Vita e Morte di Pico della Mirandola
Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine
E’ un brano dell’Oratio de hominis dignitate, con cui Pico della Mirandola da una delle più belle definizioni della Natura Umana. Pico, detto fra noi, è un personaggio straordinario, che se fosse vissuto nel mondo anglosassone, gli avrebbero dedicato decine di romanzi e di film: in Italia, purtroppo, è conosciuto, più o meno, per la sua proverbiale memoria e per essere stato l’ispirazione del nome italiano dello zio di Paperino, Ludwig von Drake, il nostro Pico de Paperis, noto per il suo spropositato numero di lauree, spesso bizzarre o inutili.
Pico nasce il 24 febbraio 1463 a Mirandola, presso Modena, il figlio più giovane di Gianfrancesco I, signore di Mirandola e conte della Concordia (1415-1467), e sua moglie Giulia, figlia di Feltrino Boiardo, conte di Scandiano. Come si può intuire, tutto si può dire, tranne che fosse un morto di fame: La famiglia aveva a lungo abitato il castello di Mirandola, città che si era resa indipendente nel XIV secolo e aveva ricevuto nel 1414 dall’imperatore Sigismondo il feudo di Concordia. Pur essendo Mirandola uno stato molto piccolo, i Pico governarono come sovrani indipendenti piuttosto che come nobili vassalli. I Pico della Mirandola erano strettamente imparentati agli Sforza, ai Gonzaga e agli Este, e i fratelli di Giovanni sposarono gli eredi al trono di Corsica, Ferrara, Bologna e Forlì.
Dopo la morte del padre, si scatenano una serie di discussioni sulla divisione dell’eredità, che porta a un accordo tra i suoi tre fratelli maggiori, nel 1469: Pico, sotto la tutela della madre, riceve un vitalizio: l’idea è che, da buon cadetto, prenda gli ordini sacri e si arricchisca con la carriera ecclesiastica, collezionando benefici. A tal proposito, nel maggio o nel giugno del 1473 il cardinale Francesco Gonzaga conferisce a Pico in Bologna il titolo di protonotario apostolico. Ora, con il ritorno del Papa a Roma da Avignone, era sorto il problema di riorganizzare tutta l’ammistrazione della Curia Pontificia; sette notari che assunsero il nome di protonotari, cioè di “primi notari” e avevano il compito di stendere gli atti apostolici della Curia romana, da cui l’aggettivo “apostolici”.
Ovviamente, il numero iniziale si dimostrò insufficiente alle esigenze burocratiche: per cui furono creati i soprannumerari, possiamo definirli notai aggiuntivi e gli ad instar participantium, provvisori, che servivano a gestire improvvisi carichi di lavoro. Dato che questa carica dava potere, soldi e prestigio, si scatenò la corsa per ottenerla. Per evitare problemi e casini, fu istituita una sorta di preselezione, con la nomina dei titolari, una sorta di riserva: questi non facevano parte dell’organigramma della Curia pontificia, non percependo stipendio e non godevano di eventuali benefici ecclesiastici. Però, in caso di morte o indisposizione di un titolare, avrebbero avuto la priorità nell’occupare questo ufficio. Dato che la preselezione era assegnata a vescovi e cardinali, questi non si fecero scrupolo di assegnare il ruolo a amici e parenti. Alla fine ci furono talmente tanti protonotari apostolici titolari, come nel caso di Pico, che questo si ridusse a poco più di un titolo onorifico.
Pico trascorre il biennio 1477-78, godendo di una sorta di borsa di studio pontificia, per studiare giurisprudenza, nell’Università di Bologna, città dove si era trasferita anche la madre Giulia, in lite con il figlio Galeotto, sempre par la questione dell’eredità. Giulia muore il 13 agosto 1478: Pico, che non vuole essere infognato nelle beghe familiari, trova un accordo con i fratelli. In cambio, ottiene un aumento del vitalizio e la possibilità di abbandonare gli studi giuridici e la carriera ecclesiastica e dedicarsi alla sua passione, lettere e filosofia.
