Marco Manicardi's Blog, page 27
March 20, 2021
232 Celsius (circa) s1e06 – il podcast (e la trascrizione)
E questo è il podcast della sesta – e ultima, per ora – puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 19 marzo su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama Diario da Belgrado, del 2000, di Biljana Srbljanović; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Sergio Pilu su un libro che si chiama Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia, del 2019.
( Spotify, su Google Podcast, in mp3)
E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):
XTC, Books Are Burning (sigla)Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.
(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)
Introduzione di Andrea Bentivoglio:
La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).
232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.
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232 Celsius (circa): un programma di Sergio Pilu e Marco Manicardi.
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232 Celsius (circa), sesta puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge Diario da Belgrado, di Biljana Srbljanović.
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Biljana Srbljanovic aveva ventotto anni quando, alla fine dell’aprile del 1999, iniziò a tenere un diario. Era una giovane donna serba, una drammaturga conosciuta e stimata per i suoi lavori teatrali, e in quella primavera del 1999 iniziò a raccontare la sua esperienza di guerra. All’epoca internet era ancora una cosa poco più veloce e certamente molto meno stabile del telegrafo, ma era il mezzo migliore per far uscire quelle pagine dalla sua casa di Belgrado. Quelli che vi leggo pezzi del diario di Biljana, scritti durante i bombardamenti della NATO su Belgrado, pubblicati prima a puntate su Repubblica e poi raccolti in un libro che in Italia venne edito da Dalai Editore. Sono divisi in tre parti: Belgrado sotto le bombe, poi in mezzo la parentesi di un breve viaggio all’estero, e la fine della guerra. Parlano, tutti, di guerra, ma anche di pace, una roba che non è una bella bandiera con i colori dell’arcobaleno piantata in mezzo ai campi di grano intorno al Mulino Bianco. Qui la pace è anche, e forse soprattutto, una cosa difficile, sporca e imperfetta. Come tutti noi, diciamo.
Prima parte: Belgrado sotto le bombe.
Talking Heads, Life During Wartime
29 APRILE 1999 – Anche io, scrivendo questo diario di “guerra”, ho cambiato le regole: invece di scrivere di sera, come è abituale, descrivendo le cose alla fine del giorno, io scrivo il mio diario di buon’ora, dopo un’altra notte di sonno interrotto, dall’ascolto delle esplosioni. Qui le cose più importanti accadono di notte: quando le sirene d’allarme segnano l’arrivo del buio e degli aerei della Nato, la “festa” inizia.
Ascoltando le esplosioni, immaginiamo se il boato è una bomba oppure un missile, se ce ne sarà una sola oppure tante; e poi: cosa è stato colpito? Quando mi sveglio con un sobbalzo, mezza addormentata, ma con l’orecchio già allenato a questi suoni, pronuncio ad alta voce il luogo dove credo sia caduta la bomba: “Il ponte!”, borbotto fra i denti, dopo una serie d’esplosioni forti e a catena. “Stato maggiore”, risponde il mio fidanzato, quasi dormendo. Poi continuiamo a dormire fino alla prossima occasione di scommessa. “È qui vicino”, rispondo dopo un forte boato. “Forse hanno colpito un’altra volta la televisione”, dice lui, aggiungendo sempre la stessa frase: “Dormi, non avere paura”.
È così per tutta la notte. Ci svegliamo la mattina presto e, prima di lavarci, accendiamo la tv. Ascoltiamo le notizie su cosa è stato colpito la notte; io raccolgo le informazioni per il mio diario. Qualche volta vinco io la scommessa, qualche volta lui, ma più spesso nessuno. Chi non vince mai sono le persone che abitano accanto ai luoghi presi di mira. Perché tutti, benché ormai si sia tutti un po’ incoscienti e privi di buonsenso, non scommettono mai sui luoghi dove vivono. Pensiamo sempre che il colpo arrivi altrove, lontano da noi. E tutti dicono le stesse frasi: “Dormi, non avere paura”, “non succederà qui vicino”, “quanto tempo rimane perché faccia giorno, perché finisca l’attacco?”; siamo qui a contare le ore, dormendo e sognando la fine.
3 MAGGIO 1999 – La notte scorsa, la Nato, sicuramente per ragioni umanitarie, ha lasciato senza corrente elettrica due terzi della Serbia. Subito dopo, nelle varie parti del paese, anche gli acquedotti, nemici giurati dell’uomo “giusto”, hanno smesso di funzionare. Con questa azione militare, silenziosamente, perché nessuno ha sentito l’esplosione, e in modo invisibile, perché nessuno ha visto le fiamme, il mio paese e la mia città hanno vissuto il blackout.
A lume di candela riempio d’acqua la vasca del bagno e penso: ma che cosa si aspettano da me, cittadina ordinaria di questo paese contro il quale la Nato stasera ha reagito così brutalmente? Lavandomi la faccia con l’acqua fredda, mi dico che forse i signori della Nato si immaginano che domani io organizzi un colpo di Stato. Riempiendo le pentole d’acqua per il futuro uso del water, penso che forse dovrei acquistare armi per me e per i miei parenti, scendere in piazza e fare la rivoluzione.
“Fa abbastanza caldo,” dice il mio fidanzato, “ci laveremo un po’ meno”. “Chi sa se potremo fare la doccia”, gli rispondo, e mi viene in mente ciò che mi disse un amico che aveva vissuto a Sarajevo sotto le bombe: ti puoi lavare tutto il corpo con un litro e mezzo d’acqua. Basta una bottiglia di plastica piena d’acqua (che una volta era piena di Coca Cola), la metti fra le ginocchia e le stringi, poi prendi il sapone. Se ti pieghi abbastanza, sotto la pressione esercitata dalle ginocchia, l’acqua può arrivare fin al viso.
Un litro e mezzo d’acqua al giorno. Ma noi siamo in due. La mia vasca da bagno contiene trenta litri. Basta saltare qualche giorno e, prima di avere i pidocchi, dovrebbe passare quasi un mese. Poi spengo la candela, rasserenata perché il fatto di stare al buio aiuterà sicuramente i profughi a non abbandonare il Kosovo. Non sapendo cosa fare di meglio, mi addormento.
10 MAGGIO 1999 – Oggi i Belgradesi si sono svegliati più preoccupati del solito. Come sempre, mezzo addormentati, avevano trascorso la notte ascoltando continuamente le notizie per seguire l’evolversi della situazione. Ma non c’era niente da sentire e niente da seguire. La notte è trascorsa senza esplosioni, senza oscuramento, senza scomparsa della luce elettrica, e senza, cosa straordinaria, sirene d’allarme. Dopo sette settimane di bombardamenti a Belgrado, la notte scorsa è stata la prima senza l’allarme della contraerea. E ciò è accaduto proprio adesso che ci siamo abituati alla guerra! Questa mattina, si sono tutti chiesti che cosa è successo, stupiti e preoccupati per il destino dei cacciabombardieri della Nato. Tremavamo tutti di ansia, per le novità che portava questa nuova giornata.
E ciò avviene proprio adesso, adesso che ci siamo abituati a chiudere le finestre e le persiane appena arriva il buio. Proprio adesso che nessuno esce più di casa, a meno che non gliene importi tanto della vita. Proprio adesso che, posso confessarlo, ci siamo abituati a vivere senza corrente elettrica e acqua corrente, semplici privilegi della nostra civiltà, e di cui non sentiamo più la mancanza. Proprio adesso che l’inquietudine di quello che poteva succedere nel nostro futuro è stata scacciata via per sempre dalle bombe. Adesso che tutti sappiamo con certezza che cosa ci aspetta: un disastro sicuro. Proprio adesso devono fermarsi? Quando dico “loro”, penso naturalmente a quelli che ci bombardano, ma anche a quelli che hanno causato questo bombardamento, ai tiranni di entrambe le parti, a quelli che pensano di cambiare il mondo con le armi. Appena mi sono ripresa dallo choc provocato dalla calma della notte scorsa, sono caduta in catalessi, sfinita. I canali della tivù di stato hanno trasmesso la notizia che Milošević ha deciso di iniziare il ritiro dell’esercito dal Kosovo, che ha deciso di accettare la trattativa di pace.
