Marco Manicardi's Blog, page 48
February 21, 2020
Dei ricordi (11)
Il 21 febbraio del 2018, ero a Roma, in trasferta per lavoro, e oltre a postare questa foto intitolata “heavy metal”:
scrivevo una cosa intitolata “il fastidio”, e in particolare il fastidio era legato a un episodio che mi era appena capitato e che mi capita continuamente, e cioè:
tipo quando la fotocellula non ti percepisce più, e spegne la luce, sempre, durante la sgrollata.
Il 21 febbraio del 2017, invece, era un giorno come gli altri, a parte che era morto Umberto Eco, e io scrivevo una cosa senza titolo che diceva:
È difficile fare battute su eco, perché eco è femminile.
E infine, il 21 febbraio del 2011, verso le 18:00, scrivevo una cosa intitolata “gioia e rivoluzione” che diceva così:
Esco dal lavoro, sono le 6, e non c’è buio.
Anche oggi. In alto i cuori.
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February 20, 2020
Tolstaja (3)
E il 22 marzo del 1866, su una pagina del diario, scritto tra il 1862 e il 1910, Sòf’ja Andrèevna Bers, detta Sonja, diventata poi Sof’ja Tolstaja, moglie di Lev Nikolàevič Tolstoj, scriveva che le impressioni che si hanno da giovani sono preziose, perché non si cercano e non se ne è coscienti, ma sono troppe. E che ora invece non è così: si riflette su tutto e si cerca tutto quello che sia più serio, più degno di noi. Ma è peggio.
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February 19, 2020
Dei ricordi (10)
Il 19 febbraio del 2014, era sera, dopo cena, c’era Sanremo e stava suonando un ospite di nome Yusuf Islam, cioè Steven Demetre Georgiou, cioè Cat Stevens, e scrivevo una cosa che diceva così:
Non vorrei essere il cantante cui dietro le quinte stanno dicendo «Dai, dopo Cat Stevens tocca a te.» Meno male che non ci sono cantanti dietro le quinte.
E poi, parlando proprio di Yusuf Islam, cioè Steven Demetre Georgiou, cioè Cat Stevens, dicevo che
Per me può venerare il dio che gli pare.
Musica:
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February 17, 2020
Franzen (2)
E sempre in un libro che si chiama Le correzioni, del 2001, di Jonathan Earl Franzen, l’ex vice primo ministro della Lituania – una piccola nazione baltica – dice a Chip Lambert, uno dei protagonisti, che loro hanno così tante elezioni che la stampa internazionale non se ne occupa più, che fanno tre o quattro elezioni all’anno e sono la loro industria più importante. E che la loro produzione pro capite annua di elezioni è la più alta del mondo e supera persino quella dell’Italia.
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February 14, 2020
Una rosa è una rosa è una rosa?
Avrò avuto quattro o cinque anni, ero al secondo o al terz’anno di scuola materna e quando la mamma mi aveva chiesto una di quelle cose che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, e cioè «Ce l’hai una morosina?», io avevo risposto deciso: «Sì che ce l’ho!»
«Chi è? Una tua compagna di classe?»
«Sì, avevo risposto fiero, «si chiama Marcella.»
Non che fossimo davvero morosi, a quattro o cinque anni, figuratevi, ma c’era la prassi di dire che una bambina era la tua morosa solo perché ti piaceva, e perché dovevi per forza incasellarti in uno stile di vita che ti imponevano gli adulti: sei un maschio di quattro o cinque anni, sei in salute, ti dovranno per forza piacere le femmine.
Il caso aveva voluto che mi piacessero le femmine, e c’era una bambina in classe con me che si chiamava Marcella, io dicevo che era la mia morosa e anche Michele diceva che la Marcella era la sua morosa. Entrambi lo sapevamo e ci andava benissimo così, perché il mondo che vivevamo al secondo o al terz’anno della scuola materna dalle suore di Novi di Modena era un mondo libero. Anche le suore, incredibilmente, accettavano senza battere ciglio quell’abbozzo di intenzione alla poligamia infantile.
Ma comunque, inevitabilmente, anche al secondo o al terz’anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena era arrivato il giorno di San Valentino.
Cosa volete che gliene freghi a un bimbo di quattro o cinque anni di San Valentino? Niente?
Invece qualcosa gliene frega. Gliene frega perché gli adulti, a cominciare dai genitori, cominciano a dire delle cose, di quelle che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo: «Allora glielo fai un regalo alla tua morosina domani che è San Valentino?»
