Marco Manicardi's Blog, page 16
February 20, 2022
L’Adele è una roccia
L’Adele è una tipa arcigna, battagliera, capace di farsi rifare la casa perché un muratore le ha sbagliato di quattro millimetri la posizione di una porta, capace di annullare un contratto telefonico per un centesimo non previsto sulla bolletta, cose così. L’Adele è una roccia. Anche se è anziana, anche oggi, è ancora una roccia.
L’Adele, quando era giovane, quando ancora non aveva vent’anni, era una prestigiatrice. Anzi no: l’Adele era la valletta di Antonio, il prestigiatore, il mago. Era quella che si faceva segare in due coricata in una cassa e muoveva i piedini della parte bassa del corpo tagliata a metà, era quella che pescava dal pubblico i malcapitati per ipnotizzarli, poi entrava vestita in un baule, veniva infilzata con le spade e usciva, ta-dà, in mutandine e reggiseno con le gambe sottili in mostra, che negli anni cinquanta, quando l’Adele non aveva ancora vent’anni, erano cose da spalancare la bocca dei presenti. 
L’Adele aveva cominciato a fare la valletta di Antonio quando sua sorella più grande, l’Ada, che era stata valletta prima di lei, aveva deciso che preferiva la risaia e i campi di grano al continuo spostarsi della carovana. Ma all’Adele piaceva la vita del circo, e le piaceva Antonio, che però era molto più vecchio di lei e, soprattutto, era sposato.
C’era un’Italia sbrindellata, a quei tempi là, la guerra era appena finita, i muri erano rotti dalle bombe, di asfalto sulle strade non ce n’era, e da mangiare ce n’era ancora meno, ma al circo, se andava bene, un po’ di più. E mentre l’Ada nel piatto aveva il riso della risaia e il pane del lavoro nei campi, l’Adele, ogni tanto, mangiava i fagioli e la salsiccia che, dice, come li cucinava la moglie di Antonio, nessuno.
Girava e girovagava, l’Adele. La carovana si fermava e montava il tendone, e poi la sera, dopo i leoni e i pagliacci, lei e Antonio avevano le luci dello spettacolo puntate sulla faccia, chilometri di fazzoletti colorati ripiegati nelle maniche della giacchetta, cilindri coi conigli, palloncini e colombe bianche, la cassa da tagliare in due e muovere i piedini nudi nell’altra metà, il pubblico da ipnotizzare, le spade per farsi trafiggere e, ta-dà, uscire in mutandine, reggiseno e le gambe giovani e sottili sulle bocche spalancate dei presenti. Poi smontare, caricare, rimettersi in viaggio, girare e girovagare, montare ancora e di nuovo le luci dello spettacolo negli occhi.
Ha un milione di storie da raccontare ai nipoti, l’Adele, come di quella volta che avevano scoperto che al pagliaccio piacevano le bambine. Erano in un posto sperduto, tipo in Sardegna, e i sardi volevano ammazzarlo, il pagliaccio. Loro, quelli del circo, lo nascondevano nella gabbia con l’elefante. Poi gli avevano detto «Va’ via, pagliaccio, che se non t’ammazzano i sardi, prima o poi la testa te la spacchiamo noi». Storie così. Ma proprio tante. 
E mentre il circo era lì nel suo solito girare e girovagare, un giorno di maggio, va a finire che la moglie di Antonio si ammala e muore. Piangeva Antonio, suo marito. Piangeva l’Adele, la valletta. Piangeva tutto il circo perché le volevano un gran bene. Poi le avevano fatto un bel funerale ed erano ripartiti con la nostalgia nel cuore e anche nello stomaco, che come faceva i fagioli con la salsiccia lei, la moglie di Antonio, nessuno.
E in quell’Italia sbrindellata dei primi anni cinquanta, anche se era molto più vecchio della sua valletta, ora che Antonio e la moglie li aveva separati la morte, lui, il mago, una sera d’estate, aveva preso l’Adele per mano e le aveva detto «Ti voglio bene».
Si erano poi sposati in una chiesa del paese dove il circo era approdato, e da quel giorno dicevano che gli spettacoli erano ancor più magici e colorati. E c’era l’amore nel sorriso di quella ragazzina che spuntava dal baule trafitta dalle spade e, ta-dà, in mutande, reggiseno e le gambe lucide e sottili sulla bocca spalancata dei presenti.
Per mesi e mesi l’Adele e Antonio avevano girato e girovagato e si erano amati, dandosi la mano e un bacio al momento dell’inchino e degli applausi. Ma la vita, anche la vita era sbrindellata, e qualche anno dopo, non tanti, in verità, quando l’Adele ormai stava per diventare donna e non più ragazzina, il vecchio Antonio si era ammalato di un brutto male, l’Adele non dice quale, ma si capisce, era un male grosso, che prendeva la pancia e costringeva il vecchio mago in posizione orizzontale sopra il letto della roulotte, con gran dosi morfina due o tre volte al giorno, per giorni, per mesi. Mesi in cui il circo si spostava, girava e girovagava, ma lo spettacolo dei prestigiatori era stato cancellato. Niente palloncini e colombe bianche che scomparivano, niente chilometri di fazzoletti colorati nelle maniche della giacchetta, c’era solo un vecchio mago morente sul letto di una carovana, che pian piano aveva perso i sensi e la parola, con litri di morfina che non placavano più il dolore, e con la sua piccola moglie dalle gambe giovani e sottili lì al suo capezzale che gli asciugava il sudore.
Poi un giorno il circo era arrivato in una grossa città, una città importante, con tanto pubblico pagante. Allora il padrone del circo, col cappello altissimo e la divisa rossa dai bordi dorati, aveva bussato alla roulotte di Antonio e aveva detto: «Adele, Adele, scusa, te lo chiedo per favore, proveresti a far tu da sola lo spettacolo, stasera?»
«Oh, non lo so», gli aveva risposto l’Adele, «non sono capace, sono solo la valletta.»
«Dai Adele,» la incitava il padrone, «questa è una serata importante, c’è pieno di gente, le alte cariche, i bambini, proviamoci ti prego.»
E l’Adele, che è una roccia, dopo dieci minuti di preghiere del padrone aveva risposto che sì, ci provava, che doveva solo dare la morfina a suo marito poi si preparava per uscire nell’arena, come sempre, dopo i leoni e i pagliacci. Da sola, questa volta. 