Per questo si recò allo Studio di Ferrara, dove giunfe il 29 maggio del 1479 ma, in un mese imprecisato di quell’anno (con ogni probabilità nella primavera del 1479) si trasferisce brevemente a Firenze incontrando forse per la prima volta Marsilio Ficino, Agnolo Poliziano e Girolamo Benivieni, che lo ricorda poi nella sua Bucolica, stampata nel 1482. A Ferrara, dove soggirona tra il maggio 1479 e la tarda estate del 1480, stringe amicizia con Battista Guarino, conosce Niccolò Leoniceno e Tito Vespasiano Strozzi e probabilmente ha i primi contatti con Savonarola.
Nell’autunno del 1480 Pico si trasferisce a Padova per approfondire gli studi filosofici. Il soggiorno, che si protrae sino all’estate del 1482, gli permette di approfondire la conoscenza di Averroè e l’averroismo: a Padova, infatti, Pico ha modo di ascoltare Nicoletto Vernia e soprattutto di incontrare Elia del Medigo, proveniente da Creta, che all’epoca era una colonia veneziana, e già inserito nell’ambiente padovano.
Elia era un ebreo anticonformista e per usare un termine moderno, un libero pensatore, contrario a ogni superstizione: per lui, la conoscenza di Dio e del Mondo doveva basarsi sulla Ragione, non sul misticismo. Per questo, aveva studiato a fondoo Aristotele e soprattutto Averroè, di cui era in grado di leggere anche gli scritti e i commenti tradotti in ebraico nei secoli precedenti e non ancora noti ai latini. Il suo averroismo è in realta un tentativo di esegesi e di ricostruzione del pensiero originale Aristotele contro le mescolanze dottrinarie con il platonismo, dovute dell’avicennismo e della grande scolastica latina. Per questo, Elia ebbe un approccio genetico e filologico al pensiero di Averroè e di Aristotele, insegnando a Pico le stratificazioni temporali, di conquista successiva della verità, che si scorgono all’interno delle opere dei due filosofi. Cosa assa peculiare per l’epoca insegnamento non fu esercitato solo sui problemi dell’intelletto, che formavano l’interesse precipuo degli averroisti padovani, ma anche sulle questioni del corpus biologico e zoologico di Aristotele. Tra l’altro Elia, è uno dei primi a intuire la natura dei fossili, che lui interpreta come resti degli animali morti durante il diluvio universale.
Elia traduce per Pico durante questo primo soggiorno padovano parecchi commenti averroistici ignoti ai latini e continua a farlo anche quando Pico si allontanò da Padova, in particolare nel corso di due altri incontri che h con Pico: a Firenze nell’estate 1485 e a Perugia e Fratta nell’estate del 1486.
Nella primavera del 1482 Pico lascia Padova, probabilmente a causa dello scoppio della guerra tra la Repubblica veneta e il duca di Ferrara, e si rifugia a Mirandola, dove è raggiunto dal grande editore veneziano Aldo Manuzio. Presso Pico Aldo trova un greco, Emanuele Adramitteno, che il conte aveva condotto con sé da Padova come maestro di lingua: Emanuele, pur essendo un esperto umanista, era un uomo dalla profonda religiosità, in perenne polemica con i seguaci di Gemisto Pletone.
