccare il prima possibile, anche sfruttando il disorientamento nemico

Demostene valutò lo stato delle operazioni, e si rese conto come fosse impossibile attardarsi senza ripiombare nelle difficoltà che avevano travagliato il comando di Nicia (costui, infatti, appena dopo lo sbarco incuteva sgomento: mai poi non s’era mostrato pronto ad aggredire Siracusa, e passato a Catania vi aveva trascorso l’inverno: intanto nel nemico nasceva il disprezzo. Ma non bastò: prevenendolo, Gilippo trasferì le divisioni fornite dal Peloponneso in Sicilia. Forze che i Siracusani non avrebbero più nemmeno sollecitato, se l’azione di Nicia si fosse abbattuta tempestiva sulla loro città. Poiché, illudendosi d’arrivare loro stessi alla vittoria, non solo avrebbero appreso d’essere invece impari all’avversario, ma allo stesso tempo si sarebbero visti cinti da un blocco ferreo: sicché anche gli appelli per un’armata di soccorso sarebbero risultati inefficaci). In questo senso ragionava Demostene e sapendo che l’effetto paralizzante del terrore si poteva estinguere nello spazio di quel primo giorno d’arrivo, volle con risolutezza far leva sullo smarrimento che la comparsa delle sue milizie seminava tra i reparti nemici.

Anche perchè, nonostante gli ordini di Gilippo, i Siracusani non che si fossero impegnati molto, molto nel rafforzare i loro contrafforti: per cui, dopo avere ripreso il controllo delle campagne circostanze la polis, cominciò a elaborare un piano d’attacco.

Notava che il contrafforte con il quale i Siracusani ostruivano il baluardo ateniese di circonvallazione era semplice, e vedendo che se si riusciva ad occupare i punti d’accesso alle Epipole per passare immediatamente alla conquista delle posizioni nemiche attestate sull’altura, sarebbe poi stato facile impadronirsi del bastione siracusano (in quella circostanza, nessuno avrebbe insistito nel contrasto) era smanioso di provarsi in quell’assalto, che a suo vedere poteva abbreviare di molto l’ascesa al trionfo finale. Ma, o l’azione gli fruttava la presa di Siracusa, o rimpatriava l’esercito, troncando il logorio delle forze impiegate nella campagna e il dissanguamento generale delle risorse statali. Come preliminare all’offensiva gli Ateniesi, irrompendo fuori dai propri ripari, devastarono il contado di Siracusa lungo il corso del fiume Anapo ristabilendo con l’armata terrestre e la marina la supremazia militare che avevano già goduto nelle fasi d’apertura delle ostilità (poiché sui due fronti, terra e mare, i Siracusani limitavano il contrattacco a incursioni isolate di cavalieri e tiratori di giavellotto lanciati dalla base dell’Olimpico).

Per prima cosa, tentò con le armi di assedio, che più di scali e arieti non erano: ricordiamo infatti che le Torri furono inventate dai Cartaginesi, pochi anni dopo, per l’assedio di Selinunte, mentre balliste e furono proprio un’invenzione siracusana. Nel 399 a.C. Dionisio il Vecchio, tiranno di Siracusa, in previsione di un conflitto contro Cartagine, fece riunire squadre di ingegneri e ricercatori che potessero sviluppare armi innovative. Da questi sforzi derivò il gastraphetes, precursore delle prime baliste. Si trattava in realtà di una balestra di grosse dimensioni che si appoggiava sul ventre, in modo che l’energia tensionale accumulata fosse maggiore di quella di un semplice arco, la cui corda veniva tesa da una sola mano.

