Marco Manicardi's Blog, page 17
January 20, 2022
L’altra sera
E l’altra sera è successo che avevamo visto una fiammata e sentito un botto provenire dalla caldaia, che poi non è una caldaia vera e propria, ma uno scaldino, come l’aveva chiamato l’idraulico che ce l’aveva montato un paio di mesi fa, e che serve solo per scaldare l’acqua dei rubinetti, dato che dove abitiamo adesso il riscaldamento è centralizzato. 
Ma comunque, avevamo sentito un botto e visto una fiammata e ci eravamo fermati un attimo ed eravamo rimasti zitti. Poi, invece di spegnere il gas, avevamo subito provato a riprodurre il problema, perché siamo anche un po’ dei cretini, e ci eravamo riusciti. Aprivamo l’acqua calda di un rubinetto, sentivamo il tic-tic-tic-tic dello scaldino che provava ad accendere la fiamma, tic-tic-tic-tic, ci metteva un po’, e poi il rumore della fiamma che si accendeva e BOOM! Con la sua bella fiammata di gas metano che scoppiava.
Non dico che eravamo nel panico, perché siamo gente ragionevole, ma insomma, eravamo quasi spaventati. Un po’ perché era sera e l’idraulico magari a quell’ora lì stava già cenando o era già andato a dormire; un po’ perché il giorno dopo, visto le cose come stavano andando, sarebbe stato difficile far entrare in casa nostra un idraulico; un po’ perché è un momento che non sentiamo niente col naso e quindi neanche l’eventuale odore di gas, che notoriamente non è un gas molto simpatico. 
Ma la sto facendo lunga. In breve, per finire, avevamo scritto un messaggio all’idraulico. Lui non stava cenando o comunque non stava andando a letto e ci aveva risposto di stare tranquilli, che quasi sicuramente erano le batterie scariche. Allora avevamo chiuso il gas ed eravamo andati a letto.
Il giorno dopo, cioè ieri, ci siamo fatti lasciare delle pile nuove sullo zerbino, due belle pile-torcia, se si chiamano così, ciccione e molto prepotenti, e le abbiamo cambiate nello scaldino. Era quello, funzionava tutto.
Quindi la prossima volta che sentiamo un botto gigante e vediamo delle fiamme d’esplosione di gas metano uscire dallo scaldino, ecco, lo sappiamo, dobbiamo cambiare le pile. Vamolà, il progresso.
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January 16, 2022
Ieri sera
E ieri sera, presi dalla foga e dall’isolamento, abbiamo letto per tre ore quasi filate gli ultimi capitoli del quarto libro di Harry Potter. Cioè, io leggevo ad alta voce, mentre il Miny e Grushenka ascoltavano e commentavano stesi prima sul divano-letto aperto in sala, poi, dopo cena, sul letto in camera del Miny. Il reading più lungo della mia vita.
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January 11, 2022
È un periodo
È un periodo, cioè gli ultimi due anni, e sempre di più man mano che il tempo avanza, un po’ come quando qui in Emilia c’era il terremoto, dove mia suocera diceva che in situazioni così eccezionali «tutti i coglioni vengono al pettine».
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January 9, 2022
Scarpe rotte
(Oggi)
Oggi, settantadue anni fa, alle Fonderie di Modena venivano ammazzati sei operai, e feriti altri duecento, dalla polizia. Mio nonno Corrado mi raccontava che oggi, settantadue anni fa, l’avevano saputo quasi subito anche a Novi di Modena, quello che era successo, a trenta e passa chilometri di distanza.
(Dopodomani)
Dopodomani, settantadue anni fa, mio nonno Corrado si metteva in marcia con un gruppetto di novesi: scioperavano, avevano messo su le scarpe nuove e ancor prima che spuntasse il sole s’erano incamminati fino a Modena per i funerali. A Fossoli avevano tirato su altri gruppetti come loro, e via andare; a Carpi avevano fatto altrettanto, e via ancora, andare; lo stesso a Soliera, a Ganaceto, a Lesignana e a Ponte Alto, sempre dello stesso passo, senza rallentare, mi raccontava mio nonno Corrado, senza rallentare fino alle Fonderie, via, andare. Sempre dello stesso passo perché trenta e passa chilometri non sono uno scherzo per chi esce dal paese solo per le feste, magari col carretto e le scarpe nuove in spalla per andare a ballare alla Festa de l’Unità di Carpi, che dicevano che fosse la più bella di tutte e poi era così grande.
