Marco Manicardi's Blog, page 12
July 25, 2022
Wu Ming 1 e Santachiara (e Calvino, Pavone e Revelli)
E in un libro che si chiama Point Lenana, del 2013, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara dicono che in quelle settimane di sbandamento, per dirla con il partigiano Kim in Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, bastava «un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trovava dall’altra parte». E che «questo nulla», come aveva scritto lo storico Claudio Pavone, era «capace di generare un abisso». E che poteva trattarsi di «un incontro casuale con la persona giusta o con la persona sbagliata; e poteva ricollegarsi al modo in cui si erano vissute le giornate seguite al 25 luglio 1943», cioè alla caduta di Mussolini. E che in quei giorni Nuto Revelli era un tenente degli alpini appena tornato dalla Russia, ma era già un partigiano quando, il 12 ottobre 1943, scrisse sul suo diario: «Al 26 luglio si poteva anche scegliere sbagliato. Se mi picchiavano, se mi sputavano addosso, forse sarei passato dall’altra parte, con i fascisti, con le vittime del momento. Oggi sarei con le canaglie, con i barabba, con le spie dei tedeschi.»
(È una cosa che posto tutti gli anni, quando mi ricordo, il 25 di luglio. Ormai posto solo le cose che posto tutti gli anni.)
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July 9, 2022
:)
C’è una cosa che posto tutti gli anni, anche se non la posto mai lo stesso giorno dell’anno, per ovvi motivi, ed è questa qui:
E poi quest’anno, con fare un po’ propiziatorio, volevo leggere una poesia di una grande poetessa del Novecento, accompagnato dal primo contrappunto dell’Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach. Ecco:
Ci risentiamo tra un po’.
Ciao.
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July 7, 2022
7 luglio
Nove anni fa, avevo appena 34 anni, ero con mio nonno, Corrado, fuori da un bar dove i miei genitori avevano organizzato un piccolo rinfresco per festeggiare la laurea in Scienze dell’Educazione di mia sorella, presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nella sede di Reggio Emilia; mentre eravamo lì, io e mio nonno Corrado, che parlavamo del più e del meno, a un certo punto lui si era fatto pensieroso e mi aveva detto: «Oh, Marco, questa è la piazza dove hanno ammazzato quei manifestanti.»
«Sì, nel 1960,» gli avevo subito risposto prendendo l’occasione al volo, che mi piaceva molto quando mio nonno cominciava a parlare delle sue cose passate, del PCI, delle manifestazioni, degli scioperi, eccetera, e dovevo anche aver provato a canticchiare il ritornello dei Morti di Reggio Emilia.
Lui aveva annuito e alzando un braccio aveva indicato un punto preciso della piazza.
«Io ero là,» mi aveva detto, «eravamo in fondo al corteo perché noi che venivamo dai paesi più lontani eravamo sempre gli ultimi. Non mi ricordo se ho sentito le schioppettate, ma mi ricordo che a un certo punto si son messi tutti a correre verso di noi, scappavano via.»
Delle volte coi nonni funziona così, quando invecchiano, si ricordano le cose solo quando c’è un oggetto o un posto che gli accende una lampadina in testa che magari era spenta da un bel po’, perché che fosse stato lì il giorno della strage, mio nonno, Corrado, non me l’aveva mica mai detto.
Allora mi ero messo a fare un rapido calcolo: lui era del ’25, era nato in dicembre, i morti di Reggio Emilia erano del 7 luglio del 1960; quindi quel giorno là doveva avere appena 34 anni.
E mentre deglutivo e mi veniva la pelle d’oca, anche se era un giorno abbastanza caldo, mio nonno, Corrado, era già rientrato nel bar, al rinfresco della laurea di mia sorella in Scienze dell’Educazione presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, nella sede di Reggio Emilia, per provare a mangiare un pasticcino o due in più, anche se gli avevano detto di limitarsi coi dolci per via del diabete, della pressione e tutto il resto.
Ma era fatto così, Corrado, era sempre stato un gran goloso.
(E anche questa è una cosa che posto tutti gli anni)
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July 2, 2022
Majakóvskij
E in un poema che si intitola Uomo, del 1918, che si trova anche dentro a un libro che si chiama Poemi, del 1963, Vladímir Vladímirovič Majakóvskij si domanda chi abbia ordinato ai giorni di luglieggiare.
