Marco Manicardi's Blog, page 14
April 25, 2022
Ci vuole del coraggio
Mio nonno, Corrado, eran già dei mesi che stava in prigione, ma ultimamente se la passava meglio. Meglio di qualche mese prima, quando c’era quell’aguzzino fascista a comandare la galera, un tipo sadico e cattivo che ammazzava i prigionieri a suon di botte, uno al giorno, tutti i giorni.
Mio nonno, Corrado, quando è arrivato in prigione, l’han chiamato subito nel piazzale insieme con tutti gli altri carcerati. Li hanno messi in fila, e uno sì e uno no venivano marchiati con una spennellata di vernice nera sul petto. Poi il capo fascista ha detto Quelli senza spennellata facciano un passo avanti. Ma mio nonno, che la spennellata ce l’aveva, è rimasto fermo lì dov’era. Quelli senza spennellata, invece, li han messi contro a un muro e li hanno fucilati, così, al volo, per dimezzare i letti occupati in galera in un colpo solo. Con voialtri, aveva detto poi il fascista, con voialtri cominciamo da domani, uno alla volta. E così han fatto, dal giorno dopo. Ogni giorno ne moriva uno di botte. Mio nonno racconta che ha visto i suoi due compagni di cella morire, prima uno poi l’altro, massacrati dalla testa ai piedi, e il terzo giorno toccava a lui.
Il terzo giorno, la mattina presto, nella cella di Corrado, mio nonno, che aveva diciotto o diciannove anni, è arrivato il prete e gli ha dato l’estrema unzione. Poi sono arrivati tre fascisti e han cominciato a picchiarlo. Pim pum pam, in faccia, pim pum pam, nelle gambe, pim pum pam, nella pancia, pim pum pam, sulle braccia, pim pum pam, calci nei reni, pim pum pam, pim pum pam. Mio nonno dice che era lì che si lasciava picchiare, e a un certo punto non sentiva più niente, sperava solo di morire alla svelta. E invece.
E invece non è mica morto, perché proprio in quel momento lì, mentre lo stavano ammazzando, pensa che culo, sono arrivati i partigiani ad attaccare la prigione e i fascisti son corsi fuori coi fucili spianati lasciando mio nonno sanguinante e svenuto sul pavimento.
Tre giorni dopo, quando si è svegliato, era in ospedale. L’attacco dei partigiani era stato respinto, ma qualcosa doveva essere successo, perché adesso, così gli dicevano, adesso il capo fascista era un altro, uno che, dicevano, ma lo dicevano sottovoce, era amico dei partigiani e trattava bene i prigionieri, anche se era comunque un fascista. Mio nonno, Corrado, lì per lì, ha pensato Grazie al cielo anche se era ateo, ed è stato un mese sul letto dell’ospedale, aspettando che le croste nella pancia si cicatrizzassero e i lividi in testa sparissero, e si faceva le sigarette con la carta di giornale, svuotando dei mozziconi trovati per terra che gli portavano le infermiere. Da quella volta dice che non ha mai smesso di fumare perché tanto, per lui, dai diciannove in poi eran tutti anni regalati.
E quindi un mese dopo, uscito dall’ospedale, mio nonno, Corrado, è tornato in prigione, nella cella di prima, quella dove il prete gli aveva dato l’estrema unzione. Solo che era diverso, stavolta, invece di un crostino di pane e una ciotola d’acqua sporca al giorno, il capo fascista gli faceva portare un crostino di pane e mezzo e dell’acqua pulita. E poi la sera, dopo che erano diventati un po’ confidenti, gli chiedeva se non aveva voglia di accompagnarlo fuori a cena, là, nel bordello, nella casa di piacere, e di riportarlo a casa e tornarsene in cella, perché il capo fascista, di lui, di Corrado, si fidava.
