Marco Manicardi's Blog, page 30
January 19, 2021
Una postilla all’aperitivo con Faussone
Sul termine merenda cenatoria nel post di ieri, Francesco mi ha scritto che la dizione originale piemontese è merenda sinoira. Allora sono andato un po’ a cercare e ho trovato che:
Quest’usanza in origine veniva praticata dai contadini durante le lunghe giornate di lavoro estive o nel periodo della vendemmia, quando fra le 17 e le 18 avevano bisogno di rifocillarsi per poter continuare a lavorare fino al calar del sole. Solitamente i cibi che si portavano erano dettati dalla praticità di poter essere mangiati in modo veloce senza bisogno di sedersi a tavola. (da mole24.it)
Diego, poi, che è di Torino Torino, mi ha detto che:
Sinoira, l’originale piemontese (già correttamente ricordato), contiene l’assonanza non solo con la cena, ma con la sera. Per questo propenderei per la collocazione temporale più che funzionale. Merenda di sera.
E Maurizio diceva che secondo lui avrei dovuto usare da subito:
“merenda sinòira”, come sicuramente Primo Levi avrà detto chissà quante volte: solo che non voleva un piemontesismo e quindi ha fatto il calco italiano.
Mi rendo conto che è un argomento duro, di questi tempi reclusi e difficili da prevedere, ma comunque quando si potrà, se si potrà, e se saremo ancora tutti vivi e vegeti, Diego mi ha promesso una ricerca sul campo (acciughe, tomini, nocciole, vino).
Poi vi dirò.
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January 18, 2021
L’aperitivo con Faussone
E sempre in un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi, a un certo punto il narratore, che potremmo identificare con lo stesso Primo Levi se non fosse un’ipotesi azzardata, così, in mancanza di prove, ma comunque, il narratore a un certo punto va a chiacchierare nella stanza d’albergo del personaggio principale, Faussone, detto Tino, che gli ha offerto del tè e una vodca, e dice così:
Dopo il tè e la vodca, poiché la storia di Faussone non accennava ancora a decollare, io ho cautamente accennato a un formaggio fermentato e a certi salamini ungheresi che stavano nella mia camera. Lui non ha fatto complimenti (non ne fa mai: dice che non è il suo stile), e così il tè si è andato trasformando in una merenda cenatoria, mentre la luce aranciata del tramonto virava al viola luminoso di una notte settentrionale.
Quindi io, qui, adesso, che è il 18 di gennaio del 2021 e sono circa le 21:15, propongo di adottare merenda cenatoria come termine ufficiale al posto di apericena, nei paesi in cui viene ancora adottato il nome di aperitivo per la singola bevanda alcolica e apericena per dire bere e mangiare e così sostituire la cena; e al posto di aperitivo nei paesi, come nel mio, dove il termine aperitivo ormai significa già da solo il fatto di andare a bere e mangiare all’imbrunire.
«Ci facciamo una merenda cenatoria?»
«Devo andare a una merenda cenatoria con Tizio e Caio.»
«È l’ora della merenda cenatoria.»
E così via.
Io da oggi ho deciso che lo uso così.
Voi fate poi come vi pare.
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January 15, 2021
Il principio di indeterminazione di Faussone
E in un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi, c’è il personaggio principale, Faussone, detto Tino, che è poi quello che per tutto il libro racconta al narratore la storia della sua vita lavorativa, che proprio nell’incipit del primo capitolo inizia a parlare e dice così:
«Eh no: tutto non lo posso dire. O che le dico il paese, o che le racconto il fatto: io però, se fossi in lei, sceglierei il fatto, perché è un bel fatto. Lei poi, se proprio lo vuole raccontare, ci lavora sopra, lo ratifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia; e di storie, ben che sono più giovane di lei, me ne sono capitate diverse. Il paese magari lo indovina, così non ci rimette niente; ma se glielo dico io, il paese, finisce che vado nelle grane, perché quelli sono brava gente ma un po’ permalosa».
Che, se uno ci pensa bene, e si ricorda che Primo Levi era un chimico, ecco, quello lì sopra, o almeno la parte che ho sottolineato, è il principio di indeterminazione di Heisenberg.
Ho un po’ cercato su google, ma non ho trovato nessuno che gli sia venuta in mente questa cosa o qualcosa di simile, cioè che all’inizio de La chiave a stella di Primo Levi ci sia il principio di indeterminazione di Heisenberg applicato non alla meccanica quantistica ma alla meccanica, diciamo, del racconto in forma orale.