(Ed è una cosa che posto tutti gli anni)
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June 29, 2022
Mia nonna faceva dei risotti buonissimi (un discorso)
[E questo è il testo del discorso che ho letto ieri a Novi di Modena, per l’Aia Folk Festival organizzato dal Coro delle Mondine di Novi di Modena. C’era Giancarlo Frigieri ad accompagnarmi con la chitarra e a suonare qualche pezzo (metto i link a Spotify qui sotto). Avremmo dovuto farlo all’aperto, ma minacciava pioggia e temporale, quindi ci hanno spostati nella sala da ballo del Circolo Arci Taverna, con le porte e le finestre aperte per non morire dal caldo. Avremmo dovuto farlo amplificato, ma quando il fonico è arrivato a chiederci cosa ci servisse gli abbiamo detto: non ci serve niente. Abbiamo fatto tutto davvero unplugged, sfruttando l’eco della sala, girando tra il pubblico, in mezzo alle sedie, con traiettorie casuali e pestando un piede ogni tanto, ma è stato davvero bello.
«Non avevo mai visto tanta gente piangere tutta insieme» mi ha scritto Gianca stamattina. Neanche io, devo ammettere. Buona lettura.]
***
Buonasera.
Si sente se parlo così?
Bene.
C’è caldo, eh? Portate pazienza.
Ecco, allora, ciao, io mi chiamo Marco Manicardi, sono il figlio di Iules e della Francesca e il nipote di Corrado e dell’Ada, e sono un novese, o meglio lo sono stato per i primi 26 anni della mia vita, dopo sono andato ad abitare a Carpi per questioni d’amore. Abito lì da 17 anni e sono 17 anni che la mia compagna mi dice che secondo lei mi ha tolto il selvatico.
Forse qualcuno di voi mi ha già sentito leggere, qui a Novi, e mi ha sentito leggere delle cose che parlavano a volte del terremoto, altre volte di Novi e dei novesi, di nonni e di bisnonni, di piccole lotte private contro il fascismo e di tante altre cose che, nel Novecento, sembravano normalissime. E anche oggi vi parlo più o meno di quelle cose lì, ma ve lo dico meglio dopo.
Prima vi presento il chitarrista che mi accompagna, si chiama Giancarlo Frigieri, viene da Sassuolo, per vivere spedisce piastrelle, ma nella vita è anche un grandissimo cantautore. Io e Gianca ci conosciamo da vent’anni, forse di più, e lui delle volte scrive delle canzoni che parlano anche di posti come questo. Adesso ve ne fa sentire una. (Ci sono due o tre parolacce, non gravissime, ma nell’arte le cose van chiamate col loro nome; lo dico per i bambini presenti, se ce ne sono. Il mio è lì, per esempio; comunque non è nulla, non preoccupatevi).
Quando Diego Zanotti mi aveva chiamato per chiedermi di parlare di (parole sue) i 50 anni del Coro delle Mondine di Novi di Modena visti da un novese io gli avevo detto subito di sì, così, sull’onda dell’entusiasmo. Solo che non avevo bene in mente cosa dire, forse non ce l’ho neanche adesso, quindi portate pazienza. Poi qualche settimana dopo mi aveva contattato la Giulia Berni, la nuova Direttrice del Coro, e mi aveva chiesto un titolo da mettere sul volantino, e io, che non avevo ancora scritto una riga di quello che sto leggendo ora, non sapevo cosa dire. Così mi ero inventato un titolo: “Mia nonna faceva dei risotti buonissimi”. E poi, qualche giorno dopo, anzi qualche giorno fa, perché son fatto così, arrivo sempre all’ultimo, mi son seduto davanti al computer e ho scritto “Mia nonna faceva dei risotti buonissimi” in grassetto sul foglio bianco. E ho pensato subito: E adesso?
Perché, ho pensato, io che cosa ne so della storia del Coro delle Mondine di Novi di Modena? Quasi niente. Sono nato che il coro era già lì, e più o meno da quando ho cominciato a capire le cose, diciamo intorno alla fine degli anni 80, ho sempre avuto modo di sentirle cantare, le Mondine, qua e là, quando c’era Torino Gilioli che le dirigeva, e per me era una cosa normale. Mi stupivo anche, mi ricordo, che non ci fosse un Coro delle Mondine in ogni posto del mondo, un po’ come la banda del paese.
