Marco Manicardi's Blog, page 29

February 7, 2021

Svegliandosi una mattina da sogni agitati

Marco Manicardi si trovò trasformato, nel suo letto, in un vecchio quarantaduenne.

L'articolo Svegliandosi una mattina da sogni agitati proviene da Eri così carino.

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Published on February 07, 2021 00:21

February 6, 2021

232 Celsius (circa) s1e01 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della prima puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 5 febbraio su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi; nella seconda parte ci sono io che intervisto Stefano Amato su un libro che si chiama Stupidistan, del 2020.

(su Spotify, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):


Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:


La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).


232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.


***

232 Celsius (circa), prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge La chiave a stella di Primo Levi.

***

Il nome di Primo Levi lo conosciamo tutti, e in generale per lo stesso motivo: riuscì, lui diceva essenzialmente per la cecità della fortuna, a scampare al forno crematorio di Auschwitz e in qualche modo si trovò costretto dal destino a raccontare quell’orrore attraverso le parole dei suoi libri: Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, La tregua. Ma Primo Levi non fu solo quello che si dice, con un’espressione anche retorica, un testimone dell’Olocausto e in generale uno scrittore enorme: saggista, romanziere, a suo modo uno storico. Ma in fondo, o forse soprattutto, Levi fu sempre un lavoratore: uno come noi, uno che la mattina si alzava e andava in ufficio, e con quel lavoro si guadagnava da vivere. Era laureato in chimica, e per quasi tutta la vita quello fece: il chimico. Pensate che la pagina Wikipedia inglese su Levi lo definisce proprio così: “Chemist”. Fece il chimico una volta rientrato a Torino dopo la guerra, prima lavorando in proprio e poi come tecnico di una fabbrica di vernici, nella quale rimase – diventandone il direttore – fino al giorno della pensione. A me questa cosa affascina. Cioè, qui stiamo parlando di uno scrittore pazzesco, un artista nel vero senso della parola, ma lui mica si fida, non è mica sicuro che quella sia la sua strada, scrive la sera, tiene lì le cose, e intanto lavora. Il chimico. Sei Messi, o Cristiano Ronaldo – scegliete voi – e dici “mah, non so mica se fare il professionista è la cosa giusta, ho una famiglia da mantenere” e allora continui a fare il ragioniere e vai a giocare a calcetto una volta alla settimana, con gli amici. Ma non è solo questione di fidarsi o non fidarsi, è che a lui lavorare piaceva. Ne traeva proprio piacere, e vedeva nel come lavoravi un modo di stare al mondo. Capire le cose, costruirle, fare il proprio dovere e farlo bene, con cura, con passione. Levi era uno, per intenderci, che scriveva questa cosa qui:

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.

Johnny Cash, Working Man Blues (live)

Ci scrisse un libro sul lavoro, Levi. Il suo primo romanzo. Si intitola La chiave a stella. Levi per lavoro si trova in un paese dell’Est, un posto vago che potrebbe essere la Russia, o l’Ucraina, o la Bielorussia. Nell’albergo dove alloggia incontra un altro italiano. Si chiama Tino Faussone, e fatemi dire che io a Faussone voglio bene come a uno zio. Sul serio. Faussone è un operaio specializzato. Più precisamente è un montatore, cioè un uomo che di mestiere mette insieme, costruisce tralicci, gru, impianti chimici. La chiave a stella è l’utensile del quale non potrebbe fare mai a meno, è il simbolo del suo lavoro, in qualche modo è lui stesso. Il libro è una lunga serie di racconti che Faussone fa a Levi la sera, bevendo un bicchiere di vino, nella solitudine di un albergo sperduto nel nulla in una terra straniera, e al fondo è una riflessione sul lavoro, su ciò che vale per l’uomo, su ciò che rende l’uomo vero e libero.
Dice il personaggio di Levi, a un certo punto dice questa cosa qui:

Di regola non va così: di regola è lui che entra di prepotenza, che ha qualche avventura o disavventura da raccontare, e la snocciola tutta d’un fiato, in quella sua maniera trasandata a cui ormai ho fatto l’abitudine, senza lasciarsi interrompere se non per qualche breve richiesta di spiegazioni. Così avviene che si tende piuttosto al monologo che al dialogo, e per di più il monologo è appesantito dai suoi tic ripetitivi, e dal suo linguaggio, che tira sul grigio; forse è il grigio delle nebbie del nostro paese, o forse invece è quello delle lamiere e dei profilati che sono gli effettivi eroi dei suoi racconti. Quella sera, invece, pareva che le cose si mettessero diversamente: lui aveva bevuto parecchio, e il vino, che era un brutto vino torbido, vischioso ed acidulo, lo aveva un poco alterato. Non lo aveva offuscato, e del resto (dice lui) uno che fa il suo mestiere non deve mai lasciarsi prendere di sorpresa, deve sempre stare all’erta come gli agenti segreti che si vedono al cine; non aveva velato la sua lucidità, ma lo aveva come spogliato, aveva incrinato la sua armatura di riserbo. Non lo avevo mai visto tanto taciturno, ma, stranamente, il suo silenzio avvicinava invece di allontanare. Ha vuotato ancora un bicchiere, senza avidità né gusto, anzi, con la pervicacia amara di chi ingoia una medicina:

«… ma così queste storie che io le racconto lei poi le scrive?»

Gli ho risposto che forse sì: che non ero sazio di scrivere, che scrivere era il mio secondo mestiere, e che stavo meditando, proprio in quei giorni, se non sarebbe stato più bello farlo diventare il mestiere primo o unico. Non era d’accordo che io le sue storie le scrivessi? Altre volte si era mostrato contento, o addirittura fiero.