Il circo era davvero pieno, l’Adele aveva le luci dello spettacolo sulla faccia, un semicerchio d’occhi addosso, i conigli nel cappello, chilometri di fazzoletti colorati che uscivano svolazzando dalle maniche della giacchetta, ipnotizzava il pubblico, si faceva tagliare in due da un pagliaccio e muoveva i piedini nudi, si faceva infilzare dalle spade e poi usciva, ta-dà, in mutandine e reggiseno e le gambe giovani e sottili sulla bocca spalancata dei presenti.
Andava meravigliosamente, l’Adele, gli applausi erano un fiume d’affetto e ammirazione, e mentre giocava con le colombe e le faceva sparire e poi ricomparire, non lo avrebbe detto nessuno che la sua bocca tremava, e tremava perché nei primi minuti dello spettacolo l’Adele aveva voltato la testa sul pubblico e là, in prima fila, sulla destra, seduto con una mano a pugno a sorreggere il mento, c’era Antonio. Che la guardava e rideva.
Ma l’Adele è una roccia. L’Adele aveva concluso lo spettacolo, fatto un inchino e, quando aveva alzato la testa con la bocca tremolante, aveva visto Antonio alzarsi in piedi, barcollare verso l’uscita e andare via. Così dopo gli applausi era uscita dal circo, aveva fatto una gran corsa a perdifiato e lo aveva raggiunto, lo lo aveva sorretto, lo aveva portato alla roulotte e appoggiato in orizzontale sul letto. Poi si era seduta di fianco a lui.
Lui le aveva preso la mano. Aveva aperto gli occhi e con la voce troncata dallo stomaco attorcigliato, e per la prima volta faccia a faccia dopo troppi mesi le aveva detto «Adele, adesso che sai tutto quello che c’è da sapere, sono contento, posso andare.»
Poi la mano del mago si era afflosciata, il petto si era fermato.
E Antonio era morto sorridendo, con calma.
L’Adele è una tipa arcigna, battagliera, capace di farsi rifare la casa perché un muratore le ha sbagliato di quattro millimetri la posizione della porta, capace di annullare un contratto telefonico per un centesimo non previsto sulla bolletta. Cose così. L’Adele è una roccia. Anche se adesso è anziana, anche oggi, è ancora una roccia.
Ma quando l’altro giorno ha finito di raccontarmi la sua storia, l’Adele, mia zia, la sorella più piccola di mia nonna Ada, appena ha alzato la testa l’ho vista che aveva lo sguardo bagnato e la bocca che un po’ tremava.
Non è durato molto, qualche secondo, poi si è ripresa e gesticolando mi ha chiesto se volevo conoscere il trucco del baule con le spade. Questo però non posso raccontarvelo, le ho promesso che è un segreto.
***
[Questo pezzo l’avevo scritto qualche anno fa, poi era finito in un reading che si chiamava Si stava meglio quando si stava meglio, e poi in un ebook gratuito che si chiamava anche lui Si stava meglio quando si stava meglio. Oggi lo rimetto qui, correggendo qualche refuso, qualche tempo verbale e qualche virgola, perché sono fatto così, e perché oggi l’Adele compie 80 anni. E dopo alcune vicissitudini terribili capitate nel 2021, cose che avrebbero steso quasi chiunque, lei, l’Adele, con grande stupore di medici e specialisti che ancora non si spiegano come mai, si è ripresa e ha una testa che vorrei averla io, una testa così. Una testa lucida e dura, come una roccia.]
 
(La foto l’ha fatta qualche ora fa mia sorella, @marcymany, che con le foto è più brava di me.)
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February 15, 2022
Dei ricordi (38)
E il 16 febbraio del 2016, nel tardo pomeriggio, ero a Mirandola, in provincia di Modena, anche se poi Mirandola è di là, nella parte sbagliata del Secchia, e noi che stiamo di qua facciamo un po’ fatica a sentirci affini, ma comunque, era tardo pomeriggio, ero a Mirandola e scrivevo una cosa che diceva così:
Piove come se piovesse.
Si vede che pioveva.
(Qui ci sono degli altri ricordi, se uno è interessato)
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February 14, 2022
Una rosa è una rosa è una rosa?
C’è una cosa che posto tutti gli anni, il 14 di febbraio, quando mi ricordo, e tutti gli anni la edito un po’, magari cambio anche solo una virgola, non che sia importante, ma sono fatto così. Ecco, quest’anno, chiedo scusa agli affezionati lettori di questo blog, ho poco tempo e quindi metto il link a quella che ho postato l’anno scorso.
Si intitola “Una rosa è una rosa è una rosa?” e parla di fiori, di amore alla Scuola Materna e di un’altra cosa che si capisce alla fine. Comincia così:
Avrò avuto quattro o cinque anni, ero al secondo o al terzo anno di scuola materna, dalle suore di Novi di Modena, e quando la mamma mi aveva chiesto una di quelle cose che chiedono i genitori ai figli piccoli per far finta di trattarli come adulti e soprattutto per far ridere gli altri adulti lì intorno, e cioè «Ce l’hai una morosina?», io avevo risposto deciso: «Sì che ce l’ho!»
«Chi è? Una tua compagna di classe?»
«Sì,» avevo risposto fiero, «si chiama Marcella.»
E continua qui.
Buon San Valentino anche a voi.
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February 13, 2022
Una cosa che non interessa a nessuno
Ho appena finito di (ri)leggere tutti gli X-Men di Chris Claremont, quelli scritti dal 1975 al 1991, compresi tutti gli annual, gli speciali, le miniserie, le serie parallele tipo New Mutants e X-Factor che aveva iniziato e a un certo punto lasciato ad altri, e anche, alla fine, quella specie di sequel disastroso che era X-Men Forever, dal 2009 al 2011, che chiudeva tutte le trame lasciate in sospeso quando gli avevano tolto la serie nel 1991 e ne apriva poi delle altre di cui non vedremo mai la fine e, mi viene da dire, per fortuna. Ci ho messo qualche anno a (ri)leggere tutto in lingua originale su Marvel Unlimited, alla sera, nei fine settimana e nei ritagli di tempo, e leggendolo in lingua originale ci si accorge di una scrittura piena di capolavori linguistici, dialetti, idioletti e regionalismi, e riferimenti più o meno espliciti alla letteratura, al cinema e alla cultura pop di tre decenni e oltre e, insomma, la cosa che volevo dire, anche se forse non interessa a nessuno, è che Chris Claremont è uno dei più grandi scrittori del Novecento, anche se non lo sa quasi nessuno, e sicuramente il più grande sceneggiatore di cose seriali della Storia, e non parlo solo di fumetti, ma di tutto, di romanzi, di telefilm e di serie TV, di saghe cinematografiche e poemi cavallereschi, eccetera, e dopo averlo (ri)letto tutto mi sento una persona migliore. Che è poi l’effetto che di solito fanno quelli bravi. E quindi, ecco, a posto così. Buona domenica.
