Alessio Brugnoli's Blog, page 21
September 10, 2021
Giorgione street artist
Come accennavo, parlando della testimonianza di Vasari, documenti certi sulla giovinezza di Giorgione non ce ne sono, tanto che, dopo anni ancora stiamo discutendo sul suo cognome. Da una parte, Enrico Maria dal Pozzolo segnala che in alcune carte dell’archivio storico del Comune di Castelfranco Veneto si fa cenno ad un tale Zorzi, nato nel 1477 o 1478, il quale nel 1500 fa domanda al Comune per essere esentato dal pagamento delle tasse in quanto non più residente nel paese; dato che il soprannome di Giorgione gli fu dato solo dopo la morte, il nostro Zorzi è stato identificato con il pittore. Il problema è che, con la datazione emersa dal codice di Sidney, il nostro Giorgione dovrebbe essere nato un paio di anni prima.
Per cui non il documento sul Giorgio, il tredicenne incarcerato a Venezia per commesso un qualche piccolo reato, che si era ipotizzato essere connesso alle inadempienze del contratto di apprendistato nella bottega di Bellini o del Carpaccio, potrebbe non essere lui. Lo stesso tizio, soprannominato Zorzon, che nel 1483 viveva a Castelfranco con la madre, con di una modesta rendita derivante da tre campi messi a livello e di un reddito 12 Lire provenienti dalla propria bottega artigianale, di cui però non sappiamo la tipologia.
Insomma, o ha ragione Vasari, oppure ci troviamo dinanzi a un caso di omonimia, che ha mandato il tilt i biografi e gli studiosi: a peggiorare il tutto, la seconda teoria, quella del cognome Cigna, è basata su indizi ancora più vaghi. In ogni caso, è assai probabile che il nostro Zorzi, qualunque sia stata la sua stirpe, debba avere studiato come apprendista in qualche bottega veneziana
Carlo Ridolfi, l’equivalente veneziano di Vasari, noto per la sua raccolta di biografie di pittori locali, intitolata Le Maraviglie dell’arte, uscita nel 1648 e per le monografie su Tintoretto e Veronese, racconta che Giogione al termine l’apprendistato, tornò nel suo paese natale, dove si impratichì nella tecnica dell’affresco presso alcuni artisti locali e cominciò a dedicarsi a un’attività, che in termini moderni, definiremmo di street art, aderendo a una voga che già imperversava sin dal XV secolo in tutte le città della terraferma, ma non bancora a Venezia: la decorazione ad affresco delle facciate di case e palazzi.
Decorazione che si basava su canoni ben consolidati: una struttura lineare su due piani, con balaustra-poggiolo al centro, con finestre a triplice balconata appena scandite da colonnine. Negli intervalli di facciata, tra una finestra e l’altra, vengono scandite campiture di scene ora di ispirazione mitologica ora di personaggi da glorificare o simbologie, il tutto intervallato da fasce o fregi secondo canoni consolidati. Giorgione innovò tale decorazione in termini sia di stile, sia di contenuti, tanto da attirare l’attenzione di Tuzio Costanzo, condottiero di origini messinesi (“prima lancia d’Italia” per il re di Francia Luigi XII), si era trasferito a Castelfranco nel 1475, dopo aver servito a Cipro la regina Caterina Cornaro, guadagnandosi il titolo di viceré, il committente della Pala di Castelfranco, che lo raccomandò ai suoi contatti veneziani.
Tornato in Laguna, sempre per farsi pubblicità, Giorgione dipinse la facciata sua stessa casa in Campo San Silvestro, ottenendo un successo clamoroso, tanto che cominciarono a fioccare le commissioni: secondo Vasari
Dilettossi molto del dipignere in fresco: er fra molte cose che fece, egli condusse tutta una facciata di Ca’ Soranzo in su la piazza di San Polo. Nella quale oltra molti quadri et storie, et altre sue fantasie, si vede un quadro lavorato a olio in su la calcina: cosa che ha retto alla acqua, al Sole, et al vento; et conservatasi fino a oggi
Ora, Ca’ Saranzo era uno dei principali palazzi gotici di Venezia, dimora di una famiglia che diede anche un doge alla Repubblica di Venezia, Giovanni Soranzo e sedici procuratori di San Marco. Fu Giovanni Soranzo che accolse in questa dimora Dante Alighieri mentre fungeva da ambasciatore per i Da Polenta signori di Ravenna.
Nonostante gli affreschi di Giorgione siano scomparsi, il palazzo è noto nel folclore veneziano come casa dell’Angelo perché sulla sua facciata è visibile (anche se non troppo riconoscibile se non ci si fa caso) una statua di un angelo con un foro sopra la testa. La leggenda narra che in tempi passati la casa fosse abitata da Iseppo Pasini, un avvocato molto devoto alla Vergine Maria ma che, sotto sotto, tanto onesto non era: pare avesse accumulato molte ricchezze lucrando sulle spalle della povera gente. Egli aveva in casa una scimmietta ammaestrata che si occupava delle faccende domestiche e di cui andava molto fiero. Ma era del tutto ignaro che la scimmia fosse il diavolo in persona, volenteroso di appropriarsi della sua anima. L’unico motivo per cui non l’avesse ancora fatto era la devozione del Pasini nei confronti della Madonna. A scoprire la doppia identità della scimmia fu padre Matteo da Bascio quando si recò a Ca’ Soranzo per un pranzo. Il religioso ordinò alla scimmia di uscire subito dalla casa facendo un foro sul muro, buco che sarebbe servito come eterna testimonianza dell’accaduto.
Tornato a tavola padre Matteo rimproverò il Pasini per le sue malefatte, rendendo tutto più teatrale strizzando un lembo della tovaglia dal quale uscì del sangue, quello di tutte le persone vittime degli imbrogli dell’avvocato. Questi scoppiò in lacrime e promise che avrebbe restituito tutto il maltolto alle sue vittime. Tuttavia rimaneva un buco alla parete della casa, dal quale il demonio poteva entrare da un momento all’altro. Padre Matteo suggerì al Pasini di difenderlo con l’immagine di un angelo.
Tornando a Giorgione, ad arricchire il racconto di Vasari, ci si mette Ridolfi, che ci testimonia
Lavorò in questo tempo la facciata di Casa Grimana alli Servi; e vi si conservano tuttavia alcune donne ignude di bella forma, e buon colorito. Sopra il Campo di Santo Stefano, dipinse alcune mezze figure di bella macchia. In altro aspetto di casa sopra un Canale a Santa Maria Giubenico, colorì in un’ovato Bacco, Venere, e Marte fino al petto, e grotesche a chiaro scuro dalle parti, e bambini
Di tutto questo ben di Dio, è rimasto ben poco: solo la Nuda del Fondaco dei Tedeschi e il fregio della sua presunta casa a Castelfranco, di cui parlerò in futuro..
September 9, 2021
La Peste di Giustiniano
Qualche tempo fa, parlai degli effetti della cosiddetta Peste Antonina sull’Impero Romano… Ora riprendo il discorso, concentrandomi sugli impatti storici della seconda grande pandemia tardo antica, la Peste di Giustiniano, imperatore i cui successi furono minati alla fondamenta da due problemi che, anche oggi, è difficile risolvere.
Il primo, il cambiamento climatico: ai suoi tempi, al trend naturale di diminuzione delle temperature, si aggiunsero gli impatti di due o tre eruzioni vulcaniche di grande portata, avvenute nel 525-536, nel 539-540 e nel 547. Si presume che l’eruzione del 536 provenisse da un vulcano ad alta latitudine, probabilmente in Alaska o in Islanda, mentre il vulcano 539/540 potrebbe essere stato l’Ilopango nell’attuale El Salvador.Tuttavia, anche l’eruzione 535 del Krakatoa è una valida candidata. Un altro sito vulcanico sospettato di esser coinvolto nel fenomeno è la caldera di Rabaul nel Pacifico occidentale, esplosa intorno al 540.
Eruzioni che a causa dell’enorme quantità di ceneri prodotte, che bloccarono i raggi solari, produssero un raffreddamento globale medio di circa due gradi: risultato, la produttività agricola crollò e ci furono carestie in tutto il mondo.
Procopio di Cesarea, così racconta l’evento
Tutto quest’anno fu eziandio segnalato da un grandissimo prodigio, apparendo il sole privo di raggi a simiglianza della luna, e quasi il più dei giorni cercaronlo indarno gli umani sguardi; spoglio pertanto dell’ordinario chiaror suo risplendeva oscuro e fosco anzi che no: presagio, al tutto verificatosi, d’imminente guerra, di peste, fame, e d’ogni altro malore correva in quello stante l’anno decimo dell’imperatore Giustiniano
Un’altra fonte è Cassiodoro
Dal momento che il mondo non è governato dal caso, ma da un Divino governo che non cambia i suoi scopi a caso, gli uomini sono naturalmente allarmati dai segni straordinari che colgono nei cieli, e chiedono con cuore ansioso quali eventi essi possano sottendere. Il Sole, prima delle stelle, sembra aver perso la propria luce abituale, e appare di un colore bluastro. Ci meravigliamo di non vedere l’ombra del nostro corpo a mezzogiorno, e di sentire il possente vigore del calore solare sprecato in debolezza, e di cogliere fenomeni che accompagnano un’eclissi transitoria prolungarsi per un anno intero. Inoltre la Luna, anche quando è piena, è priva del proprio naturale splendore.
Strano è fin qui stato il corso dell’anno. Abbiamo avuto un inverno senza tempeste, una primavera senza mitezza e un’estate senza calore. Cosa possiamo sperare per il raccolto, se i mesi che avrebbero dovuto maturare il grano sono stati raffreddati dalla bora? Cosa produrrà l’abbondanza se la terra in estate non si scalderà? Cosa farà aprire le gemme se la pioggia madre non riprenderà? Queste due influenze, il gelo prolungato e la siccità inopportuna, appaiono in conflitto con tutte le cose che crescono. Le stagioni sono cambiate divenendo immutabili e ciò che le piogge intermittenti potevano causare, la siccità da sola non può certo produrre.
Ma poiché l’anno passato fu prospero, con i frutti del passato, la tua prudenza potrà vincere la futura scarsità se tu farai in modo che le provviste possano essere sufficienti per i mesi a venire. Riponi dunque tutto ciò che sia utile per scopo alimentare. Il privato reperisce con facilità il necessario se il pubblico mette a disposizione strumenti adeguati.
Inoltre non affliggerti nell’incertezza per i grandi fenomeni del presente, ritorna sui tuoi passi nel considerare le cose delle natura e cerca la ragione certa in ciò che il volgo sbalordito coglie come incerto. Infatti così si pone quanto prestabilito dall’ordine divino, per cui gli astri dell’anno presente nelle loro sedi concordarono le mutue amministrazioni così da rendere alla superficie del suolo una condizione invernale, secca e fredda.