Una cosa, però, mi ha sempre lasciato un po’ così. Mia nonna, che aveva un nome bellissimo, si chiamava Ada, era stata anche lei una mondina, ma non cantava nel Coro.
Ogni tanto, quando pensava che nessuno la stesse ascoltando, attaccava qualche canta mentre faceva i fatti in casa sua. Io da piccolo, ma anche da ragazzino, coi miei che lavoravano tutto il giorno, vivevo praticamente dai nonni, lungo Via Casoni, e avevo tutti gli amici lì, anche se casa mia era dall’altra parte di Novi, vicino alla chiesa. O meglio: gli amici ce li avevo nella parte sinistra di Via Casoni, guardando dalla Provinciale e andando verso la Fossa; quelli nella parte destra di Via Casoni non erano miei amici, anzi ci si guardava un po’ in cagnesco, non so di preciso il perché, erano gli anni 80 che funzionavano così.
Ma comunque, mia nonna, me lo raccontava sempre, tutti gli anni arrivava un camioncino e la tirava su con delle altre ragazze per portarle in Piemonte dei mesi a mondare il riso. Mi ha sempre raccontato di quei viaggi, delle camerate, del riso coi fagioli che le facevano mangiare tutti i giorni, a pranzo e a cena, dei piedi sempre nell’acqua, bagnata fino al culo, in chinòun (con la schiena piegata), col sinsèli dapartùt (con le zanzare dappertutto), dal psìghi (le piaghe e le vesciche), e così via, col capo in piedi col suo bastone a farle lavorare senza voltarsi per parlare una con l’altra, e così loro cantavano. E mi raccontava che il capo della loro camerata era suo padre, cioè mio bisnonno, che io non l’ho mai conosciuto ma mia nonna, l’Ada, mi diceva sempre che era uno che non era capace di tenere i soldi: loro erano una delle famiglie più povere di Novi e il padre non lavorava mai, stava sempre a bighellonare, lavorava solo qualche mese quando andava a fare il capo della camerata delle mondine in Piemonte, la stessa camerata dove stava anche mia nonna, sua figlia. E appena tornavano a Novi, a stagione finita, lui coi soldi che aveva guadagnato in Piemonte si comprava un cappello nuovo. E fine.
Questa è più o meno tutta la storia che conosco di mia nonna Ada, del suo essere stata povera, del suo essere stata mondina. Era così riservata che parlava pochissimo del suo passato, e anche a cantare la sentivo solo quando lei credeva che non l’ascoltasse nessuno. Magari pensava che fossi lungo via Casoni coi miei amici (quelli della parte sinistra) e invece ero nascosto nell’andito mentre lei cucinava e cantava.
«Ma perché, nonna, non vai a cantare col Coro delle Mondine, che sei stata mondina anche te, conosci tutte le canzoni e nel coro è pieno di tue amiche?» Le avevo chiesto una volta.
«Ma io non so mica cantare!» Mi aveva risposto lei.
E non eravamo più tornati sull’argomento.
E un’altra cosa, c’è da dire ancora, su mia nonna Ada. Anzi su di lei e mio nonno Corrado. Anzi due: una è che erano degli appassionati di liscio ma vigliacco se qualcuno li ha visti mai ballare, lo facevano mettendo la radio o la televisione a volume altissimo e si incrociavano nell’andito, si abbracciavano e ballavano, qualche giro di valzer e polka, poi ognuno tornava per i fatti propri. Questo ce lo raccontavano loro, è un po’ una leggenda, nessuno li ha mai visti dal vivo. Giuro.
L’altra cosa è che a mio nonno, Corrado, che era stato povero anche lui, non gli piaceva il riso. Lo mangiava, quando c’era, però se fosse stato per lui avrebbe evitato volentieri.
E mia nonna Ada, invece, il riso lo adorava. Faceva dei risotti buonissimi. Il mio preferito era quello coi funghi, che la vedevo che nella pentola, quando il riso era mantecato per metà, lei prendeva un panetto di burro, di quelli che si comprano allo Coop, qualche centinaio di grammi, lo scartava e via, ce lo buttava dentro intero. Veniva buono per forza, il risotto.
Ma quando era da sola con mio nonno, per tutta la vita, una volta a settimana, estate e inverno, mai che sbagliasse un giro, faceva il riso coi fagioli. Era buonissimo, sono convinto, ma mio nonno storceva sempre il naso e sbuffava.
