Marco Manicardi's Blog, page 25
May 1, 2021
Hobsbawm
E in un saggio intitolato Il Primo maggio: nascita di una ricorrenza, del 1990, dentro a un libro che si chiama Gente non comune, del 1998 o del 2000, Eric John Ernest Hobsbawm dice che i socialisti italiani, vivamente consapevoli del fascino spontaneo della nuova Festa del lavoro agli occhi di una popolazione in gran parte cattolica e analfabeta, usarono l’espressione «Pasqua dei lavoratori» almeno a partire dal 1892, e che simili analogie diventarono correnti in campo internazionale dalla seconda metà degli anni Novanta. E dice che è facile capirne il motivo. E che la somiglianza del nuovo movimento socialista con un movimento religioso e perfino, nei primi anni eroici della Festa del lavoro, con un movimento di rinascita religiosa a tinte messianiche, era evidente. E per certi versi, uguale era la somiglianza dei leader, attivisti e propagandisti di quel movimento con una gerarchia ecclesiastica, o almeno con un ordine missionario. E poi dice anche di possedere uno straordinario volantino del 1898 proveniente da Charleroi, in Belgio, riproducente quella che può essere definita una predica da Primo maggio; nessun’altra etichetta sarebbe adeguata. Fu stilato dai, o a nome dei, dieci deputati e senatori del Parti Ouvrier Belge – atei dal primo all’ultimo, senza dubbio – sotto il duplice motto «Lavoratori di tutto il mondo unitevi (Karl Marx)» e «amatevi gli uni con gli altri (Gesù)». Qualche citazione dà un’idea del contenuto:
È questo il tempo primaverile e festivo in cui la perpetua evoluzione della natura rifulge in tutta la sua gloria. Come la natura, riempitevi di speranza e preparatevi a una Nuova Vita.
Dopo qualche riga di raccomandazioni morali («Abbiate rispetto di voi stessi: guardatevi dalle bevande che ubriacano e dalle passioni degradanti», e così via) e buoni propositi socialisti, la predica si concludeva con un brano di sapore millenaristico:
Presto le frontiere si dissolveranno! Presto finirà il tempo di guerre ed eserciti! Ogni volta che praticherete le virtù socialiste della Solidarietà e dell’Amore, farete sì che questo futuro sia più vicino. E allora, nella pace e nella gioia, verrà un mondo in cui il socialismo trionferà, una volta compreso il dovere sociale di tutti di favorire il pieno sviluppo personale di ciascuno.
E poi, alla fine, Eric John Ernest Hobsbawm dice che, diversamente da altre ricorrenze, comprese molte manifestazioni più o meno ritualizzate del movimento operaio tenutesi in precedenza, il Primo maggio non commemorava niente, almeno al di fuori dell’influsso anarchico che mirava a collegarlo all’episodio degli anarchici di Chicago del 1886. Non verteva su niente fuorché sul futuro, che, al contrario di un passato che niente aveva avuto in serbo per il proletariato se non tristi esperienze («Du passé faisons table rase» cantava non per caso l’Internazionale), prometteva l’emancipazione. Inoltre «il movimento» non offriva, come invece la religione, ricompense dopo la morte, ma una Nuova Gerusalemme su questa Terra.
(È una cosa che posto tutti gli anni, quando mi ricordo. Buon Primo maggio)
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April 27, 2021
232 Celsius (circa) s1e07 Speciale: Zona di Alienazione (il podcast)
E questo è il podcast della settima puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di lunedì 26 aprile su Radio Sverso. Dura un’ora e quarantadue minuti ed è una puntata speciale dove, a 35 anni esatti dal 26 aprile 1986, Sergio Pilu e Marco Manicardi (che poi sono io) leggono un libro che si chiama Zona di alienazione. Chernobyl, una mattina d’estate, scritto da Sergio Pilu appena tornato da un viaggio a Chernobyl e pubblicato nel 2019:
(su Spotify, su Google Podcasts, in mp3)
E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):
XTC, Books Are Burning (sigla)Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.