Quindi, ecco, se sono stato il primo ad accorgersene, dico solo un’altra cosa: cioè che è il 15 gennaio del 2021 e adesso sono circa le 18:30.
Se invece l’ha già detto qualcun altro, allora niente, a posto così.
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January 13, 2021
L’editoria inesistente
Anni e anni fa con quelli di Barabba avevamo fondato una casa editrice inesistente (si chiamava Barabba Edizioni) con una sotto-collana editoriale inesistente che non pubblicava niente (si chiamava Barabba Elettrolibri). All’epoca, dieci o addirittura undici anni fa, eravamo abbastanza punk e mi viene da dire all’avanguardia sulla questione dei libri elettrici. Facevamo tutto gratis, ma giravamo l’Italia e il mondo a presentarli e a leggerli, e delle volte, è capitato, ci intervistavano anche i quotidiani nazionali.
Poi, un po’ perché il mondo è andato avanti e noi non servivamo più a niente, un po’ perché siamo diventati prima grandi e poi finalmente vecchi, avevamo pian piano lasciato perdere tutto. Così va la vita.
Oggi però abbiamo pubblicato un altro libro inesistente (si chiama Nata sulla linea Gotica, l’ha scritto Giovanna Ferri e si scarica qui) e, non lo so, sarà la nostalgia, o la vecchiaia, o la vecchiaia nostalgica, ma, insomma, come si dice qui da noi, mi ride anche il culo.
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January 11, 2021
La pizza del Pastels
È da quattro anni, o poco più, che periodicamente mi viene in mente un passo di un libro che si chiama American Psycho, del 1991, di Bret Easton Ellis, che dice così:
“Allora, McDermott, che cosa c’è che non va?” Faccio una smorfia. “Lunga coda allo Stairmaster, stamattina?”
“Chi l’ha detto che qualcosa non va?” domanda lui, tirando su col naso, mentre volta le pagine del Financial Times.
“Senti,” gli dico, protendendomi, “ti ho già chiesto scusa, per aver denigrato la pizza del Pastels, l’altra sera.”
“Chi l’ha detto che era per questo?” mi chiede, in modo alquanto teso.
“Credevo che la cosa si fosse già chiarita,” bisbiglio, agguantando il bracciolo della poltroncina; e intanto sorrido a Thompson di fronte. “Mi spiace di aver insultato le pizze del Pastels. Sei soddisfatto?”
“Chi l’ha detto che si trattava di questo?” torna a domandare lui.
“E allora che c’è, McDermott?” gli chiedo, sottovoce. Avverto un movimento alle mie spalle. Conto fino a tre, poi mi giro di scatto e colgo Luis Carruthers mentre cerca di sporgersi per origliare. Sa di essere stato colto in fallo e lentamente si ritrae, con aria colpevole.
“Ciò è ridicolo,” dico a McDermott, a bassa voce. “Non puoi tenermi il muso per giorni e giorni perché ho detto che le pizze del Pastels sono… ‘crostose’.”
“Mal cotte,” dice lui, guardandomi in tralice. “Hai detto testualmente ‘mal cotte e bruciacchiate’.”
“Chiedo scusa,” dico. “Però non ritiro. Sono, effettivamente, bruciacchiate. Friabili. Le leggi anche tu, le recensioni gastronomiche sul Times, no?”
“Ecco qua.” Tira fuori di tasca un articolo fotocopiato e me lo porge. “Questo, per dimostrarti che ti sbagli. Leggilo!”
“Che cos’è?” chiedo, dispiegando il foglio.
“È un articolo del tuo idolo, Donald Trump,” dice McDermott, e sogghigna.
“Oh, sì…” dico, con apprensione. “Chissà perché mi era sfuggito.”
“Ecco…” McDermott dà una scorsa all’articolo e punta un dito accusatore sull’ultimo paragrafo, da lui evidenziato con inchiostro rosso. “Ecco, qui Donald Trump dice chiaro e tondo dove, secondo lui, si mangia la miglior pizza di Manhattan.”
“Lasciami leggere,” dico, sospirando. Lo scanso. “Magari hai capito male. Che schifo di foto!”
“Leggi da te, Bateman. Leggi e poi dimmi!”
Faccio finta di leggere quel fottuto articolo, ma sono talmente arrabbiato che la vista mi si è praticamente annebbiata. Restituisco il foglio a McDermott e, totalmente seccato, gli chiedo: “E con questo? Che significa? Che cosa stai cercando di dirmi, McDermott?”