«Ada, sei stata una mondina, il riso non ti è mica venuto fuori dalle orecchie?» Le diceva sempre in dialetto, in maniera anche un po’ più colorita di così.
«Macché,» rispondeva l’Ada, «mi piace da matti.»
Mia nonna Ada è morta in agosto del 2017, per un brutto male che però, per fortuna, l’ha presa che era già anziana. Qualche mese dopo mio nonno, Corrado, ha deciso che lui senza l’Ada al mondo non ci voleva stare, e ha smesso di muoversi, poi ha perso la vista, poi la parola, poi quattro mesi e mezzo dopo, a gennaio 2018, è morto anche lui. Hanno fatto un po’ come June Carter e Johnny Cash, se qualcuno conosce la storia. Se non la conosce, poi magari gliela racconto.
Adesso, io non sono credente, scusate, per me quando si muore si muore. Ma nel caso dovessi sbagliarmi, o se devo fare un lavoro di fantasia, ecco, me li immagino lassù, come si dice, che una volta a settimana lei gli fa da mangiare un risotto coi fagioli, un risotto buonissimo, e mio nonno che storce il naso e sbuffa e le dice «Mo Ada, mo incòra? L’am vin fòra dal cul!» (Ma Ada, ma ancora? Lo sai che non mi piace mica tanto!)
E poi, chissà, magari si mettono a ballare un giro di valzer o una polka.
Non lo saprà mai nessuno.
E comunque, insomma, cosa ne so io dei 50 anni del Coro delle Mondine di Novi di Modena? Quasi niente. O almeno, non so quasi niente dei primi 35 o 40 anni.
Poi è successo che circa dodici anni fa mia mamma (che è quella seduta lì) un giorno che ero a pranzo da lei mi fa: «Ho dato il tuo libro alla Giulia, mi ha detto che ti deve telefonare.»
Ho fatto due occhi grandi così.
Era un po’ di tempo che giravo con degli amici a leggere in pubblico un libro che si chiamava Schegge di Liberazione, che raccoglieva racconti, poesie, e storie in generale sulla Resistenza e sulla Liberazione. E mia mamma, senza dirmelo, ne aveva data una copia alla Direttrice del Coro delle Mondine. E la Direttrice del Coro delle Mondine, la Giulia Contri, mi aveva poi telefonato per dirmi che le sarebbe piaciuto fare una serata col Coro che cantava, e in mezzo alle cante metterci le letture da Schegge di Liberazione.
Oh, era successo davvero, una sera al Coccobello di Carpi. E poi ancora, a Rimini. E poi ancora delle altre volte e, insomma, così, come se fosse una cosa normale, a un certo punto ero entrato nella famiglia del Coro delle Mondine di Novi di Modena. E loro, le Mondine, sono diventate immediatamente e praticamente tutte mie nonne. Tutte, eh. Anche le più giovani. Anche la nuova Direttrice, che secondo me quando è nata io ero già grandicello… dov’è?… eccola, beh, è mia nonna anche lei.
Ci sono poi anche dei lati negativi, ad avere così tante nonne. Perché coi nonni funziona che a un certo punto non ci sono più. E tutte le Mondine che sono venute a mancare in questi dodici anni mi hanno lasciato un vuoto, qui, che, boh, lo so che è una cosa banale da dire, ma non è che riesca a spiegarlo meglio.
Come a ottobre dell’anno scorso, quando se n’è andata la Giulia. La Giulia Contri.
E visto sono qui a parlare della storia del Coro vista da me è ovvio che debba finire così, anche se non so bene come metterla giù, quindi la metto giù come l’avevo messa giù a ottobre, sul mio blog, e provo a dire la cosa su cui alla fine si concentrano tutti i pensieri, che è poi una delle cose più importanti tra quelle che mi siano capitate negli ultimi dodici anni, e questa cosa erano le telefonate.
Ogni tanto ne arrivava una che mi diceva più o meno: «Ciao Marco, ho visto quello hai scritto, ti va di leggerlo mentre noi cantiamo?»
E dopo stavamo al telefono delle mezz’ore a parlare dei perché e dei percome la Giulia aveva pensato di organizzare tutto e i motivi per cui farlo e così via, fino ai massimi sistemi.
Che poi parlava lei, soprattutto. Io annuivo. Non è che si potesse fare altro.