Questo umanista greco era accusato di essere neopagano: in realtà sosteneva, neppure a torto, che Ebraismo, Cristianesimo e Islam, non fossero che delle evoluzioni dell’antica religione di Zoroastro e per andare oltre le loro polemiche e divisioni e ristabile una nuova epoca di pace universale, bisognasse tornare a questa radice comune, creando una società ideale teocentrica fondata sul culto del dio Sole. Ovviamente, questo provocò uno sproposito di polemiche all’epoca. Ad esempio, l’umanista greco Giorgio da Trebisonda così racconta
Io stesso l’ho ascoltato a Firenze, poiché egli venne al Concilio insieme ai Greci, affermare che il mondo intero, dopo pochi anni, avrebbe aderito ad una sola ed identica religione, con un solo animo, una sola mente, un solo insegnamento. E quando io gli chiesi: ‘Quella di Cristo o di Maometto’?, egli rispose: ‘Nessuna delle due, ma una non diversa da quella dei Gentili’. Fui così scandalizzato da tali parole che l’ho sempre odiato e l’ho sempre temuto come una vipera velenosa, e non ho più potuto sopportare di vederlo o di ascoltarlo. Ho anche saputo da alcuni greci, che qui erano fuggiti dal Peloponneso, che egli aveva pubblicamente affermato, circa tre anni prima di morire, che – non molti anni dopo la sua morte – Maometto e Cristo sarebbero stati dimenticati e la effettiva verità avrebbe trionfato in ogni parte del mondo
Polemica che portò alla distruzione del suo Trattato sulle leggi, in cui si parlava dei questa società ideale e in cui è presente il suo inno al Sole, il cui incipit è il seguente
Apollo re,
tu che regoli e governi tutte le cose nella loro identità,
tu che unifichi tutti gli esseri,
tu che armonizzi questo vasto universo così vario e molteplice,
o Sole, Signore del nostro cielo,
sii a noi propizi
Pletone morì a Mistrà, la capitale del Despotato di Morea, nei pressi dell’antica Sparta, da cui deriva il nome del liquore, il 26 giugno 1452, quasi centenario. Il cardinal Bessarione, che lo stimava nonostante le differenti idee.
Ho saputo che il nostro comune padre e maestro ha lasciato ogni spoglia terrena ed è salito in cielo…per unirsi agli dèi dell’Olimpo nel mistico coro di Iacco. Ed io mi rallegro di essere stato discepolo di un tale uomo, il più saggio generato dalla Grecia dopo Platone. Cosicché, se si dovessero accettare le dottrine di Pitagora e Platone sulla metempsicosi, non si potrebbe evitare di aggiungere che l’anima di Platone, dovendo sottostare agli inevitabili decreti del Fato e compiere quindi il necessario ritorno, è scesa sulla terra per assumere le sembianze e la vita di Gemisto. Personalmente, dunque, come ho già detto, mi rallegro all’idea che la sua gloria si rifletta anche su di me; ma se voi non esultate per essere stati generati da un padre simile, voi non vi comporterete come si conviene, perché non si deve piangere un tale uomo. Egli è diventato motivo di grande gloria per l’intera Grecia; e ne sarà l’orgoglio dei tempi a venire. La sua reputazione non perirà, ma il suo nome e la sua fama saranno perennemente tramandati a futura memoria
Nè fu dimenticato da Sigismondo Malatesta, quello che Ezra Pound definiva il migliore perdente della Storia, che nel suo tentativo di liberare il Peloponneso dai Turchi, portò i suoi resti in Italia, per seppellirli nel Tempio Malatestiano di Rimini. Tornando a Pico, Emanuele Adramitteno, oltre a fargli approfondire la conoscenza dei classici, rafforza la sua profonda religiosità, che ogni tanto fa capolino nella sua vita.
Nel settembre 1483 Pico accompagna Adramitteno a Pavia, dove il greco aveva trovato forse una condotta di insegnamento. Ma presto ritorna indietro; Aldo lo incontra infatti di nuovo a Carpi, nel novembre 1483, presso la sorella Caterina, vedova ormai di Leonello Pio, signore della cittadina. A Carpi Pico si ferma sicuramente sino al luglio, ma già nella tarda estate o nel primo autunno del 1484 si recò a Parigi, per un viaggio di cui non si sa quasi nulla. Ritornato dalla Francia, si reca sui primi di dicembre del 1484 a Firenze, desideroso di approfondire lo studio di Platone: Pico, per gli studi compiuti con Adramitteno, nonostante l’opinione del suo primo maestro Elia del Medigo, si era convinto che analizzando in profondità – di là dalla corteccia delle parole – le soluzioni ai diversi problemi filosofici elaborate da Platone e da Aristotele, si poteva dimostrare la sostanziale loro concordanza,
A Firenze Pico incontra una società ben diversa da quella feudale e cortigiana che aveva conosciuto sino ad allora, in cui, a prescindere dalla gerarchia sociale, che certo esisteva, contavano soprattutto il sapere e la cultura. Qui poté vivere davvero ciò che dall’inizio della rivoluzione petrarchesca aveva significato l’adozione del ‘tu’ latino e umanistico, e così si trovò a cooperare con uomini come Ficino e Poliziano, di famiglie borghesi, che dovevano il loro riconoscimento sociale solo alla loro capacità di studio e insegnamento.