(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)
Introduzione di Andrea Bentivoglio:
La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).
232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.
***
Introduzione di Caterina Imbeni:
Il 26 aprile del 1986 alle ore 1 23 minuti e 45 secondi nella centrale nucleare di Černobyl’, nell’allora Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, si verificarono due esplosioni a distanza di pochi secondi l’una dall’altra. Ancora oggi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile e l’unico, insieme a quello di Fukushima del 2011, a essere classificato con il settimo livello, il massimo, della scala di catastroficità INES. Così dice Wikipedia.
A 35 anni esatti da quel 26 aprile, 232 Celsis (circa) racconta e legge un libro che si chiama Zona di alienazione. Chernobyl, una mattina d’estate, scritto da Sergio Pilu nel 2019, appena tornato da un viaggio in Ucraina.
La quarta di copertina di “Zona di alienazione” dice così:
Una sera, tornato da Chernobyl, ho passato un paio d’ore tra Wikipedia e Google, rendendomi conto di quante somiglianze ci fossero tra i fatti dell’Ucraina e quelli di un pezzetto di Brianza a venticinque chilometri dal mio divano. Così ho pensato di scrivere qualcosa, il racconto di un viaggio e un pezzo di storia di famiglia. Questo.
E quello che segue è una specie di reading.
Buon ascolto.
***
***
Sergio Pilu e Marco Manicardi (che poi sono io) fanno una specie di reading Zona di alienazione. Chernobyl, una mattina d’estate (che non trascriviamo, ma si tratta di un montaggio di brani tratti dal libro, che trovate qui e che costa pochissimo)***
Aaah, questo qui dev’essere molto profondo: l’Etica di Aristotele. Naturalmente chiunque lo legga deve credere di essere superiore a chi non lo ha letto…e questo non è bene, Montag: Noi dobbiamo essere tutti uguali. L’unico modo per essere felici è di sentirci tutti uguali. Quindi, noi dobbiamo bruciarli, Montag. Fino all’ultimo.
(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)
***
E questa era una puntata speciale di 232 Celsius (circa), quasi una specie di reading, dove, a 35 anni esatti dal 26 aprile 1986, Sergio Pilu e Marco Manicardi (che poi sono io) hanno letto un libro che si chiama Zona di alienazione. Chernobyl, una mattina d’estate, scritto da Sergio Pilu nel 2019, appena tornato da un viaggio in Ucraina.
Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:
Books Are Burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992, la sigla iniziale e finale del programmaMrs. O dei Dresden Dolls da A Is for Accident del 2003Atomic Garden dei Bad Religion, dall’album Generator del 1992Mother, da The Wall dei Pink Floyd, del 1979Time Will Crawl di David Bowie, da Never Let Me Down del 1987Hallowed Ground, dall’album omonimo del 1984 dei Violent FemmesRussians, di Sting, da The Dream of the Blue Turtles del 1985(Walk Me Out in the) Morning Dew dei Grateful Dead, ma fatta dai National per una compilation del 2016 per la Red Hot Organization dal titolo Day of the Deade infine, Everyday Is Like Sunday, di Morrissey, da un disco che si chiama Viva Hate del 1988Ad accompagnare le letture, c’era, un po’ stagliuzzato e rimontato, L’uccello di fuoco, un balletto del 1910 di Igor’ Stravinskij eseguito dall’Orchestra Filarmonica di Vienna diretta dal maestro russo Valerij Gergiev, durante il Salzburg Festival del 2000
Questo speciale su Chernobyl, nel 35esimo anniversario della catastrofe, è dedicato alla mamma e al papà di Sergio Pilu, alla popolazione di Meda e di Seveso, e anche mia mamma e a tutti quelli che, con lei, da decenni collaborano con il Progetto Chernobyl per l’accoglienza e l’aiuto ai bambini bielorussi al confine con l’Ucraina, travolti dagli effetti generazionali delle radiazioni e della Storia.
232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la consueta affabilità.