E così mio nonno, senza neanche capire il perché, quasi tutte le sere usciva dalla cella, andava in una casa di piacere col capo fascista della prigione, si sedeva su una seggiola e aspettava che il suo carceriere finisse quello che doveva fare. Poi, quando aveva finito, lo riportava a letto, sorreggendolo fino alla prigione perché veniva sempre fuori ubriaco, e dopo, messo a letto il suo carceriere, mio nonno tornava nella sua cella a dormire, chiudendosi la porta dietro le spalle. Stava lì ad aspettare chissà cosa, ma era appena guarito e non sapeva cosa fare, così, nell’immediato, e quindi tornava nella sua cella, ché aveva anche una gran voglia di riposarsi, dopo tutte quelle botte.
Questa cosa qui, quella di mio nonno che tutte le sere portava il fascista a puttane e lo riportava a letto, è durata quasi un mese.
Poi una sera, mentre mio nonno, Corrado, era lì seduto sulla solita sedia con le mani sulle ginocchia a guardarsi intorno nella casa di piacere, ad aspettare che il suo carceriere finisse quello che doveva fare, sono arrivate tre donnine mezze nude, tre puttane, e han cominciato a parlare con lui. Lui, mio nonno, che era timidissimo, almeno con le donne, non sapeva cosa dire. Però notava che i discorsi delle tre donnine si stavano spostando dalle moine sempre più verso il politico.
Sai Corrado, gli han detto a un certo punto, sai che quello che c’era prima a capo della prigione, quello che ammazzava di botte voi prigionieri, ne ha ammazzati venti, in quel modo lì? Eh, lo so bene, rispondeva mio nonno, anche con me c’era quasi riuscito. Sai Corrado, continuavano le tre donnine, sai che adesso sappiamo il nome e il cognome e se vuoi te lo diciamo così puoi vendicarti? Oh, non lo so mica io, rispondeva ancora mio nonno, non capisco e diciamo che non voglio capire. Dai Corrado, han detto quelle facendosi serissime tutto d’un colpo, Corrado, domani sera, tu, quando porti qui quel puttaniere fascista, vieni con noi che andiamo a fare una cosa. Ma non lo so, ha detto mio nonno allarmato, non lo posso mica fare di andare dove mi pare, sono in galera. Sì che puoi, Corrado, gli hanno risposto le donnine, ci pensiamo noi, te non preoccuparti.
Quella notte lì, mio nonno, dopo aver messo a letto il fascista ubriaco come al solito ed essere tornato in cella come al solito, dice che non riusciva a prendere sonno.
La sera dopo, infatti, ha riaccompagnato il suo carceriere nella casa di piacere. Lui, il fascista, gli ha detto Aspettami qui, ed è andato a fare le sue cose. Intanto mio nonno si è seduto sulla seggiola ad aspettare, ma non era mica tranquillo, gli tremavano un po’ le gambe. E poi sono arrivate le tre donnine, le tre puttane della sera prima, l’hanno abbracciato e gli han detto Corrado, vieni con noi, usciamo qui di dietro. E sono usciti, tutti e quattro. Lì dietro c’era un camion di quelli dell’esercito, solo che dentro non c’erano i fascisti, ma dei partigiani vestiti da fascisti. Appena hanno visto mio nonno, in silenzio, gli han dato una divisa fascista e l’han caricato sul camion. Salta su, gli han detto.
Mio nonno è saltato su, e dentro c’era proprio quel sadico del suo aguzzino di una volta, quello che voleva ammazzarlo di botte, legato dalla testa ai piedi e con qualche livido sulla faccia, gli avevano tappato la bocca. Mio nonno, Corrado, dice che ci è rimasto di pietra.
Poi il camion è partito. Nel tragitto erano tutti agitati, ma non è successo niente. Passa il primo posto di blocco e niente, tutto a posto, i documenti erano in regola. Passa il secondo posto di blocco, e tutto a posto anche lì, tutto in regola. Finché, arrivati in mezzo ai campi, i partigiani han preso il fascista, l’hanno slegato e gli hanno dato una pala.
Scava, gli hanno gridato. E lui, il fascista, s’è messo a scavare. E intanto piangeva.