«Già. Beh non ci faccia caso, sa, i giorni non sono mica tutti uguali, e oggi è una giornata rovescia, una di quelle che non ne va dritta una. C’è delle volte che uno gli va via perfino la volontà di lavorare. Eh sì, c’è dei giorni che tutto va per traverso; e si ha un bel dire che uno non ci ha colpa, che il disegno è imbrogliato, che uno è stanco e che per giunta tira un vento del diavolo: tutte verità, ma quel magone che uno si sente qui, quello non glielo toglie nessuno. E allora uno si domanda magari fino delle domande che hanno nessun senso, come per esempio che cosa ci stiamo nel mondo a fare, e se uno ci pensa su non si può mica rispondere che stiamo al mondo per montare tralicci, dico bene? Insomma, quando lei tribola dodici giorni, ci mette tutti i sette sentimenti e tutte le malizie, suda, gela e cristona, e poi gli vengono dei sospetti, e cominciano a rosicare, e lei controlla, e il lavoro è fuori quadro, e quasi non ci crede perché non ci vuole credere, ma poi ricontrolla e poco da fare tutte le quote sono imballate, allora, caro lei, come la mettiamo? Allora per forza che uno cambia mentalità, e comincia a pensare che non c’è niente che valga la pena, e gli piacerebbe fare un altro lavoro, e insieme pensa che tutti i lavori sono uguali, e che anche il mondo è fuori quadro, anche se adesso andiamo sulla luna, e è sempre stato fuori quadro, e non lo raddrizza nessuno, e si figuri se lo raddrizza un montatore. Eh già, uno pensa così. … Ma mi dica un po’, capita anche a voialtri?»

Quanto è ostinata l’illusione ottica che ci fa sempre sembrare meno amare le cure del vicino e più amabile il suo mestiere! Gli ho risposto che fare confronti è difficile; che tuttavia, avendo fatto anche mestieri simili al suo, gli dovevo dare atto che lavorare stando seduti, al caldo e a livello del pavimento, è un bel vantaggio; ma che, a parte questo, e supponendo che mi fosse lecito parlare a nome degli scrittori propriamente detti, le giornate balorde capitano anche a noi. Anzi: ci capitano più sovente, perché è più facile accertarsi se è «in bolla d’aria» una carpenteria metallica che non una pagina scritta; così può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene, che è pasticciato, sciocco, già scritto, mancante, eccessivo, inutile; e allora si rattristi, e gli vengano delle idee sul genere di quelle che aveva lui quella sera, e cioè mediti di cambiare mestiere, aria e pelle, e magari di mettersi a fare il montatore. Ma può anche capitare che uno scriva delle cose, appunto, pasticciate e inutili (e questo accade sovente) e non se ne accorga o non se ne voglia accorgere, il che è ben possibile, perché la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire un crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi appieno. A questo punto ho notato che Faussone, a dispetto dei fumi del vino e del suo malumore, si era fatto attento. Aveva smesso di bere, e mi guardava, lui che di solito ha una faccia gnecca, fissa, meno espressiva del fondo d’una padella, con un’aria fra maliziosa e maligna.

«Già, questo è un bel fatto. Non ci avevo mai pensato. Pensi un po’, se per noi gli strumenti di controllo nessuno li avesse mai inventati, e il lavoro si dovesse mandarlo avanti così, a trucco e branca: ci sarebbe da venire matti».

Gli ho confermato che, in effetti, i nervi degli scrittori tendono ad essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscano per causa dello scrivere, e della prima accennata mancanza di strumenti sensibili a cui delegare il giudizio sulla qualità della materia scritta, o se invece il mestiere di scrivere attragga preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. È comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici, o tali sono diventati (è sempre arduo decidere sulle «malattie contratte in servizio»), e che altri sono addirittura finiti in un manicomio o nei suoi equivalenti, non solo in questo secolo, ma anche molto prima; parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata, vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto.

Pylon, Working Is No Problem

A Faussone il gioco del confronto fra i due mestieri incominciava a piacere; ammetterlo non sarebbe stato nel suo stile, che è sobrio e composto, ma lo si vedeva dal fatto che aveva smesso di bere, e che il suo mutismo si andava sciogliendo. Ha risposto:

«Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato. Secondo me, il fatto dei nervi che saltano, al giorno d’oggi, capita un po’ a tutti, scrittori o montatori o qualunque altro commercio. Lo sa a chi non capita? Agli uscieri e ai marcatempo, quelli delle linee di montaggio; perché in manicomio ci mandano gli altri. A proposito di nervi: non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato ed è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina. A dirle la verità, così su due piedi non le saprei dire di un montatore che sia finito in manicomio, ma so di tanti, anche miei amici, che sono venuti malati e hanno dovuto cambiare mestiere».

Ho dovuto ammettere che in effetti, sull’altro versante le malattie professionali sono poche: anche perché, in generale, l’orario è flessibile.

«Vorrà dire che non ce n’è nessuna. Uno non può mica ammalarsi a forza di scrivere. Tutt’al più, se scrive con la biro, gli può venire un callo qui. E anche per gli infortuni, è meglio lasciar perdere».

Niente da dire, il punto lo aveva segnato lui: gliel’ho ammesso. Altrettanto cavallerescamente, Faussone, con un’inconsueta libertà di fantasia, è venuto fuori a dire che in fondo era come decidere se era meglio nascere maschio o femmina: la parola giusta l’avrebbe potuta dire solo uno che avesse fatto la prova in tutte e due le maniere; e a questo punto, pur rendendomi conto che si trattava di un colpo basso da parte mia, non ho potuto resistere alla tentazione di raccontargli la storia di Tiresia. Ha mostrato un certo disagio quando gli ho riferito che Giove e Giunone, oltre che coniugi, erano anche fratello e sorella, cosa su cui di solito a scuola non si insiste, ma che in quel ménage doveva pure avere una qualche importanza. Invece ha manifestato interesse quando gli ho accennato alla famosa disputa fra di loro, se i piaceri dell’amore e del sesso fossero più intensi per la donna o per l’uomo: stranamente, Giove attribuiva il primato alle donne, e Giunone agli uomini. (…) Faussone giocherellava con la bottiglia e aveva un’aria vagamente seccata.

«È abbastanza una bella storia. Se ne impara sempre una nuova. Ma non ho capito bene cosa c’entra: non vorrà venirmi a dire che Tiresia è lei?»