L’incontro con la cultura fiorentina comporta poi anche fare i conti con una tradizione volgare ben più cólta e articolata di quella praticata nelle corti settentrionali, in cui di fatto si parlava un mix tra dialetto locale e calchi dal latino e dal toscano, e con una lingua non solo volta al verso, ma anche a prose morali, religiose e filosofiche, in cui si esercitava anche il primo cittadino di Firenze, Lorenzo il Magnifico, che sempre ammirò, amò e protesse Pico, il quale, alcuni anni dopo, il 15 luglio 1486, gli indirizzò una lettera, dove si trovavano acuti giudizi sulla poesia di Dante e Petrarca.
Nell’estate del 1485 lo raggiunge a Firenze Elia del Medigo, che, tra l’altro, tradusse per lui la parafrasi di Averroè della Repubblica platonica. Una lettera di Ficino a Domenico Benivieni databile al 1485 rivela delle dispute frequenti, avvenute nella casa di Pico, che Elia e un certo Abraham avrebbero sostenuto contro l’ebreo converso Guglielmo Raimondo Moncada (meglio conosciuto poi con il nome di Flavio Mitridate) a proposito della veridicità delle profezie veterotestamentarie riguardanti Cristo.
Guglielmo è un altro personaggi da romanzo che appaiono in questo post: figlio di un rabbino arabo-spagnolo, si convertì al cattolicesimo poco prima del 1470. Verso il 1477 si trasferì a Roma, dove, per la sua conoscenza delle lingue orientali e della letteratura cabalistica, si conquistò la stima del card. Giovan Battista Cybo (il futuro Innocenzo VIII) e di Sisto IV, ed entrò in rapporto con Federico di Montefeltro duca di Urbino: per gli uni e per l’altro eseguì la traduzione in latino di numerosi testi cabalistici. Nel 1482 insegnava teologia alla Sapienza. Costretto per un oscuro delitto a lasciare Roma, si recò a Colonia (dove nel 1484 pubblicò Dicta septem sapientium), poi a Lovanio, per poi tornare a Firenze.
Al 1485 risale anche una delle polemiche culturalmente più significative sostenute da Pico. Barbaro, infatti, gli aveva scritto per esortarlo a proseguire gli studi greci, mostrandosi d’accordo sulla sua idea di una concordia tra Platone e Aristotele, ma aveva poi inveito contro l’ultima Scolastica, contro i ‘Teutoni’ «sordidi, rudes, inculti, barbari»; quasi ci fosse un nesso necessario tra l’eleganza dello stile e la capacità di indagare il vero. Pico rispose prontamente, il 3 giugno 1485, con una lettera, subito celebre, in cui difese la tradizione filosofica dell’antica e moderna scolastica, con il suo patrimonio di distinzione e di chiarezza, ma anche con una sua particolare e rispettabile lingua e sintassi (lo stilus parisiensis), elevando di fronte al più vecchio e rispettabile amico una coraggiosa e ferma protesta contro la vuotezza di certa cultura del suo secolo, unicamente letteraria e retorica. Questa difesa di Pico, alla fine del XV secolo, non deve essere considerata alla stregua di neomedievalismo, bensì come atteggiamento caratteristico di alcuni dei meno convenzionali e più aperti ambienti umanistici e di quella parte, altresì, dell’aristotelismo universitario che più era volta al rinnovamento della propria disciplina.