Prima che mi perdessi nel flusso di questa felicità inaspettata, la Nato mi ha subito riportata alla realtà, dando la sua risposta, già scontata e chiara: il bombardamento continuerà ugualmente. E io che avevo paura che fosse tutto finito. Ci mancava solo la pace che nessuno voleva. Ho avuto paura che finisse la sofferenza dei civili, che finisse l’esodo dei profughi dal Kosovo, che finisse la guerra e che arrivasse una pace di cui nessuno sapesse cosa farsene. Nonostante queste difficoltà, ho ripreso fiato, ricordandomi che in Bosnia la trattativa di pace fu stabilita una quarantina di volte, e che nel frattempo migliaia di persone innocenti continuavano a soffrire. A che cosa serve la pace, quando la vita è bella anche così? Viviamo in un paese distrutto, dal quale più di un milione di abitanti sono stati espulsi, migliaia di persone uccise, le case e le terre bruciate, i bambini per sempre traumatizzati, eppure noi adulti stiamo bene, viviamo perché non sappiamo fare altro.
Alla fine di maggio del 1999, Biljana riesce a uscire da Belgrado e dalla Serbia. Viene invitata, infatti, in Germania e in Francia per alcune rappresentazioni teatrali dei suoi testi. Sale su un pullman, arriva in Croazia con un visto temporaneo e da lì riesce a volare a Colonia, dove riprende il diario.
Joy Division, A Means to an End2 GIUGNO 1999 – Qui, nel cuore dell’Europa di cui, ne sono convinta, anch’io faccio parte, mi meraviglio di come la pace s’introduca silenziosamente, quasi furtivamente, nelle nostre vite. Mi meraviglio di me stessa e della mia incapacità di gioire delle notizie quasi certe che annunciano lo stesso evento finalmente la guerra è finita.
Una volta pensavo che avrei festeggiato, avrei amato la prima persona nella quale mi fossi imbattuta, che sarei diventata più giovane e bella, che avrei urlato di gioia alla notizia che tutto era finito. Ora, mentre sta per arrivare questo momento, non provo più nulla, solo un’arida tristezza, una nostalgia del tempo perduto, un senso di delusione per questo mondo in cui ero nata con gioia. Se è vero, e spero che lo sia, che la guerra è finita o che si sta preparando la sua fine, l’unica cosa che sento nel profondo dell’anima è la disperazione di aver dovuto sopportare tanto per arrivare a questa meta.
All’alba del nuovo giorno, guardando montagne e laghi, case eleganti e chiese intatte, qui nel cuore dell’Unione Europea, mi rammarico di questo mondo, delle nostre vite, dei nostri morti che di questa pace non godranno. All’alba di questo nuovo giorno, penso alle porte dell’Unione Europea e mi chiedo dove sia il mio posto e cosa sarà di tutti noi ora che tutto sembra ormai concluso. All’alba del nuovo millennio, la mia unica speranza è che il mondo, negli anni futuri, rinunci ad una caparbia separazione etnica, economica o di qualsiasi altro tipo.
Questa mattina, il mio unico, profondo sentimento è il grande desiderio di tornare a casa. Là, insieme a tutti coloro che amo, in un greve silenzio, piangerò su questa via insanguinata della pace.
Terza parte: A casa, di nuovo.
La tournée teatrale dura qualche settimana. Biljana potrebbe restare in Germania, dove ci sono anche molti serbi emigrati durante la guerra, ma non si sente a posto, non si sente nel suo posto. Forse avverte che qualcosa, nel suo paese, sta cambiando. O forse ha solo nostalgia. Non importa: sale sull’aereo e ritorna a Belgrado, che ritrova mentre viene inondata dai profughi che scappano dal Kosovo.
Idoli, Maljčiki23 GIUGNO 1999 – Oggi scrivo l’ultima pagina del mio diario di guerra. La scrivo quando la guerra è praticamente finita, si aspetta solo che il governo della Jugoslavia ammetta con se stesso e con i suoi cittadini che è veramente terminata. Formalmente nel mio paese c’è ancora lo stato di guerra, e a giudicare dal continuo rinvio del regime di una conclusione ufficiale, potrà durare per sempre. Ma nonostante questo, la guerra è veramente finita. Ed è arrivato il tempo di confrontarci con le sue conseguenze. Non si deve più aspettare, anche perché questo regime avrebbe desiderato che la guerra durasse per sempre, almeno nella testa della gente, una guerra che porta con sé la paura e ostacola ogni progresso, una guerra la cui fine può annunciare cambiamenti pericolosi. Eppure sembra che dall’altra parte, alla Nato, convenga questo spavento. Confermerà la fondatezza della loro azione, perché la Nato è un’organizzazione militare, e che cosa può fare un esercito senza la guerra? Nonostante tutto, la guerra è finita, e io oggi non voglio più aspettare. Non voglio aspettare nessuna legge statale, nessun decreto militare internazionale, per forzare me stessa, chiudendo qui i miei appunti.
Di che cosa posso testimoniare io, un testimone muto, sulle ultime pagine del mio diario di guerra? Che vivo in un paese pieno di boia, rimpatriati dalle quattro guerre precedenti. In un paese di boia vestiti in borghese, che dopo tutto quello che hanno fatto continuano a vivere una vita normale. In un paese dove si tengono negoziati con i boia, mentre le vittime vengono punite cancellandogli il futuro. Che cosa posso dire guardando il mio paese triste, che cosa devo scrivere sulla ultima pagina del mio diario di guerra? Questa guerra per un pezzo di terra mi ha spinto a pensare: di quanta terra ha veramente bisogno un uomo?
Mi sono ricordata oggi di una famosa storia. Una volta in un regno antico venne introdotta una legge che stabiliva che la terra va distribuita in base al seguente principio: ognuno otterrà la quantità di terra che sarà in grado di percorrere in un giorno, dall’alba fino al crepuscolo. Un uomo che desiderava tanta terra all’alba ha iniziato la conquista. Ha camminato facendo un giro sempre più grande, ha camminato sapendo che prima del crepuscolo doveva tornare proprio nel punto da cui era partito. La terra era molto bella, attraente e lui diceva: “Ancora un po’, solo questo prato, ancora quel boschetto, solo questo pezzetto…” e si allontanava sempre di più. Quando è iniziato il crepuscolo l’uomo si è affrettato a tornare. Per chiudere il cerchio con i suoi passi, come prescriveva la legge, altrimenti sarebbe rimasto senza la terra promessa. Camminava e camminava, sempre più veloce, correva, e proprio prima della sera ha visto il punto dove doveva arrivare e i suoi governanti, ricchi e oziosi, che si divertivano a guardarlo. L’uomo ha corso con le sue ultime forze, per superare il sole ed è arrivato. È arrivato proprio in tempo per vedere i governanti ridergli in faccia e “generosamente” regalargli il pezzo di terra conquistato. È arrivato in tempo, ma esausto, stanco, stremato dalla conquista della terra. Tanto da potersi soltanto sdraiare su di essa e morire. Mentre lo seppellivano con qualche pugno di terra nera, l’uomo ormai morto ha capito la verità: ecco di quanta terra ha bisogno un uomo. Tanta quanto basta per coprire il corpo e dimenticare l’anima sotto di essa.
Oggi finisco di scrivere questo diario e mi dispiace veramente. Oggi dico addio a tutti e sono veramente triste. Perché scrivendo questo diario mi sono mantenuta in vita. Per giorni, solo per scrivere il diario, sono rimasta con la mente sana. Quando era più difficile, prendevo la scrittura sul serio, come una missione. Con la forza di questi sentimenti decidevo di vivere. E scrivendo ho conquistato complici. La gente che era descritta nel mio diario, la gente che ha letto il mio diario, la gente che usava il tempo della propria tranquilla vita per comprendere che cosa veramente stava succedendo qui a tutti noi.
Erano pesanti per me quelle notti sotto le bombe, era pesante la paura per la gente che amo, mi pesavano i giorni senza la corrente elettrica e l’acqua corrente, mi pesava la vergogna della mia paura. Avevo la paura della morte, paura delle rappresaglie perché parlavo pubblicamente, avevo paura che la mia paura mi potesse accecare. E adesso che tutto questo è passato, ho solo paura dell’indifferenza.