Non mi aspettavo un attacco diretto. Ho spiegato a Faussone che uno dei grandi privilegi di chi scrive è proprio quello di tenersi sull’impreciso e sul vago, di dire e non dire, di inventare a man salva, fuori di ogni regola di prudenza: tanto, sui tralicci che costruiamo noi non passano i cavi ad alta tensione, se crollano non muore nessuno, e non devono neppure resistere al vento. Siamo insomma degli irresponsabili, e non si è mai visto che uno scrittore vada sotto processo o finisca in galera perché le sue strutture si sono sfasciate. Ma gli ho anche detto che sì, forse me n’ero accorto solo raccontandogli quella storia, un po’ Tiresia mi sentivo, e non solo per la duplice esperienza: in tempi lontani anch’io mi ero imbattuto negli dèi in lite fra loro; anch’io avevo incontrato i serpenti sulla mia strada, e quell’incontro mi aveva fatto mutare condizione donandomi uno strano potere di parola: ma da allora, essendo un chimico per l’occhio del mondo, e sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che sono troppe. E che non stesse a sofisticare perché tutto questo paragone era stiracchiato: lavorare al limite della tolleranza, o anche fuori tolleranza, è il bello del nostro mestiere. Noi, al contrario dei montatori, quando riusciamo una tolleranza a sforzarla, a fare un accoppiamento impossibile, siamo contenti e veniamo lodati. Faussone, a cui in altre sere io ho raccontato tutte le mie storie, non ha sollevato obiezioni né ha fatto altre domande, e del resto l’ora era ormai troppo tarda per dare fondo alla questione. Tuttavia, forte della mia condizione di esperto in entrambe le veneri, e quantunque lui fosse visibilmente insonnolito, ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pienezza. Il suo, e il mestiere chimico che gli somiglia, perché insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovesce ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia ed a tenerle testa. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove. Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso «forse un altro non ci sarebbe riuscito».

The Replacements, Here Comes A Regular

***

232 Celsius (circa), seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Stefano Amato

***

2050: il tasso di stupidità è alle stelle. La regione del mondo più colpita è la Sicilia, soprannominata Stupidistan. Patty, giovane dog sitter romana, viene catapultata suo malgrado in un’isola che affoga nei debiti; perfino la mafia se l’è data a gambe e il futuro è tutto da reinventare

Così recita la quarta di copertina di Stupidistan, l’ultimo romanzo di Stefano Amato, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2020.
E il risvolto di copertina di Stupidistan dice che:

Stefano Amato è nato e vive a Siracusa, dove si concede il lusso più prezioso, il tempo. I libri e la lettura lo appassionano da sempre: per anni ha lavorato in una libreria, raccogliendo sul suo blog pluripremiato, L’apprendista libraio, aneddoti tratti dalla sua esperienza e da quella dei colleghi. Ha collaborato con moltissime riviste letterarie e recentemente ne ha fondata una, A4 (aquattro.org). Con Fabio Genovesi e Franz Krauspenhaar, se ho detto bene, ha scritto Guida letteraria alla sopravvivenza in tempi di crisi (Transeuropa). Nel 2009, sempre per Transeuropa, è uscito il suo romanzo d’esordio, Le sirene di Rotterdam. Da allora ha pubblicato molti libri, l’ultimo si intitola Vedrai, vedrai (Giunti, 2019). Con Marcos y Marcos ha pubblicato Bastaddi (2015, premio Leggo QuINDI Sono).
Pare abbia anche suonato in un trio punk-rock.

Marco Manicardi.: Ciao Stefano. Perché hai scritto Stupidistan?

Stefano Amato: Ciao. Ho scritto Stupidistan perché un giorno mi sono chiesto cosa ne sarebbe della Sicilia se gli stupidi diventassero la maggioranza della popolazione. Ora, stupido è una parola che vuol dire tutto e non vuol dire niente, siamo tutti stupidi una volta ogni tanto, e soprattutto siamo tutti stupidi agli occhi di qualcun altro. Gli stupidi a cui mi riferivo io sono quelli che, secondo la famosa definizione di Carlo Cipolla, arrecano un danno agli altri senza ricevere un vantaggio, o addirittura subendo un danno loro stessi. E mi sembra che la Sicilia sia piena di gente del genere: che danneggia gli altri danneggiando sé stessa. E mi sembra anche che la differenza fra un posto civile e uno meno civile sia proprio il grado di presenza di stupidi del genere. E quindi ho scritto Stupidistan per riflettere su questioni simili.

MM: Dove come e quando l’hai scritto?

SA: Ho cominciato a scrivere Stupidistan a Roma, un paio d’anni fa, dentro una biblioteca pubblica che c’è in Via Ostiense. Poi ho continuato per altri sei mesi circa nella città dove vivo, che è Siracusa. Come l’ho scritto? Al computer con un software che adoro, si chiama Scrivener, secondo me il suo inventore dovrebbe vincere prima o poi il Premio Nobel per la letteratura.

MM: Ultima domanda, ma importantissima: È bello?

SA: Se è bello, non lo so. So che a molti è piaciuto, ad altri un po’ meno. Per esempio su Amazon ho letto la recensione di qualcuno che si lamenta del fatto che il libro parla male della Sicilia, non mi devo permettere di parlare così male della Sicilia, se le cose in Sicilia vanno male è per colpa del Nord Italia che ci ha colonizzato. E… quindi, non lo so se è bello. Secondo me piace, ma con riserva.

Elliott Smith, Stupidity Tries

Stupidistan di Stefano Amato comincia così:

Stefano Amato legge il primo capitolo (“ZERO”) di Stupidistan —

Ramones, Cretin Hop

***


Aaah, questo qui dev’essere molto profondo: l’Etica di Aristotele. Naturalmente chiunque lo legga deve credere di essere superiore a chi non lo ha letto…e questo non è bene, Montag: Noi dobbiamo essere tutti uguali. L’unico modo per essere felici è di sentirci tutti uguali. Quindi, noi dobbiamo bruciarli, Montag. Fino all’ultimo.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla finale)

***

Questa era la prima puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Stefano Amato su un libro che si chiama Stupidistan, del 2020.

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

Books are burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992Workin’ Man Blues, un pezzo di Merle Haggard del 1969, rifatto da Jonnhy CashWorking is No Problem dei Pylon, da un disco che si chiama Gyrate del 1980Here Comese A Regular dei Replacements da Tim, del 1985Stupidity Tries da Figure 8, del 2000, di Elliot Smithe Cretin Hop dei Ramones, da Rocket To Russia, del 1977, anno di nascita, peraltro, di Stefano Amato

L’accompagnamento era il concerto per violino No.1 Op.99 in La minore di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, eseguito a Praga nel 1957 dall’Orchestra Filarmonica Ceca diretta da Evgeny Mravinsky con primo violino di David Oistrakh, non so se ho detto bene, ma comunque l’ho detto.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni e Simone Marchetti per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la benedizione.