Il prolungarsi della guerra contro Cartagine permise lo sviluppo di un’ulteriore versione potenziata del gastraphetes quando l’arma divenne troppo grande e potente per essere resa operativa e trasportata da un solo uomo. L’oxybeles venne sviluppato nel 375 a.C., concepito in primo luogo come arma d’assedio. Il telaio di sostegno poggiava al suolo grazie a un treppiede, permettendo così una maggiore accuratezza del tiro; in questo modo l’arma poté essere impiegata sulle navi della flotta siracusiana, dando vita a una tradizione militare che durerà fino ai romani. Naturalmente, parallelamente all’incremento delle dimensioni dell’arma, anche la lunghezza dei dardi crebbe di conseguenza. L’arco veniva teso grazie a un meccanismo a gancio messo in funzione da due genieri.

Nello stesso periodo, in parallelo, i Siracusano inventarono il lithobolo: in questo nuovo concetto di arma, si sostituivano i dardi con pietre sferiche del peso di un talento (26 kg). Il lithobolos poteva lanciare proiettili a una distanza superiore di quella di un cannone dell’era Napoleonica. Lo stesso Dioniso lo utilizzò per attaccare la flotta Cartaginese che soccorreva la alleata città di Mozia che egli stava assediando . Insomma, i tentativi ateniesi fallirono miseramente. Per cui, Demostene ideò un attacco notturno alle fortificazione delle Epipole.

Dato che non si fidava di Nicia, lo tenne nelle retrovie, lasciando il comando dell’azione ad Eurimedonte e da Menandro: inizialmente, l’attacco a sorpresa sembrò riuscire, tanto che gli ateniesi, occuparono, senza colpo ferire, il primo avamposto nemico. Però, per loro sfortuna, parte della sua guarnigione riuscì a sfuggire, avvertendo i difensori delle fortezze poste sulla sommità dell’Epipole.

Poi Demostene ebbe l’ispirazione di saggiare la solidità del contrafforte con macchine belliche. Senonché il nemico, trincerato nel baluardo e vigile, contrastava l’avanzamento degli ordigni incendiandoli ad uno ad uno, mentre gli urti sferrati in diversi settori della barriera dai vari reparti dell’armata venivano infranti dalla resistenza siracusana. Demostene capì l’inutilità del tempo perduto: quindi indusse Nicia e i colleghi di comando a condividere il suo progetto di conquista sulle Epipole, e si dispose ad attuarlo. La speranza d’eludere la vigilanza accostandosi all’obiettivo e scalandolo alla luce del sole parve assurda: quindi ordinò agli uomini di rifornirsi di cibo per cinque giorni e radunati fino all’ultimo scalpellini e fabbri aggregati all’esercito prese con sé, oltre a una riserva bastevole di frecce, tutta l’attrezzatura occorrente in caso di vittoria per fortificare un caposaldo contro la cinta di Siracusa. Poi, all’ora del primo sonno, fece personalmente avanzare coadiuvato da
Eurimedonte e da Menandro la massa dell’esercito in direzione delle Epipole. Nicia rimaneva barricato nella linea dei forti. Quando si trovarono alle prime balze delle Epipole, all’inizio di quel sentiero dell’Eurialo che anche l’offensiva precedente aveva percorso nella sua prima salita, eludendo la vigilanza del presidio siracusano e portandosi sotto al forte nemico che in quel punto si ergeva lo occuparono abbattendo alcuni del corpo di guardia. Ma la maggior parte di esso scampò all’eccidio e riparò di volo ai campi situati sulla vetta dell’Epipole (protetti da tre avamposti fortificati, difeso da milizie siracusane, il secondo dai contingenti Sicelioti e l’altro dagli alleati) suscitando l’allarme per l’attacco e segnalandolo ai seicento Siracusani che agivano da prima barriera in questa zona delle Epipole.

I Siracusani, sottovalutando le forze nemiche, invece di rimanere a difesa delle postazioni, contrattaccarono, venendo però travolti da un numero superiori di opliti, tanto che alcuni reparti cominciarono a distruggere il contrafforte nemico: Gilippo intervenne rapidamente con i rinforzi, ma anche questi cominciarono ad arretrare sotto la pressione nemica.