E tornerà, prima o poi. Chissà.
Nel frattempo… state bene.
A presto.
Ciao.
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Schegge di Liberazione su Radio Sverso (il podcast)
E questo è il podcast delle Schegge di Liberazione, andate in onda alle 18:30 di sabato 24 aprile e, in replica, alle 12:30 di domenica 25 aprile su Radio Sverso. Un’ora e quaranta di reading, combat rock e Resistenza. Lo trovate negli Speciali di Radio Sverso:
E quella che segue è la scaletta, con le introduzioni, le letture (per leggerle cliccate sui link al blog dedicato delle Schegge di Liberazione) e le canzoni trasmesse: [continua su Barabba]
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April 26, 2021
È il 26 aprile
È il 26 aprile e sono ancora antifascista, pensa te.
(Una citazione di simonerossi che posto tutti gli anni)
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April 24, 2021
Ci vuole del coraggio
Mio nonno, Corrado, eran già dei mesi che stava in prigione, ma ultimamente se la passava meglio. Meglio di qualche mese prima, quando c’era quell’aguzzino fascista a comandare la galera, un tipo sadico e cattivo che ammazzava i prigionieri a suon di botte, uno al giorno, tutti i giorni.
Mio nonno, Corrado, quando è arrivato in prigione, l’han chiamato subito nel piazzale insieme con tutti gli altri carcerati. Li hanno messi in fila, e uno sì e uno no venivano marchiati con una spennellata di vernice nera sul petto. Poi il capo fascista ha detto Quelli senza spennellata facciano un passo avanti. Ma mio nonno, che la spennellata ce l’aveva, è rimasto fermo lì dov’era. Quelli senza spennellata, invece, li han messi contro a un muro e li hanno fucilati, così, al volo, per dimezzare i letti occupati in galera in un colpo solo. Con voialtri, aveva detto poi il fascista, con voialtri cominciamo da domani, uno alla volta. E così han fatto, dal giorno dopo. Ogni giorno ne moriva uno di botte. Mio nonno racconta che ha visto i suoi due compagni di cella morire, prima uno poi l’altro, massacrati dalla testa ai piedi, e il terzo giorno toccava a lui.
Il terzo giorno, la mattina presto, nella cella di Corrado, mio nonno, che aveva diciotto o diciannove anni, è arrivato il prete e gli ha dato l’estrema unzione. Poi sono arrivati tre fascisti e han cominciato a picchiarlo. Pim pum pam, in faccia, pim pum pam, nelle gambe, pim pum pam, nella pancia, pim pum pam, sulle braccia, pim pum pam, calci nei reni, pim pum pam, pim pum pam. Mio nonno dice che era lì che si lasciava picchiare, e a un certo punto non sentiva più niente, sperava solo di morire alla svelta. E invece.
E invece non è mica morto, perché proprio in quel momento lì, mentre lo stavano ammazzando, pensa che culo, sono arrivati i partigiani ad attaccare la prigione e i fascisti son corsi fuori coi fucili spianati lasciando mio nonno sanguinante e svenuto sul pavimento.
Tre giorni dopo, quando si è svegliato, era in ospedale. L’attacco dei partigiani era stato respinto, ma qualcosa doveva essere successo, perché adesso, così gli dicevano, adesso il capo fascista era un altro, uno che, dicevano, ma lo dicevano sottovoce, era amico dei partigiani e trattava bene i prigionieri, anche se era comunque un fascista. Mio nonno, Corrado, lì per lì, ha pensato Grazie al cielo anche se era ateo, ed è stato un mese sul letto dell’ospedale, aspettando che le croste nella pancia si cicatrizzassero e i lividi in testa sparissero, e si faceva le sigarette con la carta di giornale, svuotando dei mozziconi trovati per terra che gli portavano le infermiere. Da quella volta dice che non ha mai smesso di fumare perché tanto, per lui, dai diciannove in poi eran tutti anni regalati.