Finito il buco, l’hanno messo in ginocchio. Corrado, han detto i partigiani a mio nonno mettendogli in mano una pistola, Corrado, adesso pensaci tu, vendicati.
Mio nonno racconta che ha preso in mano la pistola, l’ha guardata, è rimasto lì cinque minuti in silenzio e il cuore gli stava venendo fuori dalla bocca. Ha fatto un respiro e ha guardato il fascista in ginocchio che piangeva e tirava su col naso. Non sapeva cosa fare.
No, non me la sento, ha detto coi partigiani, davvero, non ci riesco.
Loro, senza perder tempo, gli han detto Va bene, Corrado, allora vai via e torna a casa a nasconderti, subito.
E mio nonno, Corrado, ha tirato un altro respiro, si è cambiato i vestiti e si è incamminato al buio in mezzo ai campi, piano piano, un tumulto in testa e le gambe che tremavano, si è acceso una sigaretta fatta con la carta di giornale che aveva trovato in tasca. Da lontano ha sentito una schioppettata, poi tutto è ritornato in silenzio.
***
Sai Marco, mi ha sempre raccontato, perché coi nonni funziona così, quando invecchiano, succede sempre che ti raccontano la stessa storia una decina di volte e tutte le volte è come se fossero lì a raccontarti quella storia per la prima volta, secondo loro. Sai Marco, mi diceva sempre, ci vuole del coraggio a sparare a una persona, e io, quella volta lì, il coraggio non ce l’ho avuto.
Io lo ascoltavo sempre come se fosse stata la prima volta che me lo raccontava. E non gliel’ho mai detto, a mio nonno, ma quando penso al coraggio, la prima immagine che mi viene in mente è la sua, è mio nonno, Corrado, con le mani in tasca, una notte di tanti anni fa, da solo, coi pensieri in testa come un tumulto, la tremarella nelle gambe e una sigaretta fatta con la carta di giornale in bocca. Il coraggio, per me, è mio nonno, Corrado, che cammina per tornare a casa. Perché delle volte ci vuole del coraggio, penso, ci vuole del coraggio anche a non averne, del coraggio.
(È una cosa che avevo scritto su Barabba nel 2011, che era finita su un libro che si chiamava Schegge di Liberazione e che ormai posto tutti gli anni. Grushenka dice sempre che è la mia My Way)
Buon 25 aprile.
 
(Mio nonno, Corrado, qualche anno fa, con il Miny)
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April 20, 2022
Quella stagione della vita
È arrivata quella stagione della vita che bisogna stare attenti, come per esempio quando Facebook ti dice che è il compleanno di qualcuno, ma magari è uno che non senti e non vedi da un po’, o è un tuo amico storico dell’internet ma gli algoritmi della piattaforma non selezionano più i suoi post per la tua bacheca e quindi è da un sacco di tempo che non lo leggi, ma è il suo compleanno e vorresti fargli gli auguri. Allora prima vai a controllare sul suo profilo, per assicurarti che sia ancora vivo.
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April 17, 2022
Lagerkvist
E in un libro che si chiama Barabba, del 1951, Pär Fabian Lagerkvist dice che una delle donne aveva incominciato a discorrere di quello che era stato crocifisso al posto di Barabba; essa lo aveva veduto una volta, mentre passava, e la gente aveva detto che era un dottore il quale andava intorno e profetizzava e faceva miracoli. In questo non c’era nulla di male, perché tanti altri facevano lo stesso; perciò, da quel che si poteva capire, il motivo per il quale era stato crocifisso doveva essere un altro. Era un tipo magro; tutto ciò che ricordava di lui era soltanto questo. Un’altra disse che lei non lo aveva mai visto, ma aveva udito che egli avrebbe predetto che il Tempio sarebbe crollato, che Gerusalemme sarebbe stata distrutta da un terremoto e che poi il cielo e la terra si sarebbero incendiati. Cose non da senno, e non c’era da stupire che per questo fosse stato crocifisso. Ma la terza donna disse che quell’uomo frequentava specialmente i poveri e soleva promettere loro che sarebbero entrati nel regno di Dio, e financo alle prostitute lo aveva promesso. All’udire questo tutti risero molto, ma trovarono che se fosse davvero andata così, sarebbe stato molto bello.