L’aria fra cielo e terra è ispessita dal rigore della neve e rarefatta dai raggi del sole. Questo è il grande spazio diffuso fra il cielo e la terra. Quando tale spazio è puro e illuminato dai raggi del sole ci mostra il suo vero aspetto mentre quando elementi estranei si fondono con esso lo fanno tendere attraverso il cielo come una pelle, per cui né i veri colori dei corpi celesti potranno apparire né il loro calore potrà attraversarla. Con tempo nuvoloso ciò accade per un limitato periodo mentre la sua straordinaria estensione ad un periodo prolungato ha prodotto questi effetti disastrosi, spingendo il mietitore a temere il gelo, rendendo i frutti induriti quando dovrebbero essere maturi e facendo l’uva invecchiare acerba.
Ma la divina provvidenza ci insegna a non preoccuparci ed a proibire di ritenere tali prodigi come segni della collera divina. Tuttavia senza dubbio sappiamo che ciò è avverso ai frutti della terra, in quanto non vediamo una specifica legge per la quale ci si possa nutrire con il cibo consueto.
Lascia dunque che sia vostra cura di fare in modo che la scarsità di questo anno non porti rovina a tutti noi. Così dal primo amministratore è stato ordinato alla nostra presente dignità che ci si avvalga dell’abbondanza precedente per attenuare l’attuale miseria.”
A questa iella imprevista, si aggiunse la pandemia: la prima ondata partita dal porto egiziano di Pelusio nell’ottobre del 541 e proveniente, secondo Evagrius e Procopio, dall’Etiopa, interessò l’anno seguente rapidamente la valle del Nilo e la Palestina, estendendosi a Nord fino ad Antiochia; in primavera il morbo colpiva Costantinopoli e in Illiria, mentre ad Ovest erano coinvolte le province africane (Tunisia e Algeria) e la Spagna. Nel 543, ad Occidente flagellava l’Italia, ancora la Spagna, le province francesi di Arles e di Lione, risalendo il Rodano, mentre ad oriente colpiva la regione caucasica corrispondente al regno di Atropatene (Azerbaidjan).
Con una pausa di 11 anni, nel 557, da Antiochia l’epidemia si accende nuovamente, coinvolgendo l’anno seguente la capitale Costantinopoli e nel 559, Paolo Diacono ci dice che sono interessate Ravenna e l’Istria. Dal 570 al 574 si registra ondata epidemica: dopo avere colpito tutta l’Italia viene segnalata in Liguria e, da Gregorio Magno, a Ostia; l’anno seguente si diffonde nuovamente nella Francia meridionale, seguendo il corso del Rodano e in parte dell’alta Loira. La quarta ondata si svolge tra il 580 e il 582, mentre la quinta tra il 588 e il 591.
Nella seconda fase pandemica, che si svolte dal VII secolo in poi, che potremmo definire peste di Eraclio, ha la prima ondata nel 599, con il focolaio a Costantinopoli, per diffondersi in Mesopotamia; le ondate successive interessarono la Turchia nord-occidentale, la Tracia meridionale (nel 618), la Siria e la Mesopotamia nel 628. Con la nuova ondata si registra una nuova comparsa della malattia a Marsiglia, Roma e Pavia nel 654, mentre era stata segnalata nuovamente nel 635 in oriente (Siria), con l’inizio dell’espansione araba e 4 anni dopo in Palestina e in Egitto, mentre nel 640 ritornava a Costantinopoli e a Tessalonica
Si registra una pausa di 44 anni ma nel 684, a partire dal Libano e dalla Palestina, l’epidemia riprende e tramite i trasporti marittimi giunge due anni dopo in Egitto, a Costantinopoli, oltre che sulle coste egee della Turchia, tra il 697 e il 700; in occidente è segnalata nel 694 a Narbonne e da lì si propaga lungo le coste della Francia meridionale. trascorrono altri 40 anni, nel 740 è di nuovo epidemia in Libano e Palestina; poi, dopo sette anni, il contagio si diffonde ancora mediante le rotte marittime verso la Sicilia e la Calabri, Infine, nel 767, si registra l’ultima riaccensione a Napoli; ricordiamo che contemporaneamente alla Sicilia, sempre nel 747 veniva coinvolta l’intera Grecia e l’anno seguente nuovamente la capitale dell’impero Costantinopoli.
Ma quale era la malattia che si stava diffondendo ? Se la peste antonina, dai sintomi descritti di Galeno, sembrerebbe in qualche modo simile al nostro Covid, la peste di Giustiniano, era la nostra peste bubbonica. Procopio così la descrive:
“Quelli di cui il bubbone cresceva di più e maturava suppurando si salvarono in gran parte, senza dubbio perché la proprietà maligna del carbone, già ben indebolita, era stata annullata. L’esperienza aveva dimostrato che questo fenomeno era un presagio quasi sicuro del ritorno alla salute. Ma l’esito era letale per quelli in cui il bubbone conservava la sua durezza”
Un altro autore, Grégorio da Tours così riporta:
“Nasceva all’inguine o all’ascella una piaga simile a quella che produce il morso di un serpente, e il veleno agiva in tale maniera sui malati che il secondo o il terzo giorno morivano. Inoltre la forza del veleno toglieva alla gente i sensi …”
Tra gli autori latini, Paolo Diacono ne fa una descrizione molto suggestiva:
“… piccole ghiandole delle dimensioni e forma delle nocche di dita nascevano all’inguine degli uomini o in altre parti più nascoste, l’apparizione di questi gangli era presto seguita da una febbre intollerabile e il malato moriva in tre giorni. Ma se il paziente superava il termine di tre giorni c’era speranza di vita”
In riferimento all’evoluzione epidemica, particolarmente grave, Gregorio da Tours così si esprime:
“…come mancavano presto le bare e il legno, si mettevano sottoterra insieme 10 persone ed anche di più. Una domenica contammo nella sola basilica di Saint-Pierre (di Clermont) trecento corpi”
Giovanni, vescovo di Efeso, racconta della paura di morire e sulla conseguente isteria generalizzata. Nella sua città natale, Amida in Siria, racconta che:
…gli abitanti attraversavano le strade defecando come galline o abbaiando come i cani; i bambini gironzolavano tra le tombe urlando e mordendosi tra di loro, emettendo gemiti simili al suono di trombe, e non ricordando la strada per casa, come se poi ci fosse qualcuno ad aspettarli. I più disperati invocavano gli Apostoli, convinti che coloro potessero salvarli, per poi rifugiarsi nelle chiese e morire, esausti, per la malattia.
Che impatti ebbe questa pandemia ? Dal punto di vista culturale, sottoposta alla violenza della peste la società rispose utilizzando le credenze e le conoscenze che traevano la loro origine dalle tradizioni pagane popolari e dalla cultura medica antica; nel corso del VI secolo e poi ancora di più nei due secoli seguenti, le società latine e occidentali ebbero la capacità di arricchire il bagaglio delle competenze ideologiche disponibili con nuovi concetti attinti dalla Bibbia e dai Vangeli.
Questo rafforzò la posizione della Chiesa, che spesso e volentieri, rimane l’unica istituzione funzionante durante le ondate pandemiche: da una prte i fedeli sono maggiormente partecipi alle manifestazioni liturgiche e vengono istituite nuove manifestazioni per consolidare la religiosità. Dall’altra, questa arricchisce, con le donazioni ereditarie e gli ex voto, il suo patrimonio e potere economico.
In Europa Occidentale, le ondate della pandemia sono caratterizzate dal fatto che i focolai nascano nei porti, con il contagio che si diffonde poi versi l’interno seguendo il corso dei fiumi; data la scarsa densità di popolazione e la limitata mobilità, gli impatti demografici furono contenuti. Però, questo non significa che la pandemia non cambiò la società.
La peste colpì principalmente le poche città ancora attive, affrettandone il tracollo: in più, ridusse notevolmente, i commerci nell’area mediterranea, portando sia all’autarchia economica degli stati romano-barbarici, sia alla carenza di liquidità. Questo accellerò sia la diffusione dell’economia curtense, sia la nascita del feudalesimo, visto che il potere statale, non avendo denaro, cominciò a pagare con terre i suoi impiegati. Di fatto, la peste fu una delle concause di quel processo che Pirenne, in Maometto e Carlo Magno, considerava originato dalle invasioni arabe.
Ancora più drammatiche le conseguenze nell’Impero d’Oriente, ancora densamente popolato e urbanizzato. Costantinopoli perse il 40% della sua popolazione, quasi trecentomila persone, mentre la mortalità media nel resto dell’Impero era del 25%. Complessivamente, morirono tra venticinque e i cinquanta milioni di persone. Il crollo demografico, con il calo della manodopera, fece esplodere l’inflazione, già nel 544 era stato denunciato che i commercianti, gli artigiani, gli agricoltori e i marinai avevano raddoppiato o triplicato i prezzi delle loro merci o del lavoro. Questa, unita alla recessione economica, Procopio ci racconta che il Comes Sacrarum Largitionum riducesse le dimensioni della moneta aurea così come per il follis, moneta bronzea, portò all’impoverimento dei ceti popolari e della borghesia cittadina.
Di conseguenza, l’Impero si trovò senza soldati e senza denaro per arruolare mercenari: per prima cosa furono interrotti tutti i progetti di Riconquista dell’Occidente, poi si incontrarono immense difficoltà per difendere i confini. Di questo ne approfittarono Longobardi, Slavi, Avari e infine gli Arabi, che , avevano un vantaggio in quanto le loro abitudini, impostate sul nomadismo nelle zone desertiche, si integravano bene in un contesto geografico sfavorevole alla diffusione della Pandemia. Eraclio, nonostante i successi contro i Persiani, non aveva più le risorse, umane ed economiche per ricacciarli indietro
September 8, 2021
La Villa delle Vignacce
Un paio d’anni fa parlando del Parco degli Acquedotti, avevo accennato alla Villa delle Vignacce, in cui stata rinvenuta la statua di Marsia Appeso, ora esposta alla Centrale Montemartini: questa villa, la cui storia è lunga e complessa, è una delle più grandi del suburbio romano ed era situata al IV miglio della via Latina a cui era collegata tramite un diverticolo, che metteva in comunicazione questa via con la Labicana. Durante lavori eseguiti nel 1999 in via F. Luscino 82 ne fu rinvenuto un breve tratto. Un secondo tratto di questo diverticolo si trova inglobato nel fabbricato di viale Spartaco 139.