E quindi un mese dopo, uscito dall’ospedale, mio nonno, Corrado, è tornato in prigione, nella cella di prima, quella dove il prete gli aveva dato l’estrema unzione. Solo che era diverso, stavolta, invece di un crostino di pane e una ciotola d’acqua sporca al giorno, il capo fascista gli faceva portare un crostino di pane e mezzo e dell’acqua pulita. E poi la sera, dopo che erano diventati un po’ confidenti, gli chiedeva se non aveva voglia di accompagnarlo fuori a cena, là, nel bordello, nella casa di piacere, e di riportarlo a casa e tornarsene in cella, perché il capo fascista, di lui, di Corrado, si fidava.
E così mio nonno, senza neanche capire il perché, quasi tutte le sere usciva dalla cella, andava in una casa di piacere col capo fascista della prigione, si sedeva su una seggiola e aspettava che il suo carceriere finisse quello che doveva fare. Poi, quando aveva finito, lo riportava a letto, sorreggendolo fino alla prigione perché veniva sempre fuori ubriaco, e dopo, messo a letto il suo carceriere, mio nonno tornava nella sua cella a dormire, chiudendosi la porta dietro le spalle. Stava lì ad aspettare chissà cosa, ma era appena guarito e non sapeva cosa fare, così, nell’immediato, e quindi tornava nella sua cella, ché aveva anche una gran voglia di riposarsi, dopo tutte quelle botte.
Questa cosa qui, quella di mio nonno che tutte le sere portava il fascista a puttane e lo riportava a letto, è durata quasi un mese.
Poi una sera, mentre mio nonno, Corrado, era lì seduto sulla solita sedia con le mani sulle ginocchia a guardarsi intorno nella casa di piacere, ad aspettare che il suo carceriere finisse quello che doveva fare, sono arrivate tre donnine mezze nude, tre puttane, e han cominciato a parlare con lui. Lui, mio nonno, che era timidissimo, almeno con le donne, non sapeva cosa dire. Però notava che i discorsi delle tre donnine si stavano spostando dalle moine sempre più verso il politico.
Sai Corrado, gli han detto a un certo punto, sai che quello che c’era prima a capo della prigione, quello che ammazzava di botte voi prigionieri, ne ha ammazzati venti, in quel modo lì? Eh, lo so bene, rispondeva mio nonno, anche con me c’era quasi riuscito. Sai Corrado, continuavano le tre donnine, sai che adesso sappiamo il nome e il cognome e se vuoi te lo diciamo così puoi vendicarti? Oh, non lo so mica io, rispondeva ancora mio nonno, non capisco e diciamo che non voglio capire. Dai Corrado, han detto quelle facendosi serissime tutto d’un colpo, Corrado, domani sera, tu, quando porti qui quel puttaniere fascista, vieni con noi che andiamo a fare una cosa. Ma non lo so, ha detto mio nonno allarmato, non lo posso mica fare di andare dove mi pare, sono in galera. Sì che puoi, Corrado, gli hanno risposto le donnine, ci pensiamo noi, te non preoccuparti.
Quella notte lì, mio nonno, dopo aver messo a letto il fascista ubriaco come al solito ed essere tornato in cella come al solito, dice che non riusciva a prendere sonno.
La sera dopo, infatti, ha riaccompagnato il suo carceriere nella casa di piacere. Lui, il fascista, gli ha detto Aspettami qui, ed è andato a fare le sue cose. Intanto mio nonno si è seduto sulla seggiola ad aspettare, ma non era mica tranquillo, gli tremavano un po’ le gambe. E poi sono arrivate le tre donnine, le tre puttane della sera prima, l’hanno abbracciato e gli han detto Corrado, vieni con noi, usciamo qui di dietro. E sono usciti, tutti e quattro. Lì dietro c’era un camion di quelli dell’esercito, solo che dentro non c’erano i fascisti, ma dei partigiani vestiti da fascisti. Appena hanno visto mio nonno, in silenzio, gli han dato una divisa fascista e l’han caricato sul camion. Salta su, gli han detto.