Pico trascorre a Firenze l’inverno tra il 1485 e il 1486, probabilmente impegnato, assieme a Flavio Mitridate, nello studio dell’ebraico, dell’arabo e forse già della Cabala. Ma il 1486 è segnato anche da uno scandalo amoroso: Pico si è innamorato infatti, corrisposto, di Margherita, moglie di Giuliano di Mariotto di Medici (un ramo povero della grande famiglia), che esercita le gabelle di Arezzo. Il 10 maggio 1486, mentre la donna è uscita fuori dalle mura di Arezzo, il conte, probabilmente diretto a Roma con un nutrito gruppo di suoi servitori, finge di rapirla portandola verso i confini della Repubblica di Siena. Arezzo tutta è messa a rumore e il podestà fiorentino della città, Filippo Carducci, inseguì Pico e la sua scorta. Alcuni sono uccisi nello scontro e Pico è fatto prigioniero nelle vicinanze di Marciano, vicino al confine senese. Era un’intrapresa che il conte si sarebbe potuto permettere impunemente con un piccolo borghese dei suoi paesi, ma non in Toscana, adusa da tempo ad alcune garanzie di protezione legale. Per sua fortunaLorenzo de’ Medici interviene e tutto si risolve in un congruo versamento di denaro al marito. Dopo quest’incidente – forse anche per dimenticare e far decantare il clamore dello scandalo – Pico si trasferisce a Perugia e poi a Fratta, presso l’amico perugino Alfano degli Alfani. Qui compose la sua prima opera di impegno filosofico, il Commento sopra una canzona de amore composta da Girolamo Benivieni, in cui critica l’interpretazione neoplatonica di Marsilio Fucino.
A Perugia e a Fratta Pico ha di nuovo ospite Elia del Medigo, con cui lavorò ancora su testi di Averroè. Nell’autunno e nel primo inverno 1486, fatto ritorno a Firenze, si immerge completamente, con l’aiuto di Flavio Mitridate, nello studio dell’arabo e dell’ebraico. Questo converso, di bizzarro e protervo carattere, ma grande conoscitore dell’ebraico, dell’arabo e della tradizione cabalistica, traduce dapprima una serie di testi esegetici ebraici medievali (come il commento al Cantico dei Cantici di Levi ben Gershom), poi inizia la versione di una lunga serie di scritti cabalistici, il primo dei quali fu probabilmente il Commento al Pentateuco di Menachem da Recanati. Era un interesse, questo per la Cabala, che Ficino condannava, ma da cui dissentiva fortemente anche Elia – odiatissimo da Mitridate – come appare in una lettera che il Cretese scrisse a Pico allorché questi, sul finire dell’anno, si trovava già a Roma.
Lo studio della Cabala – con quelli precedenti sulla tradizione aristotelica, platonica e scolastica – doveva servire a Pico alla compilazione nell’autunno del 1486 di novecento tesi che egli voleva discutere a Roma in una grande disputa da tenersi nei giorni successivi all’Epifania dell’anno seguente, in cui avrebbe potuto dimostrare la convergenza di tutte le grandi tradizioni filosofiche e teosofiche dell’Occidente e dell’Oriente. Le Conclusiones nongentae publice disputandae, pubblicate a Roma il 7 dicembre 1486, sono tesi tratte dal patrimonio di tutte le scuole filosofiche e teologiche antiche e moderne; vi sono presenti opinioni non solo dei filosofi antichi, degli arabi, degli ebrei, degli scolastici, ma anche di Ermete Trismegisto, degli antichi maghi e dei cabalisti. Tratte dalla Cabala, le Conclusiones sono veramente la prima notizia fedele delle dottrine segrete del misticismo e della teurgia ebraica che gli intellettuali latini abbiano avuto a disposizione.
A introduzione della grande disputa Pico scrive nell’autunno del 1486 l’Oratio de hominis dignitate: il problema è che tutto questo sforzo di sintesi, nel far convergere posizioni differenti, somigliava parecchio a quello di Gemisto, che papa Innocenzo VIII, molto liberal quando si trattava di questioni di figli illeggittimi e corruzione, guardava con il fumo negli occhi. Il 20 febbraio 1487 il papa emana un breve con cui sospendeva la discussione, affidando a una commissione di teologi il compito di esaminare le Conclusiones e che, riunitasi il 2 marzo 1487, decretò che sette conclusioni risultavano eretiche, mentre altre sei erano in odore di eresia. Pico risponde con la pubblicazione, nel maggio di quell’anno, dell’Apologia conclusionum suarum, in cui si esaltava la libertas philosophandi su tutti i punti che la Chiesa aveva lasciato indecisi. Importanti furono per i contemporanei i chiarimenti dati nell’opera a proposito della magia naturale e della Cabala e l’aperta rivendicazione della possibilità della salvezza eterna di Origene, che fece grande impressione a Erasmo e alla teologia umanistica francese dei primi anni del XVI secolo.