So benissimo che nessun male può durare per sempre. Il nostro tempo non è ancora arrivato. Ma giratevi e vedrete: il mondo sta cambiando. Lo stiamo cambiando noi, anche se non ne siamo coscienti. E sarà migliore, vedrete.
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232 Celsius (circa), sesta puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Sergio Pilu.
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A volte è difficile spiegare perché vuoi vedere un posto: sarà che ognuno ha i suoi luoghi mitici, sarà che invece “siamo su questo pianeta una volta sola, e tanto vale farsene un’idea”. Sta di fatto che in tanti anni ero riuscito a toccare, almeno di sfuggita, praticamente tutti i paesi dei Balcani tranne quello che volevo conoscere per davvero: la Bosnia; poi un giorno sono salito su un pullman per andare a Sarajevo a farmi quell’idea e quando sono tornato ho pensato di raccontare quel che avevo visto, e sentito, e pensato.
Così recita la quarta di copertina di Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia, l’ultimo libro di Sergio Pilu, uscito per SirLib nel marzo del 2020.
Sergio Pilu nasce nel secolo scorso a Milano, a dispetto del cognome e dei globuli rossi a forma di pietra nuragica. Dice di guadagnarsi da vivere grazie a oscure pratiche di marketing, ama fare viaggi in posti che nessuno normalmente si sogna di visitare oppure farli in modi che nessuno normalmente ha voglia di sopportare, ha una strana passione per le parentesi quadre. Lo chiamano il [Sir], per merito o colpa di www.blogsquonk.it, un blog ormai maggiorenne al quale ogni tanto fa una carezza e toglie le ragnatele. È il peraltro co-conduttore e ideatore, insieme a Marco Manicardi, che poi sono io, del programma radiofonico 232 Celsius (circa).
Marco Manicardi: Buonasera, Sir. Perché ha scritto Il tunnel?
Sergio Pilu: Mah, ovviamente l’ho scritto perché sono un esibizionista, che mi sembra una motivazione onesta, anche se magari non tanto nobile. Poi, mah, poi l’ho scritto perché ho fatto questo viaggio in Bosnia, è un viaggio che ho fatto in pullman perché ho la fissa dei viaggi scomodi, e che ho fatto perché la Bosnia, nel corso degli anni, per me, è diventato un posto importante. E, niente, facendo il viaggio mi è capitato di incontrare delle persone che avevano delle storie, o che mi pareva che fossero delle storie in sé, no?, e quindi, niente, quando sono tornato a casa ho pensato che, boh, forse potevo provare a raccontarle. Poteva avere senso farlo perché erano delle storie piccole, che non erano state raccontate da nessuno, prima, nonostante sulla Bosnia durante e dopo la guerra si sia scritto o detto moltissimo, no? E quindi in qualche modo si potevano vedere come qualcosa che andava a incastrarsi in un altro qualcosa molto più grande. E poi c’erano anche delle storie che, probabilmente, vedevo solo io. Ad esempio i liceali che ho incontrato nel cimitero di Kovaci che si sono messi lì tutti intorno a cantare, intorno alla tomba del primo presidente bosniaco, non credo, anzi sono sicuro che non avessero in testa di raccontare qualcosa, però io quel qualcosa ce l’ho visto dentro, e allora ho pensato di scriverlo. Poi, uno, questa faccenda qua può anche prenderla legittimamente come un’allucinazione.
E poi, mah, e poi continuavo a risentire la frase che la Baba Safa, cioè questa signora anziana che abita vicino a Srebrenica, in casa della quale mi son fermato, ho bevuto caffè alla bosniaca, ho mangiato i biscotti al miele, e la Baba Safa, dicevo, ha detto questa frase poco prima che andassimo via la salutassimo, e stava raccontando di alcuni incidenti capitati sul confine con la Serbia, ma proprio un paio di giorni prima a pochissimi chilometri da casa sua, e, niente, ci disse questa cosa: “anche l’altra volta è iniziato così”. E, non so, in quel momento lì mi è sembrata una cosa molto importante, quasi, proprio, necessaria da dire, ma ho continuato a sentirla, questa frase, e, boh, non che il mondo stesse aspettando che la dicessi io, eh, però, già che che c’ero, ecco.
MM: Come, dove e quando l’ha scritto?
SP: Allora, l’ho scritto quasi tutto a casa mia a Milano, nel mio studio, su una scrivania che è dotata di una spillatrice di birra, tre portapenne strapieni e un poster delle tessere del PCI dal 1921 a oggi. L’ho scritto in più o meno tre mesi e mezzo, diciamo da settembre del 2019 a gennaio del 2020, senza aver preso una riga di appunto che fosse una. L’ho scritto su un portatile dove stanno tutte le foto che ho scattato viaggiando in questi anni, quindi l’ho fatto riguardando tutte le immagini che avevo preso durante quei giorni, durante quel viaggio, e in contemporanea ho fatto un paio di interviste a distanza che mi sono servite a completare il quadro. E, niente, mentre scrivevo mi sono reso conto che in realtà, pur senza aver mai buttato giù nemmeno una riga, beh, insomma, molto probabilmente il libro avevo iniziato a scriverlo già da tempo.
MM: E… è bello?
SP: Mh… diciamo che è un tipo. Ecco.
Radiohead, Lucky— Sergio Pilu legge un pezzetto di Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia —
Bombaj Štampa, Često Poželim Da Sve Zaboravim— Sergio Pilu legge un altro pezzetto di Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia —
C.S.I., Cupe Vampe***
XTC, Books Are Burning (sigla)La donna-libro (ride): sia uomo, master Ridley. In questo giorno, per grazia di Dio, noi accenderemo una candela così grande, che sono convinto non si spegnerà mai.
(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)
E questa era la sesta puntata, e forse ultima per la prima stagione, di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto Diario da Belgrado, un libro del 2000 di Biljana Srbljanović, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Sergio Pilu su un libro del 2020 che si chiama Il tunnel: Mustafa, mia mamma, un viaggio in Bosnia.
Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:
Books Are Burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992, che è stata la sigla iniziale per tutte e sei le puntate di 232 Celsius (circa) e che in questa puntata fa anche da sigla finaleLife During Wartime, dei Talking Heads, da Fear of Music del 1979A Means to an End, dei Joy Division, dall’album Closer, del 1980Maljčiki, un singolo dei serbi Idoli, inserito anche in una compilation del 1981 di new wave di Belgrado, che si chiama Paket Aranžman (se ho detto bene)Lucky, dei Radiohead, da OK Computer del 1997, ma prima inserita da Brian Eno nel 1995 in una compilation di beneficenza per War Child intitolata The Help AlbumČesto Poželim Da Sve Zaboravim, dei bosniaci Bombaj Štampa, da un disco che si chiama Bombaj Štampa del 1987 (spero di esserci riuscito)e infine, Cupe Vampe dei C.S.I., da Linea Gotica del 1996Ad accompagnare le letture c’era la Serenata per archi in Mi maggiore, Op.22, di Antonín Leopold Dvořák, eseguita dalla English Chamber Orchestra diretta da Daniel Barenboim nel 1974, credo.
232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni e Simone Marchetti per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la pazienza.
Questa, come dicevo, è l’ultima puntata della prima stagione, ma 232 Celsious (circa), probabilmente, tornerà, più avanti, con qualche speciale e forse con una nuova stagione, dateci solo il tempo di leggere qualche libro.
Voi, intanto, cercate di stare bene. E grazie per averci ascoltati.
A presto.
Ciao.
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March 19, 2021
Il nome del padre
Mio padre si chiama Iules, ma non si è sempre chiamato così. Prima era Jules, con la J.
Fino ai quarant’anni, più o meno, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che a pensarci mi gira un po’ la testa, su alcuni dei suoi documenti c’era la I e su altri c’era la J. All’anagrafe dicevano che c’era la I ma poi si grattavano la nuca e rispondevano che boh, non erano sicuri neanche loro, perché una volta le schede venivano compilate a mano e proprio lì, sotto la I di Iules, c’era una specie di sbavo. Non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna o uno sbavo intenzionale: nel 1953 la J non era una lettera molto in voga, c’era anche della gente che non la conosceva e forse l’impiegato dell’epoca, nel dubbio, aveva sbavato apposta.