E tornerà, molto probabilmente, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.

A presto.
Ciao.

L'articolo 232 Celsius (circa) s1e01 – il podcast (e la trascrizione) proviene da Eri così carino.

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Published on February 06, 2021 04:24

232 Celsius (circa) s01e01 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della prima puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 5 febbraio su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi; nella seconda parte ci sono io che intervisto Stefano Amato su un libro che si chiama Stupidistan, del 2020.

(su Spotify)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):


Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:


La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).


232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.


***

232 Celsius (circa), prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge La chiave a stella di Primo Levi.

***

Il nome di Primo Levi lo conosciamo tutti, e in generale per lo stesso motivo: riuscì, lui diceva essenzialmente per la cecità della fortuna, a scampare al forno crematorio di Auschwitz e in qualche modo si trovò costretto dal destino a raccontare quell’orrore attraverso le parole dei suoi libri: Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, La tregua. Ma Primo Levi non fu solo quello che si dice, con un’espressione anche retorica, un testimone dell’Olocausto e in generale uno scrittore enorme: saggista, romanziere, a suo modo uno storico. Ma in fondo, o forse soprattutto, Levi fu sempre un lavoratore: uno come noi, uno che la mattina si alzava e andava in ufficio, e con quel lavoro si guadagnava da vivere. Era laureato in chimica, e per quasi tutta la vita quello fece: il chimico. Pensate che la pagina Wikipedia inglese su Levi lo definisce proprio così: “Chemist”. Fece il chimico una volta rientrato a Torino dopo la guerra, prima lavorando in proprio e poi come tecnico di una fabbrica di vernici, nella quale rimase – diventandone il direttore – fino al giorno della pensione. A me questa cosa affascina. Cioè, qui stiamo parlando di uno scrittore pazzesco, un artista nel vero senso della parola, ma lui mica si fida, non è mica sicuro che quella sia la sua strada, scrive la sera, tiene lì le cose, e intanto lavora. Il chimico. Sei Messi, o Cristiano Ronaldo – scegliete voi – e dici “mah, non so mica se fare il professionista è la cosa giusta, ho una famiglia da mantenere” e allora continui a fare il ragioniere e vai a giocare a calcetto una volta alla settimana, con gli amici. Ma non è solo questione di fidarsi o non fidarsi, è che a lui lavorare piaceva. Ne traeva proprio piacere, e vedeva nel come lavoravi un modo di stare al mondo. Capire le cose, costruirle, fare il proprio dovere e farlo bene, con cura, con passione. Levi era uno, per intenderci, che scriveva questa cosa qui:

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.

Johnny Cash, Working Man Blues (live)

Ci scrisse un libro sul lavoro, Levi. Il suo primo romanzo. Si intitola La chiave a stella. Levi per lavoro si trova in un paese dell’Est, un posto vago che potrebbe essere la Russia, o l’Ucraina, o la Bielorussia. Nell’albergo dove alloggia incontra un altro italiano. Si chiama Tino Faussone, e fatemi dire che io a Faussone voglio bene come a uno zio. Sul serio. Faussone è un operaio specializzato. Più precisamente è un montatore, cioè un uomo che di mestiere mette insieme, costruisce tralicci, gru, impianti chimici. La chiave a stella è l’utensile del quale non potrebbe fare mai a meno, è il simbolo del suo lavoro, in qualche modo è lui stesso. Il libro è una lunga serie di racconti che Faussone fa a Levi la sera, bevendo un bicchiere di vino, nella solitudine di un albergo sperduto nel nulla in una terra straniera, e al fondo è una riflessione sul lavoro, su ciò che vale per l’uomo, su ciò che rende l’uomo vero e libero.
Dice il personaggio di Levi, a un certo punto dice questa cosa qui:

Di regola non va così: di regola è lui che entra di prepotenza, che ha qualche avventura o disavventura da raccontare, e la snocciola tutta d’un fiato, in quella sua maniera trasandata a cui ormai ho fatto l’abitudine, senza lasciarsi interrompere se non per qualche breve richiesta di spiegazioni. Così avviene che si tende piuttosto al monologo che al dialogo, e per di più il monologo è appesantito dai suoi tic ripetitivi, e dal suo linguaggio, che tira sul grigio; forse è il grigio delle nebbie del nostro paese, o forse invece è quello delle lamiere e dei profilati che sono gli effettivi eroi dei suoi racconti. Quella sera, invece, pareva che le cose si mettessero diversamente: lui aveva bevuto parecchio, e il vino, che era un brutto vino torbido, vischioso ed acidulo, lo aveva un poco alterato. Non lo aveva offuscato, e del resto (dice lui) uno che fa il suo mestiere non deve mai lasciarsi prendere di sorpresa, deve sempre stare all’erta come gli agenti segreti che si vedono al cine; non aveva velato la sua lucidità, ma lo aveva come spogliato, aveva incrinato la sua armatura di riserbo. Non lo avevo mai visto tanto taciturno, ma, stranamente, il suo silenzio avvicinava invece di allontanare. Ha vuotato ancora un bicchiere, senza avidità né gusto, anzi, con la pervicacia amara di chi ingoia una medicina:

«… ma così queste storie che io le racconto lei poi le scrive?»

Gli ho risposto che forse sì: che non ero sazio di scrivere, che scrivere era il mio secondo mestiere, e che stavo meditando, proprio in quei giorni, se non sarebbe stato più bello farlo diventare il mestiere primo o unico. Non era d’accordo che io le sue storie le scrivessi? Altre volte si era mostrato contento, o addirittura fiero.