(Dopo)
Dopo, quando ormai era in pensione, ed era in pensione anche suo figlio, mio padre, ed ero diventato più o meno un uomo anche io, suo nipote, a mio nonno Corrado delle scarpe non gliene fregava più granché. Si ricordava sempre di quella volta che era andato fino a Modena a piedi per lo sciopero generale, per i funerali dell’eccidio alle Fonderie. Ma quando si deve andare, mi raccontava, c’è poi anche da ritornare, e le scarpe si erano rotte. Ci voleva uno stipendio per comprare le scarpe nuove, una volta. Quelle scarpe nuove che, di solito, servivano una volta l’anno, quando dovevi andare alla Festa de l’Unità di Carpi a ballare.
(E dopo ancora)
E dopo ancora, mi era toccato raccontare a mio nonno Corrado che poi le Fonderie erano diventate le Ex-Fonderie: una discoteca. E che io una volta, da ragazzino, anni prima, ci avevo ballato dentro. Gli avevo raccontato di quella volta che ero andato fino a Modena, a trenta e passa chilometri di distanza, in macchina con gli amici, per ballare. Secondo me quella sera, anzi quasi sicuramente, almeno così mi ricordo, avevo delle scarpe nuove. Delle scarpe nuove per ballare.
(Oggi)
Oggi, settantadue anni dopo l’eccidio delle Fonderie, e dodici anni dopo che avevo scritto questo pezzetto (un po’ diverso) per la prima volta su Barabba, mio nonno, Corrado, non c’è più: è morto all’inizio di gennaio di quattro anni fa, aveva novantadue anni. Però lo so che, se ci fosse ancora, oggi mi racconterebbe, come se se fosse la prima volta che me lo racconta, di quando era andato a Modena a piedi, tanti anni fa, e delle scarpe nuove che poi si erano rotte, eppur bisognava andare.
Musica:
(E anche questa è diventata una cosa che posto tutti gli anni)
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January 6, 2022
Rodari
E in un libro che si chiama La freccia azzurra, del 1964, Giovanni Rodari, detto Gianni, dice che per Franco quella dell’Epifania fu una notte indimenticabile quando i pastelli, uno dopo l’altro, gli mostrarono quello che sapevano fare. E che, per esempio, gli disegnarono e dipinsero tante bandiere, che la stanza sembrava un giorno di festa nazionale. E fecero la bandiera tricolore e la bandiera rossa, e si accapigliarono perché ciascuno voleva che la propria bandiera fosse la più bella, poi fecero la pace e disegnarono tutti insieme una bandiera di sette colori. E poi dissero: «Ecco qui, ci siamo tutti e sette e non si fa torto a nessuno. Ora andremo veramente d’accordo.»
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January 2, 2022
Il mio primo concerto
[E oggi Federico Guglielmi mi ha fatto tornare in mente di quella volta, nel 2013, in cui Francesco Farabegli aveva chiesto all’internet di raccontagli il primo concerto. Doveva nascerne un ebook, poi però non era successo. Così va la vita. 
Comunque, ho ritrovato il pezzo che gli avevo mandato e adesso lo metto qui sotto, con qualche frase corretta e la consecutio temporum sistemata – credo – perché sono fatto così.]
«Stasera andiamo a vedere un concerto,» mi aveva detto mio padre, una sera di più di vent’anni fa, verso la fine degli anni ’80. La frase non era neanche tanto strana, ma per me che avevo una decina d’anni ed ero venuto su in una casa dove non c’era neanche un libro e neanche un disco, e oltretutto le uniche persone che avevo visto suonare dal vivo erano quelle della banda del paese, quella frase era abbastanza insolita da farmi rimanere lì a bocca aperta a prendere le mosche che passavano. E le zanzare, dato che eravamo in estate. «Suona il gruppo del fratello dei nostri vicini» aveva continuato mio padre, «hai presente Carletti, il vigile?»
Avevo presente. Cioè, avevo presente Carletti, il vigile. Suo fratello non sapevo chi fosse.
Quindi, appena venuta sera, con mia mamma e mio papà (mia sorella non mi ricordo, se era già nata era molto piccola, un anno o due al massimo) eravamo andati a piedi per manina al Parco della Resistenza, che l’avevano appena finito di costruire e ci avevano messo una fontana con un arcobaleno di cemento al centro, una pista di pattinaggio di cemento e una tribuna di cemento a forma di anfiteatro molto alta e molto pericolosa, dove di solito io, Gabriele e Lucio andavamo a provare a romperci l’osso del collo al pomeriggio. Il Parco della Resistenza non lo conosceva quasi nessuno con quel nome lì, lo chiamavano tutti La Taverna, per via del bar Taverna, un circolo ARCI che c’era lì dentro e dove i vecchi andavano a giocare a bocce, a briscola, a scala quaranta e a pinnacolo, e i giovani a comprare sottoprezzo dai fruttini alle birre medie, a seconda dell’età.