Sarà seguita, immagino, qualche spiegazione sul significato popolare della ricorrenza, o magari me l’avevano già spiegato prima, non lo so, ma alla fine, va bene, facciamo il regalo alla Marcella, devo aver pensato tra me e me, e avevo portato la mamma in un negozio di giocattoli, uno dei due che c’erano a Novi di Modena all’inizio degli anni 80. Eravamo entrati, avevo scelto un regalo, l’avevo fatto impacchettare dal negoziante e, devo dire, se adesso chiudo gli occhi e ripenso a quel momento preciso della mia vita e faccio uno sforzo per tornare alle sensazioni del me stesso bambino che comprava un regalo di San Valentino per la Marcella, la mia morosina, mia e di Michele, beh, mi sento e mi sentivo abbastanza soddisfatto.
E lo ero ancora il giorno dopo, quando ero arrivato con la mamma davanti alla scuola. Mia mamma era una che si svegliava anche presto, la mattina, ma poi andava a finire che si perdeva a fare dei lavori in giro per casa e mi portava sempre a scuola per ultimo; e quel giorno lì, il giorno di San Valentino di quando avevo quattro o cinque anni, quando ero entrato a scuola c’erano già dentro tutti i miei compagni di classe ammassati in cerchio nel salone centrale tra le sezioni.
Dentro al cerchio c’era la Marcella.
E davanti alla Marcella, me lo ricordo bene come se fosse adesso, ho proprio la fotografia davanti agli occhi, c’era Michele col braccio teso verso di lei e una rosa rossa in mano.
Ora, a me viene naturale, in questo momento, chiedermi delle cose. Delle cose da adulto, intendiamoci. Delle cose tipo: ma come può darsi che a un bambino di quattro o cinque anni gli venga in mente di regalare una rosa a una bambina per San Valentino?
Qual è il processo mentale precocissimo che porta il romanticismo a vette così adulte che fa dire a un bambino di quattro o cinque anni «Mamma portami dal fioraio che compro una rosa rossa per la Marcella che domani è San Valentino»?
Com’è possibile una cosa del genere?
Una rosa? A quattro o cinque anni?
Non saranno mica stati i genitori, invece, a inculcargli una di quelle cose che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far scappare da ridere agli altri adulti lì intorno, tipo «Michele, gliela compriamo una rosa rossa alla tua morosina per San Valentino?»
Una rosa?
Dai, su.
UNA ROSA?
Allora io, ecco, mi ricordo che avevo preso il pacchettino che avevo in mano, che era dentro a una sportina colorata, mi ero girato verso mia mamma, che era lì che guardava Michele dare la sua rosa rossa alla Marcella e sorrideva compiaciuta della scena, e magari nella sua testa avrà pensato che cosa divertente e buffa questi due bambini che fingono di fare gli adulti. Intanto io la tiravo per la giacca e per ridarle il mio pacchetto.
Deve forse avermi detto: «Non glielo dai il tuo regalo alla Marcella?»
«No, fa lo stesso,» devo aver risposto.
E le avevo ridato la sportina con dentro il mio regalo ancora impacchettato.
Una rosa, pensavo.
Una rosa.
Una fottutissima rosa rossa, penso ancora adesso.
Come potevo anche solo immaginare di competere, io, piccolo stoltarello di quattro o cinque anni al secondo o al terz’anno della scuola materna delle suore di Novi di Modena, come potevo pensare di affrontare Michele e la sua rosa rossa davanti alla Marcella, io, ingenuo, piccolo e stupido, col mio sciocco, anche se non banalissimo, ma comunque sciocco, sciocchissimo cubo di Rubik?
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Musica:
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(È una cosa che posto, linko o rebloggo da qualche parte tutti gli anni; e ogni anno cambio qualcosa, anche solo virgola. Non che sia importante.) (Buon San Valentino anche a voi, valà.)
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February 10, 2020
Coates
E alla fine di un libro che si chiama Una lotta meravigliosa, del 2008, Ta-Nehisi Paul Coates ringrazia sua madre, che gli faceva scrivere dei temi ogni volta che lui si metteva nei guai, per spiegare con precisione cos’aveva fatto e perché. E dice che quel libro, Una lotta meravigliosa, inizia da lei, e che le è eternamente debitore.
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February 7, 2020
Svegliandosi una mattina da sogni agitati
Marco Manicardi si trovò trasformato, nel suo letto, in un vecchio quarantunenne.
