Antonio Gallo's Blog: MEDIUM, page 124
December 16, 2017
Sarrasti di ieri, Sarnesi di oggi

My rating: 3 of 5 stars
Questo è l’ottavo volume della Collana di libri editi dall’ “Associazione Culturale Eventi”, nella Valle del Sarno, il secondo dedicato al “viaggio nella memoria”, grazie all’opera ed all’impegno di quell’instancabile “attivista editoriale” che si chiama Livio Pastore. Contiene scritti apparsi nel corso degli anni sul periodico da lui fondato e che porta questo nome. Le firme: Raffaele Capasso, Luisa Crescenzi, Franco Polichetti, Gaetano Ferrentino, Ernesto Odierna, Livio Pastore, Felice Marciano, Franco Salerno, Nunziata Orza Corrado, Domenico De Liguori, Emilio Lanzetta, Gaetano D'Ambrosio, Antonio Ascolese, Tonia Bolera, Alfonso Sarno, Francesco Iervolino. Prefazione di Vincenzo Salerno, Assessore alla Cultura.
Mi sono occupato del primo volume presente nella mia biblioteca digitale mettendo in evidenza il prezioso lavoro che svolge ormai da due decenni Livio Pastore con la pubblicazione di un periodico a diffusione gratuita, su di un territorio molto sensibile alla sua identità storica, ma anche molto difficile da capire. A me piace chiamarlo con il nome di “Valle dei Sarrasti” per mantenere intatto quell’alone di antica, misteriosa bellezza che sembra sempre aleggiare su di essa. Nella presentazione il prof. Vincenzo Salerno scrive che questo libro concorre a formare un “mosaico”, raccontando tante piccole storie che concorrono a creare la “Storia” della comunità sarnese.
Dice bene il giovane e brillante Assessore alla Cultura della presente Amministrazione in quanto, suddiviso in tre sezioni, il volume si occupa di personaggi e artisti sarnesi, di usi, riti, costumi e vecchi mestieri, e delle gioie e dolori dello sport. Un abbondante supporto iconografico in bianco e nero concorre a dare vita a pagine di microstoria locale le quali, pur se presentate nella canonica sistemazione di un libro che si vuole occupare di storia con la maiuscola, mantengono tutto il loro “sapore” di pagine ammuffite dal tempo, rivitalizzate e riportate alla luce soltanto per dare attualità ai ricordi di una realtà esistenziale che non ha nulla a che vedere con quella del terzo millennio.
Il libro si apre con due capitoli che vorrebbero provare la “storicità”, il carattere, e la qualità di ciò che, oltre che storico, cioè soggetto a un divenire, del reale e dello spirito, sia anche espressione di quanto è accertato storicamente, realmente avvenuto su questo antico e per questo “nobile” territorio: il “Mandamento di Sarno” e il “Castello di Sarno”. Nessuno può, ovviamente, negare l’importanza di queste due “voci storiografiche” che caratterizzano questa antica Città di Sarno.
Mi sembra, però, che sia l’uno che l’altro “evento” siano sistematicamente “abusate”, citate e sfruttate “ad abundantiam” in tanti libri, studi e ricerche che costantemente vedono la luce in questa città. Il solito fiume, l’antico duomo di Episcopio con il suo presbiterio, i ruderi del castello in una cartolina d’epoca, il torrione … Di recente ho letto su una locandina di giornale che l’Amministrazione Comunale aveva aveva “acquisito” il Castello di Sarno e che nei piani degli amministratori fermentano idee e progetti. In una realtà mobile e liquida come quella che stiamo vivendo, tutto è possibile. E’ opportuno, perciò, riscaldare i “piatti” che la Storia, quella con la maiuscola, ci ha conservato, per cercare di dare un sapore ad uno scialbo, insipido presente.