Il nome con cui è conosciuta, Vignacce deriva o dalla presenza in zonadi alcuni vigneti , il cui vino non era sicuramente di buona qualità o dal termine medioevale pignatte, le anfore inserite nella struttura muraria per alleggerire il peso delle volte nella costruzione della cupola di una vasta sala circolare di cui si vedono ancora i resti. Un accorgimento costruttivo riscontrato in altri monumenti del III e IV secolo d.C. come nel Circo di Massenzio, nel Mausoleo di Elena sulla via Casilina, detto Tor Pignattara e nella villa dei Gordiani sulla via Prenestina.
Il proprietario della villa delle Vignacce probabilmente era Quintus Servilius Pudens facoltoso costruttore di laterizi, legato alla corte imperiale. La sua attività imprenditoriale, attestata già nel 123 d.C. proseguì per tutta la seconda metà del regno dell’imperatore Adriano (117-138). Provenivano infatti dalle sue officine anche i mattoni usati per la costruzione di Villa Adriana a Tivoli. Un personaggio facoltoso, come testimonia la ricchezza delle opere rinvenute: una statua di Afrodite, il Ganimede Chiaramonti, la Tyche di Antiochia (ora ai Musei vaticani), un ritratto di Giulia Domna (moglie dell’imperatore Settimio Severo).
La villa sorgeva su un terrapieno al IV miglio della via Latina ed era delimitata da un muro lungo 120 metri con contrafforti. Come accennavo, la sua vita è stata lunga e complicata: dagli ultimi scavi sembrerebbe come, sul suo sito, in età tardo repubblicana doveva esistere una villa rustica, associata a una tenuta agricola.
Nel I d.C. questo complesso, che aveva uno scopo essenzialmente produttivo, fu ristrutturato e ampliato, tanto che nella zona dove sorgeranno i successivi balnea, fu costruito un ampio fabbricato in opera laterizia, i cui confini non sono ancora stati rintracciati. Sono stati scoperti sette vani, ma l’impianto doveva essere sicuramente più esteso, come dimostra il fatto che alcuni ambienti mostrano di proseguire ad ovest oltre il limite di scavo. La decorazione delle pareti, uno strato di intonaco rosso, fa pensare che potesse essere una sorta di magazzino; alcuni hanno pensato anche a delle tabernae, in cui venivano smerciati i prodotti agricoli della tenuta.
Quintus Servilius Pudens rilevò la tenuta e trasformò il complesso agricolo in una villa lussuosa, con grande impatto scenografico, con un impianto termale e ambienti di servizio. Il nucleo principale del complesso, a pianta mistilinea, era formato dal corpo di fabbrica posto a sud, che si componeva di una grande sala rettangolare, absidata, con due nicchie su ogni lato. Alle spalle degli scarsi resti di questa struttura passava un corridoio con volta a crociera. Ad est di tali ambienti si trovava un altro nucleo della villa, costituito da un vano quadrangolare (non più visibile) coperto con volta a crociera, da cui – attraverso un grande fornice – si accedeva ad un’aula rettangolare che presentava su ciascun lato una piccola sala quadrata. Questo vano, conservatosi fino ai giorni nostri (tranne la copertura con volta a botte) costituiva una sorta di anticamera per un ambiente rettangolare absidato con nicchie.
E’ stato possibile ricostruirne parte delle decorazioni architettoniche e scultoree dell’epoca, grazie al rinvenimento di alcuni pezzi di pregio, fra cui un capitello, frammenti di colonne, elementi statuari fra cui una testa di Zeus Serapide o Esculapio, lastre pavimentali e parietali. Alcuni resti musivi relativi a pavimenti sono conservati in situ; di estremo interesse e’ il rinvenimento, sull’intradosso di un grande frammento di crollo di volta a crociera, di un rivestimento a mosaico decorato a motivi vegetali con tessere di pasta vitrea.
A fine del II secolo d.C. ci fu una prima ristrutturazione del complesso: furono ampliati e rinnovati i balnea e la cisterna pentagonale a due piani, posta a sud ovest e parallela all’acquedotto Felice. Il piano inferiore, diviso in tre vani con volta a crociera, sostiene i quattro ambienti del livello superiore, privi della copertura originaria. All’esterno la costruzione era decorata con nicchie. Per la presenza di paramento murario e di nicchie sui lati prospicienti la villa è stata attestata l’ipotesi che la cisterna fosse anche un ninfeo di cui i proprietari e gli ospiti della Villa potevano ammirare i giochi d’acqua dagli ambienti collocati a Sud della cisterna.
La seconda ristrutturazione avvenne all’epoca di Massenzio, quando il complesso fu incorporato nel demanio imperiale: il figlio di Massimiano, che era un grande amante dell’architettura, anche perché probabilmente aveva capito che l’edilizia era una sorta di strumento keynesiano per rilanciare l’economia stagnante dell’Urbe, tornò a ristrutturare le terme, fece costruire la grande sala circolare, che, in maniera simile al tempio di Minerva Medica, doveva fungere da padiglione per le feste, e decorò le stanze con volte ricoperte di mosaico d’oro e in pasta vitrea.
A differenza di altri siti analoghi, la Vigna delle Vignacce non fu abbandonata, ma continuò a essere utilizzata e ristrutturata per tutta la tarda antichità, anche dopo la caduta dell’Impero d’Occidente: addirittura i Goti la riutilizzarono come abitazioni di qualche personaggio importante.
L’ultimo evento edilizio del complesso delle Vignacce è rappresentato dalla costruzione di un muro con cortina a spina di pesce nel settore Nord Est; la tecnica edilizia, documentata a Roma in edifici di VI d.C., induce a datare a quest’epoca la struttura. L’epoca di appartenenza della muratura potrebbe essere coeva a quella in cui avvenne l’assedio dei Goti di Vitige a Roma nel corso della guerra greco-gotica degli anni trenta del VI secolo. Sappiamo da Procopio che i Goti tennero il loro accampamento base in un luogo da secoli ben noto e oggi chiamato Campo Barbarico, distante non più di 500 metri in linea d’aria dalla villa delle Vignacce; quest’ultima potrebbe essere stata collegata funzionalmente e strategicamente al Campo. La villa, entrata poi a fare parte del patrimonio di San Pietro, fu utilizzata incessantemente dal I al VI-VIII secolo fino a essere definitivamente abbandonata nel IX secolo.
I primi scavi di cui si ha qualche notizia risalgono al Cinquecento e si devono alla famiglia degli Astalli, all’epoca proprietaria dell’area. Si trattò evidentemente di scavi finalizzati alla ricerca di sculture da collezione. La villa, poi, è certamente conosciuta e citata, per le sue imponenti conserve d’acqua, nella celeberrima opera del Fabretti sugli acquedotti, nella seconda metà del XVII secolo. Al 1780 risalgono gli scavi condotti nella villa da Volpato, finalizzati al recupero di sculture e materiali per servire all’erigendo Museo Pio-Clementino. Nell’ultimo decennio del Settecento, l’area della villa e tutta la tenuta di Roma Vecchia passano in proprietà di Giovanni Torlonia. Proprio alla famiglia Torlonia, nel corso dell’Ottocento, si devono una serie di interventi di scavo nei terreni posti tra il IV ed il VII miglio della via Latina. Lo studio antiquario preliminare avviato con il progetto Villa delle Vignacce ha permesso di raccogliere in proposito una serie di documenti inediti o quasi dimenticati che permettono di arricchire notevolmente il quadro dei dati sull’area, oltre che di aprire la strada all’eventuale ritrovamento dei numerosi arredi scultorei allora rinvenuti ed in gran parte andati dispersi. In particolare, negli anni Ottanta del XIX secolo,gli scavi Torlonia hanno interessato un’importante villa aristocratica che, in via ipotetica, potrebbe forse essere identificata con il settore residenziale della villa delle Vignacce. Ai primi del XX secolo Ashby fornisce quello che può essere considerato il primo studio scientifico sulla villa. Ad esso fa seguito negli anni Venti, sempre ad opera dell’archeologo inglese ed in collaborazione con Lugli, un secondo lavoro di analisi, che in parte riprende e corregge, in parte approfondisce quanto delineato nel lavoro precedente.
Gli scavi furono ripresi negli anni Ottanta e riguardarono l’area tra l’acquedotto Marcio/Felice e la cisterna monumentale della villa negli anni Ottanta: scavo finalizzato ad indagare le relazioni strutturali e funzionali tra la cisterna e l’acquedotto, a cui seguirono quelli del 2006, a cura dell’American Institute for Roman Culture, con il sostegno dell’American Express Foundation.
Sempre al complesso residenziale delle Vignacce sono stati attribuiti una serie di fabbricati rustici rinvenuti ai primi del Novecento nell’ambito dei lavori connessi con la realizzazione della Ferrovia Roma-Napoli, a non più di 400 metri circa dal nucleo principale della villa. In quest’area negli anni Ottanta del XX secolo sono stati poi rinvenuti numerosi resti di edifici monumentali, sia a carattere residenziale che produttivo e funerario, rimasti purtroppo fino ad ora quasi inediti. Tra di essi si segnala l’esistenza di una villa monumentale, caratterizzata da una lunga fase di utilizzo ed una serie di strutture sepolcrali. La contiguità tra questi resti e la villa delle Vignacce induce ad ipotizzare, almeno per una parte di essi, l’eventualità dell’esistenza di una qualche forma di rapporto reciproco.
Dalle sintetica rassegna dei dati topografici raccolti emerge così, per il tratto di territorio articolato lungo la via Latina subito dopo il IV miglio, un quadro di presenze monumentali di età tardo repubblicana ed imperiale estremamente ricco. A questo si aggiunga che l’area suddetta era in antico interessata dal passaggio di ben sei acquedotti antichi la gran parte dei quali correnti su monumentali arcate tuttora in buona parte conservate. Se l’idea della villa unica dovesse essere confermata dalle nuove indagini, si avrebbe così l’interessante caso di una residenza privata estesa su molti ettari attraversata ed in un certo senso all’interno segmentata da una serie di terreni pubblici, quelli degli acquedotti e delle loro immediata pertinenze
September 7, 2021
Etruscheria e Neoclassicismo
Tutti gli studi eruditi del Settecento, che tra l’altro aveva portato ad attribuire agli etruschi tutte le ceramiche pre romane trovate in Italia, comprese quelle della Sicilia e della Magna Grecia, sia di importazione dell’Ellade, sia di produzione locale, cosa che provocò parecchie arrabbiature al buon Winckelmann, ebbero però un paio di conseguenze notevoli nell’ambito della vita dell’Epoca.
Per prima cosa, i luoghi etruschi, che coincidevano con cittadine toscane all’epoca dimenticate da Dio e dall’Uomo, cominciarono a diventare tappe del Gran Tour; l’arrivo di una quantità industriale di ricchi inglesi, oltre a rilanciare l’economia locale, grazie a quella sorta di turismo ante litteram, ebbe un effetto imprevisto.
