Marco Manicardi's Blog, page 28

February 27, 2021

232 Celsius (circa) s1e04 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della quarta puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 26 febbraio su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama Furore, del 1939, di John Ernest Steinbeck Jr; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Leonardo Tondelli su un libro che si chiama Getting Better (sottotitolo: Le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate), del 2020.

(su Spotify, su Google Podcast, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):


Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:


La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).


232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.


***

232 Celsius (circa): un programma di Sergio Pilu e Marco Manicardi.

***

232 Celsius (circa), quarta puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge Furore di John Steinbeck.

***

Ci sono dei libri che se li volessimo riassumere in una sola parola, questa sarebbe “necessari”. Nel 1939 John Steinbeck scrisse un libro che in Italia sarebbe stato tradotto con il titolo di Furore e il cui titolo originale, in inglese, è The Grapes of Wrath, che significa più o meno “I grappoli dell’ira” ed è grosso modo una citazione di un versetto dell’Apocalisse di San Giovanni. È il libro che leggiamo in queste due puntate e terremo come riferimento l’adattamento che ne ha fatto qualche anno fa Alessandro Barico.
Furore fu una specie di instant book, nel quale Steinbeck raccontò la migrazione di cinquecentomila americani, erano contadini che vivevano e lavoravano nelle Grandi Pianure del Midwest e che, spinti dalla fame, ma la fame vera, dalla disoccupazione, dalla siccità abbandonarono le loro case trasferendosi a Ovest, in particolare in California, per cercare non dico una vita migliore, ma veramente proprio, semplicemente, una vita. Erano in tanti, ed erano un paradosso vivente: cioè erano cittadini poveri, molto poveri, del paese più ricco del mondo. Un pezzo del continente si svuotò e se ne riempì un altro: e come sappiamo anche noi, non è una faccenda facile, quando succede. Anzi.
Prima di partire provavano, erano costretti, a vendere tutto quello che avevano per raccogliere quei pochi dollari – che però per loro erano moltissimi – che servivano a comprare una macchina, un camion, qualunque mezzo sul quale montare e andare a Ovest. Da vendere non avevano nient’altro che le loro case, gli animali, gli attrezzi di lavoro e qualche oggetto – uno scialle, un orologio – che non avevano alcun valore, tranne quello affettivo. Il fatto è che quando tutti vendono le stesse cose nello stesso momento, quelle cose non valgono più niente.

Quanto? Dieci dollari carro compreso? Gesù Cristo, piuttosto li accoppo e li do ai cani da mangiare. Alla malora, comunque, prendeteli! S’è preso nel prezzo anche la Rosa che li baciava nel morbido tra le nari, e tutte le mie maledizioni. E i mezzadri tornavano a piedi, mani in tasca, cappelli abbassati sugli occhi. Compravano un litro e se lo bevevan per strada, per stordirsi, per render meno cocente il ricordo della disfatta. E il vino non li faceva né ridere né cantare né pizzicar la chitarra. Tornavano mogi alle case devastate, mani in tasca e teste basse. Si tratta di ricominciare. California, paese ricco, dove la frutta cresce da sé; si tratta di ricominciare. Ma alla nostra età? Un bimbo può, ma noi? Io e te, vedi, siamo quel ch’è stato: non potremo mai essere quel che sarà. Siamo le scene che abbiam vissute: siamo questa terra, questa terra rossa: siamo gli anni d’inondazione e gli anni di polvere creata dal vento e gli anni di siccità. Noi non si può ricominciare. Lo strozzino s’è preso con la roba anche le nostre maledizioni, ma l’amarezza ce l’ha lasciata dentro, l’amarezza che continuerà a roderci per tutta la vita.
E le mamme si rivoltolavano tra le mani le reliquie del passato condannato all’oblio. Com’è possibile vivere senza le cose che sono la nostra vita? Spogli del nostro passato non ci riconosciamo. Fa niente, non c’è posto, bisogna lasciarlo, bruciarlo.

The Gun Club, Mother Of Earth

I protagonisti di Furore sono i membri di una famiglia. Si chiamano Joad. Padre, madre – che tutti chiamano Ma’ –, due nonni che non se ne vogliono andare assolutamente dalla loro casa in Oklahoma. C’è lo zio John, fratello del padre, che si capisce che ha una brutta storia che lo tormenta e dalla quale cerca di fuggire bevendo, più o meno sotto il controllo della famiglia, e poi ci sono sei figli. Due sono piccoli, Ruth e Winfield; poi c’è Rosa Tea, che nell’originale inglese ha il meraviglioso nome di Rose of Sharon, che poi è l’ibisco cinese, che un fiore splendido. Rosa Tea è incinta, diciamo parecchio incinta, e con lei c’è Connie, il marito. Lei diciotto e lui diciannove anni, sono di quelli che il mondo ha il perimetro del loro abbraccio e fuori non c’è niente e nessuno. I Joad hanno un cane, che farà una brutta fine. Poi ci sono i tre maschi grandi: Noah, il maggiore, Al, il minore dei tre, adolescente ormai a un passo dal diventare uomo, e Tom. Tom Joad, che nel film di John Ford venne interpretato da Henry Fonda e che insieme alla madre è il personaggio che spicca su tutti. È uscito da poco dal carcere, dove è rimasto quattro anni per aver ucciso un uomo in una rissa, però si capisce che secondo Steinbeck non era veramente colpa sua. Con la madre, Tom è il pilastro della famiglia, cioè è quello che tutti ascoltano, quello al quale si rivolgono quando le cose si mettono male, insomma. Dato che lo hanno mandato fuori sulla parola, Tom non potrebbe uscire dai confini dello stato, ma, dato che emigreranno, finirà per tornare ad essere fuorilegge.
Infine c’è Casy. Jim Casy. Era un predicatore, non un prete ma alla fine faceva tutte le cose che fanno i preti e la gente in fondo lo considerava tale. Però a un certo punto dice che ha perso la fede e così ha smesso. La sera prima di partire devono decidere se portarsi dietro anche lui, che in fondo non fa parte della famiglia. Il padre, che sulla carta sarebbe il cosiddetto capofamiglia, si volta verso la moglie e le dice «Mamma, tu cosa ne pensi, siamo in grado di portarci dietro il predicatore?»
E lei, secca:

Quanto a ‘essere in grado’, siamo in grado di niente; né partire per la California, né niente. La questione è di sapere se ‘vogliamo’ prenderlo con noi, o no. Per conto mio non ho mai sentito che un Joad abbia rifiutato assistenza a chi la chiede sulla strada. Di Joad cattivi ne ho conosciuti; ma meschini così, no.

Matt Costa, Sweet Thursday

I Joad, con Connie e Casy, partono su un Hudson del ’26 che è un catorcio sfinito. Devono fare tremila chilometri: Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona, California. E a un certo punto vedono una stazione di servizio un po’ scassata e si fermano per mettere l’acqua nel radiatore e fare un po’ di benzina. La benzina costa cara, ovviamente. La benzina è una cosa che si trova in tutto il libro, fino quasi alla fine. Ed è importante quanto il cibo, a volte anche di più: perché a suo modo è un cibo, è il cibo per il camioncino, loro scappano dalla fame e dalla miseria con il camioncino, grazie al camioncino, senza il camioncino loro non possono andare da nessuna parte, quindi ci sono dei momenti in cui devono decidere se nutrire il camioncino oppure nutrire se stessi. E fanno benzina, danno da mangiare al camioncino sperando che li porti dove possono mangiare anche loro. Si fermano, e gli viene incontro il padrone della stazione di servizio.

Diede un’occhiata alla Hudson con aria tracotante e chiese, con tono brusco: «Fate acquisti? Benzina o altro?»
Al era già sceso e stava svitando il tappo del radiatore, pronto a ritirar la mano al primo spruzzo, per non scottarsi.
«Benzina sì,» rispose.
«Soldi ne avete?»
«Certo. Per chi ci avete preso, per accattoni?»
Ogni tracotanza sparì dalla faccia dell’esercente.
«Fate, fate, servitevi pure da voi dell’acqua.» E s’affrettò e spiegare. «Tanta gente, in questi giorni. Vengono, prendono l’acqua, mi sporcano la latrina, comprano niente e perdio rubano, se non li tengo d’occhio. Senza un soldo in tasca, s’aspettano che gli dia la benzina per carità.»
Tom gli s’avvicinò con aria minacciosa.
«Noi si paga, non si vuol niente gratis.»
«Certo, certo, ho capito subito,» s’affrettò a ribattere l’esercente. «Servitevi d’acqua, usate pure la latrina.»
Winfield s’era impadronito del tubo, aveva aperto la chiavetta del beccuccio e s’era irrorata la faccia e la testa, e ora sgocciolava tutto contento.
«Niente fredda,» diceva.
L’esercente diede un tono confidenziale alla sua conversazione.
«Cinquantasei macchine ho contato ieri; cinquanta, sessanta al giorno. Di questo passo dove si va? Tutti profughi. Tutta gente che trasloca verso ovest coi bambini e tutte le masserizie. Dove vanno? Cosa vanno a fare?»
«Quel che facciamo noi,» brontolò Tom.
«Si cerca un posto dove vivere; si tenta. Si fa quel che si può.»
«Ma di questo passo, dove si va, domando io, dove si va? Anch’io sono in difficoltà. I ricchi qui non si fermano. Non uno. Van tutti a servirsi nei posti eleganti in città. Da me si ferma solo chi non può spendere.»
«Solo chi non può spendere,» ripeteva l’esercente in tono sconsolato. «Dovreste vedere, qua nel retro, la roba che mi danno in cambio di benzina e di olio: letti, carrozzelle per bambini, pentole e padelle. L’altro giorno mi han lasciata una bambola, per una latta da quattro litri. Cosa n’ho da fare, di tutta questa roba? Metter su un negozio di rigattiere? Oggi uno voleva darmi le sue scarpe! Se fossi un uomo senza scrupoli, credo potrei persino farmi dare…»
Ma l’occhiata che diede alla mamma lo consigliò a non finire la frase.
Il predicatore s’era bagnata la testa, che sgocciolava ancora, e le gocce gli infradiciavano la camicia. S’avvicinò all’esercente e prese posizione accanto a Tom. Disse: «Mica è colpa degli sfrattati. Vi piacerebbe, a voi, dover vendere il vostro letto per fare il pieno?»
«Lo so, lo so che non è loro la colpa,» s’affrettò ad ammettere in tono conciliante. «So che hanno tutti le loro buone ragioni di mettersi in viaggio. Ma di questo passo dove si va? È questo che vorrei sapere. Non c’è più modo di guadagnarsi onestamente la vita. A lavorar la terra si va in malora. Ve lo chiedo a voi: dove si va a finire? Nessuno sa darmi una risposta. Ma esser ridotti al punto da dar via le scarpe per poter continuare il viaggio…!»
Si tolse l’elmetto di cartone argentato per asciugarsi il sudore della fronte. E Tom si tolse il berretto allo stesso scopo, poi lo tuffò nell’acqua, lo torse ben bene e se lo rimise in testa.
«Proprio così, non si sa dove si va a finire,» continuava a brontolare. «Io dico che è il paese che va in rovina, sussidi o no.»
Il predicatore disse: «Io ho girato molto. Dappertutto è la stessa storia. Non si sente altro: dove si va, dove si va? Ma perché voler sapere dove, dico io. L’essenziale è di andare. Di muoversi. Dove, non importa. Adesso si direbbe che tutto il mondo stia traslocando. Perché trasloca la gente? Perché va in cerca di condizioni migliori di quelle in cui è. Per trovarle, è costretta a traslocare, a muoversi; a muoversi finché le trova. I torti che riceve, le ingiustizie che subisce, tutto questo è tollerabile, finché conserva la speranza di sistemarsi altrove.»
Il grassone azionava ritmicamente la pompa e l’ago si spostava sul quadrante registrando l’efflusso.
«Sì, sì, capisco,» ripeteva cocciuto, «ma di questo passo dove si va, domando io, dove si va? È questo che vorrei sapere.»
Tom perdette la pazienza.
«E questo non lo saprete mai. Il mio amico qui cercava appunto di spiegarvi, e voi continuate a insistere nel vostro ritornello. Li conosco i tipi come voi. Non fanno che lagnarsi, piagnucolare, ma non muoverebbero un dito per studiare un rimedio. La gente crepa di fame e nessuno si ribella. Tra poco vai in malora anche te, sta’ tranquillo, col tuo ‘dove si va, dove si va’. Tutti una massa di vigliacchi, che per calmare la paura canta la stessa nenia per addormentarsi.»
Diede una occhiata significativa alla pompa, vecchia e arrugginita, allo sgabuzzino di legno che le stava dietro, mostrando solamente le tracce del giallo con cui aveva audacemente tentato di emulare la vistosità dei grandi posti di rifornimento delle città. Il tentativo era miseramente fallito; e l’esercente lo sapeva, ne era persuaso. E notò ora, per la prima volta, il miserando stato dei calzoni di fustagno del grasso esercente, e delle bretelle che li sostenevano, e il comico aspetto dell’elmetto di cartone. Disse: «Non volevo mica offendervi, ma… mi sembra che correte rischio anche voi di trovarvi sul lastrico, un giorno o l’altro. E, non per colpa della trattrice, ma piuttosto dei grossi posti di rifornimento in città. Vero o no? Credo che anche a voi toccherà di traslocare, tra poco. Mi sbaglio?»
Mentre Tom parlava il grasso esercente aveva rallentato la manovra della pompa fino a fermarsi, e aveva preso a guardarlo con un’espressione man mano sempre più sgomenta.
«Com’è che lo sapete?» domandò debolmente. «Come fate a sapere che se n’è già parlato di far bagaglio e andare anche noi nel West?»
Gli rispose Casy: «Lo fanno tutti,» disse. «Prendete me, per esempio, che lottavo con tutte le mie forze contro il demonio perché credevo che il demonio fosse il nemico. Ma c’è qualcosa di peggio del demonio che ha messo le grinfie sul paese, e non mollerà finché non sarà distrutto.»
Tacque e sbirciò Tom. Il grassone guardò lontano, con occhi pieni d’afflizione, e la sua mano riprese ad azionare la leva della pompa.
«Chissà dove si va a finire,» disse ancora una volta, ma con un accento meno petulante.