Continuando a sfogliare le pagine del libro, vediamo entrare in scena il destino di un illustre concittadino, Giovan Battista Amendola e il grave stato di abbandono in cui versa il suo monumento. La visione di una foto di quasi cento anni fa celebra l’inaugurazione, anche alla presenza di un “ministro delle colonie” in bombetta. Si passa poi alla lettura del ricordo di Bruto Fabbricatore, altra eminente personalità letteraria e politica eletto al primo parlamento del Regno d’Italia. Si rivive, poi, l’atmosfera del fatale “ventennio” tra immagini di gagliardetti, busti regali e non, per ricordare un eroe del Risorgimento, tenente dei Garibaldini. Non poteva mancare la presenza di un artista locale che, con la sua pittura, “canta” allegoricamente le allegorie dell’industria di filati e tessuti e dell’acqua iodica della sua città.
Che dire poi della struggente descrizione di quando il Convento di Santa Maria della Foce diventò un “Lazzaretto” per una grave epidemia di “dermotifo”? A voler fare nomi, basta citare personaggi del tempo come Giuseppe Sodano, Luigi De Lise, fino ad arrivare a Mariano Orza. Siamo così finalmente usciti dal tunnel dell’oscurantismo nazionale, che però illuminava il paese di allora, e ci inoltriamo nell’era moderna, quella che, chi scrive, può dire di avere vissuto sulla propria pelle. Scorrono sulla scena della Valle dei Sarrasti il Poeta e il Sacerdote, l’erudito e colto avvocato ed anche sindaco, il professore tanto amato e benvoluto dai suoi alunni, la poliedrica scrittrice, il politico provinciale. Si completa così la lettura della prima sezione del libro.
La seconda sezione, dedicata a “come eravamo, con i nostri usi, riti, costumi e mestieri”, ci trasporta nella banale, apparente modernità di una Città dalla quale nessuno riesce a sfuggire, se non scappando altrove. Il tutto accade in un mondo attuale, il quale, nell’arco di due-tre decenni, è radicalmente cambiato, mentre la Città dei Sarrasti e rimasta a quel tempo passato. Quando, oggi, nuovo secolo del terzo millennio, al mattino vedo le centinaia di giovani studenti che scendono dagli autobus che li portano qui alla frazione di Episcopio a studiare, o li vedo scendere dai treni della ex-circumvesuviana, oggi EAV, mi chiedo cosa potranno mai capire o recepire leggendo questi articoli che Livio Pastore ha pazientemente recuperato dai numeri passati del suo giornale.
Una domanda che mi ponevo anche allora, una ventina di anni orsono, fino a quando in quelle stesse aule consumavo i giorni nella mia quotidiana fatica dell’insegnamento e mi chiedevo dove sarebbero finite tutte quelle giovani menti alle quali tanti di noi cercavamo di offrire possibilità di lavoro e speranza in un futuro. Già allora questa possibilità non apparteneva a questi luoghi. Sarebbero stati costretti ad andare altrove, per trovare un lavoro, una sistemazione. Una storia che continua inesorabilmente a ripetersi, mentre i Sarrasti di oggi fanno di tutto per vivere nel loro passato.
Quando si decideranno, i tanti scrittori di storia e microstoria, poeti, saggisti, analisti e giornalisti di questa Valle, oltre beninteso Autorità e Istituzioni, a scrivere del futuro di questa città, a presentare progetti di crescita, proposte innovative per un territorio che non continui ad essere soltanto, un caotico “hinterland” dal quale sono scappati tanti di quei giovani che ho visto passare per queste stesse aule nelle quali oggi passano altre giovane speranze, illuse da letture, non dico “inuitili”, ma senza dubbio fuori del tempo, invitandoli quasi come ad andare alla ricerca di un tempo perduto?
Ricordo di avere scritto, nella recensione del precedente volume, che anche se la scrittura è qualcosa che aiuta a pensare ed operare, bisogna stare attenti a non fare soltanto “storytelling”, a raccontarsi addosso storie per il piacere di leggersi ed esibirsi. Se scrivere aiuta a pensare, dovrà anche esserci tempo per progettare, cambiare e costruire quel “mondo nuovo” al quale tutti guardiamo ma che sembra invece, giorno dopo giorno, confermarsi terreno di utopia in una terra che fu dei Sarrasti, una popolazione destinata poi, come abbiamo visto, a scomparire.