I lord inglesi, prima di tornarsene a casa, da buoni turisti, volevano portarsi dietro i loro souvenir, pagando a peso d’oro le anticaglie etrusche: questo da una parte fece nascere il fenomeno dei tombaroli, che dura sino ad oggi, dall’altra, una fiorente industria dei falsi, che vuoi o non vuoi, hanno invaso parecchi musei stranieri.
Il boom di collezioni etrusche presso la nobiltà londinese, la più famosa era quella di Sir William Hamilton, ambasciatore straordinario inglese alla corte Borbonica di Napoli, poi venduta nel 1772 al British Museum di Londra, trasformò le antichità etrusche in una sorta di status symbol: tuttavia i buoni borghesi britannici, non è che potessero permettersi le lunghe vacanze in Italia dei lord. Così le manifatture di arte applicata dell’epoca e quelli che oggi chiameremmo studi di design, cominciarono a imitare i motivi decorativi degli antichi Tirreni: così, le bizzarre chiacchiere erudite di un paio di decenni prima divennero una delle concause del Neoclassicismo.
I primi a sfruttare questa passione o mania a fini commerciali furono i ceramisti della Reale Manifattura di Capodimonte, che però, visto il boom di Pompei ed Ercolano, anche per soddisfare le esigenze propagandistiche dei Borboni, si concentrarono nel riprodurre nei vasi i dettagli degli affreschi delle due città.
Prese il loro posto, il ceramista e imprenditore inglese Josiah Wedgwood, noto anche per essere stato tra i primi a chiedere l’abolizione della schiavitù e la vaccinazione antivaiolosa obbligatoria. Inizialmente, lui a tutto pensava, tranne che agli etruschi, dato che, riprendendo la tradizione di famiglia, si era dedicato a produrre “servizi del cavolo”, lo so, suona brutto, ma si chiamano così, perché la forma del vaso nasceva da un cespo vegetale colorato in verde, delle “tartarughe” (così chiamate dalla colorazione della superficie) e delle “agate” (o ceramiche a marmorizzazioni). Linee di prodotti che arricchì, intorno al 1760, decorandoli con decalcomanie.
Nel 1765 Wedgwood ebbe il primo grande successo commerciale, producendo particolare tipo di ceramica molto durevole, dalle forme di facile utilizzo, caratterizzata dal color crema. Questa ceramica, detta creamware, venne particolarmente apprezzata dall’allora regina Charlotte, che la omaggiò del suo patronato. La ceramica cambia nome in Queen’s Ware. La pubblicità che ne derivò e le sue qualità la resero la scelta preferita di tutta la ceramica domestica, in Inghilterra e all’estero.
L’idea di sfruttare la mania etrusca, non venne a lui, ma al suo socio, Bentley, che per usare un termine moderno si occupava di marketing, comunicazione e gestione dei canali di vendita, che si aveva notato come il catalogo di vasi antichi della Collezione Hamilton, curato da P.-F. Hugues d’Hancarville, era in maniera inaspettata, diventato un bestseller del’epoca.
Così nel 1771 nacque, nello Staffordshire, la manifattura Etruria, prevalentemente per la produzione di vasi ornamentali. Wedgwood scelse come suo motto Artes Etruriae Renascantur, perché rinascano le arti dell’Etruria, e vi impostò una divisione moderna del lavoro: da un lato il designer, che per lungo tempo fu John Flaxman, delegato alla progettazione delle forme e delle decorazioni dei manufatti. Dall’altro gli artigiani, divisi in formatori, tornitori, plasmatori, decoratori e addetti alla rifinitura.
Il primo successo commerciali, di questi vasi all’antica, che riprendevano motivi sia etruschi, provò a imitare il bucchero, sia greci fu una commissione di un servizio di più di novecento pezzi, da parte della zarina Caterina di Russia. La moda etrusca passò poi dalle ceramiche all’arredo: ciò avvenne grazie ai fratelli Adam, che decorarono i loro mobili sia con moti in bronzo dorato, anche se li prediligeva dipinti o intasiati da legni pregiati, utilizzando uno spropositi di motivi tratti dai bronzetti tirrenici, come ad esempio: teste di caproni, grifoni, sfingi, festoni di fiori, nastri annodati, anfore allungate di cui fa vasto uso, cammei, il particolate motivo a semicerchio detto a ombrello aperto, ghirlande di campanule e il caprifoglio.
I fratelli Adam, che, in fondo, erano più design d’interni che architetti, lanciarono poi la moda del cosiddetto gabinetto etrusco, che sostituì la moda rococo delle cineserie: di fatto, costituiva uno spazio destinato alla meditazione sull’alterità e sul diverso, visti come specchio deformante di se stessi.
Il primo esempio, è la cosiddetta Etruscan Room Osterley Park, in cui arricchirono le parate con un sistema decorativo che si riferisce alle pitture murali della Domus Aurea, e ripreso nella Loggetta del Vaticano: piccoli vasi ‘all’etrusca’ sono inseriti nell’intreccio dei fragili viticci e candelabri sullo sfondo chiaro e neutro della parete. Stanza poi arredata con i mobili all’antica; decorazione che era stata ispirata a quella concepita da Piranesi, che gli Adam avevano conosciuto, per il Caffè degli Inglesi a Roma, che però utilizzava motivi derivati dall’Antico Egitto.
Moda che si diffuse in Francia, per essere replicata nella Biblioteca della Reggia di Caserta, in cui la parete è coperta da grandi quadri a sfondo scuro, che riprendono la decorazione dei vasi a figure rosse, sia greci, sia di imitazione italica e etrusca. L’ultimo esempio, ma stiamo ormai nel romanticismo, è lo studiolo etrusco di Racconigi, realizzato da Pelagio Palagi per Carlo Alberto
September 6, 2021
Atene contro Siracusa XXIX
Nonostante i successi, la situazione a Siracusa non era per nulla semplice: aveva sì mobilitato le città sicialie, anche quelle inzialmente pro Atene, come Camarina, al suo fianco, con l’eccezione di Akragas, che si manteneva neutrale, per il suo rapporto di amore e odio nei confronti dell’altra grande polis, ma aveva scatenato anche la reazione dei Siculi.
Questi, a differenza della guerra di Lentini, all’arrivo della seconda spedizione ateniese in Sicilia, erano andati in ordine sparso, mantenendosi soprattutto neutrali, visto che in fondo, nella precedente guerre non che gli fosse entrato in tasca molto. Ora, però, il successo siracusano e il fatto che la città si ponesse come leader incontrastato delle colonie greche, fece temere per la loro indipendenza futura.
Per cui, fecero un ragionamento molto cinico: più tempo e risorse i siracusani avrebbero dedicato agli ateniesi, meno voglia e possibilità avrebbero avuto, sconfitti i nemici, di intraprendere una campagna contro i Siculi. Di conseguenza, diedero retta alle richieste di Nicia e scatenarono la loro guerra parallela, sconfiggendo in serie di agguati i rinforzi diretti a Siracusa.
Vittoria, quella sicula, che tra l’altro, in termini di caduti, fu molto più ampia di quelle ateniesi, tanto che Gilippo, che stava preparando un’altra sortita contro gli assedianti, decise di rinunciate. Ovviamente, sia per carità di patria, sia per non dare l’idea che i barbari fossero superiori agli elleni, Tucidide glissa su questo dettaglio
Le ambascerie siracusane intanto, che tempo prima, dopo la conquista del Plemmirio, s’erano messe in viaggio per le diverse città, avevano ottenuto l’adesione cui aspiravano e con le truppe raccolte si disponevano a rientrare in Siracusa. Ma Nicia sta all’erta: e appena giunge l’informazione spedisce corrieri ai Siculi per i cui territori passano le strade di accesso alla città e che sono solidali con Atene, a Centuripa, agli Alici, e ad altri ancora, con l’ordine di non lasciar via libera al nemico, di coalizzarsi e far barriera. Per vie diverse i nemici non avrebbero neppure tentato il passaggio: poiché i cittadini di Agrigento vietavano il transito sul proprio suolo. Mentre i rinforzi sicelioti erano già sulla strada, i Siculi, per compiacere alle richieste ateniesi, tesero a quelle truppe, che imprudenti non si guardavano durante la marcia, un triplice agguato e con un assalto a sorpresa annientarono circa ottocento soldati e tutti gli ambasciatori tranne uno di Corinto che condusse i superstiti a Siracusa: una colonna di millecinquecento uomini in totale. Proprio in quei giorni entrarono in Siracusa anche i rinforzi mandati dai Camarinesi: cinquecento opliti, trecento lanciatori di giavellotto e trecento arcieri. Pure Gela mise a disposizione una forza navale di cinque vascelli, oltre a quattrocento lanciatori di giavellotto e duecento cavalieri. Poiché, ormai, si può dire che l’intera Sicilia, tranne Agrigento (che era neutrale) schierava compatta le sue genti, anche chi prima se ne stava in cauta attesa, a fianco dei Siracusani contro Atene. Ma Siracusa, ancora affranta per il disastro accaduto in territorio siculo, si trattenne da un attacco immediato contro le posizioni ateniesi.
A peggiorare la situazione, i successi che stavano ottenendo Demostene ed Eurimedonte, nel raccogliere rinforzi per la causa ateniese, soprattutto fanteria leggera, che, però, nella fasi precedenti dell’assedio, assieme alla cavalleria aveva svolto un determinante. Ora, i messapi e gli iapigi non avevano nessun motivo, a differenza dei siculi, per temere l’espansionismo siracusano: il loro problema era Taranto, alleata di Sparta e della polis siciliana.
Colpendo Siracusa, avrebbero così indebolito il loro principale avversario: a riprova di questo, quando Dioniso il Vecchio dichiarò guerra ai tarantini, i Messapi non ebbero problemi a schierarsi al suo fianco. Stesse motivazioni, spinsero Metaponto ad appoggiare Atene.
Demostene ed Eurimedonte, quando l’armata al raduno di Corcira e le forze del continente furono in assetto, attraversarono con l’intero esercito lo Ionio fino a capo Iapigio. Quindi, salpati nuovamente, operarono uno sbarco alle isole Cairadi, un distretto della Iapigia, dove reclutarono per l’imbarco sulla propria flotta circa centocinquanta lanciatori di giavellotto iapigi di stirpe messapica, e dopo aver rinnovato antichi legami d’amicizia con Arta, che in qualità di sovrano aveva fornito alcuni giavellottisti, giunsero a Metaponto, sulla costa italica. Qui indussero i Metapontini, facendo leva sull’alleanza esistente, a contribuire alla spedizione con trecento tiratori di giavellotto e con due triremi: inquadrate queste forze, i due strateghi costeggiarono fino a Turi.