«Già. Beh non ci faccia caso, sa, i giorni non sono mica tutti uguali, e oggi è una giornata rovescia, una di quelle che non ne va dritta una. C’è delle volte che uno gli va via perfino la volontà di lavorare. Eh sì, c’è dei giorni che tutto va per traverso; e si ha un bel dire che uno non ci ha colpa, che il disegno è imbrogliato, che uno è stanco e che per giunta tira un vento del diavolo: tutte verità, ma quel magone che uno si sente qui, quello non glielo toglie nessuno. E allora uno si domanda magari fino delle domande che hanno nessun senso, come per esempio che cosa ci stiamo nel mondo a fare, e se uno ci pensa su non si può mica rispondere che stiamo al mondo per montare tralicci, dico bene? Insomma, quando lei tribola dodici giorni, ci mette tutti i sette sentimenti e tutte le malizie, suda, gela e cristona, e poi gli vengono dei sospetti, e cominciano a rosicare, e lei controlla, e il lavoro è fuori quadro, e quasi non ci crede perché non ci vuole credere, ma poi ricontrolla e poco da fare tutte le quote sono imballate, allora, caro lei, come la mettiamo? Allora per forza che uno cambia mentalità, e comincia a pensare che non c’è niente che valga la pena, e gli piacerebbe fare un altro lavoro, e insieme pensa che tutti i lavori sono uguali, e che anche il mondo è fuori quadro, anche se adesso andiamo sulla luna, e è sempre stato fuori quadro, e non lo raddrizza nessuno, e si figuri se lo raddrizza un montatore. Eh già, uno pensa così. … Ma mi dica un po’, capita anche a voialtri?»

Quanto è ostinata l’illusione ottica che ci fa sempre sembrare meno amare le cure del vicino e più amabile il suo mestiere! Gli ho risposto che fare confronti è difficile; che tuttavia, avendo fatto anche mestieri simili al suo, gli dovevo dare atto che lavorare stando seduti, al caldo e a livello del pavimento, è un bel vantaggio; ma che, a parte questo, e supponendo che mi fosse lecito parlare a nome degli scrittori propriamente detti, le giornate balorde capitano anche a noi. Anzi: ci capitano più sovente, perché è più facile accertarsi se è «in bolla d’aria» una carpenteria metallica che non una pagina scritta; così può capitare che uno scriva con entusiasmo una pagina, o anche un libro intero, e poi si accorga che non va bene, che è pasticciato, sciocco, già scritto, mancante, eccessivo, inutile; e allora si rattristi, e gli vengano delle idee sul genere di quelle che aveva lui quella sera, e cioè mediti di cambiare mestiere, aria e pelle, e magari di mettersi a fare il montatore. Ma può anche capitare che uno scriva delle cose, appunto, pasticciate e inutili (e questo accade sovente) e non se ne accorga o non se ne voglia accorgere, il che è ben possibile, perché la carta è un materiale troppo tollerante. Le puoi scrivere sopra qualunque enormità, e non protesta mai: non fa come il legname delle armature nelle gallerie di miniera, che scricchiola quando è sovraccarico e sta per venire un crollo. Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali d’allarme sono rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai scuse né pretesti, ne rispondi appieno. A questo punto ho notato che Faussone, a dispetto dei fumi del vino e del suo malumore, si era fatto attento. Aveva smesso di bere, e mi guardava, lui che di solito ha una faccia gnecca, fissa, meno espressiva del fondo d’una padella, con un’aria fra maliziosa e maligna.

«Già, questo è un bel fatto. Non ci avevo mai pensato. Pensi un po’, se per noi gli strumenti di controllo nessuno li avesse mai inventati, e il lavoro si dovesse mandarlo avanti così, a trucco e branca: ci sarebbe da venire matti».

Gli ho confermato che, in effetti, i nervi degli scrittori tendono ad essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscano per causa dello scrivere, e della prima accennata mancanza di strumenti sensibili a cui delegare il giudizio sulla qualità della materia scritta, o se invece il mestiere di scrivere attragga preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. È comunque attestato che diversi scrittori erano nevrastenici, o tali sono diventati (è sempre arduo decidere sulle «malattie contratte in servizio»), e che altri sono addirittura finiti in un manicomio o nei suoi equivalenti, non solo in questo secolo, ma anche molto prima; parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata, vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto.

Pylon, Working Is No Problem

A Faussone il gioco del confronto fra i due mestieri incominciava a piacere; ammetterlo non sarebbe stato nel suo stile, che è sobrio e composto, ma lo si vedeva dal fatto che aveva smesso di bere, e che il suo mutismo si andava sciogliendo. Ha risposto:

«Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato. Secondo me, il fatto dei nervi che saltano, al giorno d’oggi, capita un po’ a tutti, scrittori o montatori o qualunque altro commercio. Lo sa a chi non capita? Agli uscieri e ai marcatempo, quelli delle linee di montaggio; perché in manicomio ci mandano gli altri. A proposito di nervi: non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato ed è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina. A dirle la verità, così su due piedi non le saprei dire di un montatore che sia finito in manicomio, ma so di tanti, anche miei amici, che sono venuti malati e hanno dovuto cambiare mestiere».

Ho dovuto ammettere che in effetti, sull’altro versante le malattie professionali sono poche: anche perché, in generale, l’orario è flessibile.

«Vorrà dire che non ce n’è nessuna. Uno non può mica ammalarsi a forza di scrivere. Tutt’al più, se scrive con la biro, gli può venire un callo qui. E anche per gli infortuni, è meglio lasciar perdere».

Niente da dire, il punto lo aveva segnato lui: gliel’ho ammesso. Altrettanto cavallerescamente, Faussone, con un’inconsueta libertà di fantasia, è venuto fuori a dire che in fondo era come decidere se era meglio nascere maschio o femmina: la parola giusta l’avrebbe potuta dire solo uno che avesse fatto la prova in tutte e due le maniere; e a questo punto, pur rendendomi conto che si trattava di un colpo basso da parte mia, non ho potuto resistere alla tentazione di raccontargli la storia di Tiresia. Ha mostrato un certo disagio quando gli ho riferito che Giove e Giunone, oltre che coniugi, erano anche fratello e sorella, cosa su cui di solito a scuola non si insiste, ma che in quel ménage doveva pure avere una qualche importanza. Invece ha manifestato interesse quando gli ho accennato alla famosa disputa fra di loro, se i piaceri dell’amore e del sesso fossero più intensi per la donna o per l’uomo: stranamente, Giove attribuiva il primato alle donne, e Giunone agli uomini. (…) Faussone giocherellava con la bottiglia e aveva un’aria vagamente seccata.