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February 10, 2022
Tutta Palestra (quattro anni dopo) (anzi, dieci)
[E ieri sera, dopo le due scossette di terremoto con epicentro a meno di dieci chilometri da dove stavo appoggiando il culo, mi è tornato in mente un discorso che avevo fatto a Novi di Modena nel 2016, quando, a quattro anni dal terremoto del 2012 che aveva distrutto il mio natìo borgo selvaggio, il Coro delle Mondine mi aveva chiesto di dire qualcosa e mi aveva fatto accompagnare, nelle letture, da Paolo Fresu e dalla Scraps Orchestra – una cosa che prima o poi dovrò mettere nel curriculum. Lo ricopio qui sotto, uguale uguale, con tutti i suoi refusi, per rileggermelo e vedere se le cose che avevo imparato allora me le ricordo ancora, o se ho imparato qualcosa di nuovo, o se invece ho disimparato tutto. Mah. Intanto, speriamo bene]
(1)
Buonasera a tutti.
Si sente?
Bene.
Io mi chiamo Marco Manicardi, alcuni di voi mi conoscono perché siamo cresciuti insieme, altri mi conoscono come il figlio di Iules, altri come il nipote di Corrado. Qualcuno invece non mi conosce, e gli basti sapere che sono nato a Carpi nel 1979, nello stesso ospedale dove una mia amica, la mattina del 29 maggio del 2012, ha iniziato a partorire in sala operatoria e, nel primissimo pomeriggio, ha poi dato alla luce un bambino bellissimo nel parco fuori dal pronto soccorso. Ma comunque, dicevo, sono nato a Carpi ma è a Novi che ho passato i primi 26 anni della mia vita, dopo sono andato a stare in centro storico a Carpi, per Amore. Mai avrei pensato che sarei diventato (virgolette) un fighetto carpigiano, e invece, portate pazienza, con l’amore non è che si possa fare tanto i furbi.
La cosa che vi leggo stasera è molto breve, sono nove minuti divisi per tre, si intitola Tutta palestra e i primi tre minuti iniziano martedì 29 maggio 2012, al mattino, quando ero nell’epicentro epicentrissimo del terremoto, perché di mestiere faccio l’ingegnere informatico tra Medolla e Mirandola (che culo, eh?), e mi ricordo che all’epoca, facendo due conti con INGV, Google Maps, latitudini e longitudini, ho scoperto che il centro esatto della catastrofe era a 500 metri scarsi dalla mia sedia.
Mi sono messo non so neanche come sotto il tavolo ad aspettare che finisse, sono scappato fuori, le cose cadevano, uno specchio scoppiava, i muri si aprivano, e a un centinaio di metri dal parcheggio dove ho finito la mia corsa c’era una colonna di fumo bianco che saliva. Lì, abbiamo saputo dopo, erano morte delle persone.
Poi il resto, come si dice, è storia: storia con la S maiuscola che ci accomuna tutti quanti, dalle nove e mezza del mattino all’una del pomeriggio dello stesso giorno, poi nelle settimane successive e così via. E poi ci sono tante storie con la s minuscola, ché di quel periodo là, ognuno ha la sua e, non so voi, ma io mi sono rotto un po’ i maroni di dire in giro la mia, che più passa il tempo e meno mi sembra speciale. Ha perso quella centralità nell’ordine delle cose che prima gli attribuivo. E forse è un buon segno. Vuol dire che la testa si è un po’ rimessa ad allenarsi per guardare avanti.
E infatti, quando mi hanno chiamato qui per parlare di Ricostruzione, non sapevo da dove cominciare. Poi ho capito che dovevo cominciare dalla mia testa. Dall’esercizio quotidiano che, coscientemente o meno, bisogna fare.
Non tanto per non avere paura, perché forse la paura vera l’abbiamo avuta solo in quei mesi là del 2012, mentre le cose ci capitavano intorno e noi non capivamo niente. Una gran paura, è vero, ma la paura è una sensazione con cui, sembra strano, si convive.
È la disperazione, quella con cui si devono fare i conti.
E la disperazione arriva dopo, arriva quando la paura non fa quasi più paura.
Allora penso che per ricostruire anche i muri delle nostre case dobbiamo prima capire come ricostruirci i nervi. O come esercitarci per farlo. Come si fa coi muscoli, come si fa in palestra.
(2)
Nel giugno del 2012 ero venuto qui a Novi a leggere delle cose, qualcuno di voi forse c’era e si ricorda, e dicevo che la parte interessante dei terremoti è che poi ognuno impara delle cose che prima non s’immaginava neanche. E alcune di queste cose le abbiamo imparate tutti, noi terremotati, come per esempio che non si può più, d’ora in poi, vivere come se non dovesse più esserci il terremoto.
Poi ci sono delle cose che ognuno impara a modo suo. E avevo fatto una lista delle cose che avevo imparato io, tra le quali dicevo che:
Ho imparato a individuare al volo i muri portanti delle stanze in cui entro.
Ho imparato a valutare sommariamente l’entità di una crepa.
Ho imparato a trattenere il magone per una crepa su di un edificio caro.
E ho imparato che ci sarà sempre almeno un altro edificio caro con una crepa in più.
Ho imparato a non rispondere a chi mi parla di spostamento dell’asse terrestre, di fracking, di complotti, di «ho un amico geologo che dice che», eccetera.
Ho imparato a rimanere calmo durante le piccole, continue scosse di assestamento.
Ho imparato che mettersi a correre non è la reazione migliore (quasi mai).
E ho imparato a fare delle docce velocissime.
Per non parlare della cacca.
Ecco, adesso che sono passati quattro anni, com’è andata la mia ricostruzione nervosa? Quelle cose che avevo imparato le so ancora? Se me le ripasso in testa, penso di sì. Ma mi son ritrovato a pensare che se dovesse ricapitarmi una cosa del genere, non sono tanto le cose che ho imparato che mi salveranno, ma sono le cose che sarò capace di fare adesso che so com’è un terremoto.
Sarò capace, per esempio, di non mettermi a correre?
Sarò capace di consigliare al volo chi mi sta intorno e che magari un terremoto non l’ha mai visto?
Sarò capace di rimanere calmo, di ragionare?
Sempre? Anche adesso che ho un figlio?
Sarò capace di non arrabbiarmi con chi parlerà nuovamente di complotti e previsioni e altre cazzate del genere?
Sarò capace, soprattutto, di aiutare qualcuno? Fisicamente, moralmente, economicamente?