Quella sera, al Parco della Resistenza, c’era praticamente tutto il paese, mancavano solo quelli che erano al mare o in montagna, ma secondo me qualcuno era tornato a casa dalle ferie apposta, perché nel paese non succedeva mai niente da anni e una volta che c’era qualcosa non ci si poteva permettere di rimanere indietro. Noi, come d’abitudine consolidata nella famiglia Manicardi in rapporto agli eventi mondani, eravamo andati là che ci si vedeva ancora, quindi eravamo riusciti a prendere i posti centrali sulla tribuna-anfiteatro di cemento, mentre delle persone sulla pista di pattinaggio di cemento lì davanti stavano trafficando con gli strumenti musicali e soprattutto con cavi e i microfoni. Ogni tanto dicevano «Un-due-tre-sa-sa.» (Quasi trent’anni e centomila concerti dopo non ho ancora ben capito perché si dice «sa-sa»).
All’imbrunire, l’anfiteatro di cemento era pieno da scoppiare, dalle casse usciva una musica che non mi ricordo, gli strumenti e i cavi erano tutti posizionati e immobili sul palco, molta gente non trovava posto per sedersi e cominciava ad affollare il bordo della pista di pattinaggio di cemento. Faceva un caldo birichino e avevo chiesto a mia mamma se potevo andare alla Taverna a comprare un ghiacciolo. Lei aveva tirato fuori cinquecento lire e mi aveva detto di prenderne anche uno al limone per lei e uno alla menta per mio padre.
E io avevo preso i soldi ed ero scappato al bar Taverna.
Dieci minuti dopo, stavo uscendo dalla Taverna con un ghiacciolo all’amarena già scartato, mezzo in mano e mezzo in bocca, e due ghiaccioli incartati nell’altra mano. Volevo fare presto a portarli ai miei perché c’era caldissimo e avevo paura che si sciogliessero. Mi stavo facendo strada tra la gente e, per caso, quando ero passato di fianco al bagno degli uomini, avevo preso contro a un signore molto alto, con degli occhialini tondi e una barba bianca molto lunga, che mi aveva fatto cascare i ghiaccioli incartati che avevo in mano.
Mi aveva subito chiesto scusa. Mi aveva aiutato a raccoglierli e, mentre io avevo ancora mezzo in bocca il mio ghiacciolo all’amarena, mi aveva dato una scompigliata ai capelli, sorridendo, poi mi aveva salutato ed era andato via.
Mi ero chiesto se per caso non fosse Babbo Natale, anche se ero venuto su in una casa dove Babbo Natale non era mai esistito.
Poi, dopo, l’avevo visto salire sul palco. Aveva cantato per due ore, ogni tanto parlava in dialetto, e io avevo ascoltato tutto il concerto, il mio primo concerto, senza dire una parola.
Quel signore molto alto, con gli occhialini tondi e la barba bianca molto lunga, era morto pochi anni dopo. Nell’ottobre del 1992 avevo tredici anni e ascoltavo già i Litfiba, i Nirvana, i Guns’n’Roses e soprattutto gli Iron Maiden. Ma ogni tanto, nella mia cameretta di via Salvador Allende a Novi di Modena, chiudendo la porta, col volume non troppo alto, ché non sentissero i miei amici se per caso passavano a cercarmi, senza dir niente a nessuno, mettevo su un disco dei Nomadi. E cantavo. Le cantavo tutte.
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December 31, 2021
2021 in one picture
Che, alla fine, in quest’anno sgangherato, con queste due persone qui, che son quelle con cui passo il novantanove percento del mio tempo, ci siam poi tutto sommato divertiti.
 
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Dei ricordi (37)
Il 31 dicembre del 2016, qualche minuto prima di mezzanotte, scrivevo una cosa intitolata “propositi per il 2016” e che diceva così:
Scrivere, vivere, ridere. In ordine sparso.
Non sono più così ottimista.
E il 31 dicembre del 2009, un sacco di tempo fa, sempre verso sera scrivevo una cosa senza titolo che diceva così:
“Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”… Anche per me.
Non sono neanche più così simpatico.
(Qui ci sono degli altri ricordi, se uno è interessato)
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December 30, 2021
Lessico famigliare (11)
E ieri sera ho giocato a Labirinto col Miny. Mi ha stracciato.
«Com’è che fai a vincere sempre?»
«È l’ingegno umano.»
«Vabbè, anche io ce l’ho, l’ingegno umano.»
«Allora il mio è fuoco alieno.»
«…»
(Qui c’è un altro po’ di lessico famigliare, se interessa)
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