La loro controffensiva scattò fulminea, ma Demostene urtandoli con gli Ateniesi, dopo un contrasto accanito, li travolse. Gli Ateniesi già in velocità spinsero a fondo, dritta davanti a sé, l’avanzata, per piombare sui bersagli previsti dal piano, sfruttando l’impeto iniziale e senza vane dispersioni. Altri reparti intanto, ai primi colpi s’impadronirono del contrafforte siracusano disertato dai difensori e ne diroccarono gli spalti. In quel momento i Siracusani affiancati dalle truppe della lega e da Gilippo, alla testa dei suoi reparti accorsero dai caposaldi avanzati, per dar man forte, ma l’improvvisa prodezza ateniese tra la tenebra notturna era troppo rude sorpresa per loro che gelati dallo sconforto si azzuffarono con gli aggressori: e battuti incominciarono subito a perdere terreno.

Le cose sembravano essersi messe bene per gli ateniesi, finché non successe un patatrac: per prima cosa, nella fretta di incalzare il nemico, la loro falange si scompose

Senonché ormai la pressione ateniese si sfogava in un’avanzata sconvolta dal disordine, nell’eccitazione di una supposta vittoria: e impazienti di forzare fino all’annientamento le linee nemiche che non si erano ancora scagliate nella mischia, per impedire che rallentando la furia dell’attacco si Fu quello l’inizio di un progressivo sbandamento delle schiere ateniesi, mentre gli ostacoli per risolvere quella critica fase si moltiplicavano: e nemmeno mi riuscì facile, con un’inchiesta tra i combattenti delle due parti, apprendere in ogni dettaglio come si svilupparono i singoli episodi di quella giornata. Di scontri avvenuti alla luce del giorno si possono ottenere particolari più rigorosi, benché neppure di questi i partecipanti possano acquisire una conoscenza scrupolosa e completa: ciascuno arriva a malapena a formarsi un concetto di quanto accade intorno alla sua persona. Ma in una battaglia notturna, l’unica che sia intervenuta tra due eserciti potenti, almeno nel corso di questa guerra, come si potrebbe fare un po’ di luce sulle varie circostanze? Ora, splendeva quella notte un chiaro di luna: ma, come sempre al bagliore lunare, la vista giungeva forse a discernere avanti a sé una figura. Amica o ostile? Infida la percezione degli elementi decisivi per riconoscersi.

Seconda cosa, la gatta frettolosa fece i figli ciechi. Dovendo organizzare un attacco a sorpresa in fretta e furia, nessuno dei generali ateniesi si pose un problema a prima vista banale. Nella notte, in cui la luce della luna non permetteva di distinguere il colore dei pennacchi e le decorazioni sugli scudi, i loro opliti come avrebbero potuto riconoscere i commilitoni dai nemici ?

Risultato, si scatenò il caos: gi Ateniesi, presi dall’entusiasmo, cominciarono a combattere tra loro e i Siracusani, ovviamente, ne approfittarono.