E poi sarò capace di aiutarne un altro, e poi un altro ancora e così via finché ci sarà qualcuno alla mia portata?
Sarò capace?
Eh. Queste sono le cose che vorrei saper fare, se mai dovesse ricapitare. Speriamo di no.
E più passa il tempo, più spero di allungarla, questa lista di domande. Perché forse la ricostruzione del sistema nervoso è un esercizio, come le rivoluzioni, che iniziano sempre a casa, davanti allo specchio del bagno.
Ecco, a tal proposito, ci sono solo un paio di cose che so già che non sarò capace e che ho, come dire, disimparato. Per esempio ho ricominciato a fare delle docce un po’ più lunghe, con delle belle insaponate di qualche minuto.
E quando vado a fare la cacca, ahimè, mi porto dietro il giornale.
(3)
Verso la fine di luglio del 2012, che era il sessantesimo anniversario di matrimonio dei miei nonni (adesso sono quasi sessantaquattro, pensa te), siamo andati nella via dove c’era prima la loro casa, che poi c’è ancora, solo che non ci si può più entrare e nel 2016 è ancora lì a far da monumento… ma comunque, quella sera di fine luglio del 2012, in fondo alla via aveva appena riaperto, dopo quasi due mesi, la pizzeria, che praticamente era l’unico edificio agibile sulla strada. E quella sera la pizzeria era piena di gente, c’era da far la fila, e una cosa bellissima che si notava, dopo due mesi dalla catastrofe, è che c’era della contentezza. C’era della contentezza a far la fila.
E ancora così? Non lo so. Credo di no.
Dopo, la stessa sera, parlando un po’ coi miei genitori, a tavola, ho scoperto che il meccanico delle biciclette, che aveva la bottega squarciata nella zona rossa, aveva riallestito il negozio nel suo garage e anche adesso lavora lì tutti i giorni.
E poi c’era il barbiere, che dopo decine di anni di lavoro a Rolo era appena riuscito ad aprire la bottega in centro a Novi, il suo paese, e adesso tagliava i capelli regolarmente al primo piano di casa sua, appena fuori dalla zona rossa, supposto che avesse un senso parlare di una zona rossa, a Novi di Modena, che mi vien da dire che dove non era rossa era fuxia; in certi posti era bordeaux.
E allora, per concludere, e intanto vi ringrazio e scusate se vi ho fatto perdere del tempo, mi è venuto da pensare che non è tanto questione, come si diceva sui giornali e in televisione, di emilianità (che non esiste, l’emilianità) o di tenere botta (uno slogan che alla fine della fiera vuol dire più o meno “portiamo pazienza”), ma invece, forse, è come dice lo scrittore Paolo Nori in un discorso bellissimo intitolato Noi e i governi, che ha dentro un pezzo che fa così:
[…] c’è un mio amico, […] che è uno storico della città di Pietroburgo e gli avevano impedito di fare il suo lavoro perché era un antisovietico, seguito dalla polizia segreta, e è stato costretto a lavorare in fabbrica e ha continuato a studiare per conto suo, di notte, e andava in biblioteca al sabato e alla domenica, e lui per tutta la vita, se la libertà fosse un muscolo, che si rafforza con l’esercizio, come tutte le altre cose, be’, se la libertà fosse un muscolo, o un fascio di muscoli, come i muscoli addominali, che lì non si scappa, si sente al tatto, o ce li hai o non ce li hai, non te li danno gli altri, te li fai su te, con la pratica, be’, è come se lui, quel mio amico lì, […], la sua libertà l’avesse esercitata tutti i giorni per quarant’anni e l’Unione Sovietica è stata la palestra ideale, per lui, e andava in giro per l’Unione Sovietica con il suo ventre piatto da pugilatore e guardarlo andare era un piacere.
Ecco, adesso non lo so come andrà a finire, che dopo quattro anni dalle nostre parti c’è ancora un bel po’ di disperazione, altro che l’emiliano di qua e l’emiliano di là. Ma la ricostruzione è iniziata. Almeno un pochino. E dove non è iniziata, forse è ora che ci esercitiamo a farla iniziare dentro le nostre teste. Con esercizio costante. Una pratica quotidiana, dove e quando possibile.
Perché la ricostruzione è un muscolo. E si potrebbe dire che le cose come i terremoti possono farci disperare all’infinito, oppure possono farci venire il ventre piatto del pugilatore.
La seconda alternativa la possiamo scegliere.
È come se ci avessero dato gratis la tessera di iscrizione.
Anche perché qua, a Novi di Modena, ma anche a Rovereto, a Sant’Antonio in Mercadello, a Cavezzo, Medolla, Mirandola, a San Felice, e in generale in tutta la bassa, anche adesso, anche oggi, è tutta palestra.
 
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February 7, 2022
Svegliandosi una mattina da sogni agitati
Marco Manicardi si trovò trasformato, nel suo letto, in un vecchio quarantatreenne.
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February 3, 2022
Comunque
E comunque, il Miny ha detto che «comunque» (inizia spesso le frasi con «comunque», non so come mai) «quest’anno non c’è nessuno meglio di Colapesce e Dimartino, forse solo Noemi ma perché ha i capelli come Ginny Weasley». E oggi è tutto il giorno che canticchia Musica leggerissima. Mi ha anche chiesto di comprargli il CD (gliel’ho comprato, fra qualche giorno arriva).
Poi è filato in camera sua, ha rumato un po’ nella scatola dei Lego, ed è tornato, appunto, con Colapesce e Dimartino:
 
E comunque, mi sembra che sia entrato appieno nell’atmosfera sanremese, visto che al secondo anno di festival guardato con cognizione di causa dice già che «erano meglio le canzoni dell’anno scorso».
E poi niente, tutto qui.
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January 28, 2022
Dai
E ieri mattina eravamo tutti e tre, io, Grushenka e il Miny, fuori da una farmacia con le nostre belle FFP2 infilate, davanti a una porta a vetri laterale dove si facevano i “tamponi di sblocco”, per sapere se eravamo negativi, cioè se eravamo guariti, o almeno era guarito qualcuno di noi tre, e se potevamo uscire dall’isolamento, o almeno se sarebbe potuto uscire dall’isolamento qualcuno di noi tre, perché, bisogna dirlo, dopo venti giorni di quarantena, prima, e isolamento, dopo, ci eravamo anche un po’ rotti i maroni.
Ma insomma, eravamo lì che aspettavamo un responso, ci avevano già infilato gli stecchini su per il naso, uno alla volta, ci avevano poi mandati fuori ad aspettare, e il ragazzo della farmacia, il farmacista, stava seduto dentro, dietro la porta a vetri, davanti a un computer a produrre i nostri referti. Eravamo, come si dice, in trepidante attesa.