(È una cosa che posto tutti gli anni)
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April 10, 2022
Service Unavailable (da sette anni)
Qualche tempo fa avevo ritrovato su gmail una sottocartellina annidata tra quelle dove un tempo raccoglievo i messaggi per le cose di Barabba, e questa sottocartellina si chiamava “GIAOH“. Dentro c’erano un po’ di link sulla morte del FriendFeed, raccolti al volo in quella due giorni pazza pazza pazza del 9 e 10 aprile di sei anni fa.
Alcuni di quei link oggi sono morti, altri sono diventati privati. Quelli ancora in vita sono questi qui (se cliccate, e poi proseguite con la lettura, sembra una specie di funerale in differita):
E c’erano anche:
Uno screenshot di una cosa scritta dell’elena in una stanzetta privata: Poi una cosa dal feed di eio che diceva così:
Poi una cosa dal feed di eio che diceva così:Una mail intera di Ubikindred:Friendfeed era l’unica cosa bella di internet 🙁
Un post senza link, forse da facebook, di Azael:
Vi ho amato quando fuori c’erano mille gradi e io sudavo come una bestia preistorica e voi vi lamentavate del freddo
Vi ho amato quando a -7 cantavate le gioie del teaminverno
Vi ho amato quando suonavate la chitarrina con le canzoni di De André
Vi ho amato anche di più quando vi scappavano in home cazzi deformi, felici per un istante, della loro teratogena libertà
Vi ho amato quando “quelli che lavano le scale è perché se lo sono meritati”
Vi ho amato quando se metti la cipolla nell’amatriciana devi morire gonfio, ma è cosa buona e giusta stirare gli stronzi che
vanno in bicicletta solo per dare fastidio ai nostri SUV
Vi ho amato quando abbiamo litigato per un migliaio di commenti partendo dalla frase “uh, nuvoloso quest’oggi, nevvero?”
Vi ho amato quando i Led Zeppelin fanno cacare.
Vi ho amato tutti, grandiosissime teste di cazzo.
Va detto che però ho amato ancora di più le puppe
😀
GIAO
Un mio commento, salvato e mai postato, chissà per chi:“Friendfeed è morto davvero. L’unico social network che abbia mai avuto un senso, un posto in cui essere Vip non serviva a un cazzo, in cui uno scemo era semplicemente uno scemo e un coglione un coglione. Un posto in cui le opinioni non avevano tutte lo stesso valore, perché le opinioni-opinioni si separavano automaticamente, come per una misteriosa forma di mitosi, dalle opinioni-cazzate. Su Friendfeed nessuno avrebbe mai potuto pensare di pubblicare un articolo complottista, una bufala, una scemenza, senza prendersi un vaffanculo didattico, né di riportare una tesi approssimativa senza sorbirsi quatrocentrottanta commenti in grado di fare la punta al cazzo pure al secondo principio della termodinamica. Friendfeed è stato un posto, un luogo, non un social network. Un social network è questa merda di Facebook, o quell’aborto di Twitter, sono strumenti in grado di appiattire tutto, di far sentire l’imbecille una persona normale e la persona normale un imbecille. Questi social network sono come la vita, non aggiungono niente e non tolgono niente; ci trovi dentro quello che crede alle scie chimiche e quello che posta il buongiorno sette volte al giorno; e non c’è modo di uscirne diversi. Su Friendfeed le idee entravano in un modo e uscivano in un altro. Friendfeed era un ambiente difficile, tutto era iperbolico, ciò che era leggero diventava pesantissimo, ciò che era pesante diventava una sciocchezza da bar. Si scherzava sulla morte e si litigava per il colore di un divano. Su Friendfeed ho conosciuto fenomeni veri, artisti, persone realmente geniali e persone di una bontà non umana. Anche gli scemi su Friendfeed erano estremi. Uno scemo su Facebook si limita a scrivere cazzate, su Friendfeed