E le schiere fitte di opliti manovravano attorno a uno spazio esiguo. Sul fronte ateniese, un’ala subiva ben presto il dominio avversario, altri, nell’ardore del primo impeto, avanzavano imbattuti. Ampi settori dell’armata ateniese o avevano raggiunto in quella la cima delle Epipole, o erano ancora intenti alla salita, sicché ignoravano quale fosse la loro immediata posizione tattica. Già a partire dal cedimento della prima linea, imperava nei reparti un generale sconcerto e tra il crescere delle grida riusciva arduo distinguere le istruzioni. I Siracusani con gli alleati, sentendo prossima la vittoria, si incitavano tra loro con urla altissime, poiché di notte è impensabile di far passare i comandi con mezzo diverso: e intanto respingevano gli aggressori. Gli Ateniesi cercavano il contatto tra loro commilitoni e prendevano per nemico tutto ciò che dal fronte opposto muoveva alla loro parte, fosse pure un gruppo di compagni di quelli già in fuga. Non esisteva diverso ripiego per riconoscersi, quindi ricorrevano sempre più di frequente alla parola d’ordine. In questa febbrile domanda si coprivano l’un l’altro con le proprie voci: e oltre a nascerne una confusione indescrivibile si porgeva al nemico l’opportunità di apprendere la parola d’ordine. La parola dei Siracusani, invece, risultava ignota, poiché per costoro che incalzavano compatti ormai padroni del campo, riconoscersi era più comodo. Sicché gli Ateniesi, anche affrontando un drappello nemico su cui erano in vantaggio numerico, lo lasciavano passare constatando che sapeva il segnale convenuto: se invece erano loro a non fornire la risposta giusta, venivano annientati. Causa principale di disfatta, in buona parte, fu il canto del peana: suonando quasi identico da un lato e dall’altro seminava il dubbio. Ogni volta che gli Argivi i Corciresi e gli alleati dori di Atene lo innalzavano, correva un gelo tra le schiere ateniesi: e pari effetto quando lo intonava il nemico. Tanto che alla fine, appiccata la prima scintilla dello scompiglio, in molte divisioni dell’esercito le colonne urtarono tra loro e non si limitò il compagno a incutere terrore al compagno, il cittadino al cittadino, ma brandendo le armi gli uni contro gli altri solo a fatica si scioglievano. Con i nemici alle costole, molti si precipitavano per le scarpate, sfracellandosi, poiché il sentiero che scendeva dalle Epipole era angusto.

Nella confusione, si scatenò il fuggi fuggi generale: i veterani, riuscirono a tornare nel campo base, ma i nuovi arrivati, che persero la strada, all’alba seguente furono travolti dalla cavalleria siracusana, alla faccia di chi sostiene che gli antichi greci non la utilizzassero

E quando i sopravvissuti guadagnavano fuggendo dalla sommità il piano, la maggior parte, specie i membri della prima spedizione, già in possesso di una discreta pratica dei luoghi riuscivano a riparare nel campo; ma quelli sopraggiunti più tardi, imbrogliandosi con i sentieri, presero ad aggirarsi per la pianura. E all’alba alla cavalleria siracusana bastò un carosello e una carica per distruggerli.

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Published on October 11, 2021 07:23

October 10, 2021

Area sacra a Sud-Est del tempio di Zeus

Negli ultimi anni, l’Università di Palermo si è dedicata a una campagna di scavi nella Valle dei Templi, incentrata nell’area a Sud-Est dell’Olympeion, che era già stata parzialmente esplorata a inizio Novecento, ma di cui non si era compreso a pieno l’importanza. Tra l’altro, l’Università di Palermo ha adottato, in questa ricerca, un approcco “olistico”, per usare una parola che ogni tanto torna di moda: i saggi stratigrafici sono stati affiancati dallo studio del materiale di archivio e di tutti i reperti degli scavi precedenti, custoditi nei magazzini dei Musei ‘P. Griffo’ di Agrigento e, in piccola parte, ‘A. Salinas’ di Palermo, museo che consiglio sempre di visitare.

Ricerca che ha chiarito la cronologia e la fisionomia delle strutture, le fasi e la destinazione d’uso degli edifici, tutti funzionali alla vita religiosa del santuario a partire dalla metà del VI secolo a.C. Nella prima fase, infatti, viene realizzato un tempietto, preceduto da una gradinata tagliata nella roccia, è a pianta bipartita con pronao e cella sopraelevata, divisa in due navate: questa, infatti presenta al centro, lungo l’asse mediano, un pilastro con funzione di sostegno del trave centrale della copertura, cui corrisponde analogo pilastro al centro dell’ingresso.