E ancora più potenti e memorabili erano le telefonate che cominciavano così:
«Ciao Marco, stiamo organizzando la tal cosa, ti va di venire a leggere?»
«Ma guarda che non ho scritto niente.»
«Allora scrivi qualcosa.»
«Ma non saprei mica cosa dire.»
«Dai, che invece lo sai. Scrivi.»
Ed erano potenti perché mi facevano alzare il culo, quelle telefonate, cioè me lo facevano appoggiare su una sedia per mettermi a scrivere delle cose da leggere in pubblico. E io, alla fine, che forse neanche troppo inconsciamente nella mia vita adulta ho sempre provato a scappare da questo paesino di settemila abitanti, alla fine tornavo sempre qui, e quelle volte che tornavo proprio per fare quello che lei mi aveva chiesto di fare finivano per essere alcune delle esperienze più emozionanti della mia vita.
Il mio natìo borgo selvaggio, il paese in cui sono nato, Novi di Modena, questo qui che abbiamo intorno, non è che abbia tanto da offrire ai turisti e ai viandanti: non ha neanche una piazza, per dire. E però ha una cosa che sono arrivati a invidiarci in tutto il mondo, o almeno ce la invidiano quelli che ci hanno avuto un po’ a che fare, da spettatori o da collaboratori, e questa cosa è il Coro delle Mondine. Anzi, meglio: il Coro delle Mondine di Novi di Modena, soprattutto da quando c’era lei, la Giulia Contri, a dirigerlo, con la stessa passione e la stessa forza, sempre, che fossero a New York, a Detroit oppure a Rolo, di là dalla Fossa Raso.
Perché aveva questa cosa, lei, era potente con la voce e con le mani quando dirigeva il Coro, ma anche quando ti chiedeva e ti indicava quello che sarebbe stato giusto fare in una certa occasione. E quell’occasione finiva per avere sempre un senso altissimo e profondo, antifascista, in prima linea per i diritti di tutti, per la pace, per l’ambiente, l’uguaglianza, la giustizia e, insomma, era sempre qualcosa che ti rendeva attivo e cosciente, ti accendeva il cervello. E quella cosa lì, oltre a quella di tramandare la memoria, è sempre stata la funzione del Coro delle Mondine di Novi, e lei l’aveva capito e dirigeva il Coro in quella direzione, senza mai tirarsi indietro, nei teatri, nelle piazze, nelle manifestazioni, o durante un pranzo alla Taverna.
Era una specie di Comandante Partigiano, la Giulia Contri.
Era davvero più forte dei cannoni.
E insomma, basta. Adesso, per finire, volevo dire solo un’ultima cosa. E cioè che qualche mese fa quando mi è squillato il cellulare verso mezzogiorno e mezza, che stavo facendo da mangiare in casa da solo, mio figlio era scuola, la mia compagna era a lavorare, ho messo giù il mestolo, ho guardato lo schermo, era Diego Zanotti.
«Pronto.» Ho risposto.
«Ciao Marco, sono Diego, Diego Zanotti, ti ricordi?»
«Sì che mi ricordo. Ciao Diego, dimmi,» gli ho detto, anche se un po’ me lo immaginavo già.
«Te lo chiedo come te l’avrebbe chiesto la Giulia?» Mi ha detto.
«Non lo so mica se ci riesci…» gli ho risposto.
«Hai ragione…» e si è fermato, e poi ha ripreso: «te lo chiedo come mi viene.»
E mi ha chiesto se volevo leggere qualcosa per l’AiaFolkFestival 2022, a fine giugno, e che gli sarebbe piaciuto che parlassi dei 50 anni del Coro delle Mondine di Novi di Modena visti da un novese. Anzi, non proprio da un novese in generale: da me.
Beh, ecco, era questo discorso qua. Che adesso è finito.
Grazie.
***
(le foto intere le trovate sul profilo fb di mia mamma, e le ha fatte Giancarlo Bigi)
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June 24, 2022
28 giugno: Mia nonna faceva dei risotti buonissimi
E martedì 28 giugno, verso le 21:00, al Parco della Resistenza di Novi di Modena, dentro l’Aia Folk Festival 2022, leggo una cosa che si intitola Mia nonna faceva dei risotti buonissimi, mentre Giancarlo Frigieri mi accompagna con la chitarra e suona qualche pezzo.