Bruce Springsteen, The Ghost of Tom Joad

***

232 Celsius (circa), quarta puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Leonardo Tondelli.

***

Delle canzoni dei Beatles ormai sappiamo tutto, o no? Chi le ha scritte, chi le cantava, chi suonava il pianoforte, il colore dei calzini di Ringo. Ogni canzone ha il suo aneddoto che passa di libro in libro: ecco: in questo saggio troverete anche qualcos’altro. I Beatles come inventori di un nuovo modo di fare musica, ma anche come prima boy band a invertire i tradizionali di genere, e intonare gioiosamente ritornelli concepiti fino a quel momento soltanto per gruppi vocali di ragazzine. I Beatles grandi interpreti, ma anche esecutori maldestri, costretti a sperimentare continuamente per ovviare ai propri limiti. Nati sotto i bombardamenti, simbolo del boom, proiettati verso il futuro ma insidiati dagli spettri del passato; protagonisti di un mito della Caduta che si dipana canzone dopo canzone. Di libri sulle canzoni dei Beatles se ne sono scritti tanti, ma questo di sicuro non lo avete ancora letto.

Così recita la quarta di copertina di Getting Better (sottotitolo: Le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate), l’ultimo libro di Leonardo Tondelli uscito alla fine del 2020 per Arcana.
Sempre nella quarta di copertina, in fondo, si dice che:

Leonardo Tondelli da vent’anni è l’autore del più verboso blog italiano, leonardo.blogspot.com. Ha collaborato con «l’Unità», e per «il Post» ha scritto una storia (infinita) di Bob Dylan attraverso i suoi dischi. Tra le altre cose ha pubblicato La scossa, l’estate del terremoto in Emilia (Chiarelettere, 2012) e Futurista senza futuro. Marinetti ultimo mitografo (Le Lettere, 2009).

Marco Manicardi: Ciao Leonardo, perché hai scritto Getting Better?

Leonardo Tondelli: L’ho scritto perché coltivo questa perversione che mi piace scrivere (questo non è perverso) però vorrei anche essere pagato per quello che scrivo (e questo mi rendo conto che è abbastanza perverso). Quindi cerco sempre degli argomenti interessanti per tutti, perché alla fine fosse per me scriverei di… di fenomenologia, di sentimenti, ma sono cose che interessano a pochi oppure a volte interessano a tutti quindi sono inflazionate. Ad esempio, per il Post mi ero inventato la rubrica del Santo del giorno, che non è che mi abbia coperto d’oro, però almeno una volta all’anno ce l’hanno tutti sul calendario un Santo col proprio nome. Tranne Noemi (scusa Noemi). E quindi un minimo di riscontro l’ho avuto, ma volevo di più, non mi bastava più. Mi sono chiesto cosa poteva esserci di più popolare dei Santi e quindi, fatalmente, sono arrivato ai Beatles, che come è noto a un certo punto erano più popolari di Gesù, il che vuol dire oggi che, come minimo, se la giocano con Padre Pio, insomma, siamo lì. Io poi cerco di scrivere le cose che mi piacerebbe leggere e che magari qualcun altro ha già scritto ma non me ne sono accorto, perché cerco di evitare il più possibile di leggere, così mi rimane più tempo per scrivere. E, per esempio, una cosa che ho notato negli ultimi anni è che ogni tanto mi piace ascoltare le vecchie canzoni, che conosco già benissimo, cioè probabilmente mi sto rincoglionendo… Non solo, ma mentre le ascolto presto attenzione agli arrangiamenti e mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse meglio cosa sto ascoltando, la chitarra, la trombetta e… vorrei, non so, leggere gente che litiga su una canzone, e dopo un po’ mi rendo conto che sto leggendo per la quinta volta la stessa pagina di Wikipedia sul quarto disco di un gruppo di serie B degli anni 80, e secondo me non sono neanche il solo, c’è un sacco di gente che commenta sotto e… e così ho pensato che probabilmente c’era il margine per scrivere un libro così. Però, appunto, invece di scriverlo su un gruppo sconosciuto, ho scelto i Beatles, che sono ancora i più conosciuti. Uno non è che accorga su YouTube o su Spotify, dove qualunque trapper credo faccia più ascolti, ma se ne accorge in libreria, dove ci sono sempre i libri sui Beatles, non mancano mai, quindi forse la gente non li ascolta tantissimo, ma li legge, oppure forse neanche li legge, però li compra e li regala soprattutto a Natale. Quindi io mi ci sono buttato con tantissima genuina passione per la musica e… e per il guadagno.

MM: Dove, come e quando l’hai scritto?

LT: Questa domanda è un po’ una presa in giro, perché, insomma, dove posso avere scritto un libro nel 2020? Ovviamente l’ho scritto a casa mia. Anzi, colgo l’occasione per ringraziare gli abitanti di casa mia, che sono stati così pazienti con me. Non è molto facile convivere con una persona che sta scrivendo un libro, anche un libro di musica, quindi vuole silenzio, ma allo stesso tempo deve ascoltare della musica… è una cosa abbastanza faticosa, e mi hanno fatto anche da mangiare e quindi, davvero, grazie mille a tutti i coinquilini.
Ho cominciato, in realtà, un po’ prima, perché già nell’estate del ’19 stavo mettendo giù le cose e volevo appunto trovare un trucco per scrivere tantissimi pezzi sul Post, nella speranza appunto di una, così, strana idea di ricchezza che ho, e avevo scoperto con una certa eccitazione da nerd che le canzoni dei Beatles sono molto… hanno una quantità che è molto vicina a una potenza di 2, che è 256. E qui, ovviamente, qualcuno ha già capito dove voglio andare a parare quando dico “duecentocinquantasei”… essendo una potenza di 2 si può fare un torneo stile Wimbledon perfetto. Però, mentre accompagnavo così la mia prole al campo estivo, riflettevo tanto sul fatto che probabilmente sarei impazzito durante un torneo di canzoni dei Beatles da 256, perché è veramente qualcosa di lunghissimo e le persone dopo un po’ si annoiano. Allora ho optato per un progetto un po’ più semplice, le ho messe in fila, ho trovato un sistema per confrontare le varie classifiche che esistevano già, le più autorevoli, ho scritto al Post per spiegare un po’ il progetto, ho spiegato che, insomma, una lista con le migliori canzoni dei Beatles ce l’hanno tutte le più prestigiose testate del mondo e quindi io avrei scritto quella del Post. E poi però c’è stato il lockdown. Appena prima del lockdown ero riuscito a firmare il contratto con una casa editrice alla quale sono molto legato da un punto di vista affettivo, perché è la casa editrice che quando ero molto giovane pubblicava i testi tradotti delle canzoni dei gruppi rock e, insomma, in quel periodo non è che si potesse viaggiare come oggi, non c’erano i video, non c’erano… di inglese… se volevi imparare l’inglese un po’ lo imparavi a scuola, ma neanche tanto, per cui noi imparavamo l’inglese sui testi tradotti delle canzoni, ed erano traduzioni assurde, infatti io l’inglese l’ho imparato abbastanza male, però in un modo molto fantasioso, molto, così, assurdo e avventuroso. E quindi ero molto affezionato a questa casa editrice, e quando mi hanno proposto un contratto io sono stato molto felice di firmare con loro, e ho pensato che andava assolutamente finito entro il Natale, perché… primo perché il Natale, appunto, è una scadenza importante per tutta l’editoria che passa intorno ai Beatles, e poi perché quest’anno c’era una serie di anniversari che bisognava sfruttare con tutto il cinismo possibile per riuscire a vendere questo malloppo. E così è stato. Insomma, ci abbiam provato, ci sono riuscito e in realtà, ovviamente, appena firmato il contratto mi è venuto un blocco per cui per un po’ non sono più riuscito a scrivere niente, ma alla fine, in qualche modo, durante l’estate ho rimediato e, alla fine, ecco questo libro.

MM: E la domanda più importante: è bello?

LT: Mah… Beh, sì, dai. Secondo me è venuto carino. Ogni tanto, mi capita, lo riapro e mi metto anche a leggerlo, dico «ma toh, guarda, questa voglio proprio vedere dove va a parare stavolta questo qui.» Perché, alla fine, ci sono tante cose interessanti, e se stai ascoltando i Beatles ogni tanto magari ti viene la curiosità di dire «ma chissà cosa avrà detto ‘sto tizio di questa canzone». Ovviamente poteva venire meglio, eh, magari avendo più tempo, magari studiando di più l’argomento, anche se c’è un limite oltre il quale se studi troppo un argomento non riesci più a scrivere niente, perché ti rendi conto che è già stato scritto tutto e meglio, e io questa cosa coi Beatles, questo terrore coi Beatles di studiare troppo l’argomento, non ho voluto assolutamente correrlo, perché alla fine non sono mica fisica nucleare, cioè sono i Beatles, adesso, pazienza se s’è scritto qualcosa che è già stato scritto meglio in qualche altro libro non succede assolutamente niente. Chiedo scusa a tutti e il prossimo sarà ancora più bello. Grazie.

The Breeders, Happiness Is a Warm Gun

LT: Ho scelto di leggere la pagina su Getting Better, che è la canzone che dà anche il titolo al libro. Era un titolo, non lo so, forse pensavo che avrebbe potuto portare fortuna. Non è andata proprio così, però, eh, pazienza.
Ogni tanto ci sono citazioni dall’inglese, mi dispiace. C’è anche una parola che ho scoperto, sono andato a controllare sul Cambridge, si pronuncia “baias”, cioè i bias sono i baias, i pregiudizi, insomma.

— Leonardo Tondelli legge la pagina su Getting Better da Getting Better (sottotitolo: Le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate)

The Beatles, Getting Better

***


Montag: Cosa stai facendo, Linda?
Linda: Ho trovato queste cose in casa. Io non voglio di questa roba, Montag, mi fa paura.
Montag: Tu passi tutta la tua giornata davanti alla tua famiglia del televisore. Questi sono la mia famiglia.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

Bo Diddley, You Can’t Judge A Book By The Cover

E questa era la quarta puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha raccontato e letto la prima parte di Furore, un libro del 1939 di John Steinbeck, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Leonardo Tondelli su un libro del 2020 che si chiama Getting Better (sottotitolo: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate).