Che nell’Akragas dell’epoca questo spazio sacro avesse un ruolo importante, è testimoniato da due indizi: il primo è legato al fatto che l’accesso a questo tempietto fosse garantito da una strada orientata da est-ovest larga m 8 circa, che, come già accennato, terminava con una gradinata rupestre. Le dimensioni, seppur approssimative,suggeriscono l’ipotesi che si tratti di una plateia dell’impianto urbano, il che implica che sin dalla fondazione, la polis dovesse rispettare i dettami urbanistici di Ippodamo di Milete e che questo tempietto avesse un importante ruolo simbolico, fungendo da punto di riferimento nella geografia sacra di Akragas.

L’altro è nella ricca decorazione architettonica fittile, tra le prime testimonianze dell’architettura agrigentina: è possibile che per il santuario delle divinità Ctonie, il tempietto sia stata una appropriazione e ellenizzazione da parte dei coloni di un precedente culto locale. La seconda fase, invece risale alla tirannide di Terone.

Da una parte, il tempietto arcaico viene di fatto declassato, riducendosi a una sorta di dependance dell’Olympeion, dall’altra, è valorizzato, con l’ inserzione di monumenti di grande impatto visivo e dimensionale, per i quali vengono sperimentate formule inusitate talvolta precorrendo soluzioni architettoniche altrove affermate solo in età ellenistica. Nei primi decenni del V secolo fu realizzato altresì, sulla fronte del sacello, un theatron di raccordo al piazzale antistante, posto a quota inferiore e dominato dal colossale altare, e un nuovo sistema di accesso al retrostante terrazzo roccioso, dotato di una serie di strutture monumentali a ridosso delle mura urbiche. Si tratta di una grande vasca per riti lustrali connessa con un sistema articolato di canali e cisterne e fronteggiante un’enorme aula, interpretabile come salone per banchetti; concludeva l’insieme una serie di tre ambienti paratattici, identificabili come normali andrones.

Particolarmente significativi dell’unitarietà e della nuova maniera di concepire lo spazio sacro, come parte integrante cioè di un insieme civico infrastrutturato, sono proprio le infrastrutture idrauliche, che caratterizzano questa zona del santuario, caratterizzate dalla monumentalità dell’impianto e dalla portata. L’ampiezza della vasca rituale e delle connesse riserve idriche, nonché il complesso sistema atto a regolare il deflusso, implicano un’alimentazione artificiale del bacino: si ipotizza che la conduttura di adduzione provenisse da Est. E’ possibile che questa fosse collegata al sistema idrico della polis progettato da Feace e che quindi fosse collegata con la Kolymbethra, che svolgeva il ruolo di fulcro di strutture che necessitavano di acqua abbondante per il regolare svolgimento di riti, da immaginare non meno grandiosi delle loro cornici monumentali.

A questo proposito meritano particolare attenzione gli edifici attigui alla grande piscina, già citati. Si tratta di sale da banchetto, più canoniche quelle disposte in fila (capienza complessiva 21 klinai), mentre la grande aula (35 × oltre 11 m) restituisce una rara tipologia nota in contesti santuariali di IV secolo, con la capienza eccezionale di un hexekontaklinos oikos. Nella parte orientale di essa, di fronte all’ingresso principale, si conserva il basamento di una trapeza o di una kline sovradimensionata (ingombro ricostruibile 3,64 × 1,82 m), che suggerisce l’espletamento di rituali teossenici, per i quali sovviene la tradizione letteraria relativa al culto dei Dioscuri e di Elena, citati ad esempio da Pindaro nella famosa III Olimpica in onore del tiranno Terone.

Vi era forse una connessione tra la grande sala da banchetti e la piscina, deputata come detto a immersioni rituali, che possiamo riferire ad una sfera divina femminile sulla scorta dei doni votivi rinvenuti nell’area e dei comparanda noti nella tradizione religiosa ellenica. Doni che consistevano in offerte incruente con dedica di patere in bronzo dentro il tempietto, trovate in oltre 200 esemplari.