uno scemo era in grado di costruire una storia finta, di sostenerla, di cambiarsi la vita per giustificarla e poi di scomparire nel nulla per non “perdere il flame”. Probabilmente Friendfeed era solo un filtro che desaturava la realtà e la mostrava per quello che era, con lo sguardo cinico e disilluso di un cane vecchio che ti piscia sul mocassino di pelle di cane. Friendfeed ha segnato un’epoca, almeno la mia, sette anni di risate, di discussioni, di persone conosciute, di persone incontrate, di amicizie e di smadonnamenti roboanti, di condivisione di una certa idea di realtà. Ora è finita e spiegare Friendfeed a chi non c’era, spiegarlo qui su Facebook tra l’altro, è inutile e paradossale. Quanto a chi c’era, beh, ci troviamo in giro, su questi social imperfetti o nella vita di tutti i giorni, e ci riconosceremo perché saremo sempre quelli seduti scomodi, a trattenere bestemmie, giudizi universali e benaltrismi non euclidei. Grazie di tutto socialino dell’odio, sei stato la cosa più bella di Internet, la cosa più divertente di questi anni, una delle cose più belle di qualsiasi cosa.”
Il pezzo di un post che avevo scritto anche qui, si intitolava FriendFu e diceva così:Visto che c’è la replica della replica della replica della polemica, visto che stiamo chiudendo dico la mia. È innegabile che certe dinamiche ci siano state su friendfeed. Però uno si sceglie non solo le persone che gli stanno intorno, ma anche il tono della conversazione cui partecipare. I flame li ho visti passare e li ho evitati con serenità. So che ci sono, ma nel mio feed ci sono stati anche un matrimonio, alcuni bambini, bellissimi dj set, cose buffe e interessanti, e notevoli affetti
L’altr’anno avevo letto un libro che si chiama Prima l’italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure, del 2019, dove Vera Gheno nei ringraziamenti dava:
Forse dovrei raccontare di come sono finito su FriendFeed, nella tarda primavera del 2009, ma non mi ricordo più il perché. Forse dovrei dire che senza il FriendFeed il mio parco amici sarebbe molto ma molto più ridotto, adesso come adesso, e che ci sono persone che ho conosciuto nel 2010 ma che reputo amici d’infanzia per tutte le cose che abbiamo fatto, detto, letto, condiviso, eccetera negli anni, ma sono cose personali. Forse dovrei parlare di come grazie al FriendFeed mi sia capitato di ritrovarmi a leggere racconti ad alta voce in pubblico, una cosa che non avevo mai nemmeno pensato di poter pensare di fare, prima del Friendfeed, ma l’avrò già detto millemila volte.
Mi ricordo la prima discussione cui partecipai in quella tarda primavera del 2009, appena decisi username, password e avatar, e dopo aver cliccato sulla Home dove stavano le discussioni di tutti gli altri. Era un thread di un utente di nome bloggo, si parlava dell’opportunità o meno di fare la pipì nella doccia, nella propria e in quelle altrui.
Era esattamente il posto nel mondo in cui volevo stare.
E infine, c’era anche un tumblr che si chiama #salutifinali, che se uno ci clicca e comincia a sfogliarlo gli viene il magone (siete avvertiti): ffsalutifinali.tumblr.comun abbraccio alla mia tribù virtuale di Friendfeed: l’avranno pure chiuso, il nostro socialino, ma once a friendfeeder, always a friendfeeder.
E questa è una cosa che posto tutti gli anni, il 10 di aprile, e quest’anno mi accorgo adesso che, dato che mi ero iscritto a FriendFeed nella primavera del 2009 e che FriendFeed è stato chiuso il 10 aprile del 2015, va a finire che è più il tempo che sono stato senza FriendFeed di quello che ho passato su Friendfeed. Una cosa abbastanza incredibile.
E poi basta.
Troppe emozioni anche per oggi.
Giaoh.