«È abbastanza una bella storia. Se ne impara sempre una nuova. Ma non ho capito bene cosa c’entra: non vorrà venirmi a dire che Tiresia è lei?»

Non mi aspettavo un attacco diretto. Ho spiegato a Faussone che uno dei grandi privilegi di chi scrive è proprio quello di tenersi sull’impreciso e sul vago, di dire e non dire, di inventare a man salva, fuori di ogni regola di prudenza: tanto, sui tralicci che costruiamo noi non passano i cavi ad alta tensione, se crollano non muore nessuno, e non devono neppure resistere al vento. Siamo insomma degli irresponsabili, e non si è mai visto che uno scrittore vada sotto processo o finisca in galera perché le sue strutture si sono sfasciate. Ma gli ho anche detto che sì, forse me n’ero accorto solo raccontandogli quella storia, un po’ Tiresia mi sentivo, e non solo per la duplice esperienza: in tempi lontani anch’io mi ero imbattuto negli dèi in lite fra loro; anch’io avevo incontrato i serpenti sulla mia strada, e quell’incontro mi aveva fatto mutare condizione donandomi uno strano potere di parola: ma da allora, essendo un chimico per l’occhio del mondo, e sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che sono troppe. E che non stesse a sofisticare perché tutto questo paragone era stiracchiato: lavorare al limite della tolleranza, o anche fuori tolleranza, è il bello del nostro mestiere. Noi, al contrario dei montatori, quando riusciamo una tolleranza a sforzarla, a fare un accoppiamento impossibile, siamo contenti e veniamo lodati. Faussone, a cui in altre sere io ho raccontato tutte le mie storie, non ha sollevato obiezioni né ha fatto altre domande, e del resto l’ora era ormai troppo tarda per dare fondo alla questione. Tuttavia, forte della mia condizione di esperto in entrambe le veneri, e quantunque lui fosse visibilmente insonnolito, ho cercato di chiarirgli che tutti e tre i nostri mestieri, i due miei e il suo, nei loro giorni buoni possono dare la pienezza. Il suo, e il mestiere chimico che gli somiglia, perché insegnano a essere interi, a pensare con le mani e con tutto il corpo, a non arrendersi davanti alle giornate rovesce ed alle formule che non si capiscono, perché si capiscono poi per strada; ed insegnano infine a conoscere la materia ed a tenerle testa. Il mestiere di scrivere, perché concede (di rado: ma pure concede) qualche momento di creazione, come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende, o un indotto si muove. Siamo rimasti d’accordo su quanto di buono abbiamo in comune. Sul vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, dello specchiarsi nella propria opera. Sul piacere del veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella, e non importa poi tanto se sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso «forse un altro non ci sarebbe riuscito».

The Replacements, Here Comes A Regular

***

232 Celsius (circa), seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Stefano Amato

***

2050: il tasso di stupidità è alle stelle. La regione del mondo più colpita è la Sicilia, soprannominata Stupidistan. Patty, giovane dog sitter romana, viene catapultata suo malgrado in un’isola che affoga nei debiti; perfino la mafia se l’è data a gambe e il futuro è tutto da reinventare

Così recita la quarta di copertina di Stupidistan, l’ultimo romanzo di Stefano Amato, pubblicato da Marcos y Marcos nel 2020.
E il risvolto di copertina di Stupidistan dice che:

Stefano Amato è nato e vive a Siracusa, dove si concede il lusso più prezioso, il tempo. I libri e la lettura lo appassionano da sempre: per anni ha lavorato in una libreria, raccogliendo sul suo blog pluripremiato, L’apprendista libraio, aneddoti tratti dalla sua esperienza e da quella dei colleghi. Ha collaborato con moltissime riviste letterarie e recentemente ne ha fondata una, A4 (aquattro.org). Con Fabio Genovesi e Franz Krauspenhaar, se ho detto bene, ha scritto Guida letteraria alla sopravvivenza in tempi di crisi (Transeuropa). Nel 2009, sempre per Transeuropa, è uscito il suo romanzo d’esordio, Le sirene di Rotterdam. Da allora ha pubblicato molti libri, l’ultimo si intitola Vedrai, vedrai (Giunti, 2019). Con Marcos y Marcos ha pubblicato Bastaddi (2015, premio Leggo QuINDI Sono).
Pare abbia anche suonato in un trio punk-rock.

Marco Manicardi.: Ciao Stefano. Perché hai scritto Stupidistan?

Stefano Amato: Ciao. Ho scritto Stupidistan perché un giorno mi sono chiesto cosa ne sarebbe della Sicilia se gli stupidi diventassero la maggioranza della popolazione. Ora, stupido è una parola che vuol dire tutto e non vuol dire niente, siamo tutti stupidi una volta ogni tanto, e soprattutto siamo tutti stupidi agli occhi di qualcun altro. Gli stupidi a cui mi riferivo io sono quelli che, secondo la famosa definizione di Carlo Cipolla, arrecano un danno agli altri senza ricevere un vantaggio, o addirittura subendo un danno loro stessi. E mi sembra che la Sicilia sia piena di gente del genere: che danneggia gli altri danneggiando sé stessa. E mi sembra anche che la differenza fra un posto civile e uno meno civile sia proprio il grado di presenza di stupidi del genere. E quindi ho scritto Stupidistan per riflettere su questioni simili.

MM: Dove come e quando l’hai scritto?

SA: Ho cominciato a scrivere Stupidistan a Roma, un paio d’anni fa, dentro una biblioteca pubblica che c’è in Via Ostiense. Poi ho continuato per altri sei mesi circa nella città dove vivo, che è Siracusa. Come l’ho scritto? Al computer con un software che adoro, si chiama Scrivener, secondo me il suo inventore dovrebbe vincere prima o poi il Premio Nobel per la letteratura.

MM: Ultima domanda, ma importantissima: È bello?

SA: Se è bello, non lo so. So che a molti è piaciuto, ad altri un po’ meno. Per esempio su Amazon ho letto la recensione di qualcuno che si lamenta del fatto che il libro parla male della Sicilia, non mi devo permettere di parlare così male della Sicilia, se le cose in Sicilia vanno male è per colpa del Nord Italia che ci ha colonizzato. E… quindi, non lo so se è bello. Secondo me piace, ma con riserva.