Proprio Elena, infatti, è destinataria in diversi contesti di rituali legati alla maturazione sessuale delle fanciulle e, come modello della parthenia e della ninfalità, è associata al bagno e persino a fonti sacre. Inoltre, il legame del culto rodio di Helena Dendritis con la vegetazione potrebbe essere riecheggiato nel nostro contesto dall’ambientazione “naturale” di questa porzione del santuario, suggerita dalla presenza sul piano roccioso di buche per la piantumazione di alberi o arbusti e dei canali defluenti dalla vasca, qui probabilmente lasciati scoperti, come se si volesse riprodurre con dei ruscelli artificiali, una sorta di boschetto sacro. Insieme allo svolgimento dei rituali incentrati sul grandioso bacino, l’infrastruttura idrica si prestava quindi a creare effetti scenografici funzionali alla tipologia del culto, mentre allo stesso tempo suppliva alle necessità pratiche di pulizia e approvvigionamento del complesso monumentale, con le sue sale destinate a differenti tipologie di banchetti.

L’ultima fase di vita del Santuario risale alla prima metà del III secolo a.C. A causa di un terremoto, le mura di Akragas sono danneggiate e i punici provvedono a una loro ricostruzione su una linea più arretrata: l’Olympieion viene trasformato in fortezza e il tempio di Eracle in bastione: di conseguenza, tutto il complesso viene sconsacrato e abbandonato. Probabilmente, per la presenza dell’incasso per un pinax votivo, la nella zona adiacente alla vasca, vi era una nuova porta d’accesso alla polis.

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Published on October 10, 2021 06:38

October 9, 2021

Madonna della Mazza

Quest’anno, nel mio soggiorno palermitano, ho avuto l’occasione di visitare una chiesa che, per una serie di vicende bizzarre, era rimasta chiusa da anni è che è dedicata alla cosiddetta Madonna della Mazza. Nome strano, associato a un iconografia ancora più bizzarra: la Vergine, in realtà definita del Soccorso, è rappresentata con al braccio sinistro Gesù Bambino, mentre con il destro brandisce un bastone, nell’atto di picchiare o scacciare Satana, in genere raffigurato terrorizzato ai suoi piedi.

Da dove trae origine questo culto ? Come raccontato in un altro post, intorno all’anno 1275, a Palermo, gli agostiniani, fondarono un loro convento annesso alla chiesa dei santi francesi Dionigi, Rustico ed Elueterio, che, dopo i Vespri Siciliani e la cacciata degli angioini, per non avere rogne con i nobili locali fu dedicata a Sant’Agostino.

In questa chiesa, in una delle cappelle laterali, che era stata in origine una chiesetta dedicata a san Nicola di Bari, di proprietà della nobile famiglia Maida, titolata a san Martino di Tours, si venerava un’immagine di Maria Santissima: una tela incollata su tavola con fondo oro, attribuita ad un ignoto pittore siculo-bizantino del ‘200, raffigurante la Madonna di tre quarti, con capo appena piegato, con in braccio il Bambino, rappresentato in postura inusuale (appoggiato di spalle e con un piedino sulla mano della Madre).

Come narra il buon Mongitore nel 1306, tra quella cappella e quel convento accadde un evento, che diede origine a questa peculiare devozione. Il priore del convento, padre Nicola la Bruna stimato teologo e predicatore, soffriva da tempo di continue fitte al fianco, divenute ormai acutissime, che immagino sia stati dovute alle coliche renali.

Devoto di Maria, si recò alla suddetta cappella, implorando l’intercessione della Vergine. Da lì a poco, una notte, in sogno, gli apparve la Madonna, nelle stesse sembianze, invitandolo ad alzarsi, perché guarito, e ordinandogli di render noto il miracolo, chiedendo che fosse invocata con il titolo di “Madonna del Soccorso” e promettendo la sua protezione. Il priore si svegliò totalmente guarito; si recò dall’arcivescovo palermitano Bartolomeo Antiocheno e dal magistrato della città, riferendo e attestando l’accaduto.