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

Books are burning, la sigla iniziale del programma, che è degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992Mother Of Earth, dei Gun Club da Miami del 1982Sweet Thursday di Matt Costa dall’album Songs We Sing del 2005The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen, dal disco omonimo del 1995 (non potevamo non metterla)Happiness is a Warm Gun, ovviamente dei Beatles, ma fatta dalle Breeders in un disco che si chiama Pod, del 1990e poi Getting Better, dei Beatles, fatta dai Beatles, da Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band del 1967la sigla finale, che state ascoltando in questo momento, è You Can’t Judge A Book By The Cover, un singolo del 1962 di Bo Diddley

Ad accompagnare le letture, invece, c’erano i primi tre movimenti della Sinfonia n.1, Oceans, di Ezio Bosso, eseguita nel 2012 dalla Filarmonica 900 del Teatro Regio Torino e diretta dallo stesso Bosso.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la professionalità.

E tornerà, molto probabilmente, con la seconda parte di Furore e altre cose interessantissime, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se tutto va bene.

A presto.
Ciao.

232 Celsius (circa):
– https://www.facebook.com/232cc
– http://www.losverso.it/programmi/232-celsius-circa
– Podcast (il giorno dopo la messa in onda) su spotify / google podcast / iTunes / mp3

Radiosverso www.radiosverso.it – Fabriano in via Balbo n. 59 dentro la birroteca Lo Sverso.
– https://www.instagram.com/radiosverso
– https://twitter.com/radiosverso
– https://www.facebook.com/radiosverso
– sms/whatsapp 340 426 4410
– Email: radiosverso@gmail.com
– l’app è disponibile gratuitamente per Adroid e iOS

L'articolo 232 Celsius (circa) s1e04 – il podcast (e la trascrizione) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 27, 2021 05:39

February 25, 2021

Cose che mi piacciono molto (9)

Tipo quando succede che in un libro trovo qualcosa che assomiglia a un capello, e il primo istinto è quello di soffiarlo via, pensando «ma veh, guarda, ho perso un capello», però anche soffiando non vola da nessuna parte; allora ci passo il dito e mi accorgo che è stampato sulla pagina e che forse è davvero un capello, e forse è un capello del tipografo, ma non so come funzionano le cose tipografiche (metto una foto qui sotto come esempio). Solo che, insomma, finché non ho finito di leggere e voltato la pagina, ogni due per tre son lì che provo ancora col dito, e delle volte, anche dopo aver girato pagina, torno indietro e ci riprovo e penso «ma guarda». È sempre uno stupore.

(questo era nel secondo paragrafo di un racconto intitolato Arcadia, dentro a un libro che si chiama Ciau Masino, del 1932, di Cesare Pavese, e raccolto in Racconti *, Einaudi 1968)

L'articolo Cose che mi piacciono molto (9) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 25, 2021 04:39

February 22, 2021

Ferri

E in un libro che si chiama Nata sulla linea gotica, del 2019, Giovanna Ferri dice che il 1978 fu l’ultimo anno di campeggio libero, a Santa Caterina Valfurva, m. 1838 slm, e che presero in affitto un pezzo di prato, col permesso del Comune, e acquistarono un tubo di gomma e un rubinetto; gli uomini fecero l’allacciamento all’acqua potabile che lassù non mancava di certo, e un traliccio di legno in mezzo all’accampamento dove misero il rubinetto per l’acqua corrente, e che c’era un solo problema, però, cioè che la notte spesso il termometro andava sotto zero e bisognava aspettare il sole che scaldasse il tubo per sgelare l’acqua. Poi dice che, per non bruciare l’erba, cercarono una grande lamiera dove tutte le sere si faceva fuoco, e che, oltre ad essere il loro ritrovo, si cuoceva anche della buona carne. E che per i servizi igienici si scavò una grande buca nella pineta, e con pali, plastica e cartoni si fece la cabina con la porta, e la cenere del fuoco si teneva da mettere sopra al tutto, così era sempre pulito e non c’era né cattivo odore né mosche, lo chiamarono “Montecitorio”.

L'articolo Ferri proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 22, 2021 09:13

February 20, 2021

232 Celsius (circa) s1e03 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della terza puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 19 febbraio su Radio Sverso. Dura un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di un libro che si chiama La guerra del Peloponneso, del 400 e qualcosa avanti Cristo, di Tucidide; e nella seconda parte ci sono io che intervisto Mariangela Galatea Vaglio su un libro che si chiama Cesare. L’uomo che ha reso grande Roma, del 2020.

(su Spotify, su Google Podcast, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):


Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:


La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).


232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.


***

232 Celsius (circa), terza puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge La guerra del Peloponneso di Tucidide.

***

La più famosa guerra dell’antichità venne combattuta nel quinto secolo avanti Cristo dagli Ateniesi da una parte e dagli Spartani dall’altra. Venne raccontata, in quello che probabilmente è il primo libro di Storia della civiltà occidentale, almeno per come noi oggi intendiamo un libro di Storia, da uno che quella guerra la combatté davvero, almeno in buona parte. Era un ateniese, si chiamava Tucidide, e scrisse il libro non per celebrare gli eroi ma per ricordare quando, come e perché erano state prese delle decisioni che un giorno sarebbero servite ancora. Dentro questo libro, che si intitola La guerra del Peloponneso, Tucidide mise un brano che è passato alla storia come Dialogo tra Ateniesi e Melii. Chi erano, i Melii? Erano gli abitanti dell’isola di Melo, eredi di coloni spartani finiti poi, un po’ contro la loro volontà, a far parte dell’alleanza ateniese, una delle due che erano state costituite decenni prima per combattere i Persiani. I Melii a un certo punto decisero di uscire da questa alleanza provando al tempo stesso a restare neutrali, ma questa cosa non piacque per nulla agli Ateniesi, i quali per punirli armarono una flotta di decine di navi e migliaia di soldati che mandarono ad assediare l’isola ribelle. Ma siccome gli Ateniesi alle buone maniere ci tenevano, prima di iniziare l’assedio vero e proprio mandarono i loro ambasciatori, i quali vennero ricevuti dagli oligarchi di Melo, che li fecero accomodare in una sala e si sedettero di fronte a loro per poter discutere della faccenda. Questo sorprese un po’ gli Ateniesi, i quali pensavano invece di fare come a casa loro, e quindi di trovarsi di fronte all’intera popolazione dell’isola riunita per ascoltare quello che c’era da dire, e infatti se ne lamentarono abbastanza.
E quello che vi leggo adesso è proprio il dialogo tra Ateniesi e Melii, cioè il dialogo tra gli ambasciatori da una parte e gli ambasciatori dall’altra, con lo scopo di cercare di evitare una guerra.


ATENIESI – No; se siete qui per almanaccare con le ipotesi sui possibili scenari, o comunque per fare tutto tranne che prendere decisioni riguardanti la salvezza della città alla luce della situazione concreta, allora smettiamo subito. Se invece volete parlare in termini costruttivi, siamo pronti.


MELII – È comprensibile, e perdonabile, che chi si trova nella situazione nostra, si rivolga — nel parlare e far proposte — in molte direzioni. Ma, certo, questo incontro ha come oggetto la salvezza della città, e il discorso si svolga dunque come suggerite voi, se così vi pare.


ATENIESI – La nostra proposta è che si faccia quanto è realmente possibile sulla base dei veri intendimenti di entrambi: consapevoli gli uni e gli altri del fatto che la valutazione fondata sul diritto si pratica, nel ragionare umano, solo quando si è su di una base di parità, mentre, se vi è disparità di forze, i più forti esigono quanto è possibile; ed i più deboli approvano.


Fantastici, no? Gli Ateniesi dicono qui una cosa molto semplicissima. Dicono: guardate, nessuno discute il fatto che ci sono dei diritti, è che questi li applichiamo solo se le due parti hanno la stessa forza. Ma se c’è uno dei due molto forte e l’altro molto debole, quello forte prende tutto quello che riesce, e quello debole sta a guardare. Che, se ci pensate, è un concetto abbastanza interessante se pensiamo che viene da quelli che hanno inventato la democrazia.


MELII – Secondo noi è utile — e necessariamente ci esprimiamo cosi, dal momento che voi, con questo intervento, avete scelto di ignorare la giustizia e di parlare di utilità —, è utile dunque che voi non distruggiate un principio che è un bene comune per tutti: è utile che, a chi, volta a volta, si trova in pericolo, vengano garantiti i normali diritti, e che si venga incontro a chi, coi suoi argomenti, non ha attinto il necessario rigore. E questo si adatta, non meno, al caso vostro; giacché, ove sconfitti, diverreste un esempio per gli altri, se ora esercitaste una vendetta durissima.


ATENIESI – Anche se il nostro impero sarà spento noi non ne paventiamo la fine. Temibili non sono infatti, per i vinti, le potenze che hanno a loro volta un impero, come ad esempio gli Spartani (e comunque non è con Sparta che ora siamo in conflitto): temibili sono invece i sudditi che, muovendo all’attacco della potenza che li aveva dominati, eventualmente la sconfiggano. Ma su questo ci sia consentito di rischiare. Quello che ci proponiamo di dimostrarvi è che siamo qui per rafforzare il nostro impero e che, al tempo stesso, le proposte che stiamo per fare mirano alla salvezza della vostra città: giacché il nostro intendimento è di esercitare l’impero su di voi senza traumi, e garantire la vostra salvezza in modo conveniente per entrambi: per voi e per noi.


MELII – E come potrebbe essere conveniente allo stesso modo per noi essere schiavi e per voi dominare?


ATENIESI – È presto detto. A voi, invece della più dura delle repressioni, toccherebbe di obbedire, e noi trarremmo un guadagno dall’aver evitato di distruggervi.


MELII – E non accettereste che noi, anziché nemici, siamo vostri amici, senza però combattere a fianco di nessuno dei due schieramenti?


ATENIESI – No. Perché la vostra ostilità non ci danneggia quanto la vostra «amicizia»: la quale apparirebbe come un segno della nostra debolezza, mentre il vostro odio sarebbe per i sudditi la prova della nostra forza.


MELII – Ma noi sappiamo che le vicende della guerra talvolta hanno sorti che non rispettano la sproporzione delle forze in campo. Quanto a noi, cedere senza combattere significherebbe rinunciare subito ad ogni speranza; invece con l’azione c’è ancora la speranza di salvarci.


ATENIESI – Speranza! La speranza, abituale lenimento del pericolo, danneggia, ma non travolge, chi le si affida come ad un di più. Ma è per sua natura dissipatrice; e chi le si appoggia tutto, nel momento stesso in cui, ormai travolto, ne conosce la natura, comprende anche che contro di lei, ormai svelata, non ha risorse. E allora voi, cercate di non fare questa fine, deboli come siete e appesi a un filo. Cercate di non rassomigliare ai più, i quali, pur avendo avuto l’opportunità di salvarsi con mezzi umani, quando, ormai fiaccati, li abbandonano le speranze in ciò che è visibile, si rivolgono a sperare nell’occulto: gli indovini, gli oracoli e tutto quanto, insieme con le speranze, porta la gente alla rovina.


Cos’è una vita senza speranza? È una vita vera? Degna di essere vissuta? Fa un po’ specie, forse, pensare che questi, gli Ateniesi, sono quelli che hanno definito la nostra civiltà. Perché dopo di loro sono venuti in tanti e sono successe mille cose, ma alla fine noi, anche senza esserne del tutto consapevoli, continuiamo a ispirarci a loro: la cultura, la democrazia, una certa idea elevata di umanità; e poi li senti dire “speranza? Ma siete scemi? Ma davvero volete affidarvi alla speranza quando siamo qui con una flotta che nemmeno si riesce a contare da quante navi è fatta?”

The Clash, Know Your Rights

MELII – Anche noi, sappiatelo, pensiamo che sia duro combattere contro la vostra potenza e contro la fortuna, se non vorrà essere equanime. Nondimeno confidiamo nella buona sorte che promana dalla divinità: che non ci verrà meno, perché noi, senza colpa, ci troviamo ad affrontare degli ingiusti; e quanto all’inferiorità delle forze, confidiamo nell’alleanza con Sparta: alleanza che non può non manifestarsi, a tacer d’altro, almeno per il rapporto di stirpe che ci lega e per la vergogna che ricadrebbe, altrimenti, su di loro. E dunque non è poi così irrazionale la nostra fermezza.