Elliott Smith, Stupidity Tries

Stupidistan di Stefano Amato comincia così:

Stefano Amato legge il primo capitolo (“ZERO”) di Stupidistan —

Ramones, Cretin Hop

***


Aaah, questo qui dev’essere molto profondo: l’Etica di Aristotele. Naturalmente chiunque lo legga deve credere di essere superiore a chi non lo ha letto…e questo non è bene, Montag: Noi dobbiamo essere tutti uguali. L’unico modo per essere felici è di sentirci tutti uguali. Quindi, noi dobbiamo bruciarli, Montag. Fino all’ultimo.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla finale)

***

Questa era la prima puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Stefano Amato su un libro che si chiama Stupidistan, del 2020.

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

Books are burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992Workin’ Man Blues, un pezzo di Merle Haggard del 1969, rifatto da Jonnhy CashWorking is No Problem dei Pylon, da un disco che si chiama Gyrate del 1980Here Comese A Regular dei Replacements da Tim, del 1985Stupidity Tries da Figure 8, del 2000, di Elliot Smithe Cretin Hop dei Ramones, da Rocket To Russia, del 1977, anno di nascita, peraltro, di Stefano Amato

L’accompagnamento era il concerto per violino No.1 Op.99 in La minore di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, eseguito a Praga nel 1957 dall’Orchestra Filarmonica Ceca diretta da Evgeny Mravinsky con primo violino di David Oistrakh, non so se ho detto bene, ma comunque l’ho detto.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni e Simone Marchetti per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la benedizione.

E tornerà, molto probabilmente, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.

A presto.
Ciao.

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Published on February 06, 2021 04:24

February 4, 2021

Levi

E in un libro che si chiama La tregua, del 1963, Primo Levi dice che quando arrivarono a Katowice, nella Polonia meridionale, entrò con alcuni altri italiani ex-deportati in un negozio di alimentari, e subito furono trattati con sospetto dalla signora che lo gestiva, ma che appena dissero di essere ebrei di Auschwitz lo sguardo della vecchia si ammorbidì, perfino le rughe sembrarono distendersi. Allora era un’altra faccenda. Li fece passare nel retrobottega, li fece sedere, offerse loro due bicchieri di birra autentica, e senza por tempo in mezzo raccontò con orgoglio la sua storia favolosa: la sua epopea, vicina nel tempo ma già ampiamente trasfigurata in canzone di gesta, affinata e polita da innumerevoli ripetizioni.
La signora era consapevole di Auschwitz, e tutto quanto riguardava Auschwitz la interessava, perché aveva rischiato di andarci. Non era polacca, era tedesca: a suo tempo, teneva bottega a Berlino, con suo marito. A loro, Hitler non era mai piaciuto, e forse erano stati troppo incauti nel lasciar trapelare fra il vicinato queste loro opinioni singolari: nel 1935 suo marito era stato portato via dalla Gestapo, e non ne aveva mai più saputo niente. Era stato un grande dolore, ma mangiare bisogna, e lei aveva continuato nel suo commercio fino al ‘38, quando Hitler, «der Lump», aveva fatto alla radio il famoso discorso in cui dichiarava che voleva fare la guerra.
Allora lei si era indignata e gli aveva scritto. Gli aveva scritto personalmente, «Al Signor Adolf Hitler, Cancelliere del Reich, Berlino», mandandogli una lunga lettera in cui gli consigliava fermamente di non fare la guerra perché troppe persone sarebbero morte, e inoltre gli dimostrava che se l’avesse fatta l’avrebbe perduta, perché la Germania non poteva vincere contro tutto il mondo, e anche un bambino l’avrebbe capito. Aveva firmato con nome, cognome e indirizzo: poi si era messa ad aspettare.
Cinque giorni dopo erano venute le camicie brune, e col pretesto di fare una perquisizione le avevano saccheggiato e sconquassato casa e bottega. Cosa avevano trovato? Nulla, lei non faceva della politica: soltanto la minuta della lettera. Due settimane dopo l’avevano chiamata alla Gestapo. Pensava che l’avrebbero picchiata e spedita in Lager: invece l’avevano trattata con disprezzo sguaiato, le avevano detto che avrebbero dovuto impiccarla, ma si erano convinti che lei era solo «eine alte blö-de Ziege», una vecchia stupida capra, e che per lei la corda sarebbe stata sprecata. Però le avevano ritirata la licenza di commercio e l’avevano espulsa da Berlino.
Aveva vivacchiato in Slesia di borsa nera e di espedienti, finché, secondo le sue previsioni, i tedeschi non avevano perso la guerra. Allora, poiché tutto il vicinato sapeva quello che lei aveva fatto, le autorità polacche non avevano tardato a concederle la licenza per un negozio di commestibili. Così ora viveva in pace, fortificata dal pensiero di quanto migliore sarebbe stato il mondo se i grandi della terra avessero seguito i suoi consigli.

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Published on February 04, 2021 09:19

February 2, 2021

Così va la vita (da più di un anno)

Stamattina mi ha scritto Giancarlo Frigieri (ci scriviamo decine di mail al giorno da quasi vent’anni), e mi ha detto che:

Ieri era un anno che è morto Andy Gill dei Gang of Four.
Mi facevano notare che all’epoca non ci ha fatto caso nessuno, ma è morto ufficialmente “per l’aggravarsi di un’improvvisa infezione polmonare contratta a Novembre mentre era in tour in Asia”.
Per dire…

Così va la vita.

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Published on February 02, 2021 03:38

February 1, 2021

Tutti i venerdì: 232 Celsius (circa)

E quindi, come dicevo qualche settimana fa, inizia un programma radiofonico intitolato 232 Celsius (circa) che andrà in onda tutti i venerdì, speriamo, per sei venerdì, almeno, alle 18:00 su Radio Sverso (www.radiosverso.it).
Il programma tratta di libri e di cose sui libri, è curato da Sergio Pilu e dal sottoscritto ed è diviso generalmente in due parti: nella prima parte Sergio legge e racconta di libri di gente soprattutto morta, nella seconda parte io intervisto gente soprattutto viva.
La prima puntata andrà in onda venerdì 5 febbraio. Le altre dal venerdì dopo, e quello dopo ancora, e quello dopo dopo ancora, e così via. Nei giorni successivi a ogni puntata cercherò di pubblicare qui sopra il podcast con le relative trascrizioni, se ho tempo.
Ma comunque, abbiamo anche una pagina su facebook dove uno, se vuole, può mettere il pollicione e rimanere informato e aggiornato sugli argomenti trattati di volta in volta. Potrebbe anche scapparci qualche approfondimento, ma non è detto.