Difesa che Innocenzo VIII non gradisce, tanto da sottoporlo al processo dell’Inquisizione, che condanna in blocco tutte le Conclusiones e ordina l’arresto di Pico, che per non fare una pessima fine, scappa in Francia a gennaio 1488. Varcato il confine, è arrestato nel febbraio 1488 nei dintorni di Lione dagli uomini di Filippo di Savoia, signore di Bresse, che lo consegnò a Carlo VIII, grande amico dei Pico. Il re, più che altro per offrirgli protezione contro le rimostranze dei nunzi papali, lo fece ‘imprigionare’ nella rocca di Vincennes, da dove, rilasciato ai primi di marzo del 1488, facendo una lunga diversione verso il Reno per visitare la biblioteca legata all’ospedale di Kues dal cardinale Cusano, faritorno a Firenze. Tuttavia, il contrasto con Roma, soprattutto mediante i buoni uffici di Lorenzo il Magnifico, poté essere chiuso solo il 18 giugno 1493 con una bolla di assoluzione di Alessandro VI, che nonostante la sua brutta fama, era di parecchie spanne superiore al fenomeno da baraccone del predecessore.
Il nuovo soggiorno fiorentino vede Pico, nuovamente immerso nello studio della Sacra Scrittura, sempre più dibattersi in problemi religiosi e teologici. Lo coadiuvava ora nello studio dell’ebraico Jochanan Alemanno, un ebreo, stabilitosi nel 1488 a Firenze, grande esegeta della Scrittura. Frutto di tali studi sono, tra le altre cose, la traduzione di Giobbe dal Vaticano Ottoboniano latino 607, il commento ad alcuni Salmi e l’Heptaplus, stampato alla fine del 1489, che dimostra come Pico non avesse rinunciato alle sue idee: vi è fatto grande uso dell’esegesi ebraica alla Genesi, è continuamente richiamata l’esegesi cabalistica e vi si trovano idee dell’Oratio e delle Conclusiones. E non a caso l’opera irrita ancora di più Roma, da cui lo difendeva vivacemente Lorenzo, con la mediazione degli ambasciatori fiorentini presso la Curia.
Pico aveva ottenuto dal Magnifico di far tornare Savonarola a Firenze, dove il frate giunse nell’estate del 1490. Il rapporto con Pico, vòlto ormai alla meditazione religiosa, è subito molto stretto: Savonarola sperava presto o tardi di farne un grande luminare dell’Ordine domenicano osservante, ma la cultura dei due aveva una genesi troppo diversa. Pico aveva ben più alta stima dei pensatori antichi, credeva fermamente ancora – come disse in un colloquio con il frate, conservatoci da Pietro Crinito – «posteris etiam se probaturum Christi religionem magna ex parte cum veteri philosophia consentire»; ma soprattutto esitava di fronte alle insistenze di Savonarola a prender l’abito, perché, diciamola tutta era un grande donnaiolo.
Altrettanto stretto diventa anche il rapporto con Poliziano per cui compose verso la fine del 1490 l’opuscolo De ente et uno, frammento, nelle intenzioni di Pico, di una progettata concordia tra Platone e Aristotele. Nell’aprile 1491 – per attendere più quietamente agli studi – Pico cede al nipote Giovan Francesco dei suoi redditi feudali in Mirandola e Concordia dietro il compenso di trentamila ducati d’oro.
Nel giugno 1491 si reca in compagnia di Poliziano a Venezia facendo sosta a Bologna, Ferrara e Padova: in ogni città cercarono libri e rividero amici letterati. L’8 aprile 1492 muore Lorenzo de’ Medici, uno dei più sinceri sodali e patroni di Pico, che accorse subito – come è descritto in una famosa lettera di Poliziano ad Antiquario – al capezzale del morente assieme a Savonarola. Aderendo probabilmente a un progetto ideato da quest’ultimo, teso alla confutazione di tutte le pratiche divinatorie e superstiziose, nel corso del 1492 Pico inizia le Disputationes adversus astrologos, pubblicate postume dal nipote Giovan Francesco.