Mia nonna, sua madre, gli aveva messo nome Jules perché era una grandissima appassionata dei fotoromanzi di Grandhotel, e nei fotoromanzi di Grandhotel c’era questo Jules che, da quello che avevo capito quando me aveva provato a spiegarmelo, era un gran bel figaccione. Allora m’immagino che mio nonno, quando era corso all’anagrafe per registrare suo figlio, su un bigliettino avesse scritto Jules copiandolo da un numero di Grandhotel, con la calligrafia tremolante per l’emozione e per la scarsa abitudine allo scrivere, e non s’immaginava, forse, che Jules si dovesse leggere alla francese. All’impiegato dell’anagrafe avrà detto «iules», così, leggendolo com’era scritto, poi gli avrà fatto vedere il bigliettino e l’impiegato, nel dubbio, deve aver compilato la scheda, forse apposta, con quello sbavo.
Mi ricordo che mio padre fino ai quarant’anni, più o meno, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che è una cosa abbastanza incredibile, si firmava con una I che sembrava una J, ed era contento e a posto così. Faceva anche un più bel ricciolo, sotto la I, una cosa quasi artistica, una specie di manifestazione di felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola. E io lo guardavo sempre con ammirazione, quando firmava, e gli dicevo: «Papà ma che bella firma, e che bel nome» .
Solo che poi, un giorno, gli era arrivata una lettera dallo Stato. Dentro c’era scritto che bisognava prendere una decisione per chiudere la questione, perché lassù, negli uffici misteriosi della burocrazia statale, non erano mica tanto sicuri che fossero arrivate tutte le bollette e che fossero state pagate tutte le tasse.
Con quella lettera gli dicevano: Gentilissimo Sig. Iules o Jules, si decida, le mandiamo un modulo da compilare e lei, entro e non oltre la tal data, deve scegliere il nome con cui vuole essere chiamato una volta per tutte, noi poi le invieremo dei documenti nuovi di zecca e aggiorneremo tutte le sue pratiche; però si decida, perché qua, noi, non ci capiamo niente.
E mio padre, me lo ricordo proprio così, è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, a decidere come chiamarsi da lì in poi.
Poi una mattina, senza dir niente a nessuno, si era alzato presto, si era vestito bene ed era andato a spedire il modulo. Quando era tornato a casa si era fatto un caffè, e quando ci eravamo svegliati tutti, mia mamma, mia sorella e io, ci aveva chiamati in cucina e ci aveva detto: «Ragazzi, ho una notizia da darvi: mi chiamo Iules con la I.»
***
Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant’anni, più o meno, sia una cosa giusta e dignitosa. Lo penso anche adesso, che ho più o meno quarant’anni anch’io, anche se faccio ancora fatica a rendermene conto.
Fosse per me, scriverei, voterei e approverei una legge per la quale ognuno, a quarant’anni, più o meno, o anche prima, se vuole, può scrivere una lettera allo Stato dove gli dice che nel pieno delle facoltà mentali ha preso la decisione fortemente ragionata, ponderata e magari anche discussa con la famiglia di cambiare nome. Anche il cognome, se ha voglia. Poi, ovviamente, se a uno piace il nome che porta, cioè quello che gli hanno dato alla nascita, può tenere quello. Non ci sarebbero obblighi, solo libertà e prese di coscienza. Sarebbe una specie battesimo laico, una cosa matura per una persona e, mi viene da pensare, anche per uno Stato.
Io, per esempio, non avrei dubbi.
Io, lo so per certo, se potessi, da domani mi chiamerei John Laser.
(mio papà, quando aveva vent’anni e si chiamava ancora, indistintamente, Iules o Jules)
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Questa cosa l’avevo scritta su Barabba, una decina di anni fa. Magari cambio qualche virgola, ma tutti gli anni la ripubblico, quando mi ricordo, il 19 di marzo, che è la festa del papà.
Una cosa cui devo dare atto a mio papà, Iules Manicardi con la I, è che, a differenza di tutto il resto del parentado vivente, non si è ancora mai creato un profilo su facebook.
Bravo papà, auguri.
E stai in casa, valà. Porta pazienza.
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March 17, 2021
Dei ricordi (27)
Il 17 marzo del 2018, era un sabato verso sera, il Miny aveva due anni, quasi tre, e avevo postato una foto intitolata “la prima volta al cinematografo”:
E oggi sono stato lì dieci minuti a guardarla col magone.
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March 12, 2021
Quattro parole che stanno benissimo insieme
Fine
isolamento
domiciliare
obbligatorio.
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March 11, 2021
Solla (2)
E in un libro che si chiama Tempesta madre, del 2021, di Gianni Solla, il protagonista, Jacopo, quando era bambino aveva partecipato a una gara di poesie nella scuola delle suore dove studiava, ed era stato accompagnato alla gara da un signore che chiamava “il professore”, di cui Jacopo faceva l'”assistente”, e dalla compagna del professore, una polacca di nome Jana; e quando Jacopo si ricorda che si trovavano lì, nella sala dove si stava per svolgere la gara di poesie, dice così:
Era la prima volta che partecipavo a una gara, e non mi piaceva l’idea di vincere né quella di perdere. Avrei preferito che non ci fosse nessuna classifica. Non avrei mai capito la smania della mia specie di stabilire un vincitore per ogni cosa.
– Lo sai cos’è la superbia, Jacopo? Te ne hanno parlato le suore? È esattamente questo, essere il figlio prediletto. Vincere sugli altri. Vedrai la ferocia dei vincitori, travestita da benevolenza, – mi aveva avvisato il professore.
Prese il pacchetto di sigarette dalla giacca, diede un piccolo colpo sul fondo, la sigaretta sbucò dall’apertura, ma lui la ributtò dentro come se avesse cambiato idea all’improvviso.
– Non è una gara nel senso sportivo, non si vince o si perde per merito, si tratta piuttosto di una dichiarazione d’intenti di ogni singolo individuo che salirà sul palco. Vincerà il soggetto che la giuria riterrà più pericoloso.
– Non è vero, assistente, – aveva detto Jana, – vince poesia più bella.
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March 7, 2021
Tolstaja
E l’8 marzo del 1898, su una pagina del diario, scritto tra il 1862 e il 1910, Sòf’ja Andrèevna Bers, detta Sonja, diventata poi Sof’ja Tolstaja, moglie di Lev Nikolàevič Tolstoj, scriveva che nella sua anima stava avvenendo una battaglia fra il desiderio ardente di andare a Pietroburgo a sentire Wagner e altri concerti e il timore di dare un dispiacere a Lev Nikolaevič e di sentirsi questo dispiacere sulla coscienza. E scriveva che quella notte aveva pianto a causa di quella pesante sensazione di mancanza di libertà che gravava sempre più su di lei. E che di fatto, naturalmente, era libera. Aveva soldi, cavalli, vestiti, tutto: avrebbe potuto fare le valigie, salire in carrozza e andare. Era libera di leggere le bozze, di comprare le mele per L. N., di cucire i vestiti per Saša e le camicie per il marito, di fotografarlo in tutte le pose, di ordinare il pranzo, di sbrigare le faccende di tutta la famiglia; era libera di mangiare, di dormire, di tacere e di rassegnarsi. Ma, scriveva, non era libera di pensare a modo suo, di amare quello e quelli che sceglieva lei, di andare dove le interessava e dove si sentiva spiritualmente a proprio agio; non era libera di occuparsi di musica, non era libera di cacciar fuori dalla propria casa quelle innumerevoli persone inutili, noiose e spesso molto cattive e di ricevere persone buone, piene di talento, intelligenti e interessanti. E scriveva che per lei la vita era poco allegra, difficile… Ma poi scriveva che non aveva usato la parola giusta: «allegria». Che non aveva bisogno di quello. Aveva bisogno di vivere una vita ricca di contenuto, tranquilla, e invece viveva nervosamente, con difficoltà e in modo vuoto.
Così scriveva su una pagina del diario Sòf’ja Andrèevna Bers, detta Sonja, diventata poi Sof’ja Tolstaja, moglie di Lev Nikolàevič Tolstoj, l’8 marzo del 1898.