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February 6, 2020
Così va la vita (come Kirk con Kubrick)
E sempre in un libro che si chiama Con Kubrick, del 2000, Michael David Herr dice che:
Stanley non avrebbe mai potuto fare a meno di notare che pochissimi registi avevano, nei film che realizzavano, qualcosa che si avvicinasse anche solo da lontano all’autonomia decisionale. Diceva che il modo in cui erano gestiti gli studios negli anni Cinquanta gli faceva pensare all’osservazione di Clemenceau sul fatto che gli Alleati avevano vinto la prima guerra mondiale solo perché i nostri generali erano leggermente meno stupidi dei loro. Era deciso a trovare un modo per avere successo lì, perché non riusciva a immaginare dove altro avrebbe potuto fare film. La sua ambizione era spettacolare, aveva talento e fiducia in sé, una mente d’acciaio, e i controcoglioni. Capiva chiaramente che in ogni film qualcuno doveva avere il comando, e riteneva che avrebbe anche potuto essere lui.
Mi disse che doveva tutto a Kirk Douglas. Una volta Douglas lo definì «una merda di talento», e questa potrebbe essere stata una delle cose più carine che disse di lui. Aveva recitato come protagonista in Orizzonti di gloria, e se anche quel ruolo aveva giovato non poco alla sua carriera, sentiva che Stanley era in debito con lui, e pensava che sarebbe stato grato e accondiscendente quando lo chiamò per sostituire Anthony Mann dopo tre settimane di riprese di Spartacus. La sceneggiatura era stata scritta da Dalton Trumbo, che nel 1958 era ancora sulla lista nera, e quando i produttori cominciarono a essere tormentati dai dubbi, non sapendo se convenisse correre il rischio di attribuire la sceneggiatura a Trumbo, Stanley suggerì di risolvere il problema attribuendola a lui. (Douglas disse che Stanley non scrisse mai una sola parola di quella sceneggiatura, ma io ho qualche dubbio. Il Crasso interpretato da Laurence Olivier è il personaggio più complesso mai apparso in un film epico di genere, è quasi shakespeariano, e sono sicuro che Stanley abbia scritto e dato forma anche in altri modi a molte di quelle scene. Non penso, sia chiaro, che abbia scritto battute come: «In piedi, Spartaco, cane della Tracia».) Kirk Douglas (e questa è bella) fu offeso dal chutzpah1 di Stanley.
Ma nella fattispecie, la storia si concluse con uno dei loro violenti screzi, mentre Kirk era a cavallo e Stanley a piedi, sul punto di girare una scena. Kirk spinse il suo stallone bianco campione della libertà contro Stanley per far prevalere il suo punto di vista, ossia che lui era la star e il produttore, rivolgendo il fianco del suo cavallo contro Stanley, facendolo sempre più arretrare per rimandarlo a casa, poi se ne andò al galoppo lasciando Stanley nella polvere, furibondo e umiliato, quando ecco che uno dei saggi della troupe passa di là e dice: «Ricorda, Stanley – è l’opera che conta»2.
Così va la vita.
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1.^ In yiddish il termine chutzpah indica l’affronto che commette chi oltrepassa impudentemente le regole. È opportuno ricordare che anche Kirk Douglas era di origine ebraica.
2.^ Amleto, atto II, scena II, V. 604.
(Le note sono sempre di Michael David Herr.)
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February 4, 2020
La prima volta al cinema (per tre volte)
L’altro giorno Francesco Farabegoli, che è un mio amico dell’internet da un bel po’ di anni, diceva che il suo primo film al cinema era stato E.T. L’extraterrestre, e mi aveva fatto venire in mente una cosa e cioè che i miei, che mi hanno sempre detto che quando erano morosi andavano al cinema una domenica sì e l’altra no, a me non mi ci avevano mai portato.
Così io di prime volte al cinema ne ho avute tre, e coincidono con le prime tre volte che sono stato al cinema. È una storia un po’ bizzarra, probabilmente. Però è vera e la racconto al contrario, dalla terza alla prima.
La terza prima volta che sono stato al cinema, che coincide con la terza volta assoluta che sono stato al cinema in vita mia, era il 1995, o l’anno dopo, il 1996, avevo sedici o diciassette anni, era inverno, e i miei amici, visto d’inverno potevo uscire con loro perché la stagione ciclistica era ferma – dai nove ai diciannove anni sono stato un ciclista agonistico e vivevo un po’ come un soldato – mi avevano invitato con loro al cinema Capitol di Carpi, che adesso non c’è più, ma quel giorno là era un cinema che funzionava molto bene e davano Seven.