L’Aia Folk Festival è quella cosa molto bella organizzata nel mio natìo borgo selvaggio dal Coro delle Mondine di Novi di Modena. Anche mia nonna, quando era giovane, tutti gli anni la caricavano su un camioncino e la portavano in Piemonte. Il perché facesse dei risotti buonissimi lo spiego poi martedì, se ci riesco. Comunque ci provo.
(Dopo di noi c’è Tess Masazza, che io che sono invecchiato male conosco molto alla lontana e più che altro per sentito dire, però mia cugina, che è molto – MOLTO – più giovane di me, mi ha detto che viene soprattutto perché c’è lei.)
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June 22, 2022
Roddenberry
E nell’ultimo paragrafo dell’epilogo di un libro che si chiama La fisica di Star Trek, del 1995, di Lawrence Maxwell Krauss, c’è una frase di Eugene Wesley Roddenberry Sr., meglio conosciuto come Gene Roddenberry, che dice così:
«La specie umana è un organismo notevole, con un grande potenziale, e io spero che Star Trek abbia aiutato a mostrarci che cosa possiamo diventare se crediamo in noi stessi e nelle nostre capacità»
Il mio tema che parlava del Novecento finiva con quella citazione lì, virgolettata e tutto, nel 1998, l’anno dell’ultimo esame di maturità in sessantesimi.
Era andato anche abbastanza bene, se non mi ricordo male.
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June 16, 2022
Oh no, love, you’re not alone
Era una notte d’agosto, tornavo da Urbino con Grushenka, stavamo insieme da qualche mese e quella era la nostra prima vacanza: eravamo andati al festival Frequenze Disturbate a vedere i Dinosaur Jr, Julian Cope, gli Echo & The Bunnymen, gli Yo La Tengo e degli altri. Erano stati tre giorni molto belli, noi avevamo il fuoco delle cose nuove che ci bruciava dentro e quella notte là, saranno state le due o le tre, sfrecciavamo su un’autostrada vuota verso quella che da un mese circa era casa nostra con la mia vecchia Ford Fiesta, che chiamavamo Ronzinante e che aveva ancora la radio con le cassette. Le cassette si sentivano quasi tutte male, consumate dagli ascolti e dalle intemperie, ma ce n’era una che ero sicuro avrebbe suonato a dovere, così l’avevo pescata dalla tasca dello sportello alla mia sinistra e l’avevo infilata nel mangianastri. Avevamo cantato tutto il disco che c’era registrato sopra, e quando era arrivata l’ultima canzone l’avevamo urlata, insieme, con tutto il fiato che avevamo. Eravamo una cometa che schizzava sull’asfalto, a metà strada tra le Marche e l’Emilia, e sulle note finali, quando mi ero messo a fare il coro canticchiando “wonderful“, Grushenka aveva cominciato a ridere fortissimo e mi aveva detto uno dei suoi primi «ti amo» mentre la cassetta scattava sul lato A per ricominciare.
Dev’essere uno dei modi in cui nasce una “nostra canzone”, perché da quel giorno l’ultima canzone di quel disco lì lo era diventata per noi.
Era il 2005 e The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars aveva trentatré anni. Oggi ne compie 50 e Rock’n’roll Suicide è ancora la nostra canzone.
Pensa te.
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June 14, 2022
Invecchiare
E l’altro giorno eravamo in un bagno affollatissimo della riviera romagnola, eravamo in tredici, stavamo festeggiando un nostro amico che tra un po’ si sposa. Ma comunque, eravamo in questo bagno molto affollato con la musica molto alta e avevamo bevuto non molto, moltissimo, e stavamo bevendo ancora, coi piedi nella sabbia e le facce ebeti e fuori posto, quando un gruppetto di ragazzi che stava festeggiando un diciottesimo compleanno si era avvicinato a noi e abbiamo scambiato qualche parola. Ce n’era uno, tra questi ragazzi, vestito un po’ da fighetto con la camicia aperta sul petto senza neanche un pelo, i capelli scolpiti e con la faccia placida e pulita, che è venuto vicino a me e al mio amico Paltro a chiederci cosa stessimo facendo.
«È un addio al celibato,» gli abbiamo spiegato.
«E quello che si sposa è quello lì vestito da cretino?» Ci ha chiesto.
«Sì,» gli abbiamo risposto.
E abbiamo chiacchierato quattro o cinque minuti con lui. Ci ha chiesto quanti anni avevamo, gli abbiamo detto che siamo sui quaranta.