“Che cosa ne pensi adesso, Bateman, della pizza del Pastels?” mi chiede lui, con sussiego.
“Insomma,” dico io, scegliendo con cura le parole. “Sarà bene che ci torni a riassaggiarla, quella pizza…” Pronuncio queste parole a denti stretti. “Insisto, però, nel dire che l’ultima volta che l’ho mangiata, la pizza era…”
“Mal cotta e bruciacchiata,” suggerisce McDermott.
“Appunto.” Mi stringo nelle spalle.
“Bruciacchiata e mal cotta.”
“Hmm, hmm!” McDermott sorride, trionfante. “Senti, se la pizza del Pastels va bene a Donny Trump…” prendo a dire. Mi scoccia ammetterlo. La mia voce è appena un soffio. Concludo: “… allora, va bene anche a me.”
McDermott ridacchia allegro. Ha vinto.
***
Bisogna che questa storia finisca, perché devo confessare che quel libro lì mi è sempre piaciuto pochissimo.
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January 10, 2021
Oh no, love, you’re not alone
Nell’estate del 2005 tornavo da Urbino con Grushenka, stavamo insieme da qualche mese e quella era stata la nostra prima vacanza: eravamo andati al festival Frequenze Disturbate a vedere i Dinosaur Jr, Julian Cope, gli Echo & The Bunnymen e degli altri. Erano stati tre giorni molto belli, noi avevamo il fuoco delle cose nuove che ci bruciava dentro e quella notte, saranno state le due, sfrecciavamo su un’autostrada vuota verso casa sulla mia Ford Fiesta, che chiamavamo Ronzinante e che aveva ancora la radio con le cassette. Le cassette si sentivano quasi tutte male, consumate dagli ascolti e dalle intemperie, ma ce n’era una che ero sicuro avrebbe suonato a dovere, così l’avevo pescata dalla tasca dello sportello alla mia sinistra e l’avevo infilata nel mangianastri. Abbiamo canticchiato tutto Ziggy Stardust, e quando era arrivata Rock’n’roll Suicide l’avevamo urlata, insieme, con tutto il fiato che avevamo. Eravamo una cometa che schizzava sull’asfalto, a metà strada tra le Marche e l’Emilia, e sulle note finali, quando mi ero messo a fare il coro canticchiando “wonderful“, Grushenka aveva cominciato a ridere fortissimo e mi aveva detto uno dei suoi primi «ti amo» mentre la cassetta scattava sul lato A per ricominciare.
Dev’essere uno dei modi in cui nasce una “nostra canzone”, perché da quel giorno Rock’n’roll Suicide lo era diventata per noi.
Poi, una notte di undici anni dopo, nei primi di gennaio del 2016, saranno state le due, mentre deponevamo le armi della nostra piccola battaglia quotidiana che potremmo chiamare “addormentare il Miny”, e sconfitti mettevamo un bambino di nove mesi a giocare nel suo lettino, lì di fianco al nostro letto, su Rai5 era partito l’ultimo concerto del tour di Ziggy Stardust, quello all’Hammersmith Odeon di Londra del 3 luglio 1973. Quando alla fine dell’ultimo bis era partita Rock’n’roll Suicide, ci eravamo girati verso il Miny, che nel frattempo tra un pupazzo, due risate e un sonaglino si era visto tutto il suo primo concerto, e gli abbiamo detto: «senti, questa è la canzone della mamma e del papà.»
E gliel’avevamo cantata tutta.
E poi, niente, tutto qua.
Musica:
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January 9, 2021
Scarpe rotte
(Oggi)
Oggi, settantuno anni fa, alle fonderie di Modena venivano ammazzati sei operai, e feriti altri duecento, dalla polizia. Mio nonno Corrado mi raccontava che oggi, settantuno anni fa, l’avevano saputo quasi subito anche a Novi di Modena, quello che era successo, a trenta e passa chilometri di distanza.
(Dopodomani)
Dopodomani, settantuno anni fa, mio nonno Corrado si metteva in marcia con un gruppetto di novesi: scioperavano, avevano messo su le scarpe nuove e ancor prima che spuntasse il sole s’erano incamminati fino a Modena per i funerali. A Fossoli avevano tirato su altri gruppetti come loro, e via andare; a Carpi avevano fatto altrettanto, e via ancora, andare; lo stesso a Soliera, a Ganaceto, a Lesignana e a Ponte Alto, sempre dello stesso passo, senza rallentare, mi raccontava mio nonno Corrado, senza rallentare fino alle fonderie, via, andare. Sempre dello stesso passo perché trenta e passa chilometri non sono uno scherzo per chi esce dal paese solo per le feste, magari col carretto e le scarpe nuove in spalla per andare a ballare alla Festa de l’Unità di Carpi, che dicevano che fosse la più bella di tutte e poi era così grande.