Più complessa la questione a Turi: per evitare che la città si schierasse con Atene, i Siracusani avevano finanziato e appoggiato un colpo di stato della fazione oligarchica. Per cui, per prima cosa, ristabilirono lo status, riportando al potere la fazione democratica ed esiliando i filo siracusani. Poi, stabilirono un’alleanza difensiva e offensiva, che metteva a disposizione un contingente militare, anche abbastanza numeroso, agli ateniesi.
Fatto questo, avanzarono con opliti lungo la costa, con il supporto della flotta, in modo da intimorire con questa dimostrazione di forza le colonie greche della Calabria, affinché non aiutassero Siracusa.
Operazione che ebbe un risultato parziale: se Rhegion mantenne la sua alleanza con Atene, Crotone si decise per la neutralità, mentre Locri rimase nel campo nemico
Trovarono laggiù che una sommossa aveva espulso la fazione avversa ad Atene. Volendo in questa località procedere a una generale rassegna dell’armata, dopo aver raggruppato in reparti in ritardo, e persuadere la cittadinanza di Turi a partecipare con l’impegno più generoso alla campagna, anzi, sfruttando quel momento propizio, a stringere un’intesa difensiva e offensiva con Atene, Demostene ed Eurimedonte si trattenevano nel paese dei Turi per adempiere a queste operazioni. Demostene ed Eurimedonte, quando la popolazione di Turi aderente alla richiesta di milizie fu pronta a contribuire con settecento opliti e trecento armati di giavellotto allo sforzo ateniese in Sicilia, comandarono alla flotta di precederli veleggiando lungo la costa all’approdo, ed effettuata una rivista generale delle fanterie sulla riva del fiume Sibari, avanzarono attraverso la regione di Turi. Quando si trattò di passare oltre il corso del fiume Ilia, i Crotoniati spedirono loro incontro un corriere con l’avviso che non consentivano all’armata di percorrere le proprie strade. Quindi discesi alla riva del mare vi piantarono, presso la foce dell’Ilia, il bivacco per quella notte. E qui la flotta si ricongiunse a loro. Il mattino dopo montarono a bordo e costeggiarono e, saltando Locri, attraccarono in tutte le città finché toccarono Petra, ormai nel territorio di Reggio
September 4, 2021
Villa Filippina
Uno dei luoghi affascinanti di Palermo, ma poco noto ai turisti, è Villa Filippina, che prende nome dalla congregazione di San Filippo Neri. Pochi lo sanno, ma uno dei primi compagni di “Pippo bono”, per dirla alla romana, era palermitano. il nobile Pietro Pozzo.
Pietro godeva tanto della stima di San Filippo, che questi lo incaricò di fondare l’Oratorio di Napoli, nel settembre 1592 ricevette la bruttissima notizia della morte del fratello e su consiglio del santo decise di tornare a casa, per confortare la famiglia. Durante il suo soggiorno palermitanto, Pietro conobbe alcuni preti che in pieno spirito controriformistico, volevano dedicarsi a una vita da eremiti: alcuni proponevano di ritirarsi nella chiesa di San Pietro Martire, vicina a Santa Maria in Valverde, distrutta nei bombardamenti del 1943, altri addirittura in campagna, nella Favorita o nelle grotte dell’Addaura.
Pietro, immagino alquanto perplesso da questa discussione, propose invece di seguire la via di San Filippo Neri
“Essere nel Mondo, ma non del Mondo”
e fu talmente convincente che questi sacerdoti gli diedero retta e fondarono nel cuore di Palermo alla Congregazione dell’Oratorio su modello di quella romana..
Tornato a Roma, Pietro diede la notizia a San Filippo, che ne fu alquanto soddisfatto e per aiutare la crescita dell’Oratorio, fede mandare i rinforzi dall’Oratorio di Napoli, per dare una mano ai sacerdoti palermitani. L’approccio spirituale di San Filippo Neri ebbe un successo inaspettato tra i palermitani, probabilmente stanchi del
“Pentite, fijo sinnò te brucio”
della Controriforma spagnola, tanto che rapidamente fu fondato il convento, il nostro museo Salinas e la grande chiesa di Sant’Ignazio. Ricordiamo poi che San Filippo Neri è anche uno dei tanti, ce ne sono una marea, oltre Rosalia, Santi protettori di Palermo. Fatemelo dire, cosa ben meritata.
Filippo è stato senza dubbio uno dei santi più bizzarri della storia della Chiesa: colto, creativo,allegro, amante della vita all’aria aperta, degli animali, della musica e della poesia, a quei tempo in cui la pedagogia era autoritaria e spesso manesca, Neri si rivolgeva ai suoi allievi (che erano, si direbbe oggi, “ragazzi di strada”) con pazienza e benevolenza: ancora oggi si ricorda la sua esortazione in romanesco: «State bboni (se potete…)!». Un’altra sua celebre frase, un’imprecazione di impazienza poi attenuata dall’augurio della grazia del martirio: «Te possi morì ammazzato… ppe’ la fede!».
Tra l’altro Pietro si dimostrò degno discepolo di “Pippo bono”, dato che morì durante la peste del 1624, mentre faceva da infermiere ai tanti malati. In tutto ciò, mancava a Palermo uno spazio dedicato all’Oratorio, sia per la meditazione, sia per le attività ricreative, tanto che gli Oratoriani dovevano organizzarsi alla meno peggio nelle campagne vicino la città, rischiando qualche schioppettata dai poco accoglienti agricoltori.
Sul Piano di Sant’Oliva che all’epoca risultava poco fuori della città, vi era un terreno, che nel 6 gennaio del 1737, fu ceduto dal convento dei Fatebenefratelli a tal Giuseppe Romano e che da quel momento in poi per una serie di vicende romanzesche, cambiò proprietario più volte, sino a finire nelle mani dell’oratoriano Giuseppe Vallone.
Giuseppe ebbe l’idea di sfruttare quello terreno per realizzare il benedetto spazio dedicato alle attività dei Filippini, ma come sempre, c’erano tante buone intenzioni, ma pochi soldi: per sua fortuna, l’idea fu presa a cuore da Angelo Serio, suo confratello, ricco di famiglia, che, dopo avere rilevato il lotto nel 1755, cominciò a finanziare i lavori.
Per ricordare tale benefattore, dal 1767 il busto marmoreo di Angelo Serio in dimensione naturale, scolpito da Ignazio Marabitti, decora il medaglione all’ingresso della villa; la parte esterna del portale presenta invece nel fastigio l’effigie in stucco della Madonna della Vallicella, emblema dell’Oratorio romano.
Si tratta di un affresco trecentesco, che rappresenta un’icona ad affresco del tipo della Nicopeia, in cui Maria è rappresentata frontalmente, seduta in trono e con il Bambino Gesù in braccio, in origine collocato all’esterno di una “stufa”, o bagno pubblico. Si raccontava che nel 1535 l’immagine, essendo stata colpita con un sasso, avesse sanguinato ed era divenuta così oggetto di culto. Nel 1574 l’affresco era stato staccato e affidato al rettore della chiesa della Vallicella e conservato nella sacrestia. L’affresco fu in seguito collocato sull’altare maggiore della Chiesa Nuova.
Icona che fece tra l’altro venire parecchi mal di testa al buon Rubens, che, durante il suo soggiorno romano, ricevette l’incarico di decorare l’abside della Chiesa Nuova: oltre alle solite pale d’altare, doveva riprodurre su una lastra d’ardesia l’affresco originale della Vallicella, per proteggerlo e in più un meccanismo di pulegge e corde, secondo cui è possibile spostare il volto della sua Madonna, per fare contemplare ai fedeli l’originale, durante le festività.
Tornando alla nostra Villa Filippina, i lavori cominciarono il 2 marzo 1755, come si evince da un atto notarile redatto il 16 luglio 1755 dal notaio Onofrio Sardofontana, in presenza dei padri Serio e Modica. Lavori che dovettero arrestarsi dopo pochi mesi dall’inizio, per le proteste presentate all’autorità civile e religiosa dai frati minimi (parrocchia San Francesco di Paola) e le benedettine (monastero dell’Immacolata Concezione al Capo), i quali obbiettavano che la costruzione di nuove fabbriche ledeva i loro interessi e soprattutto, il timore che i ragazzi dell’Oratorio disturbassero la quiete pubblica.
Il contenzioso si risolse con l’intervento del senatore Alessandro Vanni, principe di San Vincenzo, grazie a una convenzione che precisava di comune accordo le volumetrie dell’opera, le dimensioni del perimetro, la riduzione del prospetto frontale a un semplice cancello e soprattutto, che le attività non si svolgessero negli orari di riposo.
Così Villa Filippina divenne un vasto spazio quadrangolare, recintato per tre lati da portici lunghi 140 metri, su cui corre una terrazza praticabile; ideata come luogo di svago per i congregati ed i giovani dell’oratorio, la struttura – adibita prevalentemente dai Padri Filippini a scuola, oratorio, teatro, arena estiva e campo di calcio – cela al suo interno un autentico scrigno di tesori.
A partire dagli affreschi sulla vita di Cristo realizzati nel XVIII secolo da Vito D’Anna e Antonio Manno: sei dipinti (“L’ultima Cena”, “La lavanda dei piedi”, “L’ultima Pasqua”, “Il tributo di Cesare”, “Gesù e Zaccheo”, “Potete bere il calice che io sto per bere”) che decorano uno dei porticati della villa, interessati da un intervento di restauro ad opera della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Palermo.
Villa Filippina vanta uno dei primi giardini storici cittadini impreziosito dal chiostro e dalla fontana con statue di santi, opera di Gioacchino Vitagliano, realizzata in pietra di Billiemi.
Al suo interno si trova la cappella di S. Filippo Neri che si distingue per tre affreschi che riproducono alcune scene della vita del santo (S. Filippo bambino con i bambini nel darsi al gioco; S. Filippo che ristora i pellegrini durante la visita alle sette chiese; S. Filippo che va in estasi durante la celebrazione della SS. Eucarestia dinanzi l’immagine della Madonna della Vallicella).
Nella prima metà del Novecento nel giardino della Villa furono costruiti un cinematografo e un piccolo teatro, e successivamente anche un’arena che, sebbene attivi sin da subito, conobbero il loro splendore solo nel secondo dopoguerra. Un salto di qualità avvenne nei primi anni Ottanta quando cinema e arena, conosciuti col nome “Aaron”, furono presi in gestione dalla cooperativa Nuovo Cinema: questa, che già dirigeva l’unico cinema d’essai di Palermo, si occupò di restaurare le due strutture e propose una ricca programmazione estiva di film.