Mio nonno è saltato su, e dentro c’era proprio quel sadico del suo aguzzino di una volta, quello che voleva ammazzarlo di botte, legato dalla testa ai piedi e con qualche livido sulla faccia, gli avevano tappato la bocca. Mio nonno, Corrado, dice che ci è rimasto di pietra.
Poi il camion è partito. Nel tragitto erano tutti agitati, ma non è successo niente. Passa il primo posto di blocco e niente, tutto a posto, i documenti erano in regola. Passa il secondo posto di blocco, e tutto a posto anche lì, tutto in regola. Finché, arrivati in mezzo ai campi, i partigiani han preso il fascista, l’hanno slegato e gli hanno dato una pala.
Scava, gli hanno gridato. E lui, il fascista, s’è messo a scavare. E intanto piangeva.
Finito il buco, l’hanno messo in ginocchio. Corrado, han detto i partigiani a mio nonno mettendogli in mano una pistola, Corrado, adesso pensaci tu, vendicati.
Mio nonno racconta che ha preso in mano la pistola, l’ha guardata, è rimasto lì cinque minuti in silenzio e il cuore gli stava venendo fuori dalla bocca. Ha fatto un respiro e ha guardato il fascista in ginocchio che piangeva e tirava su col naso. Non sapeva cosa fare.
No, non me la sento, ha detto coi partigiani, davvero, non ci riesco.
Loro, senza perder tempo, gli han detto Va bene, Corrado, allora vai via e torna a casa a nasconderti, subito.
E mio nonno, Corrado, ha tirato un altro respiro, si è cambiato i vestiti e si è incamminato al buio in mezzo ai campi, piano piano, un tumulto in testa e le gambe che tremavano, si è acceso una sigaretta fatta con la carta di giornale che aveva trovato in tasca. Da lontano ha sentito una schioppettata, poi tutto è ritornato in silenzio.
***
Sai Marco, mi ha sempre raccontato, perché coi nonni funziona così, quando invecchiano, succede sempre che ti raccontano la stessa storia una decina di volte e tutte le volte è come se fossero lì a raccontarti quella storia per la prima volta, secondo loro. Sai Marco, mi dice sempre, ci vuole del coraggio a sparare a una persona, e io, quella volta lì, il coraggio non ce l’ho avuto.
Io lo ascolto sempre come se fosse la prima volta che me lo racconta. E non gliel’ho mai detto, a mio nonno, ma quando penso al coraggio, la prima immagine che mi viene in mente è la sua, è mio nonno, Corrado, con le mani in tasca, una notte di tanti anni fa, da solo, coi pensieri in testa come un tumulto, la tremarella nelle gambe e una sigaretta fatta con la carta di giornale in bocca. Il coraggio, per me, è mio nonno, Corrado, che cammina per tornare a casa. Perché delle volte ci vuole del coraggio, penso, ci vuole del coraggio anche a non averne, del coraggio.
(È una cosa che avevo scritto su Barabba nel 2011, che era finita sulle Schegge di Liberazione, che ho letto un sacco di volte dal vivo e che, se volete, dalle 12:30 oggi è anche su Radio Sverso.)
Buon 25 aprile.
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April 23, 2021
26 aprile: 232 Celsius (circa) speciale Chernobyl
Il 26 aprile del 1986 all’1:23:45 nella centrale nucleare di Černobyl’, nell’allora Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, si verificarono due esplosioni a distanza di pochi secondi l’una dall’altra. Ancora oggi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile e l’unico, insieme a quello di Fukushima del 2011, a essere classificato con il settimo livello, il massimo, della scala di catastroficità INES.
Così dice Wikipedia.
A 35 anni esatti da quel 26 aprile, 232 Celsius (circa) racconta e legge un libro che si chiama Zona di alienazione. Chernobyl, una mattina d’estate, scritto da Sergio Pilu nel 2019, appena tornato da un viaggio in Ucraina.
Lunedì 26 aprile, alle 18 (circa), su Radio Sverso (www.radiosverso.it).