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Published on December 16, 2017 11:25
December 12, 2017
Review: Conversazioni all'ora del tè

My rating: 3 of 5 stars
Se leggete questo divertentissimo libro scritto oltre un secolo fa, ritrovate certi riti o rituali ancora vivi ed in voga oggi anche tra noi provinciali. Una donna di mondo, un poeta minore, la giovane speranza, il filosofo e la vecchia signorina, fanno venire alla mente anche il professore che fa anche il giornalista, il preside in pensione, il politico trombato rimasto aspirante, soggetti che conversano amabilmente col narratore davanti ad una tazza di tè.
Una consuetudine tanto "british" quanto italiana, locale e provinciale. L'ambiente descritto dal geniale scrittore inglese Jerome Klapka Jerome si mescola con quello nostrano, si travalica la cognizione di spazio e tempo. Entriamo in una libreria dove, tra austeri scaffali di libri, intorno ad un tavolo si ritrovano e si fanno riprendere dalla telecamera (a dire il vero sarà un semplice cellulare a fare una video clip, al resto ci penserà, dopo qualcuno a metterla in rete su YouTube) l'autore che si autocompiace di assistere amabilmente a quello che gli amici stanno per dire sul suo libro appena uscito. Una sintesi socio-geo-politica degli ultimi decenni durante i quali il prof scrive di se stesso e della sua azione politico culturale, la sua presenza sul territorio. Sono lì convenuti non tanto e non solo per parlarsi addosso, ma sopratutto per parlare addosso a lui che li ha invitati.
A dire il vero, il tè non si vede ma si può immaginare la sua presenza. Non vi è un vero filo logico che leghi gli argomenti, tra i più disparati. I temi si inanellano l’uno nell’altro attraverso gustosi aneddoti e opinioni divergenti. Protagonista assoluta è la conversazione, i pareri espressi sono argomentati ciascuno secondo il proprio stile. I personaggi, abbastanza eccentrici, non hanno nome e si definiscono con il loro status sociale. Spesso sembrano parlare ognuno per proprio conto, senza volersi effettivamente confrontare e relazionare.
Non è questo forse quello che accade nella realtà? Jerome Klapka Jerome lo sa e sa anche come far scorrere la sua narrazione. È, evidentemente, una caratteristica che travalica le epoche e accomuna le persone nella poca disponibilità ad ascoltare e a parlare davvero con l’altro, preferendo il parlarsi addosso, ognuno perso dietro se stesso in un delirio di autoreferenzialità e sostanziale incomunicabilità.
Per questa attualità, oltre che per l’umorismo brillante tipicamente inglese, lo stile semplice ma arguto, l’eleganza delle battute caustiche sui costumi e le situazioni quotidiane, questo piccolo romanzo merita di essere letto, magari degustando proprio “an english tea”. Magari poi rivedendo il tutto sulla clip di YouTube.
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Published on December 12, 2017 04:25
Review: God: A Human History

My rating: 5 of 5 stars
Un ennesimo libro dedicato alla ricerca, allo studio ed alla conoscenza di quella entità alla quale tutto appartiene e nella quale tutti dovremmo ritrovarci, per comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove siamo destinati ad andare. L’autore cerca di gettare nuova luce in maniera del tutto moderna, ed anche provocatoria, sulla relazione che intercorre tra l’umano ed il divino, sfidando le tradizionali prospettive con le quali, nell’arco di molti millenni, l’uomo ha cercato di rispondere ai suoi antichi ed irrisolti interrogativi.