«Potreste essere i miei genitori,» ci ha detto.
«Sì,» gli abbiamo risposto con la testa bassa.
Poi ci ha chiesto delle altre cose: se avevamo bevuto, quanto, cosa; come passavamo le serate a quarant’anni, se avevamo mogli e figli, e così via. E si vedeva, giurerei, che non ci stava prendendo per il culo, non stava deridendo dei vecchi fuori luogo, ma era davvero interessato a queste strane forme di vita un po’ euforiche che aveva di fronte. Non sono sicuro che stesse osservando come sarebbe potuto diventare, ma comunque era curioso e gentile. Era bello parlare con lui. Faceva stare bene.
E «mi raccomando, non ascoltare quello che ti dicono quelli della nostra età, non seguire i nostri consigli e fai di testa tua, sempre.» Gli ho detto alla fine. Ero sincero.
Lui ci è un po’ rimasto. Poi il mio amico Paltro gli ha circondato le spalle col suo braccione tatuato, e con la faccia seria e un po’ commossa gli ha detto: «Segui sempre i tuoi sogni.»
E ci siamo salutati. Lui è tornato a festeggiare con i suoi amici neo diciottenni, noi vecchi ci siamo incamminati verso un altro bagno, forse il terzo o il quarto. Ci siamo fermati a pisciare nella pineta, abbiamo sbraitato qualcosa di cretino al futuro sposo, e una volta ci siamo guardati negli occhi, io e Paltro, e abbiamo annuito. Ci eravamo capiti. Eravamo contenti.
E abbiamo ricominciato a bere.
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June 6, 2022
Trentacinque anni fa
Era il 7 giugno del 1987, avevo otto anni e dormivo dai nonni insieme a mio papà. Erano le quattro o le cinque del mattino, mi ero svegliato perché c’era del trambusto che veniva dal piano di sotto. Ero sceso dal letto, mi ero infilato le ciabattine e affacciandomi alle scale avevo visto mio papà che era già vestito per uscire, stava prendendo le chiavi della macchina.
«Papà, posso venire anch’io?» Gli avevo chiesto.
«No,» aveva risposto mio papà, «devi andare a scuola, torna a letto.»
Qualche ora dopo ero in classe, in seconda elementare, erano gli ultimi giorni poi sarebbero iniziate le vacanze. Avevo aspettato che la maestra finisse di fare l’appello, poi avevo alzato la mano.
«Marco, cosa c’è?» Aveva chiesto la maestra.
«Devo dire una cosa,» Avevo risposto.
«Va bene, dilla pure.»
«Stanotte è nata mia sorella.»
E tutta la classe, mi ricordo, si era messa ad applaudire.
Dopo, al pomeriggio, mio papà era tornato a casa, aveva mangiato qualcosa, mi aveva caricato in macchina e mi aveva portato all’ospedale di Carpi. C’era da attraversare un corridoio che mi ricordo molto lungo, poi si entrava in una stanza divisa a metà da un vetro. Dall’altra parte del vetro c’erano due o tre incubatrici con dentro dei bambini molto ma molto piccoli. Io arrivavo a vederli solo in punta di piedi, e mentre ero lì che guardavo senza saper bene come stare e che cosa fare, mio papà con un dito mi aveva indicato una delle incubatrici.
«È quella lì.»
Allora non avevo ben capito il perché fossero tutti così in ansia, invece adesso, che sono papà anch’io, quando ci ripenso mi viene un po’ il magone. Mia sorella era un cosino piccolino, tutto scuro, quasi violaceo, rannicchiato a occhi chiusi dentro una teca di vetro. Era nata prima del previsto, un po’ troppo per poter essere fuori pericolo, e per qualche settimana andavamo là tutte le sere per vedere se tutto procedeva come doveva procedere. In parole povere, andavamo a vedere se era ancora viva.
E adesso mia sorella compie trentacinque anni.
Io ne ho quarantatré e pian piano va a finire che diventiamo coetanei.
Ci penso e mi viene solo da dire una cosa banale, ma che comunque è abbastanza vera: «vacca d’un cane, come passa il tempo.»
Auguri, sorellina.
Avanti così.
(E anche questa, che mia sorella sia d’accordo o meno, è una cosa che posto tutti gli anni. E quella che segue è una foto di trent’anni fa.)
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