ATENIESI – Quanto al favore degli dei, neanche noi saremo da meno: ne siamo persuasi. Giacché, quello che facciamo, quello che pretendiamo, non si pone affatto fuori della concezione che gli uomini hanno del mondo divino né dei loro rapporti reciproci. Non solo tra gli uomini, come è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un impulso necessario e naturale spinge a dominare su colui che puoi sopraffare. Questa legge non l’abbiamo stabilita noi, né siamo stati noi i primi a valercene; l’abbiamo ricevuta che già c’era, e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, ed avrà valore eterno. E sappiamo bene che chiunque altro, ed anche voi, se vi trovaste a disporre di una forza pari alla nostra, vi comportereste così. Ecco perché, per quel che riguarda il divino, abbiamo motivo di ritenere che il suo favore non verrà meno neanche a noi. Quanto alla vostra opinione sugli Spartani — che cioè essi, paventando la vergogna, correrebbero ad aiutarvi — mentre ci rallegriamo per la vostra ingenuità, non vi invidiamo la follia. In genere gli Spartani praticano la virtù soltanto nei loro rapporti interni: ma sul loro modo di agire verso gli altri, ci sarebbe davvero molto da dire. In due parole: gli Spartani sono coloro che, a nostra conoscenza, più sfacciatamente di chiunque altro, stimano bello quel che piace e giusto ciò che gli giova. Difficilmente una tale maniera di pensare può giovare a quella vostra salvezza di cui, in questa situazione, andate farneticando.


MELII – Ma è proprio qui la ragione della nostra fiducia! Noi confidiamo nel loro senso dell’utile: essi non vorranno tradire i Melii, loro coloni, e perdere, così, la fiducia dei Greci e fare un regalo ai nemici.


ATENIESI – E non pensate che l’utile si persegue evitando i pericoli, mentre il giusto e il nobile correndo dei rischi? Una strada, questa, nella quale gli Spartani per lo più non si avventurano.


Anche qui, non so, magari a tanti cascano le braccia. Ma come, gli Ateniesi, quelli degli alti ideali, in realtà pensano che la cosa più sensata da fare è stare alla larga dai guai lasciando perdere scemenze romantiche come la giustizia e la nobiltà delle azioni? E però magari altri trovano in queste parole una precisione, una lucidità, magari anche spietata, però affascinante. Chissà.


MELII – Ma potrebbero affidare ad altri l’impresa: il mare di Creta è grande, ed è più difficile per i dominatori catturare che non, per chi voglia sottrarsi alla cattura, fuggire. E poi se fallissero in questo tentativo potrebbero rivolgere l’attacco contro il vostro territorio e contro i residui vostri alleati, quelli non raggiunti da Brasida. E a quel punto sareste costretti a lottare non già per mantenere il controllo degli alleati che non vi spettano, ma di quelli più vicini a voi e dello stesso vostro territorio.


ATENIESI – Abbiamo già fatto esperienza di ciò, siamo preparati a questa eventualità. Ma proprio voi dovreste sapere che mai, da nessun assedio, gli Ateniesi decamparono per il profilarsi di altre minacce. Comunque, prendiamo atto del fatto che voi, pur avendo accettato di cercare, discutendone, una via di salvezza, non avete detto nulla, in tutta questa discussione, che potesse portare qualunque persona a sperare di salvarsi. I vostri punti di forza sono speranze di cose future, mentre invece ciò di cui effettivamente disponete è poca cosa, non tale da garantire la vostra sopravvivenza rispetto alle forze che vi stanno di fronte. E’ follia se ora, dopo che ci avrete congedati, non prenderete un’altra decisione, più saggia delle cose dette qui. Voi non vorrete ripiegarvi in quel sentimento di orgoglio e vergogna che tanto male ha fatto alla gente in situazioni di pericolo evidente e rovinoso. Molti, che pure già vedevano il baratro in cui erano condotti, li ha trascinati il cosiddetto sentimento dell’onore con la forza di una parola seducente, vinti dal suono di quelle sillabe, a precipitare a capofitto in sventure irreparabili, ed a macchiarsi, per la loro follia e non per colpa della sorte, di una vergogna ancora più turpe. Ma se prendete una buona decisione, voi eviterete questa fine; voi non riterrete sconveniente lasciar prevalere la più grande potenza che vi offre condizioni equilibrate: e cioè la condizione di alleati tributari con la garanzia di serbare il vostro territorio. Dinanzi alla alternativa tra guerra e sicurezza voi non vi ostinerete a scegliere il peggio. Giacché, coloro i quali non cedono ai loro pari, compiacciono i più forti, e mostrano equilibrio con i più deboli, quelli hanno il miglior successo. Non perdete di vista questo punto anche quando noi ci saremo allontanati: mettetevi bene in testa che è della vostra patria che state decidendo: dell’unica patria che avete; e che tutto dipenderà da un’unica deliberazione, fortunata o rovinosa che sia.


Wilco, War on War

Sono arrivati alla fine, non hanno più molto da dirsi. Così si ritirano nei loro angoli, sembrano dei pugili prima dell’ultimo round. Poi si rialzano, tornano in mezzo al ring, e si mettono gli uni di fronte agli altri per un’ultima volta.
Riprende Tucidide per descriverci quest’ultima scena:


Così gli Ateniesi si ritirarono dalla sede dei colloqui. I Melii si riunirono per loro conto: ma decisero negli stessi termini in cui si erano espressi durante i colloqui, e risposero così:


MELII – Siamo rimasti dello stesso parere, Ateniesi. Non ce la sentiamo di liquidare in pochi istanti la libertà di una città che esiste ormai da settecento anni. Confidando nella buona sorte che promana dalla divinità, che finora ci ha salvati, e nell’aiuto degli uomini, e in particolare degli Spartani, tenteremo di farcela. La nostra controproposta è di essere vostri amici, ma nemici di nessuno dei due schieramenti. E vi chiediamo di ritirarvi dal nostro territorio stipulando un trattato di pace che appaia conveniente sia a voi che a noi.


ATENIESI – A giudicare dalle vostre deliberazioni, voi siete gli unici che stimate le cose eventuali più sicure di quelle visibili, ed anzi considerate già esistenti, per il solo fatto di desiderarle, anche le cose che neanche si vedono. E poiché, fiduciosi negli Spartani, nella fortuna, nelle vostre speranze, avete messo in gioco tutto, tutto perderete.


Il Dialogo fra Ateniesi e Melii finisce così.
Tucidide poi prosegue dicendo:

Gli ambasciatori ateniesi se ne tornarono all’accampamento. E gli strateghi, poiché i Melii si rifiutavano di accettare le proposte dei legati, decisero l’attacco immediato. Divisero per città le truppe e costruirono un muro per stringere d’assedio i Melii. In un secondo momento gli Ateniesi lasciarono nell’isola un corpo di guardia misto, di uomini loro e di alleati, col compito di tenere l’isola sotto controllo da terra e da mare; quindi rientrarono con la gran parte dell’esercito. Le truppe rimaste continuarono l’assedio.

Qui la storia va avanti per diverso tempo: sostanzialmente succede che gli Ateniesi continuano l’assedio. Questo assedio dura molto più di quanto pensassero, poi ci sono altri casini da mettere a posto e quindi gli Ateniesi sono costretti a spostare po’ di truppe in altre zone dell’Egeo, mantenendo nell’isola di Melo un contingente. Passa quasi un anno e poi, finalmente, si arriva all’epilogo, che Tucidide racconta così:

Ma quando giunse poi da Atene un altro corpo di spedizione al comando di Filocrate […], assediati ormai con tutte le forze e fino allo stremo, prodottosi anche dal loro interno un tradimento, si arresero agli Ateniesi a discrezione. Quelli uccisero quanti Melii in età militare poterono catturare, e fecero schiavi le donne e i bambini. Il territorio lo abitarono loro, inviando cinquecento coloni.

La storia di Melo, di questa piccola isola dell’Egeo, finisce qui. Finisce con una riga, nella quale Tucidide ci dice che gli Ateniesi, una volta entrati a Melo, hanno preso tutti i maschi in età da combattimento e li hanno uccisi; hanno preso tutte le donne e tutti i bambini e li hanno portati via come schiavi. A quel punto è rimasta un’isola disabitata, dove da quell’Atene dove hanno deportato le donne e i bambini di Melo hanno fatto venire cinquecento coloni per occuparla e renderla ateniese.
Chissà, forse quando Churchill diceva che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate fino ad ora”, beh, forse aveva presente che i padri della democrazia sapevano essere dei figli di buona donna, quando volevano.

Leonard Cohen, Democracy

***

232 Celsius (circa), terza puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Mariangela Galatea Vaglio.

***

«C’è questo anelito in lui di voler essere il primo in tutti i sensi. Non tanto per dimostrarsi superiore, quanto per provare quello che nessuno ha ancora mai provato. Il quotidiano lo annoia, non ci sa fare pace, l’imprevisto e l’imprevedibile lo fanno sentire vivo. Mettono alla prova il suo coraggio, il suo intuito, la sua intelligenza. Lo costringono a una continua gara con se stesso, che è ciò che più lo intriga. Superare i propri limiti, smentire i pregiudizi, ribaltare le aspettative. La Gallia per lui non è solo una terra, è una sfida.»
Ecco Cesare come non è mai stato raccontato. In tutto il suo carisma e la sua eterna grandezza.

Così recita la quarta di copertina di Cesare. L’uomo che ha reso grande Roma, l’ultimo libro di Mariangela Galatea Vaglio, pubblicato da Giunti nel 2020.
E il risvolto di copertina di Cesare. L’uomo che ha reso grande Roma dice che:

Mariangela Galatea Vaglio (Trieste, 1972) è insegnante e scrittrice di saggi e racconti storici, tra cui Didone, per esempio (Ultra, 2014) e Socrate, per esempio (Ultra, 2018), oltre a una guida divulgativa della lingua italiana, L’italiano è bello (Sonzogno, 2017), e al romanzo Teodora. La figlia del circo (Sonzogno, 2018). Ormai ventimila persone seguono le sue Pillole di Storia su Facebook. Vive e lavora a Venezia.

Marco Manicardi: Ciao Galatea, perché hai scritto Cesare

Mariangela Galatea Vaglio: Allora, perché ho scritto Cesare… Beh, dunque, innanzitutto perché è un personaggio che adoro e quindi, niente, lo volevo scrivere praticamente da una vita e quando Giunti mi ha chiesto quale sarebbe stato il personaggio di cui mi sarebbe piaciuto scrivere una biografia, io senza nemmeno pensarci ho buttato subito lì Giulio Cesare, forse anche con una certa incoscienza perché poi la bibliografia su Cesare. Però, in qualche modo, non lo so, mi ha chiamato e poi, insomma, alla fine scrivere il libro è stato più semplice di quello che pensavo.

MM: Come, dove e quando l’hai scritto?

MGV: Dunque, dove, come e quando l’ho scritto… Beh, l’ho scritto esattamente dove scrivo tutti gli altri miei libri, cioè sul divano. Perché io sono una pigra storica, quindi mi metto il mio computerino sulle gambe e comincio a scrivere. Quindi, tendenzialmente, l’ho scritto da sdraiata, ecco.
Poi l’ho scritto durante, in sostanza, il periodo di lockdown, perché eravamo tutti chiusi in casa, io non so fare l’uncinetto e quindi ho deciso di approfittare di questo tempo in più per, appunto, dedicarmi alla stesura definitiva del libro. Poi è venuto molto più lungo, appunto, di quello che mi aspettassi proprio perché probabilmente avevo anche un pochino più di tempo.

MM: E per ultima, la domanda più importante: è bello?