Secondo lo scrittore, tutto il creato sottintende una presenza creatrice, chiamatela divina, che ha generato l’idea di un creatore. Sin dall’inizio dei tempi, l’uomo non ha fatto altro che cercare di comunicare la sua “essenza”, attraverso il linguaggio della religione, anzi delle varie religioni rivelate nel corso dei millenni, per comunicare con chi potesse essere il creatore.
Nell'introduzione al suo libro, Reza Aslan, dichiara apertamente che a lui non interessa dimostrare l'esistenza o meno di Dio per la semplice ragione che, sia nell'uno che nell'altro caso, non esistono prove. Chi afferma il contrario, in un modo o nell'altro, cerca di convertire alla sua tesi. Mi sembra questa una dichiarazione quanto mai onesta. Un giovane colto e brillante studioso di origine iraniana, trapiantato negli Usa, diventato famoso per altri suoi studi sulle religioni, tra i quali un precedente libro di grande successo su Gesù il ribelle, tradotto in molte lingue.
Uno scrittore che scrive di religioni dopo di averle attraversate, vivendole da credente, per scelta. Il problema del credere lo risolve soltanto chi decide di credere. Chi non crede, forse pensa di non avere problemi, senza rendersi conto che quello è il suo problema. La soluzione è basata esclusivamente sulla fede. Una volta stabilita e riconosciuta, lo scrittore la presenta in quella realtà-entità che comunemente chiamiamo “dio”. Tutto il libro di Reza Aslan è costruito sulla consapevolezza che l’unico modo per “conoscere” Dio è la conoscenza di se stessi.
Citando il poeta arabo, filosofo e mistico Ibn Arabi, (1165-1240), la cui opera ha influenzato molti intellettuali sia orientali che occidentali, tra i quali anche Dante e San Giovanni della Croce, Reza Asian scrive che “chi conosce la sua anima, conosce il suo dio”. Il libro inizia e finisce con la continua ricerca di quella che è vera essenza del nostro essere e che chiamiamo “anima”.
Intendiamoci, chiamatela come volete: “psiche”, “perì psūchês” per gli antichi greci, “nefesh” per gli ebrei, “ch’i” per i cinesi, “brahman” per gli indiani, “buddha nature purusa” per i buddisti. Pensatela connaturata alla mente, coesistente con l’universo, immaginatela riunita al dio suo creatore dopo la morte, trasmissibile da corpo a corpo. Consideratela come sede della propria essenza personale, come una forza impersonale che sottende alla creazione. Comunque la possiate definire, rimane il fatto che essa, per universale considerazione, è separata dal corpo. Precede il nostro stesso credere in Dio. E’ il pensiero stesso che ha generato Dio.
Sia che siamo credenti oppure no, la scelta tocca a noi soltanto. Reza Aslan crede, e ci invita a credere per dare un senso al nostro “essere”. La sua non è una religione ben precisa, il suo pensiero è legato al “panteismo”, una filosofia non una religione, alla quale perviene passando per il “sufismo”. Dio è a suo parere, un universo nella sua totalità. Ma non ci arriva attraverso nessuna delle diverse religioni da lui esaminate. Ci arriva attraverso la ricerca. Appunto, la filosofia. Tramite Spinoza il quale sosteneva che esiste una sola “sostanza” nell’universo, ma con diversi attributi.
Che sia chiamata Dio oppure Natura, esiste come unità singola: tutto è uno, uno è tutto. Sta a noi decidere cosa sia questo “uno”. Per lui, per Reza Aslan, è “Dio”, non un dio personificato o personalizzato, de-umanizzato, immateriale, senza nome, essenza e personalità. Egli ci dice che gran parte dei suoi studi e delle sue ricerche le ha indirizzate verso il tentativo di colmare l’abisso che ha sempre diviso e continua a dividere gli uomini da Dio.
In questo percorso di ricerca, sente di avere un contatto diretto ed immediato con “dio” e con se stesso. Noi siamo una parte di Lui. Arriva a scrivere in inglese: “I am, in my essential reality, God made manifest. We all are … Believe in God or not. Define God how you will. Either way, take a lesson from our mythological ancestors Adam and Eve and eat the forbidden fruit. You need not fear God. You are God”.