Dato che un miracolo implicava pellegrinaggi e business, l’arcivescovo colse al volo l’occasione, promosse una solenne processione alla quale si associò l’intera città e con la quale si dava avvio al culto della Madonna del Soccorso, che sarebbe stato simbolicamente completato da un altro episodio, che, in teoria, sarebbe avvenuto sempre nel 1306.

Protagonista, una giovane mamma del Capo, alquanto esasperata e un bambino particolarmente vivace. Dato che il pupo gliene combinava di tutti i colori, la donna era solito mandarlo al diavolo, finchè, una volta, deve averla veramente combinata grossa, cominciò a invocare il demonio, affinchè venisse a prendere il figlio e trascinarlo all’Inferno. Detto, fatto ! Apparve dal nulla Satanasso, che si avvinghiò sul bambino. Dopo avere rischiato il proverbiale coccolone, la madre cominciò a pregare la Madonna.

La leggenda narra che questa apparve subito, con in mano un grosso e nodoso bastone e cominciò a prendere a randellate in capo il diavolo, che vista la situazione, fuggì a gambe levate, per tutto il mercato del Capo, sempre inseguito dalla Vergine, mentre il bambino tornava in lacrime tra le braccia della madre. Alla fine, pieno di lividi e di ammaccature, Satanasso si infilò dentro una buca nel terreno all’altezza della chiesa di San Gregorio, per tornarse giù all’Inferno. La donna, recatasi nella chiesa di Sant’Agostino e indugiando nella cappella di san Martino, riconobbe nella sacra immagine mariana la splendida benefattrice della sua casa e rese pubblica la grazia, in memoria della quale si dipinse un’altra immagine della Vergine recante una mazza, con un fanciullo in cerca di rifugio presso di lei, che fu poi collocata accanto al primo quadro.

Dato che la scena appare in numerose Sacre Rappresentazione medievali, è probabile che gli Agostiniani, per incrementare la devozione alla Vergine del Soccorso, l’abbiano recitata in pubblico e dopo un paio di generazioni, la fantasia popolare abbia trasfigurato il ricordo di tale evento. Ad ogni modo, la Vergine del Soccorso, con la sua strana iconografia, divenne la protettrice dell’ordine religioso: sempre Mongitore ricorda che

“in ossequio della Madonna del Soccorso in questa cappella fu prima del 1484 fondata una Confraternita, che dal generale dell’Ordine… fu aggregata all’Arciconfraternita della Madonna della Consolazione di Bologna”

Dato che non c’è due senza tre, sempre nella chiesa di Sant’Agostino, avvenne pure un altro miracolo. Nel 1504, sempre secondo Mongitore, che ricordiamolo, scrive queste storie più di un secolo dopo, a una giovane paralizzata sin dall’infanzia, apparve la Vergine, che si sciolse la cintura d’argento, ne cinse ai lombi alla ragazza, in modo che non si potesse sciogliere dal suo corpo se non, come affermò, nella chiesa in cui si trovava l’immagine somigliante alle sembianze in cui le stava apparendo.

Il simulacro fu trovato nella chiesa di Sant’Agostino: era l’icona della Madonna del Soccorso. Alle grida della miracolata accorsero gli agostiniani, e alla di lei domanda se fossero tutti presenti il priore rispose che mancava solo un ammalato, paralitico da ventiquattro anni. Questi fu portato in chiesa e, stese pudicamente le mani verso la cintura, subito la sciolse, mentre egli stesso guariva improvvisamente.