MGV: È bello… oddio… è un po’ come si dice in veneto «domandighe a l’oste se’l gà bon vin», cioè domanda all’oste se ha vino buono. Secondo me, ovviamente, sì, altrimenti non l’avrei nemmeno presentato all’editore. Diciamo che è un libro un po’ particolare, perché è un saggio… tecnicamente è un saggio, però è stato scritto in maniera molto narrativa. Per cui ho cercato di scriverlo come se fosse un romanzo, senza però, ovviamente, metterci dentro nessun dato che non sia assolutamente storico. Però l’idea è quella di scrivere un saggio che sia abbordabile anche per chi, magari, non ha una preparazione specifica, perché ci sono un sacco di saggi e di biografie veramente molto belle di Giulio Cesare, però, ovviamente, richiedono una conoscenza del periodo e del personaggio abbastanza approfondita. Mentre la mia vuol essere proprio una introduzione, cioè, molto semplicemente, ho cercato di scrivere una storia di cui Cesare è il protagonista, però, che mi ha permesso di raccontare anche la Roma del tempo. Perché, molto spesso, quando si scrive la biografia di un personaggio, come dire, si tende a presentarlo un po’ come una specie di cattedrale nel deserto. Cioè, c’è lui e c’è solo lui, e tutto attorno c’è il vuoto. E invece molte delle scelte che Cesare fa, come qualsiasi altro personaggio storico, sono fortemente influenzate da quello che gli sta attorno. E la Roma del tempo era piena di personaggi incredibili, era un periodo in cui c’era una grandissima concentrazione di grandi personalità, dallo stesso Giulio Cesare, poco prima c’erano stati Silla e Mario, poi ci sono Cicerone, Crasso, Pompeo, Catilina, Publio Clodio, e anche minori, Catone, Bruto, eccetera. E anche le donne, poi, sono interessanti in questo periodo, come Servilia, come Cleopatra, come tante altre matrone, la stessa Aurelia mamma di Cesare. Per cui mi piaceva anche fare, in qualche modo, un romanzo, o meglio un saggio corale, cioè raccontare tutti questi personaggi che sono stati fondamentali per capire perché poi Cesare fa certe scelte, e poi mi piaceva anche molto raccontare la città di Roma, che era una città molto particolare e forse abbastanza diversa da come chi non è un esperto di Storia antica se la può immaginare, era molto più simile a una New York dei nostri giorni, una città piena di gente che proveniva da ogni parte del mondo, che arrivava lì con la voglia di fare fortuna, e quindi che era piena di persone con mentalità diverse, con delle grandi ambizioni, e tutto questo era un frullato estremamente instabile e anche però estremamente affascinante, perché era veramente una città in cui poteva succedere di tutto. Ecco, a me… mi sono divertita molto a raccontare tutte queste cose, e quindi secondo me è anche ben riuscito. Poi, ovviamente, spero che i lettori saranno d’accordo con me.

Ty Segall, Caesar

Cesare. L’uomo che ha reso grande Roma, di Mariangela Galatea Vaglio comincia così:

— Mariangela Galatea Vaglio legge il prologo di Cesare. L’uomo che ha reso grande Roma —

R.E.M., World Leader Pretend

***


Tutte storie di morti: biografie, si chiamano. Oh, autobiografie: “La mia vita”, “Il mio diario”, “Le mie memorie”, “Le mie… memorie intime”. Ma loro hanno cominciato solo, beh, per l’impulso di scrivere. Poi hanno continuato solo per soddisfare la loro vanità, distinguersi dalla massa, essere diversi, poter guardare gli altri dall’alto in basso.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

The Fall, The Book of Lies

E questa era la terza puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha letto e raccontato La guerra del Peloponneso di Tucidide, del 400 e qualcosa avanti Cristo; e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Mariangela Galatea Vaglio su un libro che si chiama Cesare. L’uomo che ha reso grande Roma, del 2020.

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

Books are burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992, e che ormai è la nostra siglaKnow Your Rights dei Clash, da Combat Rock del 1982War on War dei (o degli) Wilco, dall’album Yankee Hotel Foxtrot del 2002Democracy, di Leonard Cohen, da The Future del 1992Caesar di Ty Segall, da un disco che si chiama Melted del 2010World Leader Pretend dei REM (o degli AR I EM, se volete) da Green del 1988la sigla finale, che state ascoltando ora, è The Book of Lies, da Shift-Work dei Fall del 1991

L’accopagnamento alle letture è la Grosse Fuge, Op. 133, di Ludwig van Beethoven, eseguita dal Talich Quartet nel 1977, e noi l’abbiamo un po’ stagliuzzata e riassemblata e, insomma, speriamo che il buon Ludovico-van non se la prenda. Crediamo di no.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni e Simone Marchetti per la consulenza musicale, e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per l’entusiasmo.

E tornerà, molto probabilmente, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.

A presto.
Ciao.

232 Celsius (circa):
– https://www.facebook.com/232cc
– http://www.losverso.it/programmi/232-celsius-circa
– Podcast (il giorno dopo la messa in onda) su spotify / google podcast / iTunes / mp3

Radiosverso www.radiosverso.it – Fabriano in via Balbo n. 59 dentro la birroteca Lo Sverso.
– https://www.instagram.com/radiosverso
– https://twitter.com/radiosverso
– https://www.facebook.com/radiosverso
– sms/whatsapp 340 426 4410
– Email: radiosverso@gmail.com
– l’app è disponibile gratuitamente per Adroid e iOS

L'articolo 232 Celsius (circa) s1e03 – il podcast (e la trascrizione) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 20, 2021 04:18

February 19, 2021

Lessico famigliare (5)

Ci sono delle sere, tipo stasera, che magari stiamo ancora cenando, abbiamo aperto e stiamo finendo una bottiglia di Lambrusco, e tra un discorso e l’altro ci troviamo a parlare di cose astratte, per esempio della lingua italiana confrontandola con le altre, il russo, l’americano, e ci infervoriamo e andiamo avanti col discorso fino a discutere sulla nascita dell’italiano, prima scritto e poi parlato, e su come evolve, e bisticciamo su cose come se il fatto di parlare in un certo modo sia meglio di un altro e così via; e dopo arriviamo addirittura a tirare fuori Dante, Boccaccio, Manzoni, fino a che uno va ad accendere la luce sul corridoio dove c’è la libreria più capiente e prende in mano un volume a caso del Tommaseo, e sfogliandolo discutiamo ancora e non siamo d’accordo su niente: uno che dice che dovremmo seguire certe regole per parlare meglio, l’altro che dice di voler difendere l’evoluzione parlata dalla gente contro quella scritta, e discutiamo e discutiamo così per un’ora buona.
A un certo punto, di solito, tipo stasera, il Miny senza dire niente spegne il cartone che sta guardando, gira le spalle e va a giocare coi Lego nell’altra stanza.
E questa è un po’ la mia famiglia. Poteva anche andare peggio.

L'articolo Lessico famigliare (5) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 19, 2021 12:26

February 15, 2021

Dei ricordi (26)

Il 15 febbraio del 2014 era un sabato, il giorno prima ero andato a vedere L’invenzione della solitudine, uno spettacolo di Giorgio Gallione con Giuseppe Battiston, preso da un libro che si chiama L’invenzione della solitudine, del 1982, di di Paul Benjamin Auster; e quindi il 15 febbraio del 2014 avevo scritto una cosa intitolata “esperimento scientifico” che diceva così:

Vorrei prendere una serie di gruppi di persone, diciamo gruppi da cento o da duecento, e metterli ognuno in una situazione diversa. Poi bisognerebbe prendere un volontario per ogni gruppo, dargli una matita e un foglietto e dirgli di contare i colpi di tosse. Vorrei così dimostrare empiricamente che esiste un legame tra il teatro e la raucedine.

Era proprio un altro mondo.

L'articolo Dei ricordi (26) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 15, 2021 08:55

February 14, 2021

Una rosa è una rosa è una rosa?

Avrò avuto quattro o cinque anni, ero al secondo o al terzo anno di scuola materna, dalle suore di Novi di Modena, e quando la mamma mi aveva chiesto una di quelle cose che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, e cioè «Ce l’hai una morosina?», io avevo risposto deciso: «Sì che ce l’ho!»
«Chi è? Una tua compagna di classe?»
«Sì,» avevo risposto fiero, «si chiama Marcella.»

Non che fossimo davvero morosi, a quattro o cinque anni, io e la Marcella, figuratevi, ma c’era la prassi di dire che una bambina era la tua morosa solo perché ti piaceva, e perché dovevi per forza incasellarti in uno stile di vita che ti imponevano gli adulti: sei un maschio di quattro o cinque anni, sei in salute, ti dovranno per forza piacere le femmine.
Il caso aveva voluto che mi piacessero le femmine, e c’era una bambina in classe con me che si chiamava Marcella, io dicevo che era la mia morosa e anche Michele diceva che la Marcella era la sua morosa. Entrambi lo sapevamo e ci andava benissimo così, perché il mondo che vivevamo al secondo o al terzo anno della scuola materna, dalle suore di Novi di Modena, era un mondo libero. Anche le suore, incredibilmente, accettavano senza battere ciglio quell’abbozzo di intenzione alla poligamia infantile.
Ma comunque, inevitabilmente, anche al secondo o al terzo anno della scuola materna, delle suore di Novi di Modena, era arrivato il giorno di San Valentino.

Cosa volete che gliene freghi a un bimbo di quattro o cinque anni di San Valentino? Niente?
Invece qualcosa gliene frega. Gliene frega perché gli adulti, a cominciare dai genitori, cominciano a dire delle cose, di quelle che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, tipo: «Allora glielo fai un regalo alla tua morosina, domani, che è San Valentino?»
Sarà seguita, immagino, qualche spiegazione sul significato popolare della ricorrenza, o magari me l’avevano già spiegato prima, non lo so, ma alla fine, va bene, facciamo il regalo alla Marcella, devo aver pensato tra me e me, e avevo portato la mamma in un negozio di giocattoli, uno dei due che c’erano a Novi di Modena all’inizio degli anni 80. Eravamo entrati, avevo scelto un regalo, l’avevo fatto impacchettare dal negoziante e, devo dire, se adesso chiudo gli occhi e ripenso a quel momento preciso della mia vita e faccio uno sforzo per tornare alle sensazioni del me stesso bambino che comprava un regalo di San Valentino per la Marcella, la mia morosina, mia e di Michele, beh, mi sento abbastanza soddisfatto.

E lo ero ancora il giorno dopo, quando ero arrivato con la mamma davanti alla scuola. Mia mamma era una che si svegliava anche presto, la mattina, ma poi andava a finire che si perdeva a fare dei lavori in giro per casa e mi portava sempre a scuola per ultimo; e quel giorno lì, il giorno di San Valentino, di quando avevo quattro o cinque anni, quando ero entrato a scuola c’erano già dentro tutti i miei compagni di classe ammassati in cerchio nel salone centrale tra le sezioni.
Dentro al cerchio c’era la Marcella.
E davanti alla Marcella, me lo ricordo bene come se fosse adesso, ho proprio la fotografia davanti agli occhi, c’era Michele col braccio teso verso di lei e una rosa rossa in mano.

Ora, a me viene naturale, in questo momento, chiedermi delle cose. Delle cose da adulto, intendiamoci. Delle cose tipo: ma come può darsi che a un bambino di quattro o cinque anni gli venga in mente di regalare una rosa a una bambina per San Valentino?
Qual è il processo mentale precocissimo che porta il romanticismo a vette così adulte che fa dire a un bambino di quattro o cinque anni «Mamma devo comprare una rosa rossa per la Marcella che domani è San Valentino»?
Com’è possibile una cosa del genere?
Una rosa? A quattro o cinque anni?
Non saranno mica stati i genitori, invece, a inculcargli una di quelle cose che dicono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, tipo «Michele, gliela compriamo una rosa rossa alla tua morosina per San Valentino?»
Una rosa?
Dai, su.
UNA ROSA!?

Allora io, ecco, mi ricordo che avevo preso il pacchettino che avevo in mano, che era dentro a una sportina colorata, mi ero girato verso mia mamma, che era lì che guardava Michele dare la sua rosa rossa alla Marcella e sorrideva compiaciuta della scena, e magari nella sua testa avrà pensato che cosa divertente e buffa questi due bambini che fingono di fare gli adulti. Intanto io la tiravo per la giacca e per ridarle il mio pacchetto.
Deve forse avermi detto: «Non glielo dai il tuo regalo alla Marcella?»
«No, fa lo stesso,» devo aver risposto.
E le avevo ridato la sportina con dentro il mio regalo ancora impacchettato.
Una rosa, pensavo.
Una rosa.

Una fottutissima rosa rossa, penso ancora adesso.
Come potevo anche solo immaginare di competere, io, piccolo stoltarello di quattro o cinque anni al secondo o al terzo anno della scuola materna dalle suore di Novi di Modena, come potevo pensare di affrontare Michele e la sua rosa rossa davanti alla Marcella, io, ingenuo, piccolo e stupido, col mio sciocco, anche se non banalissimo, ma comunque sciocco, sciocchissimo cubo di Rubik?