Una volta, lo dico se c’è qualche giovane che legge, si poteva fare così: facevi il biglietto e andavi dentro in qualsiasi momento, sceglievi un posto a caso o si faceva una media tra chi voleva star davanti e chi voleva stare dietro, se eravate un gruppetto, e potevi rimanere dentro finché volevi, guardando il film anche due o tre volte a seconda degli orari delle proiezioni. Non erano tempi migliori o peggiori di questo, erano solo diversi.
E mi ricordo che eravamo entrati che mancava mezz’ora alla fine, ci eravamo gustati il finale di Seven e poi l’avevamo ricominciato da capo. La tensione era altissima anche se sapevamo già come andava a finire.
***
La seconda prima volta che sono stato al cinema era l’anno prima, circa, il 1994, avevo quindici anni e visto che mia sorella, che ne aveva sette, non era mai stata al cinema in vita sua, a differenza mia che ci ero stato una volta, e visto che abitavamo in un posto dove il cinema più vicino era a quindici chilometri, avevo chiesto ai miei se ci portavano a vedere Il re leone a Carpi. Senza problemi, avevano risposto di sì.
Ci avevano quindi portati a Carpi, al cinema Capitol, ci avevano preso i biglietti, io e mia sorella eravamo entrati e loro, i miei, erano invece andati a fare un giro in piazza. Finito il film ci aspettavano fuori per portarci a casa.
Il primo film che ho fatto vedere a mio figlio, quando ancora non aveva due anni, a casa, sul televisore, è stato proprio Il re leone, quello del 1994. Lui ci aveva capito poco o niente, però, i bambini sono fatti così, lo voleva vedere tutte le sere.
Le prime volte, durante la sigla iniziale, piangevo come una fontana. Dopo mi sono abituato.
***
La prima volta che sono stato al cinema, invece, non era proprio un cinema, nel senso dell’edificio. Era il 1986, o forse era già il 1987, avevo sette o otto anni e nel mio natìo borgo selvaggio avevano già smesso in anticipo sulla Storia di fare la Festa de l’Unità in favore di una cosa più laica e bipartisan chiamata Il Ghiottone. Il Ghiottone era appunto una festa organizzata d’estate dentro ai locali e nel cortile di un ex Consorzio Agrario ormai dismesso, talmente grande da poterci infilare delle tavolate infinite in cui poteva sedersi tutto il paese a mangiare delle cose molto grasse in quantità importanti. La facevano quasi tutti gli anni, fino a quando avevano poi deciso di buttar giù l’ex Consorzio Agrario e di costruirci una Coop.
Quell’estate del 1986, o del 1987, quindi, eravamo al Ghiottone e io avevo già finito di mangiare il mio piatto di tagliatelle al ragù – o qualcosa di simile, ma mi ricordo proprio le tagliatelle al ragù, non so come mai – e visto che gli anni Ottanta erano un periodo che ci si poteva alzare da tavola a setto o otto anni e andare in giro dove si voleva, mi ero messo a cercare qualche amico o qualcosa da fare tra le stanze di quel complesso enorme dell’ex Consorzio Agrario. C’era una stanza, mi ricordo, che non aveva il muro esterno, forse era stata un magazzino o un garage per le mietitrebbie, ma era davvero grande e lì, su uno schermo gigante, con un proiettore e la pellicola, facevano il cinema estivo durante le serate del Ghiottone. Quando ero arrivato davanti allo schermo stava per iniziare un film e io ero rimasto a vedere cosa stava succedendo. Proiettavano Grosso Guaio a Chinatown.
Non ero mai stato al cinema in vita mia. Durava un’ora e mezza o poco più. Credo di non aver mai sbattuto le palpebre.
***
Prima di finire, visto che so che mia mamma viene sempre a leggere quello che scrivo, quindi è meglio mettersi ai ripari (ciao mamma), volevo solo dire che anche se i miei non mi hanno mai portato al cinema non gliene sto facendo qui una colpa, adesso, perché con l’età ho capito che ognuno coi figli fa un po’ come gli viene. A me, per dire, fa schifo la neve e molto, ma molto schifo la neve in montagna, e non credo che ci sarà verso di convincermi a portare mio figlio a sciare: imparerà da solo, se vorrà, più avanti, quando vorrà.
Un po’ come ho fatto io col cinema. Non è andata poi male.
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February 3, 2020
Franzen
E a un certo punto, in un libro che si chiama Le correzioni, del 2001, Jonathan Earl Franzen dice che la luce aveva il colore del mal d’auto.
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