«Speriamo che ci dicano che siamo negativi, » aveva detto il Miny, che ha sei anni, quasi sette, e secondo me coniuga i verbi davvero molto bene.
«Eh, speriamo,» aveva risposto Grushenka.
E io l’avevo guardato, il Miny, e mi era venuta in mente una cosa.
«Hai presente i Camillas?» Gli avevo detto. «Quelli che hanno fatto la canzone del Bisonte che ti piace tantissimo?»
Il Miny aveva fatto di sì con la testa.
«Ecco,» avevo continuato, «loro hanno scritto anche una canzone che si chiama La Macchina Motivazionale, e che fa così: Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai!» (eccetera).
E avevamo iniziato tutti e tre a saltellare e a cantare: «Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai! Dai!» (eccetera).
E a un certo punto la porta a vetri si era aperta, era uscito il ragazzo della farmacia, il farmacista, con tre fogli in mano, e dagli occhi, che aveva anche lui la sua bella FFP2 infilata, si vedeva che sorrideva. E aveva detto: «La canzone motivazionale ha funzionato, perché siete tutti negativi.»
E ci eravamo messi a ridere, tutti e quattro.
E adesso, bon, a posto così. Dai!
(Questo post è dedicato a Mirko… Signore, se ci sei, fa che la sua anima, se ce l’aveva, sia andata in Paradiso, se c’è)
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January 26, 2022
Treno della Memoria 2012 (un reportage di dieci anni fa)
Dieci anni fa ero andato sul Treno della Memoria da Fossoli a Birkenau, insieme al dottor Carlo Dulinizo e a una marea di studenti delle superiori. Al ritorno, qualche mese dopo, mandandoci dei messaggi tra Carpi e Cuba (dove si trovava in quel momento il dottor Dulinizo), avevamo scritto un piccolo reportage in due parti per No Borders Magazine, una webzine di viaggi e imprese titaniche che oggi non esiste più. Visto che sono passati dieci anni precisi, quel reportage (che adesso esiste solo su web.archive.org e che, non so se lo avevamo mai detto, ma deve molto alle parole di Paolo Nori e Carlo Lucarelli che erano sullo stesso nostro vagone, due o tre cuccette più in là) lo ricopio tutto qui sotto. 
È un po’ lungo. Le parti in chiaro le ha scritte il dottor Dulinizo, quelle tra parentesi quadre sono le mie.
Buona lettura.
  
  TRENO DELLA MEMORIA 2012, PRIMA PARTE: IL TRENO
 
[Fossòli-Birkenau, con l’accento tedesco sulla o, è la tratta dal campo di concentramento di Fossoli alla Juden Ramp di Oświęcim, cioè Auschwitz, che han percorso col treno in tanti, a quei tempi là, e mica per scelta. La stessa tratta da otto anni viene attraversata da centinaia di studenti delle scuole superiori, intorno al 27 di gennaio. Si parte dalla stazione di Carpi, il 25, con un sole che non sembra inverno, e si arriva la mattina successiva a Kraków-Płaszów, nella neve ghiacciata di una Polonia grigia e inospitale.]

Viaggiare in treno, su quel treno, di notte, chi l’ha già fatto lo sa, è qualcosa di magico. Sarete 550 ragazzi delle scuole e un centinaio di adulti, circa. Appena arrivati alla stazione, cercate l’agenzia di viaggio a cui si sono affidati quelli della Fondazione Ex Campo di Fossoli, vi daranno una busta con informazioni sulle tempistiche del viaggio, le visite che farete, i numeri da chiamare in caso di emergenza ma, soprattutto, vi assegneranno il posto in carrozza e sull’autobus, e sarà quello per tutto il viaggio. Alla partenza non riuscirete a stare nel piazzale, e mentre le autorità vi ricorderanno cos’è stato e cos’è questo viaggio per loro e per la collettività, uno di voi farà caso alla dimensione, all’insieme, al mucchio di persone in attesa di partire. Poi si sale a bordo e iniziano gli addii dal finestrino.
[Nella promiscuità della stazione, ognuno prende la sua carrozza e cerca il posto assegnatogli d’ufficio. Lo faccio anch’io. Mi tolgo il giubbotto invernale, appoggio lo zaino stracolmo della roba che serve nei cinque giorni che mi separano dal ritorno, stringo mani sconosciute e mi siedo in silenzio, quasi ad aspettare chissà cosa. Quel chissà cosa è una piccola spinta che sento sotto le chiappe, quella spintarella che dice che il treno è in marcia. L’avrò sentita un milione di volte, ma questa è diversa, è come se mettesse in moto la testa.]
Partiti. Tutti sono entusiasti, tutti eccitati. Ci si guarda tra i sei in cabina: se vi conoscete già, tanto meglio, ma se non vi conoscete comincerete adesso, le ore sono tante e ti viene spontaneo parlare con chi, come te, ha scelto di fare questa cosa qua. A noi è andata bene, talmente bene che siamo poi rimasti vicini sull’autobus, vicini durante le visite guidate, vicini nei ristoranti, vicini nei giri per la città, insomma ci è andata bene, molto. A consacrare questo tacito patto, dopo aver parlato e ascoltato le rispettive biografie per tanto tempo, tutti e sei, quasi simultaneamente, senza dir più niente, per un’oretta, ci siamo addormentati, sereni nella fiducia reciproca. Ti auguriamo altrettanto.
[Gli studenti no, gli studenti non leggono, non discutono di Olocausto quando il treno si è appena avviato, come facciamo noi vecchi un po’ per darci un tono, un po’ per rompere il ghiaccio; gli studenti non dormono, non dormono mai. Percorrono senza sosta gli undici vagoni, avanti e indietro, continuamente, ridono tra loro e deridono noi grandi che leggiamo, che parliamo a voce bassa, che guardiamo dal finestrino le stazioni sfrecciare una dopo l’altra, da Carpi a Tarvisio, da Tarvisio a Cracovia. Parto con l’idea fiacca che i giovani son così, che non sono com’ero io, ch’è un peccato. Tornerò, cinque giorni dopo, con la convinzione che tutta quella vitalità, in un treno che va verso la commemorazione della morte, sia sacrosanta: gli studenti, hanno ragione loro.]