Alla fine degli anni Ottanta, la gestione dell’arena passò nelle mani del Teatro Biondo che ne fece un teatro estivo. Per una stagione l’arena di Villa Filippina ospitò la rassegna diretta da Mimmo Cuticchio “La macchina dei sogni”. Tra gli anni Ottanta e Novanta l’attività cinematografica e teatrale dell’arena di Villa Filippina fu davvero intensa ed ebbe tra i suoi più assidui frequentatori lo stesso magistrato Giovanni Falcone, data anche la vicinanza a Palazzzo Giustizia.
Dal 2008, dopo circa un decennio di totale abbandono, la città si è riappropriata di questo monumento. . Oggi, Villa Filippina dispone di un ampio ed accogliente spazio en plein air denominato “Gran Teatro” allestito con 2.000 posti a sedere e dotato di un palco illuminato della dimensione di mt. 14×12.
Di recente è stato inaugurato, all’interno del vecchio cinema, il Planetario. La struttura, basata su un sistema di multiproiezione analogico e digitale, è dotata di una cupola di 5 mt. di diametro per una capienza di 40 posti a sedere. L’ Osservatorio astronomico di Villa Filippina ospita al suo interno anche uno spazio museale ed espositivo di circa 120 mq. dedicato all’Astronomia e alle Scienze della Terra con una mostra permanente sul Sistema Solare, la Via Lattea e le Galassie, schermi di proiezione con filmati tematici e postazioni web destinate alla consultazione dei principali siti d’informazione astronomica.
September 3, 2021
Vasari e Giorgione
Quegli che con le fatiche cercano la virtú, ritrovata che l’hanno, la stimano come vero tesoro e ne diventano amici, né si partono già mai da essa. Con ciò sia che non è nulla il cercare delle cose, ma la difficultà è, poi che le persone l’hanno trovate, il saperle conservare et accrescere. Perché ne’ nostri artefici si sono molte volte veduti sforzi maravigliosi di natura, nel dar saggio di loro; i quali, per la lode montati poi in superbia, non solo non conservano quella prima virtú, che hanno mostro e con difficultà messo in opera, ma mettono oltra il primo capitale in bando la massa de gli studi nell’arte da principio da·llor cominciati; dove non manco sono additati per dimenticanti, ch’e’ si fossero da prima per stravaganti e rari e dotati di bello ingegno. Ma non già cosí fece il nostro Giorgione, il quale imparando senza maniera moderna, cercò nello stare co’ Bellini in Venezia, e da sé, di imitare sempre la natura il piú che e’ poteva. Né mai per lode che e’ ne acquistasse, intermisse lo studio suo; anzi quanto piú era giudicato eccellente da altri, tanto pareva a·llui saper meno, quando a paragone delle cose vive considerava le sue pitture; le quali, per non essere in loro la vivezza dello spirito, reputava quasi nonnulla.
Così Vasari, cominciava la sua biografia di Giorgione, nella sua prova versione delle biografia, pittore con cui aveva un rapporto ambiguo: da una parte lo ammirava, dall’altra lo destabilizzava, perché non era inquadrabile nella tradizione toscana, perché le sue opere, di specchi ed enigmi, essendo di fatto emarginata la cultura neplatonica rinascimentale che le animava, per lui erano di difficile interpretazione, tanto da ammettere
Io da parte mia non li ho mai capiti, né ho trovato, per tutte le indagini che ho fatto, qualcuno che li capisca
e per la difficoltà di avere testimonianze e documenti certi sulla sua vita. Ora, essendo le Vite anche un’opera di propaganda, la testimonianza dell’eccellenza fiorentina, per legittimare il potere e il ruolo internazionale dei Medici, Vasari, che nella prima versione aveva evidenziato la formazione esclusivamente veneziana del pittore
quale imparando senza maniera moderna, cercò nello stare co’ Bellini in Venezia, e da sé, di imitare sempre la natura il piú che e’ poteva.
dovette aggiungere un ulteriore paragrafo
Aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo, molto fumeggiate e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro. E questa maniera gli piacque tanto che mentre visse sempre andò dietro a quella, e nel colorito a olio la imitò grandemente. Costui gustando il buono de l’operare, andava scegliendo di mettere in opera sempre del più bello e del più vario che e’ trovava
Questo ha portato diversi storici dell’arte a ipotizzare un incontro tra i due: nel marzo 1500. La presenza dell’artista fiorentino nella Serenissima è testimoniata da Luca Pacioli, che forse l’accompagnò in città per approntare insieme la stampa del De divina proportione, che era illustrato con disegni forse derivati da prototipi di Leonardo. Vasari non citò la trasferta, forse perché legata alle attività di ingegnere e matematico piuttosto che alle discipline artistiche.
Qui fu incaricato di immaginare alcuni sistemi difensivi contro la continua minaccia turca. Leonardo iniziò il progetto di una diga mobile, da collocare sull’Isonzo, in grado di provocare inondazioni sui presidi in terraferma del nemico, che, per il costo elevato, fu accantonato. Al suo posto Leonardo iniziò a progettare il rafforzamento delle mura di cinta di Gradisca d’Isonzo.
Però, data la finalità della visita e la cronologia alquanto stretta, l’incontro è improbabile: al limite, cosa anche più aderente al testo vasariano, Giorgione, può avere visto alcune opere della bottega leonardesca, che stavano diffondendosi tra i collezionisti veneziani e avervi preso alcuni spunti di riflessioni artistiche.
Riguardo alla mancanza di dati biografici, Vasari non si perse d’animo, applicando il suo principio, se non ci sono informazioni, ce le inventiamo, dando fondo alla fantasia. Prima tirò fuori il topos dell’uomo che si è fatto da sè, scrivendo che
Il quale, quantunque egli fusse nato d’umilissima stirpe, non fu però se non gentile e di buoni costumi in tutta sua vita
Quando poi a seconda degli studiosi, risulta essere figlio o di un notaio o del pittore tardo gotico, di buon successo, Segurano Cigna: in ogni caso, era cresciuto in una famiglia alto borghese. E per affascinare il lettore, aggiunse diversi dettagli, che ahimé non sappiamo quanto possano essere ver, come il talento musicale. topos del grande artista rinascimentale, per testimoniarne la poliedricità, tanto da essere usato sia per Leonardo, sia per Bramante
Fu allevato in Vinegia e dilettossi continovamente de le cose d’amore e piacqueli il suono del liuto mirabilmente e tanto, che egli sonava e cantava nel suo tempo tanto divinamente, che egli era spesso per quello adoperato a diverse musiche e ragunate di persone nobili
Poi, ovviamente, non poteva non aggiungere una bella storia d’amore
Mentre Giorgione attendeva ad onorare e sé e la patria sua, nel molto conversar, che e’ faceva per trattenere con la musica molti suoi amici, si innamorò d’una madonna, e molto goderono l’uno e l’altra de’ loro amori
Cosa che portò alla nascita della leggenda di un Giorgione donnaiolo, morto perchè contagiato di sifilide da una presunta amante francese, benchè Vasari scrivesse una cosa differente
Avvenne che l’anno 1511 ella infettò di peste, non ne sapendo però altro, e praticandovi Giorgione al solito, se li appiccò la peste di maniera, che in breve tempo nella età sua di 34 anni, se ne passò a l’altra vita, non senza dolore infinito di molti suoi amici, che lo amavano per le sue virtù, e danno del mondo, che perse.
Ora, trascurando i dettagli romanzeschi, questa informazione, poteva essere fondata, dato che effettivamente tra il 1510 e il 1511 ci fu un’epidemia minore di peste nella città, dato che provocò un numero ridotto di morti, 15.000, a fronte dei 60.000 di quella del 1575. Tra l’altro, proprio per l’epidemia del 1510, fu commissionata una pala di ex voto per il termine della peste e per i danni limitati, destinata alla chiesa, poi abbandonata, di Santo Spirito in Isola, che rappresentava San Marco assieme a un gruppo di Santi.
La composizione piramidale è sovrastata da Marco, nel quale si identifica Venezia; alla base in primo piano vi sono i Santi Cosma e Damiano – i medici che curavano i malati senza chiedere retribuzione – nell’atto di indicare le ferite dei Santi Rocco e Sebastiano. Questi ultimi, dei miracolati secondo la tradizione popolare, sono sempre invocati per ottenere la guarigione dalla peste. Il volto di San Marco è in ombra per ricordare il periodo buio portato dalla pestilenza in laguna.
La testimonianza di Vasari, è stata poi confermata da una recentissima scoperta, del 2019. La bibliotecaria dell’Università di Sydney, Kim Wilson, ha trovato una preziosa copia della Divina Commedia pubblicata a Venezia nel 1497, edizione commentata dall’umanista fiorentino Cristoforo Landino, in cui in una pagina è saltato fuori un disegno della Vergine col Bambino realizzato con la tecnica dello schizzo a sanguigna.
Dato che era appassionata di Giorgione e notando delle somiglianze, la bibliotecaria ha contattato Jaynie Anderson, una delle principali studiose dell’artista, che dopo un’accurata ricerca, ha attribuito al pittore il disegno: se fosse vero, potrebbe essere una sorta di abbozzo da collegare a tele quali l’Adorazione dei Pastori Allendale e la Sacra Famiglia Benson della National Gallery of Art a Washington, l’Adorazione dei Magi della National Gallery di Londra, e l’incompiuta Adorazione dei pastori del Kunsthistorisches Museum di Vienna, tutte opere che sono state attribuite all’artista grazie allo studio comparato dei disegni sottostanti reso possibile dalla tecnica della riflettografia a raggi infrarossi.
Anche l’unico disegno ritenuto un suo autografo, che, sempre in sanguigna, rappresenta un contadino seduto davanti al Castello di San Zeno a Montagnana in Veneto (Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen), pare stilisticamente simile a quello di Sydney. Ancora più importante è una scritta posta sopra il disegno.
«A dì 17 setenbrio morì Zorzon da Castelo Francho de peste fintore excelentisimo da peste in Venezia de anni 36 et requiese in pace»,
Più in alto si intravedono a mala pena altre tre scritte tagliate a metà probabilmente quando le pagine del libro furono rifilate: «1510», «Jhs» e «Maria».
Il che, oltre a confermare il paese di origine di Giorgione e indicare la data esatta della sua morte, il 17 settembre 1510, probabilmente al Lazzaretto Nuovo, ci da un’interessante dato sulla sua età, che ci permette di inquadrare meglio le tappe della sua formazione e la cronologia delle opere. Giogione, infatti, doveva essere nato tra il 18 settembre 1473 e il 17 settembre 1474, dunque ben prima di quanto si era ipotizzato sulla base delle affermazioni del Vasari, che nel trattato Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori ne datava la nascita tra il 1476 e il 1478.