(Dopo)
Dopo, quando ormai era in pensione, ed era in pensione anche suo figlio, mio padre, ed ero diventato più o meno un uomo anche io, suo nipote, a mio nonno Corrado delle scarpe non gliene fregava più granché. Si ricordava sempre di quella volta che era andato fino a Modena a piedi, per lo sciopero generale, per i funerali dell’eccidio alle fonderie. Ma quando si deve andare, mi raccontava, c’è poi anche da ritornare, e le scarpe si erano rotte. E allora a lui, dopo, delle scarpe non gliene fregava più granché. Ci voleva uno stipendio intero per comprare le scarpe nuove, una volta. Le scarpe nuove che, di solito, servivano una volta l’anno, quando dovevi andare alla Festa de l’Unità di Carpi a ballare.
(E dopo ancora)
E dopo ancora, mi era toccato raccontare a mio nonno Corrado che poi le fonderie erano diventate le Ex-fonderie: una discoteca. E che io una volta, da ragazzino, anni prima, ci avevo ballato dentro. Gli avevo raccontato di quella volta che ero andato fino a Modena, a trenta e passa chilometri di distanza, in macchina con gli amici, per ballare. Secondo me quella sera, anzi quasi sicuramente, almeno così mi ricordo, avevo delle scarpe nuove. Delle scarpe nuove per ballare.
Musica:
[Oggi, settantuno anni dopo l’eccidio delle Fonderie, e undici anni dopo che avevo scritto questo pezzetto (un po’ diverso) per la prima volta su Barabba, mio nonno, Corrado, non c’è più: è morto all’inizio di gennaio di tre anni fa, aveva novantadue anni. Però lo so che, se ci fosse ancora, oggi mi racconterebbe, come se se fosse la prima volta che me lo racconta, di quando era andato a Modena a piedi, tanti anni fa, e delle scarpe nuove che poi si erano rotte, eppur bisognava andare.]
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January 8, 2021
Pavese (2)
E in un libro che si chiama La luna e i falò, del 1950, di Cesare Pavese, il protagonista, Anguilla, dice dell’America che il paese era grande, ce n’era per tutti. C’erano donne, c’era terra, c’era denari. Ma nessuno ne aveva abbastanza, nessuno per quanto ne avesse si fermava, e le campagne, anche le vigne, sembravano giardini pubblici, oppure incolti, terre bruciate, montagne di ferraccio. E dice che non era un paese che uno potesse rassegnarsi, posare la testa e dire agli altri: «Per male che vada mi conoscete. Per male che vada lasciatemi vivere». E che era questo che faceva paura. Che neanche tra loro si conoscevano; traversando quelle montagne si capiva a ogni svolta che nessuno lì si era mai fermato, nessuno le aveva toccate con le mani. E che avevano non soltanto la sbornia, ma anche la donna cattiva. E veniva il giorno che uno per toccare qualcosa, per farsi conoscere, strozzava una donna, le sparava nel sonno, le rompeva la testa con una chiave inglese.
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January 6, 2021
Rodari
E in un libro che si chiama La freccia azzurra, del 1964, Giovanni Rodari, detto Gianni, dice che per Franco quella dell’Epifania fu una notte indimenticabile quando i pastelli, uno dopo l’altro, gli mostrarono quello che sapevano fare. E che, per esempio, gli disegnarono e dipinsero tante bandiere, che la stanza sembrava un giorno di festa nazionale. E che fecero la bandiera tricolore e la bandiera rossa, e si accapigliarono perché ciascuno voleva che la propria bandiera fosse la più bella, poi fecero la pace e disegnarono tutti insieme una bandiera di sette colori. E poi dissero: «Ecco qui, ci siamo tutti e sette e non si fa torto a nessuno. Ora andremo veramente d’accordo.»
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December 31, 2020
2020 in pictures
L’anno dello stare (quasi sempre) in casa.
(Poi, nell’anno dello stare in casa mi è capitato di suonare dal vivo davanti a della gente per la prima volta dopo dodici anni, che è una cosa, bisogna dirlo, abbastanza incredibile.)
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