Ascolta responsabilmente.
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April 22, 2021
24 e 25 aprile: Schegge di Liberazione su Radio Sverso
Era il 24 aprile del 2010, era sera, il tempo non troppo bello, e in provincia di Modena, in un locale di Carpi, il Mattatoio, un gruppetto di blogger si era radunato lì da tutta l’Italia per leggere alcuni racconti sulla Resistenza, che erano stati pubblicati proprio quel giorno in un libro elettronico e gratuito che si chiamava Schegge di Liberazione, realizzato da Barabba, una specie di blog collettivo e letterario, in collaborazione con la sezione carpigiana dell’ANPI.
Era andato così bene, che nel 2011 Barabba aveva pubblicato uno Schegge di Liberazione di carta, e quei blogger, che continuavano a diventare sempre più numerosi, avevano cominciato a girare con dei reading resistenti a tempo di musica, e una volta erano finiti anche all’estero, a Parigi, pensa te.
E così anche dopo, tutti gli anni, dal 2010, cascasse il mondo, intorno al 25 aprile c’è sempre stato un reading di Schegge di Liberazione. E anche quando il mondo è cascato davvero, l’anno scorso, il 2020, erano riusciti a fare una lettura collettiva su facebook.
Quest’anno, che il mondo è ancora lì, cascato per terra, Radio Sverso è orgogliosa di presentare quel manipolo di blogger e le loro Schegge di Liberazione.
Per continuare a fare, nel nostro piccolo, a modo nostro, la nostra parte. Partigiani.
Le Schegge di Liberazione verranno trasmesse sabato 24 aprile alle 18:30 circa, e domenica 25 aprile in replica alle 12:30, su Radio Sverso (www.radiosverso.it), dureranno circa un’ora e quaranta minuti, e sarà un pochino di nuovo Natale, come piace festeggiarlo a noi.
Ascoltate responsabilmente.
(nella foto, Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, che legge le Schegge di Liberazione, dal vivo, in un lontano 2010)
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April 16, 2021
Tucidide
E in un libro che si chiama La guerra del Peloponneso, del 400 e qualcosa avanti Cristo, Tucidide, figlio di Oloro, del demo di Alimunte, parlando dell’epidemia di peste scoppiata ad Atene nel secondo anno di guerra contro Sparta, dice che quelli che per paura evitavano i contatti morivano in solitudine (e molte famiglie furono spazzate via perché nessuno volle far loro da infermiere), e che quelli che non li evitavano vi rimettevano la vita: specie coloro che tenevano a mostrare una certa nobiltà di sentimenti. I quali spronati dal senso dell’onore arrischiavano la propria esistenza visitando gli amici; mentre invece perfino i familiari, alla fine, oppressi ed esauriti dall’orrore del male, arrivavano a trascurare persino le lamentazioni sui propri morti. A ogni modo, maggiore pietà di questi familiari mostravano, verso chi moriva e chi lottava col male, coloro che ne erano scampati, per l’esperienza fatta, e perché ormai si sentivano al sicuro. Giacché il male non tornava la seconda volta: o almeno non tornava con esito letale. Gli altri li consideravano felici: ed essi stessi nell’esaltazione del momento si abbandonavano senza riflettere alla vaga speranza che anche per l’avvenire nessun’altra malattia se li sarebbe mai più portati via.
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April 12, 2021
Gagarin
E in un libro che si chiama Non c’è nessun Dio quassù. L’autobiografia del primo uomo a volare nella spazio, pubblicato per la prima volta nel 1961 sulle pagine della Pravda, e in Italia nel 2013 per Red Star Press, Jurij Alekseevič Gagarin dice che quando gli avevano chiesto se gli piacesse volare, lui non riusciva a dare una risposta, gli mancavano le parole. E che in quel momento soltanto la musica avrebbe potuto esprimere la sua gioia durante il volo.