Così Mongitore termina la storia

O meravigliosi incontri di varie vie, ma ad accertato termine indirizzati dalla divina previdenza. Renderono tutti alla Regina del cielo quelle grazie, quali seppero maggiori, si cantò il Te Deum laudamus, si convocarono i fedeli a suono di campane, e la cintola si conservò, e pur hoggidì si conserva nel detto convento di S. Agostino”

Sempre in vena di pettegolezzi sacri, il nostro cronista racconta che i Padri Agostiniani, non volendo che la cintura miracolosa fosse custodita nella Cattedrale, sempre perchè una reliquia da prestigio e porta donazioni ed elemosine,

“per non restarne privi, l’occultarono, rimanendo per molto tempo come sepolta. Ma uno di loro cui doleva non poco che quella rimanesse nascosta senza il dovuto onore, celatamente la estrasse e seco la trasferì a Venezia, dove la fe’ incastrare in una nobilisima Croce di cristallo, e poscia la ritornò al suo Convento di Palermo. Dubitando però alcuni che il Religioso non fosse stato fedele in tal maneggio, volle la Santissima Vergine dissipare ogni sospetto con operare per mezzo di essa evidentissimi miracoli, giovando il suo salutifero tocco ad ogni sorta di infermi”.

Terminata questa divagazione storico antropologica, torno al discorso principale: in origine la chiesa sorgevaall’inizio della nostra via Ugo Antonio Amico e fu voluta dal Priorato di San Niccolò del Bosco di Caccamo, che aveva fondato a Palermo una chiesa così intitolata, insieme ad una Gancia per ospitare i propri monaci ed era probabilmente in stile gotico chiaromontano. Nel 1424, il Priore frà Giovanni Picciuto accolse la richiesta di alcuni caccamesi che avevano fondato la Confraternita di San Maria del Soccorso . A inizio Cinquecento, sfruttando il boom della devozione dovuto al miracolo di Sant’Agostino, la chiesa fu ristrutturata e la confraternità non lesinò sulle spese, tanto che Castellucci nel giornale sacro Palermitano, la definì magnifica

Nel 1598 il duca di Maqueda Bernardino de Càrdenas y Portugal, vicerè di Sicilia, decise di trasformare in fatti le una quarantina d’anni di chiacchiere del Senato palermitano, dando avvio ai lavori per un nuovo asse viario, perpendicolare al vecchio Cassaro, la nostra via Maqueda: sfortuna volle che la chiesa si trovasse proprio in mezzo alla strada. Maqueda, tutt’altro che religioso, non si fece problemi e la fece demolire: ma tante furono le proteste dei confrati, appoggiati dagli agostiniani: così, come risarcimento, venne concessa loro un’area a pochissima distanza, il luogo dove tra il 1603 e il 1606 essi edificarono la chiesa attuale, su probabile progetto di Mariano Smiriglio, che tra l’altro è proprio sepolto nella sua cripta. Ulteriori lavori furono eseguiti nel 1748 e nel 1797.

La semplice facciata è di forma quasi quadrata. Inquadrato tra due lasene di ordine gigante il portale di eleganza ancora gaginesca. Nell’edicola sopra il timpano è una bella Madonna della Mazza. In alto sulla sinistra il piccolo campanile. L’impianto interno è basilicale, con tre navatine divise da pilastri binati. Una volta, la chiesa era ricca di opere d’arte. Una volta vi erano conservate numerose opere d’arte come un Ecce Homo tardo settecentesco e due tele dello Zoppo di Gangi, un San Girolamo (1609) e un S. Giuseppe. Probabilmente dello stesso pittore anche il Giudizio Universale posto nel lato destro del transetto.

Ancora attribuita allo Zoppo una Trasfigurazione nella tribunetta alla sinistra del presbiterio. In quella di destra è invece un Crocifisso ligneo seicentesco e una Coronazione di Spine dei primi decenni dello stesso secolo. Le altre opere conservate sono di Giuseppe Salerno, un San Carlo Borromeo, un S. Antonio Abate e una Immacolata Concezione. Attualmente, queste opere sono conservate nel Museo Diocesano: eppure, nonostante la sua semplicità, la chiesa è di gran fascino e suggestione.

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Published on October 09, 2021 09:20

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Alessio Brugnoli
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