L’opera è tesa a dimostrare che i cieli e le stelle non emanano alcun influsso, ma solo luce e calore, che essi non sono cause dirette dei fenomeni, ma cause remote e lontanissime, uniformemente determinanti tutta la realtà sublunare e quindi non suscettibili di dare indicazioni utili intorno agli accadimenti terreni particolari. Nel restituire ai fenomeni le cause proprie e prossime, Pico oppose alle pseudoragioni della letteratura astrologica antica e medievale il recupero della genuina filosofia naturale e biologica di Aristotele, tentando di comprendere le esigenze psicologiche e sociali cui cercava di rispondere questa vera e propria sopravvivenza degli antichi culti astrali all’interno della civiltà cristiana che era l’astrologia. Nel condurre questa ‘storia filosofica’ della superstizione, Pico ebbe modo di iniziare la confutazione di quel particolare modo di concepire il succedersi delle grandi religioni profetiche che da Abumasar in poi è noto come ‘oroscopo delle religioni’. Come Pico si era a suo tempo ben reso conto della pericolosità del sincretismo neoplatonico, così, dopo che Ficino mostrò di credere (nel De vita del 1489) all’astrologia talismanica, egli appuntò la sua polemica di filosofo cristiano contro questo miscuglio, creatosi nei secoli precedenti, di aristotelismo e teorie astrologiche che portava a considerare l’uomo, la sua volontà, i profeti, i miracoli, le religioni – e le costituzioni politiche che ne derivavano – semplicemente alla stregua di capricciose e variopinte forme di cui gli astri si divertirebbero ad adornare la materia sublunare.
A due mesi dalla morte dell’amico Poliziano (24 settembre 1494), anche Pico cessava di vivere, vestendo finalmente l’abito domenicano, il 17 novembre 1494: all’epoca si parlò, conoscendo le abitudini del filosofo, di sifilide. Uno studio,nato dalla collaborazione fra le università italiane di Pisa, Bologna e del Salento con quella spagnola di Valencia, la britannica di York e il tedesco Max Planck Institute e con gli esperti del Ris di Parma, ha però mostrato dopo secoli, una realtà differente. Ossa, unghie, tessuti molli mummificati, vestiti, legno della cassa trovati nella sepoltura e conservati in un chiostro vicino alla basilica fiorentina di San Marco, sono stati sottoposti a una serie di analisi di carattere biologico e chimico-fisico sia per confermare l’identificazione dei resti, sia per rilevare l’eventuale presenza del veleno; le analisi hanno mostrato segni riconducibili a intossicazione da arsenico e che i livelli del veleno erano potenzialmente letali, compatibili con la morte per avvelenamento acuto.
Un’analisi analoga è stata eseguita sui resti di Angelo Poliziano, sepolti in una tomba vicina a quella di Pico. In questo caso però non risulta confermata l’ipotesi dell’avvelenamento perché i livelli di arsenico trovati sono piuttosto attribuibili a un’esposizione cronica al veleno, causata probabilmente da fattori ambientali o trattamenti medici. Ora, questa ricerca conferma quanto sospettato all’epoca.
Nei Diari del letterato Marino Sanudo si legge che il 22 aprile del 1497, circa tre anni dopo la morte di Pico, il Governo di Firenze, capeggiato allora da Savonarola, fece arrestare un certo numero di cittadini accusati di parteggiare per Piero de’ Medici, che voleva riconquistare la città. Cinque di loro furono addirittura decapitati. Fra questi, Cristoforo di Casalmaggiore, che era stato segretario di Pico e che – chissà perché – confessò di averlo avvelenato. L’avrebbe fatto perché, il giorno prima della morte, Pico aveva intestato al fratello di Cristoforo, Martino, amministratore dei suoi beni, tutto il bestiame, e soltanto la morte del Signore poteva rendere disponibile subito quell’eredità. Così, per una bieca questione di soldi e di politica, Cristoforo era filo mediceo, mentre Pico era ormai passato all’opposizione, fu ucciso uno dei geni del Quattrocento…
Alessio Brugnoli's Blog