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232 Celsius (circa) s1e05 – il podcast (e la trascrizione)
E questo è il podcast della quinta – e penultima – puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 5 marzo su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu continua a parlare di un libro che si chiama Furore, del 1939, di John Ernest Steinbeck Jr; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Ginevra Lamberti su un libro che si chiama Perché comincio dalla fine, del 2019.
E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):
XTC, Books Are Burning (sigla)Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.
(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)
Introduzione di Andrea Bentivoglio:
La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).
232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.
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232 Celsius (circa): un programma di Sergio Pilu e Marco Manicardi.
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232 Celsius (circa), quinta puntata; prima parte, dove Sergio Pilu continua a raccontare e leggere Furore di John Steinbeck.
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Nella prima puntata del racconto di Furore, di John Steinbeck, abbiamo visto la famiglia, i Joad ,che parte: lascia tutto, vende tutto quello che ha, si mette su un camioncino, che è un Hudson del ’26, un catorcio sfinito, e… si mettono sulla strada. Li abbiamo lasciati che parlano con l’esercente di una stazione di servizio, il quale non riesce a capire dove sta andando tutta la gente che vede muoversi verso ovest, e glielo dice, continua a dirgli boh io non capisco dove andiamo, dove andremo a finire; e loro glielo spiegano e gli dicono: guarda, siamo tutti nella stessa barca, andiamo tutti a cercarci una vita migliore.
Continuano il viaggio. Muore il nonno e siccome non hanno soldi sono costretti a seppellirlo sul lato della strada, scavano lì una fossa, non gli mettono sopra nemmeno una croce. In California finalmente ci arrivano ma, chi ci è stato lo sa, la California arrivando da est non è esattamente quella che uno si sogna, cioè le valli verdi, il mare, i fiumi, da est la prima cosa della California che trovi è il deserto, è un’immensa distesa di pietre e loro sono terrorizzati dall’idea di attraversarlo su quel catorcio sfinito sul quale si stanno muovendo. Prima di ripartire, Noah se ne va: abbandona la famiglia senza che nessuno, tranne Tom, lo venga a sapere prima del fatto compiuto. Il deserto lo attraversano di notte: davanti guidano, dietro invece, sul cassone, c’è la nonna che sta molto male, con la mamma la tiene fra le braccia, poi ci sono Rosa Tea e Connie che fanno l’amore in silenzio nascondendosi sotto una coperta, e i bambini, sfiniti anche loro, che dormono. Arrivano all’alba, in California, hanno davanti agli occhi quel paese che avevano sognato leggendo i volantini stampati dai produttori di frutta per convincere i contadini dell’Oklahoma a trasferirsi. Vedono là sotto i campi verdi, i paesini con le casette bianche, si fermano e tutti insieme lasciano andare questa esclamazione di stupore: “Gran Dio”, chiamano la mamma e quella scende dal camion ma si capisce che c’è qualcosa che non va, non è contenta come dovrebbe essere. “È morta la nonna” dice, e Tom, a none di tutti, stupito, “ma non ci hai detto niente” e la mamma risponde “la famiglia doveva attraversare il deserto”. Punto.
Arrivano in una baraccopoli, che viene chiamata Hooverville. In realtà si chiamavano tutte Hooverville, perché Herbert Hoover era il presidente di allora e queste erano delle strutture statali, federali, sostanzialmente. È piena di gente che muore di fame, questa baraccopoli, ma letteralmente, non per modo di dire. Muoiono di fame. Loro si aspettavano tutt’altro e invece sono lì in questa specie di enorme e terrificante campo profughi dove incontrano anche gente che dalla California invece sta andando via, se ne torna a casa, quella che era la loro casa, perché i californiani questi immigrati che vengono dall’Oklahoma, dal Kansas, dalla Florida non li vogliono, li chiamano “Okie” così come noi diciamo o dicevamo o eravamo abituati a dire “marocchini”, un nome che in sé non indica una provenienza, ma è un insulto, e li cacciano, gli rifiutano lavoro. E per la prima volta ai Joad viene il sospetto che il bel sogno sia appunto solo un sogno.
Dopo un po’ se ne devono andare dalla baraccopoli. Scoppia una rissa di origine sindacale, diciamo così, Tom e Casy ci rimangono invischiati. Tom scappa perché lui sta già violando la legge per quella faccenda della libertà sulla parola, e quindi Casy rimane anche per lui e finisce in galera. In tutto il macello, mentre stanno caricando in fretta e furia le loro quattro cose sull’Hudson, si accorgono che Connie, il marito di Rosa Tea, che è molto incinta, non c’è più. Puff, tutti i sogni di vita meravigliosa sfumati, insomma se l’è data e ha lasciato la moglie incinta da sola. Hanno appena messo fuori le ruote dal perimetro del campo, quando incontrano una ronda. E la ronda è fatta da cittadini della zona che si sono organizzati per andare a dar fuoco al campo. Loro sono fuori e nonostante questo i bravi e civili californiani, incrociandoli, li minacciano e insultano senza che loro possano reagire. Dopo qualche minuto, ormai lontani e più o meno al sicuro, si voltano e nel buio della notte vedono all’orizzonte le fiamme della baraccopoli che è stata incendiata con la protezione della polizia.
Ed ecco che nel West subentra il panico, ora che i nomadi vanno moltiplicandosi per le strade. I ricchi sono terrorizzati dalla loro miseria. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono gli occhi degli affamati. Individui che non avevano mai provato desideri intensi per qualche cosa, vedono ora l’ardente brama che divampa negli occhi dei profughi. Ed ecco gli abitanti delle città e della pigra campagna suburbana organizzarsi a difesa, dinanzi all’imperioso bisogno di rassicurare sé stessi di essere loro i buoni e i cattivi gli invasori, come è buona regola che l’uomo pensi e faccia prima della lotta. Dicono: vedi come sono sudici, ignoranti, questi maledetti Okies. Pervertiti, maniaci sessuali. Ladri tutti dal primo all’ultimo. È gente che ruba per istinto, perché non ha il senso della proprietà. Ed è giustificata, se vogliamo, quest’ultima accusa; perché come potrebbe, chi nulla possiede, avere la coscienza angosciosa del possesso? E dicono: vedi come son lerci, questi maledetti Okies; ci appestano tutto il paese. Nelle nostre scuole non ce li vogliamo, perdio. Sono degli stranieri. Ti piacerebbe veder tua sorella parlare con uno di questi pezzenti? E così le popolazioni locali si foggiano un carattere improntato a sentimenti di barbarie. Formano squadre e centurie, e le armano di clave, di gas, di fucili. Il paese è nostro. Guai, se lasciamo questi maledetti Okies prenderci la mano. E gli uomini che vengono armati non sono proprietari, ma si persuadono di esserlo; gli impiegatucci che maneggiano le armi non possiedono nulla, e i piccoli commercianti che brandiscono le clave possiedono solo debiti. Ma il debito è pur qualche cosa, l’impiego è pur qualche cosa. L’impiegatuccio pensa: io guadagno quindici dollari la settimana; mettiamo che un maledetto Okie si contenti di dodici, cosa succede? E il piccolo commerciante pensa: come faccio a sostenere la concorrenza di chi non ha debiti? E i nomadi defluiscono lungo le strade, e la loro indigenza e la loro fame sono visibili nei loro occhi. Non hanno sistema, non ragionano. Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po’ di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po’ di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro. E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù. E le strade sono affollate di gente avida di lavoro, ma avida al punto da esser disposta ad assassinare pur di trovarne. E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l’umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere. Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.
I Joad finiscono in un campo governativo, pulito, sicuro, addirittura autogestito. Tom riesce a trovare lavoro, per qualche giorno. C’è una scena struggente, lui con il piccone in mano che se lo stringe al petto, come se fosse la fidanzata, e dice “che bellezza”. Perché quando sei stato tanto tempo senza lavoro, un piccone è la cosa più bella del mondo perché con quello ti riprendi onore, senso di te stesso, la possibilità di aiutare la tua famiglia.