Il treno da adesso è tutto per te, puoi vagare dall’inizio alla fine, cercare le altre classi se sei di una scuola, scoprire se c’è chi si è ben organizzato per divertirsi stanotte (c’è sempre qualcuno così, e nella testa di uno di noi è uno col cervello del contadino sardo, che nasconde il filoeferru nei campi perché gli dicono che è illegale mentre sa benissimo che glielo voglion solo prendere per berselo) e guardare le facce di ogni scompartimento e poi chiederti chi sono, cosa cercano da questo viaggio e segnarti di vedere se al rientro scoprirai qualcosa di diverso. Poi potresti vedere da un finestrino, lontana, una mongolfiera rossa, bassa sulle case di paesini che non conosci, e fintanto che la vedrai cercherai di capire se è veloce perché tu sei veloce o se è veloce perché insieme siete veloci e se è vera la seconda ipotesi, perché non la vedi più lentamente, siete entrambi veloci. Hai bisogno di un ripasso di fisica, non importa quanti anni hai.
[Il pregio del vagone degli accompagnatori, c’è da dirlo, è che i più anziani, a un certo punto, quando ormai hanno capito che per ammazzare il tempo tanto vale conoscere più gente possibile, tirano fuori il filoeferru, che poi è lambrusco, perlopiù. E il salame. Mangio, bevo, leggo qualcosa, soprattutto parlo e ascolto. È un treno, questo qui, dove si parla e si ascolta molto. Siamo partiti a mezzogiorno e il sole è già calato e non me ne sono accorto.]
Se hai dimenticato di prendere qualcosa da leggere, ci sarà uno scompartimento pieno di libri che potrai prendere in prestito e restituire nel viaggio di ritorno. Ci sarà pure un bar, ma non avrà birre o alcolici di sorta, che come bar, verrebbe da dire, non è un bar, è un forno, un negozio di generi alimentari o di prima necessità, e allora magari avrete voglia di cambiargli nome e dire all’interfono del treno “nella sesta carrozza da questo momento è attivo l’alimentari” ma siccome non siete qui per fare polemica, ci andrete anche voi, a prendere il caffè.
[Il vagone bar diventa il melting pot. Studenti, professori, accompagnatori, musicisti, scrittori e giornalisti si scambiano idee, racconti, pacche sulle spalle e anche rimproveri, delle volte, ma è la zona franca dove le differenze d’età si annullano nell’equilibrio precario della posizione eretta, caffè o tè bollente in mano, sul pavimento della carrozza lanciata verso la Polonia. Qualcuno sfodera del rum di bassissima lega da uno zainetto, qualcun altro, io, si avvicina sorridente. Guardo dal finestrino e i nomi assurdi delle stazioni austriache volano all’indietro, nel buio luminoso della neve.]
Bancone, corrimano, poggiapiedi e sedie ci sono, quindi è un bar, un po’ sobrio e salutista ma è un bar, e dopo un intervento di Andrea Plazzi sull’insulto politically correct – intervento che viene trasmesso anche dall’interfono in tutti gli scompartimenti e che avrete capito a metà, arrivando in ritardo – vi ritroverete stretti stretti a sentire e poi cantare con vari musicisti in acustico (a noi son capitati i Giardini di Mirò, che vi dobbiam dire, tutte le fortune…) svariate canzonacce politicamente scorrette e resistenziali mentre fioccano i brindisi al tè e al cappuccino. Fuori nevica. Tre secondi, niente di più, il macchinista smette di premere sull’acceleratore e tutto scivola e niente più stride o fa rumore. Il treno procede, ma sembra non toccare le rotaie. La forza motrice, anche solo per quei tre secondi, siamo noi, sei tu, che canti Bella Ciao.

[Cantano i Giardini di Mirò, cantiamo noi, cantano gli studenti e i professori. Fischia il vento, Addio Lugano, il Galeone. La bottiglia di rum di bassissima lega è finita e la sento tutta, le bottiglie di lambrusco sono vuote, Figli dell’officina, Nostra patria è il mondo intero, fuori l’Austria scompare veloce, Fischia il vento, Bella Ciao.]
Dopo un altro po’ di canti, mentre gli altri andranno avanti fino a tardi, entrerete nella cuccetta dove i vostri compagni di viaggio stanno dormendo, cercherete di leggere ma la luce delle cuccette è come un faro nel buio che vi circonda, allora vi addormenterete e sognerete di andare a caccia di draghi. Dormirete mentre il treno ciondola sulle rotaie e comincia a sembrarti più una nave, ondeggia, viaggia, macina chilometri e chilometri e l’unica cosa scattante in un treno addormentato, sarà il vostro cellulare, a darti il benvenuto in ogni nazione, ad ogni ora, solerte a ricordare a tutti voi che state entrando nel cuore dell’Europa.

[Non riesco a dormire, allora mi lascio cullare dalla lettura e dal concerto per nasi intoppati e corde vocali che mi si svolge intorno, nello scompartimento. Sento il treno che si ferma, scendo dalla scaletta del lettuccio al terzo piano, senza fare rumore per non svegliare nessuno, guardo dal finestrino e fuori c’è la Repubblica Ceca. Gli studenti che non dormono, gli studenti non dormono mai, aprono le porte e scendono in massa a sgranchirsi le gambe, a fumare, saranno le tre del mattino. Penso di colpo che in Repubblica Ceca non ci sono mai stato, allora mi rimetto le scarpe e mi infilo tra i diciottenni, e scendo, così, solo per appoggiare i piedi in terra straniera. Dura una ventina di minuti, poi il fischio del capotreno dice a tutti di salire. Allora sì, adesso mi sfilo le scarpe, torno nel lettuccio al terzo piano e dormo, cullato nella nave che ondeggia, mi unisco alla caccia al drago e forse al concerto per nasi intoppati e corde vocali che ancora si svolge nello scompartimento. Quando mi sveglio c’è la Polonia grigia e inospitale. A Kraków-Płaszów, che non è una stazione qualsiasi, scendiamo e prendiamo il posto sugli autobus, ognuno il suo, già assegnato. Su ogni autobus c’è una guida, diventerà la nostra migliore amica. Bon, il viaggio in treno è finito, adesso inizia quello nella Storia, per la Memoria, nella gelida follia della razza umana.]
***
TRENO DELLA MEMORIA 2012, SECONDA PARTE: LA MEMORIA
 
C’è come una mandorla secca, incastrata sotto il tuo sedile del treno. Dopo averla guardata un istante, la prenderai, ti chiederai quanti chilometri ha fatto e te la metterai nello zaino come portafortuna, senza sapere bene il perché.