Ho letto questo libro in versione Kindle, ma ho deciso di acquistare anche la versione cartacea. Mai come in queste situazioni di scrittura complessa ed impegnata si sente la necessità di avere tra le mani l’oggetto chiamato libro contenente quella insostenibile “pesantezza” che si chiama conoscenza. La necessità di soppesare i suoi contenuti, toccare, sfogliare, leggere e rileggere le sue pagine, sottolineare, evidenziare, approfondire, rielaborare. La conoscenza, la lettura, il sapere hanno un loro inevitabile peso che scaturisce da una ben precisa fisicità, un peso ed una fatica per affrontare una storia come questa che non è soltanto umana.
Reza Aslan ha intitolato il suo libro in inglese “God. A Human History”. In italiano suonerebbe: “Dio. Una storia umana”. Laddove “history” in italiano sta sia per “storia” cioè racconto, narrazione, resoconto. Ma in inglese sta anche per “Storia” con la lettera maiuscola. Questo libro non è soltanto un “racconto”, è anche e soprattutto la Storia non soltanto umana ma anche “divina”. Almeno di quella parte immateriale, spirituale, quella “essenza” che ognuno di noi porta con sè dall’inizio sino alla fine e che certamente sarà destinata a ricongiungersi con il “tutto” da cui proviene.
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Published on December 12, 2017 03:02
December 11, 2017
God: una storia soltanto umana?

Un ennesimo libro dedicato alla ricerca, allo studio ed alla conoscenza di quella entità alla quale tutto appartiene e nella quale tutti dovremmo ritrovarci, per comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove siamo destinati ad andare. L’autore cerca di gettare nuova luce in maniera del tutto moderna, ed anche provocatoria, sulla relazione che intercorre tra l’umano ed il divino, sfidando le tradizionali prospettive con le quali, nell’arco di molti millenni, l’uomo ha cercato di rispondere ai suoi antichi ed irrisolti interrogativi.
Secondo lo scrittore, tutto il creato sottintende una presenza creatrice, chiamatela divina, che ha generato l’idea di un creatore. Sin dall’inizio dei tempi, l’uomo non ha fatto altro che cercare di comunicare la sua “essenza”, attraverso il linguaggio della religione, anzi delle varie religioni rivelate nel corso dei millenni, per comunicare con chi potesse essere il creatore.
Nell'introduzione al suo libro, Reza Aslan, dichiara apertamente che a lui non interessa dimostrare l'esistenza o meno di Dio per la semplice ragione che, sia nell'uno che nell'altro caso, non esistono prove. Chi afferma il contrario, in un modo o nell'altro, cerca di convertire alla sua tesi. Mi sembra questa una dichiarazione quanto mai onesta. Un giovane colto e brillante studioso di origine iraniana, trapiantato negli Usa, diventato famoso per altri suoi studi sulle religioni, tra i quali un precedente libro di grande successo su Gesù il ribelle, tradotto in molte lingue.
Uno scrittore che scrive di religioni dopo di averle attraversate, vivendole da credente, per scelta. Il problema del credere lo risolve soltanto chi decide di credere. Chi non crede, forse pensa di non avere problemi, senza rendersi conto che quello è il suo problema. La soluzione è basata esclusivamente sulla fede. Una volta stabilita e riconosciuta, lo scrittore la presenta in quella realtà-entità che comunemente chiamiamo “dio”. Tutto il libro di Reza Aslan è costruito sulla consapevolezza che l’unico modo per “conoscere” Dio è la conoscenza di se stessi.
Citando il poeta arabo, filosofo e mistico Ibn Arabi, (1165-1240), la cui opera ha influenzato molti intellettuali sia orientali che occidentali, tra i quali anche Dante e San Giovanni della Croce, Reza Asian scrive che “chi conosce la sua anima, conosce il suo dio”. Il libro inizia e finisce con la continua ricerca di quella che è vera essenza del nostro essere e che chiamiamo “anima”.