Ma dura poco, gli altri non trovano lavoro e dopo un mese la mamma li fa montare tutti sul camion per andare da qualche altra parte, non importa se meno bella e pulita, purché ci sia lavoro, e possibilità di mangiare. E dopo un po’ lo trovano, è un altro frutteto. Li fanno fermare in una delle tante casupole di cemento numerate. È veramente un posto tremendo, sporco, puzza, ma per un po’ c’è lavoro e allora va bene, va bene perché facendosi un mazzo bestiale tutti quanti alla fine della giornata riescono a raccogliere quei pochi soldi che gli permettono di comprare da mangiare per la sera – mica fare la scorta, giusto la cena. Danno quei soldi alla mamma e la mamma va al negozio dell’accampamento, perché sono lontani dalla città.
Melvins (feat. Henry Bogdan, Hank Williams III), Okie From MuskogeeKris Kristofferson, Here Comes That Rainbow AgainLa bottega consisteva in un baraccamento di lamiera ondulata, senza vetrine; la mamma spinse la porta a reticella ed entrò. Dietro al banco stava un ometto completamente calvo, e il suo cranio era d’un bianco azzurrino. Portava mezze maniche protettive sopra la camicia. Stava appoggiato coi gomiti sul banco, quando la mamma entrò.
«Buon giorno,» disse la mamma.
L’ometto la osservò con interesse, e l’arco delle sue sopracciglia si accentuò. «Come state?»
«Ho qui un buono per un dollaro.»
«Potete avere roba per un dollaro,» rispose l’altro, ghignando da furbo. «Sissignora, un dollaro di roba.» Indicò le mensole: «Qualunque cosa.» Si tirò su le mezze maniche.
«Credo che prenderò un po’ di carne, per cominciare.»
«Ne ho di tutte le qualità. Bollito, volete il bollito? Venti cents la libbra, il bollito.»
«Non è un po’ caro? L’ultima volta che ne ho comprato ho pagato quindici.»
«Eh,» ghignò l’ometto, «è caro, e d’altra parte, non è caro. Se andate a prenderlo in paese vi costa cinque litri di benzina. Dimodoché qui non è caro perché risparmiate la benzina.»
La mamma disse con severità: «A voi non è costato cinque litri di benzina per portarlo qui.»
L’altro rise cordialmente: «Voi guardate la cosa da un falso punto di vista. Qui non lo comperiamo, lo vendiamo. Se lo comprassimo, sarebbe un’altra cosa.»
La mamma posò due dita sulle labbra e aggrottò la fronte.
«Mi sembra tutto grasso e nervi.»
«Non garantisco che sia tenero,» disse l’ometto, «non garantisco nemmeno che io sarei capace di mangiarlo; ma ci son tante altre cose che non garantirei.»
La mamma gli scoccò un’occhiata feroce ma si contenne.
«Non avete della carne meno cara?»
«Collo. Dieci cents la libbra.»
«Ma è tutt’osso.»
«Sicuro. Tutt’osso, ottimo per fare il brodo.»
«Costolette ne avete?»
«Costolette sì. Venticinque la libbra.»
«Dovrò rinunciare alla carne,» disse la mamma, «ma vogliono carne, si son raccomandati.»
«Tutti quanti vogliono la carne. Quel bollito però è bello, poco osso, niente da buttar via.»
«Quanto… quanto viene il filetto?»
«Oh, il filetto! Adesso andate nel raffinato. Roba da pranzo di Natale. Roba da Giorno del Ringraziamento. Trentacinque la libbra. Venderei il fagiano meno caro, se ne avessi.»
La mamma sospirò.
«Datemi due libbre di bollito.»
«Pronto.»
Mise la carne pallida su un pezzo di carta oleata.
«Altro?»
«Be’, del pane.»
«Ecco qua. Pagnotta grossa, quindici cents.»
«Quella è da dodici!»
«Infatti, in paese è da dodici, ma ci sono i cinque litri di benzina. Altro? Patate?»
«Patate, sì.»
«Cinque libbre per venticinque cents.»
La mamma si mosse torva verso di lui.
«Questo è troppo. So benissimo cosa costano in paese.»
«E allora andate a comprarle in paese.»
La mamma si guardò le nocche.
«Ditemi un po’,» chiese sommessa.
«Siete il padrone, qui?»
«No. Impiegato.»
«Che motivo avete di prendere in giro i clienti?»
Continuava a guardarsi le dita. L’ometto non rispose.
«Chi è il padrone del negozio?»
«La Hooper Ranches, società per azioni, signora.»
«È lei che fa i prezzi nel negozio?»
«Sissignora.»
La mamma si decise a guardarlo in faccia, con l’ombra d’un sorriso.
«E cos’ho di ridicolo, io, che sentite il bisogno di prendermi in giro?»
«Non prendo mica in giro.»
Ma l’ometto aveva vergogna. La mamma non insisté: «Allora, carne quaranta, pane quindici, patate venticinque. Fa ottanta. Caffè, quanto?»
«Venti cents il meno caro.»
«E così sfuma un dollaro. Sette persone al lavoro, per guadagnarsi questa cena.»
Stava considerando il rovescio della mano.
«Su, incartate,» disse, con un fare secco.
«Sissignora, grazie.»
Incartò le patate con la maggior cura che poté, e i suoi occhi sbigottiti andavano dal pacchetto al viso della mamma e viceversa. Ella lo osservava, sempre col suo sorriso appena accentuato.
«Com’è che avete accettato quest’impiego?»
«Bisogna pur mangiare,» cominciò l’ometto, ma subito cambiò tono, e aggiunse bellicoso: «Ho ben diritto di mangiare, no?»
Spinse verso la mamma i quattro pacchi.
«Carne, patate, pane e caffè. Un dollaro.»
E stese la mano. La mamma gli diede il buono, ed egli andò a registrare il nome e l’importo sul mastro.
«Siamo pari,» disse. La mamma prese i pacchi.
«Oh, sentite una cosa. Ci manca lo zucchero per il caffè, e Tom mio figlio lo vuole. Se date un’occhiata fuori, li vedete tutti lì al lavoro. Datemi lo zucchero e vi porto il buono più tardi.»
L’ometto guardò altrove. Il più lontano possibile, dalla mamma. Poi disse a voce sommessa: «Non posso. È contro le regole. Potrei anche rimetterci il posto.»
«Ma vi dico che stanno lavorando, fin da ora si son già guadagnati altri dieci cents. Datemi dieci cents di zucchero, Tom s’è raccomandato tanto.»
«Impossibile, signora, mi spiace. È contro le regole. Niente buono, niente merce. Ordini precisi del direttore, non fa altro che ripeterli. Se mi pescano mi mandano via. E mi pescano certo. Non posso.»
«Per dieci cents?»
«Anche per uno, signora.»
Ora guardava la mamma con occhi imploranti. E d’un tratto perdé la paura. Tolse di tasca un diecino e lo incassò nel registratore, poi prese un sacchetto di sotto al banco, lo aprì, pescò dentro col cucchiaio di legno e misurò un etto di zucchero sulla bilancia. Lo incartò e porgendo il pacchetto alla mamma disse: «Ora tutto è in regola. Mi portate il buono e io mi riprendo il mio diecino.»
La mamma lo guardò intenta, lo ringraziò, prese la roba e s’avviò all’uscita, ma prima d’uscire si voltò e disse: «Imparo tutti i giorni che era proprio vero quel che diceva il nonno: in caso di bisogno, rivolgersi solo alla povera gente, mai ai ricchi.» Poi uscì.
L’ometto si appoggiò coi gomiti al banco e restò a guardarla allontanarsi. Un gatto giallo saltò sul banco e venne a strofinarsi contro le sue braccia, e l’ometto lo carezzò e se lo avvicinò alla guancia. Il gatto ronfava di piacere e dimenava la coda.