[Finita la strada ferrata da Carpi a Cracovia, ci dividiamo in tredici autobus e andiamo all’albergo. Nei giorni successivi visitiamo Birkenau e Auschwitz; celebriamo il Giorno della Memoria insieme alle autorità polacche, alle rappresentanze internazionali e a una manciata di sopravvissuti all’Olocausto; gironzoliamo per la Cracovia antica, l’ex quartiere ebraico, la fabbrica di Shindler e quello che rimane del ghetto; la sera ci sono gli spettacoli al teatro Kijow con Paolo Nori, Carlo Lucarelli e Carlo Boccadoro, l’ultimo giorno i concerti di Giardini di Mirò e Fabrizio Tavernelli. Sarebbe troppo lungo da raccontare. Quello che facciamo qui è tentare di riassumere il fardello di sensazioni col quale siamo tornati, sulla stessa strada ferrata, da Cracovia a Carpi.]
Questo viaggio comincia prima degli altri, ché anche se le sai, è bene ricordarsele certe cose. Questo viaggio comincia prima perché la domanda e la scelta di partecipare, come scuola o come individuo, le devi fare mesi prima della partenza. Come classe non so quanto prima, diciamo entro aprile, massimo giugno, ma come individui, te lo possiamo assicurare, è tre anni che uno di noi chiede, intorno a novembre, e per due anni la Fondazione Ex Campo di Fossoli gli dice che il treno è pieno. Quest’anno si è fatto furbo e ha chiesto in ottobre e gli è andata bene. È un viaggio che comincia prima anche perché non è un viaggio di piacere, di curiosità o d’esplorazione. È un viaggio che mette alla prova le fondamenta di moltissime tue convinzioni e idee, e se non sei uno sprovveduto sai che i colpi saranno forti.
[Come classe vi addestreranno i professori, più o meno illuminati, che vi accompagnano: vi faranno vedere i film che sono da vedere, vi consiglieranno i libri che sono da leggere, vi faranno scrivere e ricopiare pensierini da recitare al microfono di fronte al monumento di Birkenau, vi diranno come dovete vestirvi. Come viaggiatore esterno e soprattutto adulto, invece, è tutto nelle mie mani: è compito mio, prima di partire, costruire un’armatura adeguata che mi ripari dal gelo, e uno scudo corazzato contro l’angoscia dello sterminio in cui poggerò le scarpe, camminando lento, in silenzio, come in chiesa.]
Quindi ti prepari. Anche se non sai bene cosa vuol dire -15°, a parte un freddo maledetto, che sarà sicuramente maledetto e tutto il treno non smetterà un minuto di ricordartelo. Non sai bene come figurarteli, prima di esserci dentro, quei -15°. A meno che tu non conosca chi ha passeggiato per campi ghiacciati nel nord dell’Europa, in quel caso chiedi a lui. Con discreta esperienza, possiamo dirti che:
I guanti leggeri o i guanti con la moffola, apri e chiudi, da fumatore, non ti salvano dal gelo. Lo rendono solo più feroce e famelico quando gli porgi le ditina calde calde mentre fai una foto.Gli scarponi devono essere da neve, da trekking o da lavoro, tipo Caterpillar, oppure direttamente doposci, moonboot per capirci. Il resto non assicura dal freddo, e il freddo ai piedi noi non l’abbiamo testato, l’abbiamo solo assaggiato con un leggero intorpidimento della punta delle dita. Alcuni ragazzi con scarpe da ginnastica, risaliti sui pullman DOPO il primo giorno di visite, li abbiamo visti rinnegare tutte le marche che vi vengono in mente e il loro prezzo. Soprattutto il prezzo.Le braghe, i calzoni imbottiti, i maglioni e via dicendo, non saranno sufficienti. Se hai paura del freddo, e ti conviene averne, la tuta da sci è l’unica salvezza.Come giacconi consigliamo quelli imbottiti ultratech, anti vento e anti pioggia, ma anche un bel montone col pelo, dimenticato da anni nell’armadio, farà il suo dovere.Dormire in treno è come dormire in una nave, a volte c’è burrasca, a volte c’è bonaccia. Quando c’è burrasca potresti sognare di andare a caccia di draghi.Le calze non saranno mai abbastanza, una sopra l’altra, e non saranno mai abbastanza spesse.Sai certamente, se un minimo sei stato in montagna, che il cibo dei paesi nordici è sempre uguale: minestre, burro, patate, pesce azzurro, spezie e della gran carne. Le spezie sono il trucco per farti credere che il merluzzo che hai mangiato ieri sia diverso da quello che stai mangiando oggi. La carne regna ovunque, in ogni variante o piatto tipico, la trovi persino nascosta in forma di salamino piccante nelle zuppe. Vegetariani, vi abbiamo avvertiti. Vegani, state pure a casa che qualcuno ve lo racconterà. Anche se raccontare è la parte più difficile.
[La maggior parte delle visite è all’esterno, per delle mezze giornate intere. La mia migliore amica diventa la vodka. Non ne bevevo dall’adolescenza, dall’età in cui tutto ciò che è alcolico scende giù dal gargarozzo per sfidare il mondo adulto, ma non è mai stata buona, la vodka, ammettiamolo. Qui però è uno strumento di sopravvivenza: dopo mezza giornata ne convalido l’uso riscaldante, quando sento che il gelo ghiaccia le vene con più difficoltà grazie al bicchierino tracannato prima di uscire. Dopo la prima notte a far baldoria nel bar dell’hotel, a scaricare la tensione dei campi di sterminio che ristagna nel cervello, la vodka da utile diventa anche buonissima.]
A Cracovia rimarrai stupito da chiese semigotiche imbottite di altari, pulpiti e troni di legno scuro come i boschi dai quali è stato strappato. Penserai alle fiabe davanti ai castelli e ai palazzi dai tetti svettanti rosa confetto e oro della città vecchia. Apprezzerai la riconversione punk di un’accademia siderurgica sovietica in discoteca. Ti diranno che i nomi dei campi di sterminio sono nomi tedeschi, frutti dell’annessione al terzo Reich di località polacche che oggi continuano la loro storia, cercando di ricordare al mondo di essere stati e di essere luoghi normali, quotidiani. Cercherai una geometria tra un centinaio di sedie in pietra, tutte uguali, tutte vuote, monumento agli eroi del ghetto. Vedrai un drago di metallo, in ricordo di quello sconfitto dal re Krak, patrono della città, sputare fiamme ogni due o tre minuti, e ti chiederai perché la statua l’han fatta al drago e non al re.