 
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April 6, 2022
L’altra mattina
E l’altra mattina ero fermo in piedi in fila all’edicola, coi miei giornalini in una mano e i soldi nell’altra, e aspettavo ormai da qualche minuto dietro a un signore sulla sessantina che sventolava il suo Resto del Carlino già pagato mentre si lamentava con l’edicolante del prezzo dei carburanti. Avevo anche fretta, ma sono fatto così, stavo zitto e aspettavo, e speravo che il signore sulla sessantina smettesse presto di sventolare il suo Resto del Carlino e andasse via, aveva anche già pagato. Lì di fianco c’era una macchina accesa in sosta senza conducente. Era la sua.
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April 3, 2022
È un periodo
È un periodo che scriverlo è fatica.
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March 30, 2022
Invecchiare
E adesso stanno cominciando a compiere trent’anni i dischi che compravo quando ero adolescente. Non so se sono d’accordo.
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March 25, 2022
#Dantedì
Ormai arriva tutti gli anni. E come tutti gli anni penso che sarebbe proprio bello (ri)cominciare a (ri)leggerlo, così, dall’inizio alla fine, senza note. Poi non lo faccio mai.
Ma comunque, anche quest’anno mi è tornato in mente il mio verso preferito, che si trova nella terza parte, intitolata il Paradiso, di un libro che si chiama Comedìa, o Commedia, conosciuto soprattutto come Divina Commedia, del milletrecento e qualcosa, e più precisamente è il verso 81 del Canto IX, dove Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante, dice così:
s’io m’intuassi, come tu t’inmii
E anche più su, ce n’è un altro, il verso 73, che dice:
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»
Che sono di quelle cose che, quando le leggo, mi viene sempre da dire: vacca d’un cane.
E lo dico con ammirazione e tale devozione, che è il motivo per cui di Dante cerco di parlare pochissimo, o addirittura di non parlarne mai per, come si dice, stare dalla parte del frumentone.
E tutto qui, a posto così.
Buon #Dantedì.
 
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March 21, 2022
Catalano
E in una poesia intitolata il mare visto da un poeta, dentro a un libro che si chiama Motosega, del 2007, Guido Catalano dice che una cosa che gli dà noia dei poeti è che difficilmente se gli chiedi di controllarti l’olio o le pasticche dei freni sono capaci.
(È una cosa che posto tutti gli anni, nella Giornata Mondiale della Poesia)
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March 19, 2022
Il nome del padre
Mio padre si chiama Iules, ma non si è sempre chiamato così. Prima era Jules, con la J.
Fino ai quarant’anni, più o meno, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che a pensarci mi gira un po’ la testa, su alcuni dei suoi documenti c’era la I e su altri c’era la J. All’anagrafe dicevano che c’era la I, ma poi si grattavano la nuca e rispondevano che boh, non erano sicuri neanche loro, perché una volta le schede venivano compilate a mano e proprio lì, sotto la I di Iules, c’era una specie di sbavo. Non si capiva se fosse inchiostro sputato dalla penna o uno sbavo intenzionale: nel 1953 la J non era una lettera molto in voga, c’era anche della gente che non la conosceva e forse l’impiegato dell’epoca, nel dubbio, o nella timidezza, aveva sbavato apposta.
Mia nonna, sua madre, gli aveva messo nome Jules perché era una grandissima appassionata dei fotoromanzi di Grandhotel, e nei fotoromanzi di Grandhotel c’era un personaggio di nome Jules che, da quello che avevo capito quando avevano provato a spiegarmelo, era un gran bel figaccione. Allora m’immagino che mio nonno, quando era corso all’anagrafe per registrare suo figlio, avesse scritto Jules su un bigliettino, copiandolo da un numero di Grandhotel con la calligrafia tremolante per l’emozione e per la scarsa abitudine allo scrivere, e non s’immaginava, forse, che Jules si dovesse leggere alla francese. All’impiegato dell’anagrafe aveva detto «iules», così, leggendolo com’era scritto, poi gli aveva fatto vedere il bigliettino e l’impiegato, nel dubbio, doveva aver compilato la scheda, forse apposta, con quello sbavo sulla I per farla sembrare una J.