Non si può dire che le cose vanno bene, però un po’ meglio sì. Fino a quando non ritrovano Casy, che è uscito di prigione ed è diventato una specie di sindacalista dei migranti. C’è un’altra rissa, il clima è teso in tutto lo stato, Casy viene ammazzato e Tom ammazza l’uomo che ha ammazzato Casy. E così deve scappare, abbandonare la famiglia per non darle altri problemi, ma via lui se ne va una dei due pilastri sui quali si teneva in piedi la baracca, e rimane solo Ma’, Ma’ Joad. Si rimettono nuovamente in strada, fino ad arrivare in quello che sarà il loro ultimo campo, dove si fermano per raccogliere cotone. Li mettono ad abitare dentro un vecchio vagone ferroviario, che dividono con una famiglia, i Wainwright, che hanno una figlia che diventerà la fidanzata di Al. Riescono a lavorare, un po’; riescono a mangiare, un po’. A un certo punto, quando ormai hanno perso molti pezzi, perché hanno perso i due nonni, e Connie, e Casy, e Tom, ma tutto sommato andrebbe anche benino, inizia a piovere. E non smette più.
Mentre fuori l’acqua sale e gli uomini si raccolgono per scavare un argine di difesa, anche se sfiniti dalla fatica e dalla fame, Rosa Tea inizia il travaglio.
Il bambino nasce morto. Non nasce, non so, non so come si dice. Ma, insomma, quando il padre rientra nel vagone per avere notizie vede la figlia che dorme, e allora chiede alla moglie come sta e quella senza alzare gli occhi risponde “bene, credo”. Allora la signora Wainwright si alza, va verso di lui, e lo prende sotto braccio e lo porta in un angolo, e in quell’angolo c’è una cassetta di legno per le mele, e su quella cassetta di legno c’è il cadaverino del bimbo, appoggiato su un giornale piegato. “Non è nemmeno riuscito a respirare,” gli dice piano; “non ha avuto il tempo di vivere”. Il padre non dice nulla, si volta verso il fratello che è lì appoggiato a una parete, che piange, e allora gli dice “abbiamo tutti da fare qui, non vorresti andare a seppellire il bambino?”. E il fratello prima dice no, che non se la sente, poi si convince e prende la cassetta con il bambino morto appoggiato sopra e un badile, esce tenendo la cassetta alta mentre lui ha l’acqua fino alla cintola, arriva vicino alla strada, appoggia il badile e invece di scavare una piccola fossa dove mettere dentro il cadavere del bambino appoggia la cassetta sull’acqua e prima di farla scivolare, portata via dalla corrente, dice con una specie di tono feroce “Va’, naviga e vendicaci! Raccontalo a tutti. Marcisci! Solo così potrai farti sentire.”
E poi torna al vagone, mentre la cassetta e il cadavere del bambino scompaiono.
Poi l’acqua sale ancora, e ancora, e finisce per spazzare tutto, e ancora una volta è la mamma a prendere in mano le cose. “Via tutti di qui, Rosa Tea adesso dobbiamo metterla all’asciutto”, il padre le dice “ma dove vai, guarda che disastro” e lei “andiamo via, andiamo a cercare un posto asciutto” e li trascina letteralmente fuori. “Dove andiamo?” chiede il padre, “non lo so,” risponde lei. Camminano, vanno avanti senza sapere bene dove, il padre si tiene Rosa Tea sulle spalle, ci sono i bambini dietro che a fatica provano a seguirli, camminano, camminano fino a quando non vedono un fienile su una piccola collinetta, al riparo dall’acqua. “Là, andiamo là,” dice la mamma.
Rage Against The Machine, The Ghost of Tom JoadLa mamma disse: «Forse c’è del fieno, dentro. Ecco qui la porta.»
La spinse, e la porta si aprì stridendo sui cardini.
«Sì, c’è fieno,» gridò, «entriamo.»
La mamma guardò, e distinse due figure nella penombra: un uomo sdraiato sulla schiena, e accanto a lui un ragazzo seduto, che guardava i nuovi venuti con occhi spalancati.
Vedendosi scoperto, il ragazzo si alzò e venne incontro alla mamma e con voce rauca le domandò: «Siete voi i padroni?»
«No, siamo venuti a ripararci dalla pioggia, abbiamo una malata, potete prestarci una coperta asciutta?»
Il ragazzo tornò nell’angolo e ne riportò una sudicia coperta che tese alla mamma.
«Grazie,» disse la mamma, e accennando con la testa all’uomo sdraiato: «Che cos’ha?»
Il ragazzo rispose, con una voce rauca priva di inflessioni: «Prima era malato, ma adesso muore di fame.»
«Cosa?»
«Muore di fame. S’è preso la febbre nel cotone. Sono sei giorni che non mangia.»
La mamma si trasferì nell’angolo. L’uomo poteva avere una cinquantina d’anni, aveva la faccia smunta, gli occhi spenti e fissi. La mamma domandò al ragazzo: «È tuo babbo?»
«Sì. Diceva che non aveva fame, oppure che aveva già mangiato, e il mangiare me lo dava a me. Adesso, non ha più forza, può appena muoversi.»
La pioggia diminuì d’intensità. L’uomo mosse le labbra e la mamma si chinò e avvicinò l’orecchio e le labbra si mossero di nuovo.
«Certo,» disse la mamma. «Pensiamo noi, state tranquillo, aspettate solo finché ho asciugato mia figlia.»
Tornò da Rosa Tea.
«Su, spogliati,» e tenne la coperta in modo da ripararla dalla vista. E quando Rosa Tea fu nuda, la coprì con la coperta sudicia.
Il ragazzo venne di nuovo al fianco della mamma, e spiegava: «Io non sapevo. Lui diceva sempre che aveva già mangiato e che non aveva fame. Ieri sera sono andato fuori, e ho rotto una vetrina e ho rubato del pane. Gliel’ho fatto mangiare, ma l’ha vomitato tutto, e dopo era più debole di prima. Bisognerebbe dargli del brodo o del latte. Avete denaro per comprare un po’ di latte?»
«Zitto, non ti preoccupare. In qualche modo si provvede.»
D’un tratto il ragazzo gridò: «Ma muore, vi dico! Muore di fame!»
«Zitto,» disse la mamma.
Guardò il babbo e zio John, che stavano in piedi vicino all’uomo malato guardandolo con occhi impotenti. Poi guardò Rosa Tea avviluppata nella coperta, e aspettò d’incontrarne lo sguardo. Allora le due donne si lessero profondamente negli occhi, e Rosa Tea prese a respirare in fretta e affannosamente. Poi disse: «Sì.»
La mamma sorrise: «Ero certa!»
Si guardò le mani, abbandonate in grembo.
Rosa Tea bisbigliò: «Fai… fai andar via tutti?» e la mamma la rassicurò con un cenno del capo.
Ora il suono della pioggia sul tetto era soltanto un fruscio. La mamma si sporse in avanti, allontanò con la mano una ciocca di capelli dalla fronte della figlia e le dette un bacio, poi si raddrizzò e ordinò: «Andate fuori un momento sotto la tettoia, voialtri, tutti.»
Ruth aprì la bocca per parlare e la mamma la zittì.
«Silenzio, fuori!»
Li sospinse fuori, anche il ragazzo, e uscì anch’essa per ultima chiudendosi alle spalle la porta cigolante.
Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile. Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui.
L’uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto.
«Su, prendete,» disse.
Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa.
«Qui, qui, così.»
Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente.
***
232 Celsius (circa), quinta puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Ginevra Lamberti.
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«Ci sono determinate questioni che, perseguitandoci in vita, lo fanno anche in morte. Come le distanze, le tempistiche, i soldi, la densità di popolazione. In ogni caso e qualsiasi cosa accada, appare evidente che qualcuno deve pur occuparsene»
Così recita la quarta di copertina di Perché comincio dalla fine, l’ultimo libro di Ginevra Lamberti uscito nel 2019 per Marsilio.
E il risvolto copertina di Perché comincio dalla fine dice che:
Ginevra Lamberti è nata nel 1985 e vive a Venezia. Il suo primo romanzo, La questione più che altro, uscito nel 2015 per nottetempo, è stato pubblicato anche in Francia. Suoi racconti sono stati tradotti in tedesco e in cinese.
Marco Manicardi: Ciao Ginevra, perché hai scritto Perché comincio dalla fine?