[Su Cracovia sono cadute pochissime bombe, a quei tempi là, e passeggiando per la città attraversi tutte le sue ere passate, rimaste pressoché intatte, stratificate, dal cattolicesimo quasi fondamentalista colorato di ortodossia orientale con cui è costruito il centro, ai bassifondi dalla forma socialista. Per due giorni percorriamo avanti e indietro i centodieci chilometri di autobus che separano Cracovia da Oświęcim, e mentre la guida ci racconta della Polonia, il mio occhio emiliano si perde per le pianure innevate e si sente quasi a casa. Fino a che i piedi non toccano terra e il freddo prende a farsi strada strato dopo strato attraverso i vestiti, la pelle, le ossa. Allora no, non sono a casa, ho solo freddo.]
A un certo punto vedrai dei binari e un vagone altissimo di legno massiccio, sperduto, solitario, muto testimone della deportazione, e una costruzione di mattoni rossi sullo sfondo, da lego, da playmobil, con la bocca spalancata, due finestrelle per occhi, una vetrata tutt’intorno e un tetto spiovente a fargli da cappello. Un’apertura che non è quasi uno sbadiglio. Varcata la soglia sarete dentro: Auschwitz II-Birkenau.
[Prima di partire, ho passato giorni interi a chiedermi come avrei retto il colpo trovandomi davanti all’evidenza dell’orrore. Non avevo capito niente. Non è la porta della morte che fa tremare le gambe, non la scritta del lavoro che rende liberi, non le rovine dei forni, il filo elettrificato, le baracche, i letti a castello: è tutto così familiare da far venire il nervoso. Fa impressione scriverlo, e forse leggerlo, ma davvero, Auschwitz e Birkenau sono familiari. E adesso siamo lì, con la nostra guida, a passeggiare nella morte senza tuffi al cuore ed è una sensazione che non avevi mica messo in conto. Poi se lo cerchi, lo trovi, e se non lo cerchi, ti rovina addosso comunque, implacabile, il tuo personale punto di rottura: c’è chi lo trova nella baracca dei bambini, per alcuni è la cloaca, oppure è la foto di un bambino sorridente nel suo pigiama a righe, il nome di uno zingaro ripetuto sei volte, una rosa appoggiata da chissà chi su un gradino, il volto serio di un sopravvissuto durante le celebrazioni, cose così, ognuno ha il suo. Uno studente passeggia tranquillo insieme ai compagni di classe e non fa una piega per tutto il tragitto, tutto d’un tratto si schifa e chiede “prof, ma si rende conto? dormivano coi topi”. Prima o poi, se lo cerchi, ma anche se non lo cerchi, arriva e ti apre in due, il tuo personale punto di rottura. Il mio lo trovo al museo di Auschwitz: una stanza con dentro due tonnellate di capelli.]
Il vento ti pelerà la faccia, il terreno ghiacciato risponderà duro, passo dopo passo, colpo dopo colpo, senza cedere un momento. Se sei abbastanza in gamba, il funzionamento del campo lo intuirai da solo. L’orrore si cela nella mancanza, nel vuoto, che spinge e ulula. Dai piccoli particolari o dalla nuda geografia della struttura, capirai quanto niente fosse lasciato al caso, al fortuito, alla scintilla che in ognuno di noi significa vita. E allora la rabbia ti aiuterà a combattere un po’ il gelo e il vento. Ma non sarà la rabbia a vincere la guerra contro il drago invisibile e onnipresente, o almeno non basterà solo quella.
[Il vento pela la faccia, non possiamo rimanere fermi troppo a lungo in un posto, dobbiamo muoverci per non congelare, e per almeno un milione di volte sento uscire dalle bocche di tutti, a turno, la stessa identica frase: dio che freddo, pensa loro, col pigiama e basta. Per come sono fatto, normalmente avrei pensato: ok, abbiamo capito, adesso basta. A Birkenau, invece, per almeno un milione di volte non ho fatto altro che rispondere mentalmente: eh, pensa loro, col pigiama e basta.]
Aaron Spengler. Nel blocco 21 di Auschwitz c’è una mostra didattica sui rom e i sinty. Tante foto, tanti volti. Quel gran cricetone di Himmler adorava i gemelli zingari. Oltre alle foto, su tante lastre di vetro, in rigoroso ordine alfabetico, ci sono uno per uno i nomi del genocidio. E c’è Aaron Spengler. Un nome come tanti, un nome che però viene ripetuto sei volte.
Aaron Spengler.
Aaron Spengler.
Aaron Spengler.
Aaron Spengler.
Aaron Spengler.
Aaron Spengler.
Ogni nome aggiunge, ogni nome fortifica e rimarca, fino all’ultimo che rende con la sua già ripetuta successione di sillabe il senso della memoria. Ha un fiocchetto rosso, Aaron Spengler, e una camicina, i capelli arancioni legati, sotto ha una torta colorata con tre candeline appena spente, sta in mezzo a sua sorella e un altro bambino e ride tantissimo. Sono già tornato a casa e per farmi una sorpresa la donna della mia vita ha appeso alcune foto sue e mie, in attesa di metterne di nostre, insieme. E io, davanti a una foto così, piango. Non so bene quanti affluenti hanno queste lacrime e quando potrò tornare a gioire pur senza dimenticare. Lo potrei chiamare “Effetto Auschwitz”.
Dopo, toccandola senza vederla, la mandorla secca, che avevi dimenticato e che hai ritrovato, da sola forse ti sembra inutile, come l’esperienza privata di tutti noi davanti a tutto questo. Ma unita alle altre, forse, un giorno potrebbe diventare latte.
carlo dulinizo (in chiaro) e il Many (tra parentesi quadre)
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[carlo dulinizo e il Many approfittano dell’occasione offerta da No Borders Magazine per ringraziare la Fondazione Ex Campo di Fossoli e i compagni dello scompartimento 2, carrozza 5, diventati poi compagni di gita, di sedili in fondo all’autobus, di pranzi, cene e bevute: Francesco Lioce e Stefano Barbieri, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’ANPI di Carpi, Lorenzo La Rovere, attore sociale e intrattenitore di folle, Franco Ori, pittore e gran brava persona.]
L'articolo Treno della Memoria 2012 (un reportage di dieci anni fa) proviene da Eri così carino.
January 22, 2022
E poi
E poi volevo dire che niente e nessuno al mondo potrà fermarmi dal ragionare, niente e nessuno al mondo potrà fermare fermare fermare quest’onda che va (oh-oh), quest’onda che viene che va (oh-oh, oh-oh), quest’onda che va (oh-oh), quest’onda che viene e che va (oh-oh, oh-oh). Vacca miseria.
(Mi scuso per la banalità, ma erano due anni che avevo preparato questa gag e adesso, che è arrivata la conferma, la uso. Chiedo ancora scusa. Ciao eh.)
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