E’ interessante anche ipotizzare le vicende del libro: la Divina Commedia, inizialmente poteva appartenere proprio a Giorgione, che quindi conosceva bene il volgare toscano, tanto da apprezzarne un capolavoro poetico, cosa tutt’altro che scontata, nella Venezia dell’epoca, il che è una prova della sua origine benestante, vista la scolarizzazione. Anche perchè, il Commento di Landino era altrettanto complicato da leggere del testo dantesco: presentato manoscritto alla Signoria nel 1481 con le illustrazioni di Sandro Botticelli, vuol dimostrare che la Commedia cela la stessa allegoria che l’Eneide, e che Dante, pur essendo seguace di Aristotele, attraverso Virgilio risale anch’egli a Platone, primo fra tutti i filosofi. Il che è anche un altro indizio della formazione neoplatonica di Giorgione.
Il pittore, magari per convincere un potenziale committente riluttante, ha schizzato la Vergine con il Bambino, ispirato anche dalle lettura di Dante, sulla pagina dell’incunabolo. Prima che si ammalasse, altrimenti il libro sarebbe finito o bruciato, per impedire che veicolasse il contagio, o in quarantena, la Divina Commedia è passata di mano o un amico, in prestito, o al potenziale committente, che magari voleva riflettere un poco sul disegno, prima di ordinargli una pala.
La notizia della morte di Giorgione deve averlo sconvolto: ma di chi era la mano che ha scritto questo appunto. Non ne abbiamo idea, però qualche indizio, dalla frase possiamo trarlo. Conosceva bene il pittore, era molto religioso, tanto da affidare la salvezza dell’anima del defunto a Maria e Gesù, indicato con il trigramma di San Bernardino. In più, non utilizza né il dialetto, ad esempio preferisce il termine Venezia a Venexia, né il volgare toscano, ma il volgare cancelleresco veneto, quella strana lingua artificiale, che normalizza la grammatica e la fonetica veneta, riempendola di calchi latini e fiorentini, che nella Serenissima, almeno sino a metò Cinquecento, veniva utilizzato nella stesura degli atti e statuti pubblici, il che farebbe pensare a un alto funzionario della Cancelleria o a un membro dell’élite ammistrativa locale.
Infine, il lapsus o voluto gioco di parole, tra pintore e fintore, colui che finge, che crea un’imitazione della realtà, è un indizio della definizione platonica dell’arte sia imitazione o mimesi. Ma che cosa imita l’artista? Non la verità assoluta e perfetta, quale si trova nel mondo ideale, bensì la realtà sensibile. L’arte è dunque imitazione di imitazione, copia sbiadita e spesso deformante della Realtà. Una visione, ben diversa da quella fiorentina, ma molto vicina a quella dell’Università di Padova…
September 2, 2021
Il Misticismo di Klee
“Il colore mi possiede, non ho bisogno di perseguirlo, so che mi possiede per sempre… il colore e io siamo una cosa. Sono un pittore”
E’ una frase, assai nota di Paul Klee, che ne sottintende tutto il profondo misticismo che ne nutre l’arte, ispirata, concettualmente al Neoplatonismo di Plotino. Per comprenderne la genesi, dobbiamo tornare all’antica Grecia, al buon Platone. Come ogni studente delle superiori sa, la filosofia dell’ateniese nasce dal tentativo di trovare un compromesso tra le due grandi e ahimè divergenti elaborazioni pre socratiche, quella di Parmenide, secondo cui tutto è uno e immutabile, cosa che si scontra con l’evidenza del quotidiani, come evidenziato da Eraclito con il suo “panta rei” ( tutto scorre).
Per Platone, infatti, tutte le cose sensibili sono opinabili, dato che esse appaiono diverse a seconda dei punti di vista: tuttavia noi possiamo identificarle e classificarle tramite concetti astratti, loro sì immutabili, quelli che chiama Idee, dal greco eidos. Concetti che non sono come Aristotele categorie logiche, ma entità dotate di esistenza autonoma, che esistono al di fuori della coscienza degli uomini nell’Iperuranio, (da hyper= oltre, e ouranos=volta celeste), in una regione, cioè, al di là del tempo e dello spazio.
Così Platone, per non fare torto a nessuno, mette d’accordo Parmenide con Eraclito, individuando due condizioni di esistenza: quelle delle idee fisse e immutabili (il mondo intellegibile), percepibile solo dal puro intelletto, e quelle degli enti sensibili (il mondo sensibile, sempre in divenire), percepibile dai sensi.
Aristotele, che essendo discepolo di Platone, conosceva bene il suo pensiero, affermò nella Metafisica che il filosofo tenne alcune lezioni sul Bene, che non trascrisse nei dialoghi, limitandosi a qualche accenno nel Fedro
Dopo le filosofie di cui si è detto, sorse la dottrina di Platone, la quale, in molti punti, segue quella dei Pitagorici, ma presenta anche caratteri propri. Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo, e seguace delle dottrine eraclitee, secondo le quali tutte le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito. D’altra parte, Socrate si occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità, ma nell’ambito di quelle ricercava l’universale, avendo per primo fissato la sua attenzione sulle definizioni. Orbene, Platone accettò questa dottrina socratica, ma credette, a causa di quella convinzione che aveva accolta dagli eraclitei, che le definizioni si riferissero ad altre realtà e non alle realtà sensibili: infatti, egli riteneva impossibile che la definizione universale si riferisse a qualcuno degli oggetti sensibili, perché soggetti a continuo mutamento. Egli, allora, denominò codeste realtà Idee, e affermò che i sensibili esistono accanto ad esse e che vengono tutti denominati in base ad esse; infatti, per partecipazione alle Forme. Inoltre, egli afferma che, accanto ai sensibili e alle Forme, esistono enti matematici intermedi fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai sensibili perché immobili ed eterni, e differiscono dalle forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna forma è solamente una e individuale.
Poiché, quindi, le Forme sono cause delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle forme fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme egli poneva il grande e piccolo, e come causa formale l’uno: infatti riteneva che le forme e i numeri derivassero per partecipazione del grande e piccolo all’uno. Per quanto riguarda l’affermazione che l’uno è sostanza, e non qualcos’altro di cui esso si predichi, Platone si avvicina molto ai Pitagorici; e, ancora, come i Pitagorici, egli ritiene che i numeri siano causa della sostanza delle altre cose. Invece, è una caratteristica peculiare di Platone l’aver posto, in luogo dell’illimitato inteso come unità, una dualità, e l’aver concepito l’illimitato come derivante dal grande e piccolo. Platone, inoltre, pone i numeri fuori dal sensibile, mentre i Pitagorici affermano che i numeri sono le cose stesse
Questa revisione della sua filosofia, che Platone non mise mai su carta, probabilmente per la sua sfiducia nella scrittura, per il fatto che non l’aveva perfettamente sviscerata, dato che era un perfezionista e perchè, nell’opinione pubblica ateniese dell’epoca, la filosofia pitagorica, che era associata a posizioni politiche “conservatrici”, non era molto digerita, basata sulla dialettica tra l’Uno (principio dell’unità) e il “grande-e-piccolo “, o “Diade indefinita“ (principio della molteplicità), però rimase sempre un sottinteso nella riflessione filosofica dell’Accademia, per usare un termine inglese, una sorta di Elefante nella Stanza.
Chi la riprese, fu Plotino, il cui punto di partenza era proprio il concetto di Uno, sostanza che per essere vera non deve dipendere da un’altra figura, misura o tempo. Esso non doveva essere, non poteva essere nemmeno esprimibile. Il problema che si pose Plotino, era alquanto ovvio: come si può passare dall’Uno al Molteplice ?
Senza perdersi nei suoi complessi e contorti ragionamenti, il meccanismo identificato da Plotino era quello emanazione, attraverso, cioè, un processo espansivo che ha come punto di partenza l’uno e che arriva al molteplice. Questa espansione avviene tramite una serie di ipostasi. Per Ipostasi si intendono le tre realtà sostanziali divine che formano il mondo intelligibile ovvero Uno, Intelletto e Anima. Ogni ipostasi deriva da quella precedente mediante un atto di contemplazione.
Ora, il ragionamento di Klee, è molto vicino a quello di Platone e di Plotino. Il suo Uno, ciò da cui tutto nasce, dal punto di vista artistico, è il punto grigio, il quale è l’unica possibile rappresentazione del caos, è un punto non dimensionale, tra le dimensioni, ma che, dal momento che è stabilito, ci conduce «al momento cosmogonico: stabilendo nel caos un punto che, concentrato per definizione, può essere soltanto grigio, si conferisce a tale punto un primordiale carattere concentrico. Da esso irraggia, in tutte le dimensioni, l’ordine cui con ciò si è dato vita».
Dall’Uno, che in qualche modo ispirato da Goethe e da Schopenhauer, concide con la Volontà di Esistere: da questo si emana la Forma, il Colore e lo Spazio-tempo, in qualche modo ispirato dalla visione che ne da Einstein. Ora, per conoscere l’Uno, non possono bastare l’esperienza empirica e la percezioni, perchè si fermano all’apparente diversità del fenomeno, senza identificare la profonda unità del nuomeno.
Anche la Ragione è insufficiente: per citare Giuliano Antonello
La razionalità e la coscienza, con il loro lineare procedere, non possono cogliere esaurientemente il multiversum dell’esperienza: una logica puramente conoscitiva, che riduce la verità alla validità, la relazione tra le cose all’implicazione logica tra i concetti, che disperde il contenuto di concetti come quelli di qualità e valore nell’uniformità calcolabile della quantificazione e della funzionalità, può estendere il suo dominio solo su una realtà preventivamente distillata, purificata dal suo contenuto materiale e rigorosamente formalizzata. In questa logica, aspetti capitali dell’esistenza umana come quelli dell’inconscio, del sogno, dell’immaginazione, della morte non hanno patria. Il loro carattere anarchico, trasgressivo, infinitamente creativo o definitivamente conclusivo travolgerebbe impetuosamente le scheletriche certezze su cui essa si basa.
L’Unico modo quindi per giungere alla contemplazione dell’Uno è quindi l’Arte, che nel suo fluire creative, deve liberarsi dalle catene della rappresentazione e raggiungere la pienezza della Libertà espressiva. Così, anche se in Klee rimangono comunque riconoscibili elementi naturali o oggetti figurativi, essi non sono lontani dal libero gioco di linee e dalle forme geometriche puramente astratte di Kandinskij, poiché assolvono alla stessa funzione. I paesaggi e gli animali presenti nelle tele di Klee sono spesso riconoscibili, ma anomali, poiché formati da piani geometrici, lontani da proporzioni realistiche e da colori molte volte poco verosimili. Essi, così come le pure forme geometriche, ci mostrano lo spazio interiore dell’artista e liberano la possibilità di una nuova visione creativa delle cose.