***

Musica:

____________________
(È una cosa che posto, linko o rebloggo da qualche parte tutti gli anni; e ogni anno cambio qualcosa, anche solo virgola. Non che sia importante.) (Buon San Valentino anche a voi.)

L'articolo Una rosa è una rosa è una rosa? proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 14, 2021 01:44

February 13, 2021

232 Celsius (circa) s1e02 – il podcast (e la trascrizione)

E questo è il podcast della seconda puntata di 232 Celsius (circa), una trasmissione sui libri, andata in onda alle 18 di venerdì 12 febbraio su Radio Sverso. Dura poco più di un’ora (circa) ed è diviso in due parti: nella prima Sergio Pilu parla di David Foster Wallace; nella seconda parte ci sono io che intervisto Elena Marinelli su un libro che si chiama Steffi Graf. Passione e perfezione, del 2020.

(su Spotify, in mp3)

E quella che segue è una specie di trascrizione della puntata, fedele al 98%, diciamo (e in mezzo ci sono anche tutte le canzoni che abbiamo trasmesso):


Stammi a sentire, Montag: a tutti noi una volta nella carriera viene la curiosità di sapere che cosa c’è in questi libri, ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag: non c’è niente lì. I libri non hanno niente da dire! Guarda, queste sono opere di fantasia e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile.

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

XTC, Books Are Burning (sigla)

Introduzione di Andrea Bentivoglio:


La città fantasma è viva. È viva nel tappeto di libri che copre l’intero pavimento di un’aula scolastica (è così viva che sembra di sentirne il dolore: avete mai camminato sopra centinaia di libri? Provate a farlo. Provate a prendere tutti i libri che avete in casa e gettarli per terra alla rinfusa coprendo le piastrelle che pulite una volta alla settimana, e poi camminateci sopra, e sentite come la carta risponde al vostro peso, come se vi stesse dicendo mi fai male; provate a farlo, e avvertite quella sensazione di colpa e ingiustizia per come state trattando quegli oggetti nei quali la nostra civiltà ha investito tutta se stessa per aiutarsi a vicenda e restare a galla).


232 Celsius (circa) è la trasmissione che Radio Sverso dedica ai libri. Quelli famosi e quelli meno, quelli scritti da gente morta e sepolta e quelli pubblicati da gente viva e vegeta. Perché a noi i libri piacciono, ci hanno spesso cambiato la vita, certamente ce l’hanno resa migliore. Quindi, visto che vi vogliamo bene, cerchiamo di rendere migliore anche la vostra.


***

232 Celsius (circa), seconda puntata; prima parte, dove Sergio Pilu racconta e legge David Foster Wallace

***

Il papà era sul lato della casa a reggere una porta per l’affittuario quando udì la voce della mamma levarsi acuta fra le urla del bambino. Gli fu facile accorrere, la veranda nel retro dava direttamente sulla cucina, e prima che la doppia porta si richiudesse di scatto alle sue spalle il papà aveva abbracciato l’intera scena con lo sguardo, la pentola rovesciata sulle mattonelle davanti alla stufa e il getto azzurro del becco a gas e la pozza d’acqua ancora fumante che si diramava in ogni direzione sul pavimento, il frugoletto infagottato nel pannolino in piedi rigido col vapore che esalava dai capelli e dal petto e dalle spalle porpora e gli occhi strabuzzati e la bocca spalancata che sembrava come separata dai suoni che emetteva, la mamma in ginocchio in terra che lo tamponava inutilmente con lo strofinaccio, coprendo con le sue le urla del bambino, isterica al punto da essere quasi impietrita. Il suo ginocchio e il piccolo tenero piede scalzo erano ancora immersi nella pozza fumante, e per prima cosa il papà prese il piccino per le ascelle, lo sollevò da terra e lo portò al lavello, dove buttati fuori i piatti aprì il rubinetto per far scorrere l’acqua fredda del pozzo sui piedi del bambino mentre ne raccoglieva altra nel cavo della mano e la versava o la gettava sulla testa sulle spalle e sul petto, non volendo innanzitutto più vedere il vapore esalare dal corpo, la mamma che da sopra la sua spalla invocava il Signore finché lui non la mandò a prendere degli asciugamani e a vedere se avevano della garza, il papà che si muoveva con efficienza, la sua mente maschile concentrata unicamente sullo scopo da raggiungere, ancora inconsapevole che lui si muoveva con disinvoltura o che aveva smesso di sentire le urla altissime perché sentirle lo avrebbe pietrificato rendendo impossibile fare quel che andava fatto per soccorrere la sua creatura, le cui urla avevano assunto la regolarità del respiro e si protraevano da tanto di quel tempo da essere diventate una presenza nella cucina, un’altra cosa da rimuovere al più presto. La porta laterale dell’affittuario pendeva all’esterno dal cardine superiore e oscillava appena appena al vento, e un uccello sulla quercia dall’altro lato del vialetto d’accesso sembrava osservare la porta con la testa inclinata mentre dall’interno continuavano a venire le urla. Le ustioni peggiori comparivano sul braccio e sulla spalla destri, sul petto e sulla pancia il rosso sfumava in rosa sotto l’acqua fredda e la tenera pianta dei piedi non era coperta di vesciche per quanto poteva vedere il papà, ma il frugoletto continuava a stringere i pugni e a urlare anche se forse ormai solo come reazione alla paura, in seguito il papà aveva capito di averla considerata una possibilità, il faccino gonfio e le venuzze sporgenti dalle tempie e il papà che continuava a ripetere che era lì era lì, l’adrenalina in calo mentre la rabbia contro la mamma per aver permesso che succedesse quella cosa iniziava a raccogliersi a ciuffetti nell’angolo più remoto della mente, lontana ancora ore dal giungere a espressione. Quando la mamma tornò lui si chiese se non fosse il caso di avvolgere il bambino in un asciugamano ma inzuppò l’asciugamano e l’avvolse, lo fasciò stretto stretto e tirò fuori il suo piccino dal lavello e lo depose sul bordo del tavolo della cucina per calmarlo mentre la mamma cercava di controllare la pianta dei piedi gesticolando con la mano all’altezza della bocca e pronunciando parole senza senso mentre il papà si piegava trovandosi faccia a faccia col bambino sul bordo a quadretti del tavolo a ribadire che lui era lì nel tentativo di placare le urla del frugoletto ma il bambino continuava a spolmonarsi, un suono acuto puro limpido capace di arrestarne il cuore e le minuscole labbra e le gengive ora coperte del bluastro di una fiamma bassa pensò il papà, urlando come se fosse ancora sotto la pentola rovesciata in preda al dolore. Un minuto, due così che sembravano molto più lunghi, con la mamma che a fianco del papà parlava con voce cantilenante vicino al viso del bambino e l’allodola sul ramo con la testa da un lato e il cardine che mostrava una nervatura bianca sotto il peso della porta inclinata finché il primo fil di fumo non spuntò indolente da sotto il lembo ripiegato dell’asciugamano e gli occhi dei genitori s’incontrarono sbarrati – il pannolino, che quando aprirono l’asciugamano e stesero il figlioletto sulla tovaglia a quadri e slacciarono le linguette mezzo squagliate e cercarono di toglierlo con rinnovate urla fece una certa resistenza e scottava, il pannolino del figlio bruciava sotto le mani e videro dove l’acqua era davvero caduta e si era raccolta seguitando a bruciare il loro piccino per tutto quel tempo mentre lui urlava perché lo aiutassero, cosa che non avevano fatto, non ci avevano pensato e quando lo tolsero e videro com’era ridotto la mamma disse il nome di battesimo del loro dio e si afferrò al tavolo per non cadere mentre il padre si girava scagliando un pugno nel vuoto e maledicendo se stesso e il mondo intero non per l’ultima volta mentre suo figlio ora poteva sembrare addormentato, non fosse stato per il ritmo del respiro e i piccoli inetti movimenti con le mani nel vuoto, mani grandi come il pollice di un adulto che avevano afferrato il pollice del papà nella culla mentre guardava la bocca del papà che si muoveva nel cantare, e la testa inclinata sembrava guardare al di là di lui a qualcosa con occhi che indirettamente immalinconivano il papà. Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio. Ti spezza il cuore e poi come continua un figlio è la canzone stridula che il papà torna a sentire come se la donna alla radio fosse lì con lui a guardare quello che hanno fatto, anche se qualche ora dopo quello che il papà non riuscirà a perdonarsi è quanto desiderasse una sigaretta proprio mentre facevano al bimbo un pannolino di garza e l’avvolgevano in due asciugamani intrecciati e il papà lo sollevava come un neonato con il cranio nel palmo e lo portava fuori di corsa nel camioncino infocato bruciando le ruote lungo il tragitto fino alla città e al pronto soccorso dell’ospedale con la porta dell’inquilino penzolante tutto il giorno finché il cardine non cedette ma ormai era troppo tardi, di fronte all’inevitabile e alla loro impotenza il bambino aveva imparato ad abbandonare se stesso e a guardare tutto il resto svolgersi da un punto sovrastante, e quanto era andato perso da quel momento non contava più, e il corpo del bambino si espanse e andò a zonzo e batté cassa e visse la sua vita non più in affitto, cosa fra le cose, l’anima della sua persona un tanto di vapore lassù in alto, che cade come pioggia e poi risale, il saliscendi del sole uno yo-yo.

The Mountain Goats, Philippians 3:20-21

Il racconto che vi ho letto si intitola Incarnazioni di bambini bruciati. Lo ha scritto David Foster Wallace, che è nato a Ithaca, il 21 febbraio 1962 ed è morto a Claremont il 12 settembre 2008. È uno scrittore americano. Per dire chi è usando un numero accettabile di parole prendo qualche riga scritta da David Lipsky, al quale è capitata l’inaspettata fortuna di passare con lui una settimana in giro per gli Stati Uniti:

Promosso per tutte le superiori con il massimo dei voti, ha giocato a football, ha giocato a tennis, ha scritto una tesi in filosofia e un romanzo ancora prima di laurearsi ad Amrhest, ha seguito un corso di specializzazione in scrittura creativa, ha pubblicato il romanzo, ha fatto sì che una città intera di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque si innamorasse di lui perdutamente. Ha pubblicato un romanzo di mille pagine, ha ricevuto l’unico premio del paese che si assegna a chi viene riconosciuto un genio, ha scritto articoli che restituiscono meglio di qualunque altra cosa la sensazione di ciò che significa essere vivi al giorno d’oggi, ha accettato una cattedra speciale di scrittura creativa presso un’università californiana, si è sposato, ha pubblicato un altro libro e si è impiccato all’età di quarantasei anni.

Ne parlo come se fosse vivo, perché per me, per quanto stupido e squallidamente romanticheggiante possa suonare, lo è ancora, come capita a tutte quelle persone alle quali ti sei legato in un modo così profondo che non credevi nemmeno che fosse possibile e poi a un certo punto i casi della vita ti portano via. Aveva solo pochi anni più di me. Non lo potrei definire un amico, né un fratello maggiore. Era uno che, molto semplicemente, e le cose così semplici sono naturalmente le più tremendamente difficili, sapeva spiegarmi il mondo, quel pezzo di mondo nel quale io e lui e milioni di altri ci siamo trovati a stare nello stesso momento, e quindi buona parte della mia vita, delle mie azioni, dei miei pensieri. Purtroppo, vivo non lo è più da tanto tempo, e mi manca; per essere più precisi mi manca l’idea che arriverà un altro suo libro, un nuovo suo articolo e con esso quella sensazione indefinibile di scoperta di qualcosa che, come scrisse in un pezzo diventato famoso ben più di quanto avrebbe gradito usando un bel modo di dire della lingua inglese, è nascosto in bella vista sotto gli occhi. E così, alla fine, mi tocca parlarne al passato.

Una prima cosa che sapeva fare con una abilità mostruosa era osservare la gente fin nei minimi dettagli e saperli poi squadernare con la precisione da microchirurgo di uno che possiede il dono sublime della conoscenza e dell’uso della parola. Prendete questa riga che sta in Verso l’Occidente l’impero dirige il suo corso:

D.L. era estremamente magra, magra in un modo che sembrava indicare non delicatezza, ma una sorta di avara ritrosia a estendersi nello spazio circostante.