E invece su un blog che si chiama Barabba, il 12 aprile del 2011, era un periodo che scrivevamo tante biografie essenziali, e io ne avevo scritta una, la numero 108, che diceva così:
Jurij Alekseevič Gagarin, a ventisette anni, guardava tutti dall’alto in basso.
E l’anno dopo, nel 2012, ero stato a Mosca con Grushenka, era il nostro viaggio di nozze, e dopo aver preso la metro per non so quante fermate e poi aver camminato un chilometro di fianco a una superstrada eravamo capitati vicino a uno svincolo a cinque o sei corsie, in un posto che si chiama Ploshchad’ Gagarina, cioè, più o meno, credo, Piazza Gagarin, perché volevamo scattare questa foto:
(anche se è venuta un po’ storta e coi filtri di Instagram che andavano di moda dieci anni fa, ma fa lo stesso)
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April 10, 2021
Service Unavailable (da sei anni)
Qualche tempo fa avevo ritrovato su gmail una sottocartellina annidata tra quelle dove un tempo raccoglievo i messaggi per le cose di Barabba, e questa sottocartellina si chiama “GIAOH“. Dentro ci sono un po’ di link sulla morte del FriendFeed, raccolti al volo in quella due giorni pazza pazza pazza del 9 e 10 aprile di sei anni fa.
Alcuni dei link sono morti, altri sono diventati privati. Quelli ancora in vita sono questi qui (se cliccate, e poi proseguite con la lettura, sembra una specie di funerale in differita):
E c’erano anche:
Uno screenshot di una cosa scritta dell’elena in una stanzetta privata:
Una cosa dal feed di eio che diceva così:Una mail intera di Ubikindred:Friendfeed era l’unica cosa bella di internet
Un post senza link, forse da facebook, di Azael:
Vi ho amato quando fuori c’erano mille gradi e io sudavo come una bestia preistorica e voi vi lamentavate del freddo
Vi ho amato quando a -7 cantavate le gioie del teaminverno
Vi ho amato quando suonavate la chitarrina con le canzoni di De André
Vi ho amato anche di più quando vi scappavano in home cazzi deformi, felici per un istante, della loro teratogena libertà
Vi ho amato quando “quelli che lavano le scale è perché se lo sono meritati”
Vi ho amato quando se metti la cipolla nell’amatriciana devi morire gonfio, ma è cosa buona e giusta stirare gli stronzi che
vanno in bicicletta solo per dare fastidio ai nostri SUV
Vi ho amato quando abbiamo litigato per un migliaio di commenti partendo dalla frase “uh, nuvoloso quest’oggi, nevvero?”
Vi ho amato quando i Led Zeppelin fanno cacare.
Vi ho amato tutti, grandiosissime teste di cazzo.
Va detto che però ho amato ancora di più le puppe
GIAO
Un mio commento, salvato e mai postato, chissà per chi:“Friendfeed è morto davvero. L’unico social network che abbia mai avuto un senso, un posto in cui essere Vip non serviva a un cazzo, in cui uno scemo era semplicemente uno scemo e un coglione un coglione. Un posto in cui le opinioni non avevano tutte lo stesso valore, perché le opinioni-opinioni si separavano automaticamente, come per una misteriosa forma di mitosi, dalle opinioni-cazzate. Su Friendfeed nessuno avrebbe mai potuto pensare di pubblicare un articolo complottista, una bufala, una scemenza, senza prendersi un vaffanculo didattico, né di riportare una tesi approssimativa senza sorbirsi quatrocentrottanta commenti in grado di fare la punta al cazzo pure al secondo principio della termodinamica. Friendfeed è stato un posto, un luogo, non un social network. Un social network è questa merda di Facebook, o quell’aborto di Twitter, sono strumenti in grado di appiattire tutto, di far sentire l’imbecille una persona normale e la persona normale un imbecille. Questi social network sono come la vita, non aggiungono niente e non tolgono niente; ci trovi dentro quello che crede alle scie chimiche e quello che posta il buongiorno sette volte al giorno; e non c’è modo di uscirne diversi. Su Friendfeed le idee entravano