Intendiamoci, chiamatela come volete: “psiche”, “perì psūchês” per gli antichi greci, “nefesh” per gli ebrei, “ch’i” per i cinesi, “brahman” per gli indiani, “buddha nature purusa” per i buddisti. Pensatela connaturata alla mente, coesistente con l’universo, immaginatela riunita al dio suo creatore dopo la morte, trasmissibile da corpo a corpo. Consideratela come sede della propria essenza personale, come una forza impersonale che sottende alla creazione. Comunque la possiate definire, rimane il fatto che essa, per universale considerazione, è separata dal corpo. Precede il nostro stesso credere in Dio. E’ il pensiero stesso che ha generato Dio.
Sia che siamo credenti oppure no, la scelta tocca a noi soltanto. Reza Aslan crede, e ci invita a credere per dare un senso al nostro “essere”. La sua non è una religione ben precisa, il suo pensiero è legato al “panteismo”, una filosofia non una religione, alla quale perviene passando per il “sufismo”. Dio è a suo parere, un universo nella sua totalità. Ma non ci arriva attraverso nessuna delle diverse religioni da lui esaminate. Ci arriva attraverso la ricerca. Appunto, la filosofia. Tramite Spinoza il quale sosteneva che esiste una sola “sostanza” nell’universo, ma con diversi attributi.
Che sia chiamata Dio oppure Natura, esiste come unità singola: tutto è uno, uno è tutto. Sta a noi decidere cosa sia questo “uno”. Per lui, per Reza Aslan, è “Dio”, non un dio personificato o personalizzato, de-umanizzato, immateriale, senza nome, essenza e personalità. Egli ci dice che gran parte dei suoi studi e delle sue ricerche le ha indirizzate verso il tentativo di colmare l’abisso che ha sempre diviso e continua a dividere gli uomini da Dio. In questo percorso di ricerca, sente di avere un contatto diretto ed immediato con “dio” e con se stesso. Noi siamo una parte di Lui. Arriva a scrivere:
“I am, in my essential reality, God made manifest. We all are … Believe in God or not. Define God how you will. Either way, take a lesson from our mythological ancestors Adam and Eve and eat the forbidden fruit. You need not fear God. You are God”.
"Io sono, nella mia essenziale realtà, Dio che si è manifestato. Tutti lo siamo ... Si creda in Dio, oppure no. Definite Dio come volete, in una maniera o l'altra, prendete lezione dai nostri mitologici antenati Adamo ed Eva e mangiate il frutto proibito. Non dovete avere timore di Dio. Voi siete Dio".
Ho letto questo libro in versione Kindle, ma ho deciso di acquistare anche la versione cartacea. Mai come in queste situazioni di scrittura complessa ed impegnata si sente la necessità di avere tra le mani l’oggetto chiamato libro contenente quella insostenibile “pesantezza” che si chiama conoscenza. La necessità di soppesare i suoi contenuti, toccare, sfogliare, leggere e rileggere le sue pagine, sottolineare, evidenziare, approfondire, rielaborare. La conoscenza, la lettura, il sapere hanno un loro inevitabile peso che scaturisce da una ben precisa fisicità, un peso ed una fatica per affrontare una storia come questa che non è soltanto umana.
Reza Aslan ha intitolato il suo libro in inglese “God. A Human History”. In italiano suonerebbe: “Dio. Una storia umana”. Laddove “history” in italiano sta sia per “storia” cioè racconto, narrazione, resoconto. Ma in inglese sta anche per “Storia” con la lettera maiuscola. Questo libro non è soltanto un “racconto”, è anche e soprattutto la Storia non soltanto umana ma anche “divina”. Almeno di quella parte immateriale, spirituale, quella “essenza” che ognuno di noi porta con sè dall’inizio sino alla fine e che certamente sarà destinata a ricongiungersi con il “tutto” da cui proviene.