Oppure:

Siamo valorosi in contumacia.

O ancora:

Il modo migliore per descrivere il contegno di Scott Peterson è questo: perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.

Avete di fronte non solo D.I. o Scott Peterson, ma tutta un’umanità, composta per primi da voi stessi. che conoscete alla perfezione, solo che non siete mai stati capaci di definirla. Oppure: avete mai pensato all’esistenza del Sorriso Professionale come a qualcosa che ha una consistenza identica a quella di una persona ed è quindi dotato di una specie di – vogliamo usare questa parola? Dai – una specie di anima? Lui lo fece, in quel piccolo capolavoro che lo fece conoscere a mezzo mondo e che ancora oggi è il libro più consigliato per iniziare a capire chi era, Una cosa divertente che non farò mai più:

Perché i datori di lavoro e i superiori costringono i loro inferiori ad allenarsi nel Sorriso Professionale? Sono forse l’unico cliente in cui grandi dosi di sorrisi del genere producono disperazione? Sono l’unica persona al mondo a essere convinta che la causa del numero crescente di fatti di cronaca in cui persone all’apparenza assolutamente normali cominciano a sparare con pistole automatiche nei centri commerciali, nelle agenzie di assicurazione, nelle cliniche private e nei McDonald’s dipende anche dal fatto che posti del genere sono ben noti vivai di propagazione del Sorriso Professionale? Chi credono di prendere in giro con il Sorriso Professionale? E tuttavia siamo al punto che anche l’assenza di Sorriso Professionale è fonte di disperazione. Tutti quelli ai quali è capitato di comprare un pacchetto di gomme da un tabaccaio di Manhattan, o di chiedere una scatola con la scritta FRAGILE all’ufficio postale di Chicago o un bicchiere d’acqua a una cameriera di Boston conoscono bene l’effetto di abbattimento morale di uno sguardo corrucciato dell’addetto al servizio, e cioè l’umiliazione e il risentimento che si provano per un Sorriso Professionale negato.

Da dove gli veniva quella capacità di osservazione del mondo esterno? Io non lo so, sono solo un suo lettore. Ma ho la sensazione che lui sapeva descrivere e spiegare così bene gli altri perché sapeva descrivere e spiegare con una maestria che doveva essere persino dolorosa prima di tutto sé stesso:

Ora, io ho trentatré anni, e sento di aver già vissuto tanto e che ogni giorno passa sempre più velocemente. Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l’esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono. E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo. È terribile. Ma dal momento che saranno proprio le mie scelte a immobilizzarmi, sembra inevitabile, se voglio diventare maturo, fare delle scelte, avere rimpianti per le scelte non fatte e cercare di convivere con essi. Non così sulla lussuosa e immacolata m.n. Nadir. Nella crociera extralusso 7NC, io pago per ottenere il privilegio di consegnare nelle mani di esperti professionisti non soltanto la responsabilità della mia esperienza ma anche dell’interpretazione di questa esperienza: per esempio il mio piacere. Il mio piacere verrà efficacemente e saggiamente gestito per sette notti e sei giorni e mezzo, proprio come mi è stato promesso nella pubblicità della crociera. Anzi, come qualcosa che, in qualche modo, era già un fatto compiuto nel momento in cui leggevo la pubblicità, con il suo imperativo di seconda persona plurale, che rende il tutto non una promessa ma una vera e propria profezia. A bordo della Nadir, così come annuncia pomposamente la brochure a pagina 23, farò (caratteri in oro): «…qualcosa che non fate da molto, moltissimo tempo: Assolutamente Niente». Quanto tempo è che non fate Assolutamente Niente? Per quanto riguarda me, lo so con precisione. So con precisione quanto tempo è passato dall’ultima volta che ogni mio bisogno è stato esaudito senza possibilità di scelta da qualche forza esterna, senza che dovessi farne richiesta o addirittura ammettere di avere alcun bisogno. E anche quella volta galleggiavo nell’acqua, in un liquido salato, e caldo, ma poi nemmeno troppo – e se per caso ero cosciente, sono sicuro che non avevo paura e che mi stavo divertendo un sacco e che avrei spedito cartoline dicendo a chiunque «vorrei che fossi qui».

BLAMMOS, Living with David Foster Wallace

David scrisse di moltissime cose: come recita il titolo italiano di una sua raccolta di saggi e reportage, Tennis, tv, trigonometria, tornado. E poi teoria matematica, rap, campagne elettorali, industria del porno (la cui presenza nella società occidentale è mirabilmente riassunta in questa frase perfetta:

Domandarsi se gli artefici della Costituzione statunitense potessero, nella loro più sfrenata immaginazione, prevedere cose come Vergini anali III o 900-666-FUCK mentre pensavano all’espressione che volevano proteggere è ovviamente una faccenda spinosa, e trascende l’ambito di questo articolo. 

Scrisse soprattutto, per me, di cosa significava stare al mondo. Cosa significava per un abitante di un certo pezzo di questo pianeta, una persona discretamente acculturata, discretamente benestante, discretamente nutrita, cercare di cavarsela. Lo fece scrivendo un libro sterminato incentrato essenzialmente sul dolore. Quel libro famoso si intitola Infinite Jest e dentro c’è questa mezza paginetta:


Che le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse. Che se un numero sufficiente di persone beve caffè in una stanza silenziosa, è possibile sentire il rumore del vapore che si leva dalle tazze. Che a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza.



Che Dio – a meno che non siate Charlton Heston, o fuori di testa, o entrambe le cose – parla e agisce interamente tramite degli esseri umani, ammesso poi che ci sia un Dio. Che Dio potrebbe inserire la questione se crediate nell’esistenza di un dio o meno piuttosto in basso nella lista delle cose sul vostro conto che a lui/lei/esso interessano.

[…] a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore.


Ricordate che la mediocrità dipende sempre dal contesto.


Nessun singolo istante di quel dolore era insopportabile. Eccolo qua un secondo: lo aveva sopportato. Insopportabile era il pensiero di tutti gli istanti in fila, uno dietro l’altro, splendenti.


«La verità alla fine vi renderà liberi, ma solo dopo avervi sistemati ben bene».


E scrisse poi di un’altra cosa che conosciamo tutti benissimo ma non sappiamo mai descrivere per davvero: la noia. Non quella di Moravia, nemmeno quella di Vasco Rossi. Piuttosto la noia burocratica, che è una cosa che fa da collante a un milione di nostri gesti quotidiani, in fondo a buona parte della nostra vita sociale. Questo lo fece ne Il Re pallido, che non finì perché si impiccò prima di concluderlo e uscì postumo fra tante polemiche. Io, per me, sono contento che l’abbiano pubblicato, perché è stato curato da gente che lo conosceva bene e gliene voleva altrettanto, e grazie a loro non siamo stati privati di pezzi come questo:


Il vero motivo per cui i cittadini statunitensi erano/sono all’oscuro di questi conflitti, cambiamenti e interessi in gioco è che l’argomento politica e amministrazione fiscale è noioso. Enormemente, spettacolarmente noioso. É impossibile sopravvalutare l’importanza di questo aspetto. Considerate, dalla prospettiva dell’Agenzia, i vantaggi di un insieme così noioso, arcano, soporifero. L’Agenzia delle Entrate è stata uno dei primissimi enti governativi a capire che certe caratteristiche contribuiscono a isolare dalla protesta pubblica e dall’opposizione politica, e che la monotonia astrusa in realtà è uno scudo molto più efficace della segretezza. Perché il grande svantaggio della segretezza sta nel fatto che è interessante. La gente è attratta dai segreti; non può farne a meno.


L’ho imparato ad appena ventuno o ventidue anni, al Centro controlli regionali dell’Agenzia delle Entrate di Peoria, dove per due estati ho fatto il ragazzo del carrello. E stato questo, secondo chi ha visto in me la stoffa per lavorare all’Agenzia, che mi ha permesso di bruciare le tappe, capire questa verità a un’età in cui quasi tutti cominciano appena a sospettare l’abbiccì della fase adulta: che la vita non ti deve niente; che la sofferenza assume tante forme; che nessuno terrà mai a te quanto tua madre; che il cuore umano è un fesso. Ho imparato che il mondo degli uomini così com’è oggi è una burocrazia. É una verità ovvia, certo, per quanto ignorarla provochi grandi sofferenze. Ma ho anche scoperto, nell’unico modo in cui un uomo impara sul serio le cose importanti, la vera dote richiesta per fare strada in una burocrazia. Per fare strada sul serio, dico: fai bene, distinguiti, servi. Ho scoperto la chiave. La chiave non è l’efficienza, o la rettitudine, o l’intuizione, o la saggezza. Non è l’astuzia politica, la capacità di relazione, la pura intelligenza, la lealtà, la lungimiranza o una qualsiasi delle qualità che il mondo burocratico chiama virtù e mette alla prova. La chiave è una certa capacità alla base di tutte queste qualità, più o meno come la capacità di respirare e pompare il sangue sta alla base di tutti i pensieri e le azioni. La chiave burocratica alla base di tutto è la capacità di avere a che fare con la noia. Di operare efficacemente in un ambiente che preclude tutto quanto è vitale e umano. Di respirare, per così dire, senz’aria. La chiave è la capacità, innata o acquisita, di trovare l’altra faccia della ripetizione meccanica, dell’inezia, dell’insignificante, del ripetitivo, dell’inutilmente complesso. Essere, in una parola, inannoiabile. Ho conosciuto, tra il 1984 e l’85, due uomini così. É la chiave della vita moderna. Se sei immune alla noia, non c’è letteralmente nulla che tu non possa fare.


Ride, Literal Alice

Scrisse, infine, di scrittura. Dicono che fosse un insegnante straordinario, di quelli che ti accompagnano per tutta la vita. Non fatico a crederlo, perché non era soltanto un dio del vocabolario, della sintassi e della grammatica: era uno, soprattutto, che alla gente, agli altri, ci teneva. Vedeva nei libri un antidoto contro la solitudine, che poi è il titolo di una bella raccolta di sue interviste, e contro l’uso metodico dell’ironia come strumento per tenersi alla larga dal nocciolo delle cose, quello che non puoi sempre affrontare ridendo o, per essere più precisi, sogghignando. Lo scrisse, ad esempio, in Tennis, tv, trigonometria, tornado e lo chiarì in una bella intervista:


E state attenti: l’ironia ci tiranneggia. La ragione per cui l’ironia onnipresente nella nostra cultura è allo stesso tempo così potente e così insoddisfacente è che chi usa l’ironia è impossibile da inchiodare. Tutta l’ironia negli Stati Uniti è basata su un implicito «non sto dicendo sul serio». Quindi che cosa dice seriamente l’ironia, in quanto modello culturale? Che è impossibile dire qualcosa sul serio? Che è terribile che sia così, ma svegliatevi e guardate in faccia la realtà? Più probabilmente, penso, l’ironia di oggi finisce col dire: «Oddio come sei banale a chiedermi cosa voglio dire davvero». Chiunque abbia l’eretica sfacciataggine di chiedere a un ironista che cosa sostiene veramente finisce per sembrare una persona isterica o pedante. E in questo sta l’oppressione dell’ironia istituzionalizzata, di una rivolta troppo riuscita; la capacità di interdire la domanda senza occuparsi del suo oggetto, nel momento in cui viene esercitata, non è altro che dittatura. È la nuova giunta militare, che usa gli stessi strumenti che sono serviti a smascherare il suo nemico per proteggere se stessa.


L’ironia ha svolto una funzione molto utile, facendo piazza pulita di un sacco di luoghi comuni e falsi miti, nella cultura americana, che non servivano più a nulla; ma purtroppo non ci ha lasciato niente da cui ricominciare a costruire, se non un atteggiamento di sufficienza sarcastica, di nichilismo autoreferenziale e di avidità materiale.


Come ci si salvava da questa cosa? Quale era l’antidoto, contro la solitudine e contro il prendere le cose sul serio quando questo serve a dare senso alla vita? Scrivendo e leggendo, secondo lui: perché quelle due cose lì ti mettevano in diretto contatto con il resto del mondo, con gli uomini e le donne che, come te, provavano a tirar fuori qualcosa di onesto da condividere con gli altri:


ci sono parecchi libri che dopo averli letti mi hanno lasciato per sempre diverso da com’ero prima, e penso che tutta la buona letteratura in qualche modo affronti il problema della solitudine e agisca come suo lenitivo.