E niente, secondo me è bello.

(una testimonianza fotografica dei due conduttori, così come apparivano una decina di anni fa, nell’epoca gloriosa della blogsfera e delle socielcose)

Sì, 232 Celsius sono circa 451 gradi fahrenheit. Abbiamo quella fantasia lì.

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Published on February 01, 2021 05:12

January 28, 2021

Comunque

Comunque, mi sono accorto che dico troppi comunque, e me ne sono accorto perché il Miny ogni tanto dice dei comunque che danno proprio fastidio, a volte suonano supponenti, a volte saccenti, e così via; chissà se danno fastidio così anche i miei, di comunque. Comunque d’ora in poi provo a farci caso.

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Published on January 28, 2021 09:16

January 27, 2021

Quella spintarella che dice che il treno è in marcia

Nove anni fa sono stato sul Treno della Memoria, da Fossoli a Birkenau, insieme al dottor Carlo Dulinizo e a una marea di studenti delle superiori. Al ritorno, qualche mese dopo, mandandoci dei messaggi tra Carpi e Cuba (dove si trovava in quel momento il dottor Dulinizo), avevamo scritto un piccolo reportage in due parti per No Borders Magazine (che ora esiste solo su web.archive.org), cominciava così:


Viaggiare in treno, su quel treno, di notte, chi l’ha già fatto lo sa, è qualcosa di magico. Sarete 550 ragazzi delle scuole e un centinaio di adulti, circa. Appena arrivati alla stazione, cercate l’agenzia di viaggio a cui si sono affidati quelli della Fondazione Ex Campo di Fossoli, vi daranno una busta con informazioni sulle tempistiche del viaggio, le visite che farete, i numeri da chiamare in caso di emergenza ma, soprattutto, vi assegneranno il posto in carrozza e sull’autobus, e sarà quello per tutto il viaggio. Alla partenza non riuscirete a stare nel piazzale, e mentre le autorità vi ricorderanno cos’è stato e cos’è questo viaggio per loro e per la collettività, uno di voi farà caso alla dimensione, all’insieme, al mucchio di persone in attesa di partire. Poi si sale a bordo e iniziano gli addii dal finestrino.


[Nella promiscuità della stazione, ognuno cerca il posto assegnatogli d’ufficio. Lo faccio anch’io. Mi tolgo il giubbotto invernale, appoggio lo zaino stracolmo della roba che serve nei cinque giorni che mi separano dal ritorno, stringo mani sconosciute e mi siedo in silenzio, quasi ad aspettare chissà cosa. Quel chissà cosa è una piccola spinta che sento sotto le chiappe, quella spintarella che dice che il treno è in marcia. L’avrò sentita un milione di volte, ma questa è diversa, è come se mettesse in moto la testa.]


E continuava su No Borders Magazine (che però adesso non c’è più, quindi continua su web.archive.org), in due parti:

TRENO DELLA MEMORIA 2012, PRIMA PARTE: IL TRENOTRENO DELLA MEMORIA 2012, SECONDA PARTE: LA MEMORIA

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Published on January 27, 2021 00:57

January 23, 2021

E invece

Quando superi i quaranta, non che ti ci sia abituato, ma non è poi così insolito che ogni tanto suoni il telefono e dall’altra parte ci sia qualcuno che ti dice: «Ciao, devo darti una brutta notizia, è morta la tal persona.»
È una cosa che delle volte ti aspetti, delle volte no, ma che in qualche modo, col tempo, diventa quasi naturale.

Poi può anche capitare, meno frequentemente, però càpita, che dall’altra parte del telefono ci sia qualcuno che ti dice: «Ciao, devo darti una brutta notizia, si è uccisa la tal persona.»
È una cosa che non ti aspetti quasi mai, che ti fa pensare moltissimo nei giorni a venire e non diventa mai naturale, me in qualche modo arrivi ad accettarla e a farci quasi la pace.

E invece ieri suonava il telefono e dall’altra parte c’era uno che mi ha detto: «Ciao, devo darti una brutta notizia, hanno ammazzato la tal persona.»
Ecco, questa è una cosa che bisogna mettersi a sedere.

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Published on January 23, 2021 01:06

January 22, 2021

Il ponte sospeso secondo Faussone

E sempre in un libro che si chiama La chiave a stella, del 1978, di Primo Levi, c’è il personaggio principale, Faussone, detto Tino, che di mestiere fa il montatore in giro per il mondo, che racconta di quando l’avevano mandato in India a montare un ponte sospeso, e dice che era un gran lavoro, che lui ha sempre pensato che i ponti è il più bel lavoro che sia: perché si è sicuri che non ne viene del male a nessuno, anzi del bene, perché sui ponti passano le strade e senza le strade saremmo ancora come i selvaggi; insomma perché i ponti sono come l’incontrario delle frontiere e le frontiere è dove nascono le guerre. E dice che lui sui ponti la pensava così, e in fondo la pensa così ancora adesso; ma dopo che aveva montato quel ponte in India, pensa anche che a lui sarebbe piaciuto studiare; che se avesse studiato probabile che avrebbe fatto l’ingegnere; ma che se lui fosse un ingegnere, l’ultima cosa che farebbe sarebbe di progettare un ponte, e l’ultimo ponte che progetterebbe sarebbe un ponte sospeso.
Allora il narratore, che potremmo anche identificare con lo stesso Primo Levi se non fosse un’ipotesi azzardata, così, in mancanza di prove, fa notare a Faussone che il suo discorso gli sembra un po’ contraddittorio, e Faussone gli conferma che lo è; che però prima di giudicare aspettasse la fine della storia; che succede sovente che una cosa sia buona in generale e cattiva nel particolare.

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Published on January 22, 2021 04:32