Mi ricordo che mio padre fino ai quarant’anni, più o meno, cioè fino all’età che ho io in questo momento, che è una cosa abbastanza incredibile, si firmava con una I che sembrava una J, ed era contento e a posto così. Faceva anche un più bel ricciolo, sotto la I, una cosa quasi artistica, una specie di manifestazione di felicità ogni volta che doveva firmare un assegno o un voto sul mio diario o una giustificazione per la scuola. E io lo guardavo sempre con ammirazione, quando firmava, e gli dicevo: «Papà ma che bella firma, ma che bel nome» .
Solo che poi, un giorno, gli era arrivata una lettera dallo Stato o da quella cosa che adesso si chiama Agenzia delle Entrate. Dentro c’era scritto che bisognava prendere una decisione per chiudere la questione, perché lassù, negli uffici misteriosi della burocrazia statale, non erano mica tanto sicuri che fossero arrivate tutte le bollette e che fossero state pagate tutte le tasse.
Con quella lettera gli dicevano più o meno così: Gentilissimo Sig. Iules o Jules, si decida, le mandiamo un modulo da compilare e lei, entro e non oltre la tal data, deve scegliere il nome con cui vuole essere chiamato una volta per tutte, noi poi le invieremo tutti i documenti nuovi di zecca e aggiorneremo tutte le sue pratiche; però si decida, perché qua non ci capiamo niente.
E mio padre, me lo ricordo proprio così, è stato una settimana col mento appoggiato sul pugno, seduto al tavolo della cucina, a decidere come chiamarsi da lì in poi.
Poi una mattina, senza dir niente a nessuno, si era alzato presto, si era vestito bene ed era andato a spedire il modulo. Quando era tornato a casa si era fatto un caffè, e quando ci eravamo svegliati tutti, mia mamma, mia sorella e io, ci aveva chiamati in cucina e ci aveva detto: «Ragazzi, ho una notizia da darvi: mi chiamo Iules con la I.»

(Mio papà, quando aveva vent’anni e si chiamava ancora, indistintamente, Iules o Jules; quella lì di fianco è mia madre, che si chiama Francesca. Era il 1975 e io non ero ancora stato messo in cantiere, ma mancava pochissimo.)
***
Ho sempre pensato che decidere il proprio nome a quarant’anni, più o meno, sia una cosa giusta e dignitosa. Lo penso anche adesso, che ho poco più di quarant’anni anch’io, anche se faccio ancora fatica a rendermene conto.
Fosse per me, scriverei, voterei e approverei una legge per la quale ognuno, a quarant’anni, più o meno, o anche prima, se vuole, può scrivere una lettera allo Stato dove gli dice che nel pieno delle facoltà mentali ha preso la decisione fortemente ragionata, ponderata e magari anche discussa con la famiglia di cambiare nome. Anche il cognome, se ha voglia.  Poi, ovviamente, se a uno piace il nome che porta, cioè quello che gli hanno dato alla nascita, può tenerselo senza problemi. Non ci sarebbero obblighi, solo libertà e prese di coscienza. Sarebbe una specie battesimo laico, una cosa matura per una persona e, mi viene da pensare, anche per uno Stato.
Io, per esempio, non avrei dubbi.
Io, lo so per certo, se potessi, da domani mi chiamerei John Laser.
Questa cosa l’avevo scritta su Barabba, ormai dodici anni fa. Magari cambio qualche virgola o una frase o un tempo verbale, perché sono fatto così, ma tutti gli anni la ripubblico il 19 di marzo, quando mi ricordo, per la festa del papà. Cambio sempre anche la foto.
Una cosa cui devo dare atto a mio papà, Iules Manicardi con la I, è che, a differenza di tutto il resto del parentado vivente, non si è ancora mai creato un profilo su facebook e neanche su Instagram.
Bravo papà, auguri.
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