Ma c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale. Io non so cosa stai pensando. Non so molto di te, così come non so molto dei miei genitori, della mia ragazza o di mia sorella, però un brano di letteratura che sia davvero sincero ci permette di entrare in intimità con… non voglio dire con la gente, ma ci permette di entrare in intimità con un mondo che assomiglia al nostro quanto basta, a livello di dettagli emotivi, perché le varie sensazioni che proviamo possano poi riverberarsi anche nel mondo reale.


La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte, come partiamo quasi tutti, dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile vivere da veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è mettere in scena le cause di questa difficoltà. Ma l’altra metà è mettere in scena il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani. O possiamo esserlo.


Capite perché uno così manca? Per un motivo che non è facile da ammettere, e che ancora una volta fu lui a spiegare con quella che non saprei come definire se non esattezza. Lo fece nel pomeriggio dell’11 settembre, quell’11 settembre, che lui trascorse nel salotto della signora Thompson, a Bloomington Illinois, guardando con un occhio le immagini che arrivavano dalle torri gemelle di New York abbattute dagli aerei di Osama Bin Laden e con l’altro quell’anziana, semplice signora del Midwest che, insieme alle sue vicine di casa, cercava di capire, di farsi una ragione di ciò che stava succedendo. Lo fece senza ironia e nel descrivere la signora Thompson descrisse, credo del tutto involontariamente, se stesso:

La gente davvero perbene, la gente innocente, può mettere a dura prova.

The Decemberists, Calamity Song

***

232 Celsius (circa), seconda puntata; seconda parte, dove Marco Manicardi intervista Elena Marinelli.

***

Non ammette repliche, il gioco di Steffi Graf.
Non crede nella sconfitta, ma solo nella passione, una passione viscerale, che ribolle nel profondo e non risale mai in superficie, come un non detto da lasciar maturare.

Così recita la quarta di copertina di Steffi Graf. Passione e perfezione, ultimo libro di Elena Marinelli, pubblicato da (è difficilissimo da dire) 66thand2nd nel 2020.
E il risvolto di copertina di Steffi Graf. Passione e perfezione dice che:

Elena Marinelli è nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ma da un po’ di anni vive a Milano. Il terzo incomodo, suo romanzo d’esordio, è stato pubblicato nel 2015 da Baldini&Castoldi. Scrive di tennis femminile sull’Ultimo uomo e cura il podcast sul tennis Volée.
Legge i libri degli altri per ilLibraio.it.

Marco Manicardi: Ciao Elena, perché hai scritto Steffi Graf?

Elena Marinelli: Ho scritto Steffi Graf perché non c’era un libro su Steffi Graf, in italiano, e mi sembrava uno spreco vista la campionessa e vista la storia. L’ho scritto anche perché è la mia prima campionessa del tennis, quella che ho seguito per prima e, la terza ragione, non meno importante, è che me l’hanno chiesto.

MM: Dove, come e quando l’hai scritto?

EM: Ho iniziato a scriverlo circa un anno fa, a gennaio più o meno dell’anno scorso, un po’ prima della prima quarantena. L’ho scritto principalmente a Milano, a casa mia, o meglio: nella prima casa in Porta Venezia. E poi l’ho finito… in realtà l’ultima parte l’ho finita in Molise, a Casacalenda, in provincia di Campobasso, a casa dei miei, guardando uno spettacolo meraviglioso che sono le colline e la mia ferrovia. E poi l’ultimissima parte, forse proprio l’ultimo capitolo, l’ho di nuovo scritto a Milano, ma in un’altra casa che è alla Martesana, quindi è un libro che mi appartiene molto in quanto a luoghi, visto che è stato scritto nelle mie due case, quella milanese e quella molisana. L’ho scritto al computer, totalmente, non ho messo una parola sulla carta. E quindi, sì, l’ho scritto nel 2020, ho iniziato prima della prima quarantena e l’ho finito quando si pensava che fossimo usciti da tutto. E invece no.

MM: E infine la domanda importantissima: è bello?

EM: Sì, è molto bello. Almeno, dicono così. La maggior parte di quelli che l’hanno letto e che mi hanno parlato mi hanno detto che è molto bello, a tratti, in alcuni punti è davvero bello e… per me è bello. Sì.

Hugh Laurie, I’m in Love With Steffi Graf

Steffi Graf. Passione e perfezione di Elena Marinelli comincia così:

— Elena Marinelli legge il prologo di Steffi Graf. Passione e perfezione —

I Cani, Hipsteria

***


Montag: Dietro ognuno di questi libri c’è un uomo. È questo che mi interessa. Lasciami in pace e torna a letto.

Linda: Io non ho sonno.
Montag: Hai le tue pillole, no?

(Fahrenheit 451; François Truffaut, 1966)

Hüsker Dü, Books About UFOs

Questa era la seconda puntata di 232 Celsius (circa), dove Sergio Pilu ha letto e raccontato David Foster Wallace, e io, che sono Marco Manicardi, ho intervistato Elena Marinelli su un libro che si chiam Steffi Graf. Passione e perfezione, del 2020

Le canzoni che avete ascoltato erano, nell’ordine:

Books are burning, degli XTC, da un disco che si chiama Nonsuch del 1992 e che è diventata più o meno la nostra siglaPhilippians 3:20-21, un pezzo dei Mountain Goats da un disco che si chiama The Life of the World to Come del 2009Living with David Foster Wallace, dei BLAMMOS, da The album we can’t afford to release that you can’t afford to miss del 2011Literal Alice dei Ride, da Weather Diaries del 2017Calamity Song dei Decemberists, da un disco che si chiama The King Is Dead, del 2010I’m in Love With Steffi Graf, di Hugh Laurie, che poi è il Dr. Gregory House, credo del 2006e Hipsteria dal sorprendente album d’esordio de I Cani del 2011la sigla finale, che state ascoltando ora, è Books About Ufos degli Hüsker Dü, da New Day Rising del 1985.

E infine, l’accompagnamento alle letture era preso da una versione strumentale di Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd, anche se non ho idea di chi l’abbia eseguito, nel caso chiedete a Sergio che è più ferrato di me sull’argomento.

232 Celsious (circa), nelle persone di Sergio Pilu e Marco Manicardi, ringrazia Caterina Imbeni per la consulenza musicale e Andrea Bentivoglio, il peraltro direttore artistico di Radio Sverso, per la possibilità concessa

E tornerà, molto probabilmente, la settimana prossima, stesso giorno, stessa ora, se va tutto bene.

A presto.
Ciao.

232 Celsius (circa):
https://www.facebook.com/232cc
http://www.losverso.it/programmi/232-celsius-circa
– Podcast (il giorno dopo la messa in onda) su spotify / google podcast / mp3

Radiosverso www.radiosverso.it – Fabriano in via Balbo n. 59 dentro la birroteca Lo Sverso.
https://www.instagram.com/radiosverso
https://twitter.com/radiosverso
https://www.facebook.com/radiosverso
– sms/whatsapp 340 426 4410
– Email: radiosverso@gmail.com
– l’app è disponibile gratuitamente per android e iOS

L'articolo 232 Celsius (circa) s1e02 – il podcast (e la trascrizione) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 13, 2021 07:55

February 12, 2021

Il verbo perdere

E nella trentasettesima uscita di una newsletter che si chiama Bastonate per posta, dal titolo È FACILE ESSERE UMILI SE NON SEI NESSUNO (in maiuscolo), simone rossi (con le minuscole), peraltro autore di un libro inesistente che si chiama Il verbo rubare, del 2014, a un certo punto dice così:

Sto sperimentando, direi a un giornalista che mi intervistasse, se esistesse. Lasciatemi perdere. L’altro giorno erano 30 anni dall’uscita di Mediterraneo (il film di Salvatores, non la canzone di Serrat), e ho letto sul Post che il titolo di lavorazione di Mediterraneo era Lasciateci perdere, che si può avere tre sensi diversi e mi sembra un titolo bellissimo. Mi ricorda Perdono tutti, lo spettacolo su Cesare Pavese del mio amico Marco Manicardi, anche lì uno può mettere l’accento in due posti diversi e anche quello mi sembra un titolo perfetto. Che verbo flessibile, il verbo perdere. Vorrei essere uno di quei dischi che ti appaiono sotto le dita perché l’algoritmo di YouTube ha deciso che era arrivato il momento che conoscessi Hiroshi Yoshimura. È folle, lo so.

E io è tutta mattina che mi messaggio con Zanna per provare a riprendere in mano quella cosa lì. E magari non riuscirci, di nuovo, e perdere, ancora. Si perde sempre in maniera diversa.

L'articolo Il verbo perdere proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 12, 2021 00:52

February 9, 2021

Servizio pubblico (un post pericolosissimo)

(Speriamo bene.)

Ecco, abbiamo appena finito di guardare tutta (tutta!) la trilogia di trilogie di Star Wars, in fila, da Episodio I fino a Episodio IX (e già qui l’affermazione, mi rendo conto, è abbastanza forte, ma andiamo avanti) che d’ora in poi per semplicità indicheremo con:

trilogia “prequel”: episodi I-IIItrilogia “vecchia”: episodi IV-VItrilogia “nuova”: episodi VII-IX

Prendendo come riferimento il campione statistico a nostra disposizione e formato da:

un fan di Star Wars (io)un bambino che guarda Star Wars per la prima volta (il Miny)una persona essenzialmente agnostica sull’argomento (grushenka)

i risultati dell’esperienza svoltasi nelle scorse settimane e prevalentemente di sera, il venerdì e il sabato, con il campione statistico molto rilassato e stravaccato sul letto, sono di seguito riassunti:

Nel bambino che guarda Star War per la prima volta, la trilogia “prequel” s’imprime a fuoco e rimane nel cuore in modo indelebile; la trilogia “vecchia” lo esalta e gli piace; della trilogia “nuova” capisce poco o niente, ma per fortuna c’è BB-8.La persona essenzialmente agnostica sull’argomento viene travolta da una sensazione di “perdita di tempo” e successiva raffica di sbadigli di fronte alla trilogia “prequel”; apprezza con vistosi cenni del capo la trilogia “vecchia”, con predilezione particolare per le scene che coinvolgono il giovane Harrison Ford; le piace moltissimo la trilogia “nuova”, ma proprio MOLTISSIMO, con una certa smania crescente di episodio in episodio.Il fan di Star Wars (ciao, sono io), riguardando la trilogia “prequel” per la terza o quarta volta, la trilogia “vecchia” per la milionesima volta e la trilogia “nuova” per la seconda volta (la prima era al cinema), ma rigorosamente in fila, da Episodio I fino a Episodio IX (portate pazienza) e commentando il tutto insieme a un bambino di quasi sei anni che guarda Star Wars per la prima volta e una moglie essenzialmente agnostica sull’argomento, si trova a dover ammettere che:
(a) la trilogia “prequel”, che all’epoca aveva fatto gridare al sacrilegio, tutto sommato, invece, è proprio bellina, con il pregio di aver avuto almeno l’intenzione di inventarsi delle cose (Jar Jar Binks e midi-chlorian compresi), a differenza di tutto quello che è arrivato dopo, che è da considerarsi al limite della fan-fiction;
(b) la trilogia “vecchia”, vabbè, è religione;
(c) la trilogia “nuova”, che l’aveva fatto bestemmiare fortissimo per tre volte e prima del canto del gallo all’uscita del cinema, ecco, riguardata così, da sdraiato insieme al resto del campione statistico di cui sopra, beh, oh, come dire, è quasi imbarazzante ammetterlo, ma… ehm… ok: non è che sia poi così male.

Quali conclusioni trarre dall’esperienza testé svoltasi tra le mura domestiche in perfetta armonia col creato? Non lo so.
A parte che forse siamo sempre noi fan di Star Wars, quelli più coglioni di tutti. Ma questo si sapeva già. Sperabilmente.

(Ho un brutto presentimento.)

L'articolo Servizio pubblico (un post pericolosissimo) proviene da Eri così carino.

 •  0 comments  •  flag
Share on Twitter
Published on February 09, 2021 09:33