in un modo e uscivano in un altro. Friendfeed era un ambiente difficile, tutto era iperbolico, ciò che era leggero diventava pesantissimo, ciò che era pesante diventava una sciocchezza da bar. Si scherzava sulla morte e si litigava per il colore di un divano. Su Friendfeed ho conosciuto fenomeni veri, artisti, persone realmente geniali e persone di una bontà non umana. Anche gli scemi su Friendfeed erano estremi. Uno scemo su Facebook si limita a scrivere cazzate, su Friendfeed uno scemo era in grado di costruire una storia finta, di sostenerla, di cambiarsi la vita per giustificarla e poi di scomparire nel nulla per non “perdere il flame”. Probabilmente Friendfeed era solo un filtro che desaturava la realtà e la mostrava per quello che era, con lo sguardo cinico e disilluso di un cane vecchio che ti piscia sul mocassino di pelle di cane. Friendfeed ha segnato un’epoca, almeno la mia, sette anni di risate, di discussioni, di persone conosciute, di persone incontrate, di amicizie e di smadonnamenti roboanti, di condivisione di una certa idea di realtà. Ora è finita e spiegare Friendfeed a chi non c’era, spiegarlo qui su Facebook tra l’altro, è inutile e paradossale. Quanto a chi c’era, beh, ci troviamo in giro, su questi social imperfetti o nella vita di tutti i giorni, e ci riconosceremo perché saremo sempre quelli seduti scomodi, a trattenere bestemmie, giudizi universali e benaltrismi non euclidei. Grazie di tutto socialino dell’odio, sei stato la cosa più bella di Internet, la cosa più divertente di questi anni, una delle cose più belle di qualsiasi cosa.”
Il pezzo di un post che avevo scritto anche qui, si intitolava FriendFu e diceva così:Visto che c’è la replica della replica della replica della polemica, visto che stiamo chiudendo dico la mia. È innegabile che certe dinamiche ci siano state su friendfeed. Però uno si sceglie non solo le persone che gli stanno intorno, ma anche il tono della conversazione cui partecipare. I flame li ho visti passare e li ho evitati con serenità. So che ci sono, ma nel mio feed ci sono stati anche un matrimonio, alcuni bambini, bellissimi dj set, cose buffe e interessanti, e notevoli affetti
L’anno scorso avevo letto un libro che si chiama Prima l’italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure, del 2019, dove Vera Gheno nei ringraziamenti dava:
Forse dovrei raccontare di come sono finito su FriendFeed, nella tarda primavera del 2009, ma non mi ricordo più il perché. Forse dovrei dire che senza il FriendFeed il mio parco amici sarebbe molto ma molto più ridotto, adesso come adesso, e che ci sono persone che ho conosciuto nel 2010 ma che reputo amici d’infanzia per tutte le cose che abbiamo fatto, detto, letto, condiviso, eccetera negli anni, ma sono cose personali. Forse dovrei parlare di come grazie al FriendFeed mi sia capitato di ritrovarmi a leggere racconti ad alta voce in pubblico, una cosa che non avevo mai nemmeno pensato di poter pensare di fare, prima del Friendfeed, ma l’avrò già detto millemila volte.
Mi ricordo la prima discussione cui partecipai in quella tarda primavera del 2009, appena decisi username, password e avatar, e dopo aver cliccato sulla Home dove stavano le discussioni di tutti gli altri. Era un thread di un utente di nome bloggo, si parlava dell’opportunità o meno di fare la pipì nella doccia, nella propria e in quelle altrui.
Era esattamente il posto nel mondo in cui volevo stare.
E infine, c’è anche un tumblr che si chiama #salutifinali, che se uno ci clicca e comincia a sfogliarlo gli viene il magone (siete avvertiti): ffsalutifinali.tumblr.comun abbraccio alla mia tribù virtuale di Friendfeed: l’avranno pure chiuso, il nostro socialino, ma once a friendfeeder, always a friendfeeder.
E poi basta.
Troppe emozioni per oggi.
Giaoh.
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