September 1, 2021
La Torre del Quadraro
Tra gli alti palazzi moderni di piazza dei Consoli, sul lato sinistro venendo da “Monte del Grano”, si trova l’antico complesso architettonico del Quadraro, costituito da una massiccia torretta quadrangolare a merlatura ghibellina inglobata nei fabbricati di un casale storico, databile tra il XVII e il XIX secolo. Casale che, ai tempi di Veltroni, è stato restaurato ed è sede dell’attuale Centro Anziani.L’antichità del sito è testimoniata anche da diversi e importanti ritrovamenti effettuati a partire dal 1776, di iscrizioni funerarie e materiale scultoreo, che hanno fatto ipotizzare nell’area del complesso la presenza di una villa residenziale.
Come molti delle torri destinate alla difesa della campagna romana, questa è stata costruita su preesistenze dell’età romana: dai resti archeologici, è probabile che il complesso sorga su un mausoleo di epoca repubblicana. Il suo nome ha origine da G. G. Guadralis, enfiteuta (persona a cui un proprietario cedeva il proprio fondo in cambio di un canone annuo in danaro o in prodotti coltivati), nel 1164. Il Casale Quatralis, poi Quadrarium e infine – dal XIV secolo – Quadraro.
la fine del XIII secolo il “Casale Quatralis” era diviso fra il monastero di S. Alessio e le famiglie degli Arcioni e Astalli (la famiglia di quest’ultimi si estinse sul finire del secolo XVIII nei Piccolomini). Nel 1358 appare il nome di “Casale lo Quadraro”. Nel XV secolo Giordano Colonna ne venne in possesso, acquistando nel 1420 parte del casale con la torre, per 1200 ducati.in età più recente il complesso del Quadraro fu inserito nel latifondo di Roma Vecchia, di proprietà Torlonia.
La Torre usata per controllare il primo tratto della via Tuscolana e doveva essere verosimilmente in contatto visivo con la Torre di Centocelle, non va confusa con l’altra torre del Quadraro che si trovava a circa 1000 m. sulla destra del Km. 23 della via Casilina e che è ricordata in una bolla di papa Bonifacio VIII nel 1301, a proposito della divisione di alcuni beni fra cui Torre Jacova della famiglia deli Annibaldi.
La torre del Quadraro è ancora visibile al fianco di un casolare moderno. E’ costruita con blocchetti di tufo, frammenti marmorei e mattoni. La base è rinforzata da un piccolo sperone, mentre la sommità è orlata da una robusta merlatura di tipo ghibellino. Le ampie finestre rettangolari con gli stipiti in marmo sono state in parte rifatte. Si vedono ancora gli anelli di marmo alla ringhiera che circonda il ballatoio superiore.
Come sanno i romani, la Torre ha dato il nome a un vasto quartiere della periferia, comprendente, almeno fino al 1930, la zona tra Porta Furba e gli attuali stabilimenti di Cinecittà. Oggi il toponimo Quadraro è limitato all’area dell’insediamento urbano più antico della zona, circoscritto dalle vie Tuscolana, Casilina e di Centocelle, risalente all’inizio del ‘900. Si trattava di una lottizzazione abbastanza ben progettata con villini di due o al massimo tre piani con attorno un’area verde di circa 2.000 – 2.500 metri quadrati, paragonabile al quartiere dei villini del Pigneto.
Durante l’occupazione di Roma il Quadraro era definito “nido di vespe” dai tedeschi, a causa del disprezzo verso tedeschi e fascisti nella zona, abitata da fasce di popolazione povera e da sfollati delle zone del fronte. Era tanto antifascista che si diceva che, per sfuggire dai tedeschi, “o vai al Vaticano o al Quadraro”.
La goccia che fece traboccare il vaso fu un clamoroso episodio avvenuto il 10 aprile in una trattoria di Cinecittà (la trattoria di Gigetto in via Calpurnio Fiamma). Nel pomeriggio del lunedì di Pasqua Giuseppe Albano, detto il “gobbo del Quarticciolo” assalì con la sua banda alcuni soldati tedeschi. Tre di questi vennero freddati a bruciapelo, provocando l’ira del comando tedesco a Roma.
Così Kappler, per rappresaglia, organizzò, con il supporto dei fascisti della Banda Koch, il piano Unternehmen Walfisch (in italiano Operazione Balena): un piano che prevedeva il rastrellamento, che verrà eseguito la mattina del 17 aprile, e la deportazione in Germania di tutta la popolazione attiva del quartiere.
Le truppe tedesche dapprima assediarono il quartiere e, dopo un rastrellamento in cui vennero arrestate circa duemila persone, ne deportarono nei campi di concentramento in Germania almeno 683, come risulta dall’unico elenco attendibile dei deportati, all’epoca compilato dal parroco Don Gioacchino Rey. I tedeschi progettarono inizialmente l’eliminazione dei prigionieri, ripiegando successivamente sulla loro deportazione in Germania. Questi prigionieri, trasformati in “lavoratori volontari”, furono ricordati successivamente come “gli schiavi di Hitler”.
Tra l’altro, per vicende dell’urbanizzazione e della toponomastica romana, la Torre non appartiene più al quartiere Quadraro, ma a Don Bosco. La Torre è stata nel 1961 uno dei luoghi di una commedia straordinaria, ma ahimè molto sottovalutata, che è Fantasmi a Roma di Antonio Petrangeli e sceneggiatura di Flaiano.
E’ infatti la casa merlata e abbandonata dove vive il fantasma del Caparra, pittore seicentesco dal pessimo carattere e con un enorme complesso di inferiorità nei confronti del Caravaggio, che dipingendo in una notte un affresco Giove che seduce Venere travestito da lavandaia, permette agli altri fantasmi di salvare il palazzo che infestano
August 31, 2021
Etruscheria
La pubblicazione di De Etruria Regali di quel pazzo scatenato di Thomas Dempster, da parte di Thomas Coke, curata da Filippo Buonarroti ebbe un’inaspettato effetto collaterale. Gli etruschi, che erano un argomento per eruditi, divennero improvvisamente di moda, dando origine al fenomeno culturale dell’Etruscheria. Cosa che, di positivo, portò alla nascita dei primi musei dedicati esclusivamente a questo popolo. Di negativo, uno sproposito di polemiche tra intellettuali ed eruditi, che oggi sembrerebbero folli.
Alcune riguardavano il ruolo storico della civiltà etrusca: da una parte, vi erano gli intellettuali di buon senso, che lo ritenevano importante, affermando che gli etruschi avevano influenzato i romani e a loro volta, erano stati influenzati dai greci. Dall’altra i fomentati, che, per orgoglio campanilistico, tendevano ad attribuire agli Etruschi acquisizioni culturali, invenzioni, e manufatti artistici dell’antichità: insomma, in Sardegna, con la fanta archeologia dei Shardana conquistatori del Mediterraneo, non si sono inventati niente.
Per giustificare tali inferenze storico-archeologiche, ricorrevano con disinvoltura alla distorsione delle fonti, oppure, senza porsi troppi problemi, citavano il buon Annio da Viterbo come massima autorità sul tema. Alcuni di questi fomentati, lo facevano per interesse personale: Giovan Battista Passeri, senza questa esaltazione a prescindere dei Tirreni, sarebbe rimasto un oscuro avvocato di provincia, senza assumere la fama, immeritata, di grande erudito ed archeologo.
Altri, per darsi un tono e per il puro, semplice gusto della polemica, come il buon Piranesi, con l’anti-ellenismo romanocentrico ed etruscocentrico espresso nelle sue opere teoriche, quando invece, erano le incisioni che rappresentavano creativamente i monumenti romani, a procurargli la pagnotta.
Altri ancora, invece, ci credevano veramente, come Mario Guarnacci, fondatore della biblioteca pubblica e del museo etrusco di Volterra, il quale scrisse un’opera dal titolo chilometrico
Origini italiche o siano memorie istorico – etrusche sopra l’antichissimo regno d’Italia e sopra i di lei primi abitatori nei secoli più remoti
che fu stampata tra il 1767 e il 1772 in tre tomi stampati a Lucca da Leonardo Venturini.
È un’opera molto erudita sulle origini mitiche e storiche dei popoli che per primi abitarono la penisola italiana, popoli che l’autore fa discendere dagli Etruschi, dei quali analizza la lingua, le monete, le arti e le scienze. Mario voleva dimostrare che le arti e le scienze non erano state introdotte, come si pensava comunemente, in Italia dalla Grecia, ma viceversa.
Poi, per non farsi mancare nulla, rimproverò i romani per la loro opera di cancellazione perfino delle memorie etrusche, soprattutto per il mancato riconoscimento del debito di civilizzazione contratto con l’antico popolo italico da cui avevano derivato studi, leggi, arti, monumenti e riti. Oggi, una tesi del genere avrebbe avuto spazio al massimo su siti come Informare per resistere o altri bufalari di questo tipo, ma all’epoca scatenò polemiche a non finire tra oppositori e sostenitori, tanto che l’Accademia etrusca di Cortona nominò Mario sui Lucumone, ossia presidente.
Un secondo filone della mania etrusca si rivolse non solo ai prodotti architettonici e artistici, ma anche agli studi linguistici e vide coinvolti figure di antiquari di spicco come Scipione Maffei e Anton Francesco Gori. I problemi principali di questo interesse linguistico riguardavano la classificazione della lingua etrusca e del suo alfabeto, secondo il quadro di conoscenze dell’epoca. In tale ambito, si fronteggiavano due opposte prese di posizione. La prima tendenza, facente capo a Scipione Maffei, pretendeva di inserire la genealogia linguistica dell’etrusco nell’ambito delle lingue semitiche e aramaiche. La seconda teoria, facente capo al Gori, pretendeva di inserire l’etrusco tra le lingue classiche, ossia per usare un termine moderno, nella famiglia delle lingue europee.
C’era poi una terza posizione, molto ridotto come sostenitori, ma paradossalmente molto più moderna: ossia che la lingua etrusca aveva origine da quella parlata dagli antichi aborigeni che abitavano l’Europa prima degli arrivi degli antenati dei greci, dei latini e dei galli, che con il tempo, si era modificata per l’influenza dei vicini. Tesi che, ovviamente con termini differenti, è adottata anche dagli attuali linguistiche. Le lingue del gruppo Tirsenico, Retico ed Etrusco, discenderebbero, quindi, dalle lingue preindoeuropee parlate in Europa almeno sin dal neolitico prima dell’arrivo degli indoeuropei durante l’età del bronzo: l’etrusco in particolare, sarebbe stato influenzato dalle lingue indoeuropee circostanti.
Benché giudicata negativamente dagli studiosi successivi, data anche la litigiosità degli eruditi che vi si dedicarono, però la moda dell’etruscheria, riproponendo la questione tirrenica all’opinione pubblica, ebbe l’effetto di rilanciare alla grande ricerche e studi su tale popolo
Alessio Brugnoli's Blog