Ginevra Lamberti: Allora, ho scritto Perché comincio dalla fine perché non volevo scriverlo. A me, in realtà, scrivere piace più che fare moltissime altre cose, praticamente quasi tutte, però tendo ad avere dei momenti, anche piuttosto dilatati, in cui non mi sovviene la ragione per cui ha senso far le cose. E, in genere, sono momenti in cui non sto troppo bene. Quindi ho scritto Perché comincio dalla fine perché dopo un po’ che scrivo, magari anche di malavoglia, mi torna una certa forma di allegria. Il libro, comunque, parla di morte.
MM: Dove, come e quando l’hai scritto?
GL: Tra gennaio 2018 e maggio 2019, per poi vederlo pubblicato a settembre di quello stesso anno. L’ho scritto prevalentemente a Venezia, città che all’epoca mi ospitava già da quattordici anni buoni. Come narro anche nel libro, era un bel pezzo che lavoravo con i turisti, nel senso di ospitando turisti direttamente in casa, con tutte le questioni di pulizie, emergenze, assurdità e mancanze di spazi che ne derivano. Convivendo con il mio compagno, va da sé che non avevo una stanza tutta per me, nessuno dei due ce l’aveva. Anche il bagno era condiviso con centomila sconosciuti. Non avevo neanche orari di inizio e fine turno, momenti libero che potessi prefissare. Dunque, Perché comincio dalla fine è stato scritto dove capitava e quando capitava, dove e quando potevo, come… non è troppo chiaro neanche a me.
MM: E la domanda importante: è bello?
GL: È uno che ascolta.
Kristin Hersh (feat. Michael Stipe), Your GhostUn pezzetto di Perché comincio dalla fine dice così:
— Ginevra Lamberti legge un pezzetto di Perché comincio dalla fine —
Vic Chesnutt, Flirted With You All My Life***
Capitano Beatty: Venga signora, dobbiamo bruciare la casa.
(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)
La donna-libro: No.
Capitano Beatty: Che cosa vuol fare, la martire?
La donna-libro: Io voglio morire come sono vissuta.
Capitano Beatty: Ah, l’ha letto in qualche libro. Senta, non glielo chiederò di nuovo, se ne vuole andare?
La donna-libro: Questi libri erano vivi, parlavano con me.
…
Capitano Beatty: Cominciate!
E questa era la quinta puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto la seconda parte di Furore, un libro del 1939 di John Steinbeck, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Ginevra Lamberti su un libro del 2019 che si chiama Perché comincio dalla fine.
Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:
Books Are Burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992, che era la sigla iniziale del programma.Okie From Muskogee, un pezzo un po’ ambiguo di Merle Haggard, rifatto dai Melvins insieme ad Hank Williams nell’album The Crybaby del 2000Here Comes That Rainbow Again, di Kris Kristofferson da The Winning Hand del 1982e poi The Ghost of Tom Joad, di Bruce Springsteen, fatta dai Rage Against The Machine in un disco che si chiama Renegades del 2000 (anche questa non potevamo non metterla, dopo aver messo quella di Springteen nella scorsa puntata)Your Ghost, di Kristin Hersh con Michael Stipe, da Hips and Maker del 1993e Flirted With You All My Life, di Vic Chesnutt da un disco che si chiama At the Cut del 2008la sigla finale, ora in sottofondo, è Wrapped Up In Books dei Belle and Sebastian, da Dear Catastrophe Waitress del 2003Ad accompagnare le letture, infine, c’erano gli ultimi tre movimenti della Sinfonia n.1, Oceans, di Ezio Bosso, eseguita nel 2012 dalla Filarmonica 900 del Teatro Regio Torino e diretta dallo stesso Bosso.
232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la disponibilità.
E tornerà, molto probabilmente, con quella che potrebbe essere l’ultima puntata della stagione, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.
A presto.
Ciao.
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March 6, 2021
Così va la vita (quello che è successo davvero)
Una volta, qualche anno fa, ero a un concerto di non mi ricordo chi, ma mi ricordo che nella testa mi lamentavo di questo tizio che avevo di fianco, non era la prima volta che lo incrociavo, era alto, con due spalle così, molto più giovane di me, e ballava e mi prendeva sempre contro, parlava con quelli che aveva intorno e sudava e si dimenava, un nervoso. Io i concerti, soprattutto invecchiando, ormai li guardo quasi sempre fermo e in silenzio, e sono ben poche le volte che mi lascio andare come faceva quel tizio lì di fianco a me quella sera. La mia, alla fine, era anche un po’ invidia.
Qualche giorno dopo lo stesso tizio l’avevo visto salire su un palco, non ricordo se eravamo nello stesso posto o in un altro, ma lui aveva preso la chitarra e si era messo a cantare e mi si era spalancata la bocca. Aveva una voce che non si spiegava.
Mi ricordo, poi, di un’altra sera che facevo il dj e in pista c’era sempre quel tizio che ballava tantissimo insieme ad altre due o tre persone, e a un certo punto mi aveva raggiunto con un salto sul palco dove c’era la consolle, aveva una canottiera grigia che ormai era diventata scurissima per il sudore, e mi aveva abbracciato ringraziandomi perché avevo messo su le Runaways, come se avessi fatto la cosa più importante del mondo, e mi aveva bagnato tutta la parte davanti dei vestiti e lasciato due strisce umide dietro la schiena, dove erano arrivate le sue braccia nell’abbraccio. Mi aveva anche dato un bacio molto vicino alla bocca.
Dopo lo avevo riaccompagnato a casa, perché era senza macchina ed era rimasto lì a ballare fino alla fine e quelli con cui era arrivato erano già andati via. Mentre smontavo la consolle e sistemavo i dischi nella valigia, e poi nel viaggio dal locale verso casa sua, mi aveva raccontato la sua vita e la sua storia d’amore, e anche dopo che avevo parcheggiato davanti al suo portone era stato lì almeno un quarto d’ora a ringraziarmi, e io a dirgli ma figurati, e lui a ringraziami e così via per un bel po’. Poi mi aveva chiesto se volevo salire a bere una birra, ma erano già le quattro o le cinque del mattino, così avevo detto di no, grazie, e lui mi ringraziava ancora mentre scendeva dalla macchina e barcollava verso casa. Era di una gentilezza che si fa fatica a scriverla.
Eravamo anche diventati amici, alla fine. Non che uscissimo insieme, ma io andavo ai suoi concerti e molto spesso ci incontravamo al bar dove bevevamo delle birre e parlavamo di musica e delle solite cazzate di cui si parla al bar. Avevo anche messo i dischi al suo compleanno, una notte d’estate che era finita col sole che si alzava, e dove tutti gli invitati, prima di andare a recuperare la macchina per uscire, dovevano passare attraverso un suo abbraccio sudatissimo e il suo ennesimo ringraziamento.
Un paio d’anni fa gli avevo chiesto se aveva voglia di accompagnarmi in un reading, mi aveva detto che non era un buon momento e si era scusato cento volte, ma proprio non poteva. Ho capito solo dopo il perché.
Una volta gli avevo sentito cantare una Fuzzy che se l’avessero sentita i Grant Lee Buffalo sono sicuro che gli avrebbero ceduto i diritti.
L’altro ieri quel tizio lì che quella sera là mi prendeva sempre contro e con cui poi sono diventato amico, e che aveva una voce e una gentilezza difficili da spiegare se n’è andato, aveva un brutto male che se l’è mangiato, in due anni, un pezzo alla volta. E adesso non c’è più. Stamattina non sono neanche riuscito ad andare al funerale, per via dei tempi che corrono e di quello che succede.
A guardare le cose che hanno scritto e postato e che stanno continuando a scrivere e a postare quelli che lo conoscevano bene o che avevano appena un po’ avuto a che fare con lui o che l’avevano anche solo visto una volta o due suonare, sembra che sia morta una rockstar. Che poi è quello che è successo davvero.
Così va la vita.
(Ciao Cocco, grazie davvero)
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March 4, 2021
Levi (2)
E in un libro che si chiama I sommersi e i salvati, del 1986, Primo Levi dice che chi «fa a pugni» col mondo intero ritrova la sua dignità ma la paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto.
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March 1, 2021
Bolla
Devo essermi creato involontariamente una bella bolla, perché nelle mie timeline e bacheche e, insomma, quelle cose lì, ho solo della gente che si lamenta di chi si lamenta dell’ultimo concerto. E va benissimo così.
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