Published on December 11, 2017 15:46
December 1, 2017
Review: Generare un libro che abbia senso

My rating: 4 of 5 stars
“Generare” un libro che abbia senso. Forse il titolo di questa "review"non è molto appropriato. Spero di chiarire al meglio quello che intendo dire di questo libro del filosofo Massimo Cacciari, appena uscito per le edizioni de "Il Mulino". Siamo in atmosfera prenatalizia, una buona occasione che ne ha suggerito la pubblicazione. Un libro che oltre al riferimento religioso della ricorrenza del Natale, ha un forte richiamo alle problematiche legate alla quotidianità per quanto concerne la crisi dei valori, sia religiosi che etici, politici ed umani. Detto in breve: la crisi, vera o presunta, della nostra civiltà.
Massimo Cacciari non ha bisogno di presentazioni. Uno dei massimi esponenti della cultura italiana, professore emerito di filosofia, intellettuale impegnato, anche politicamente, ma per niente condizionato da ideologie fondamentaliste. Sempre libero di pensarla come può pensare un filosofo che non deve credere, che non ha bisogno di pregare perchè, lui dice che, solo facendo ricerca, si avvicina alla preghiera.
Così ha risposto in un’intervista ad un giornalista che lo stuzzicava sulla sua fede, dopo di averlo provocato facendogli fare una smorfia di disgusto a sentire parlare di un ennesimo, prossimo Natale fatto di panettoni, pubblicità, soldi, feste e festine. Una società come quella attuale, nella quale si succedono episodi che mortificano storia, cultura e tradizione. Tutta “roba” nostra, che non tutti possono condividere.
Chi evita di fare il presepe a scuola, chi rinunzia alla messa di mezzanotte, chi si accontenta di prediche che non hanno granchè di religioso. Sono solo alcuni esempi di percorsi attuali verso un qualunquistico ateismo o, quanto meno, non religiosità. Il tutto, in un’atmosfera di totale indifferenza per il vero senso di questa festa. Per questa ragione, lui, filosofo non credente, decide di pubblicare un libro, anzi di “generarlo”, alla stessa maniera di come una “ragazzetta” (così definisce la Madre di Dio), "genera Dio".
Non ha timore ad affermare che “sono i cristiani i primi ad avere abolito il Natale perchè l’indifferenza regna sovrana e avvolge tutti, laici e cattolici. Non ci si rende conto che il cristianesimo è una parte fondamentale del nostro percorso, della vicenda personale di ognuno di noi, qualcosa con cui ci confrontiamo ogni giorno". Continua dicendo che nessuno sembra riflettere sul significato della venuta di “Qualcuno” che ha tagliato in due la storia: il prima e il dopo Cristo. Un Dio che si è fatto uomo non per dominare, ma per stabilire un contatto con i suoi figli.
Perchè questo è il Natale. Invece, secondo il filosofo che, in quanto tale, non può essere credente, questo evento è diventato una favoletta che si racconta e basta, senza pensarci su troppo. Anzi, facendo di tutto per non dare fastidio a chi non conosce o non accetta questa narrazione. Non ci si rende conto che questa venuta è destinata a “scandalizzare” anche altri, ebrei. slamici o buddisti che possano essere.
Non si ha la consapevolezza dell’evento, del fatto che solo con il dovuto approfondimento, si può arrivare al dialogo. Una vicenda così grande ed incommensurabile come quella che si è detto, di un dio dialogante con i suoi figli, e quello straordinario di una in una “ragazzetta” destinata a generarlo. “Generare Dio”, appunto. Da questo contesto che affonda le sue radici nello spazio e nel tempo, nasce il libro partendo dal volto di questa ignota “ragazzetta” così come l’hanno immaginata nella storia delle arti di tutti i tempi tanti artisti.
Massimo Cacciari sceglie la Madonna Poldi Pezzoli del Mantegna come immagine di copertina del suo libro, volutamente sfocata per dare la possibilità al lettore di mettere a fuoco con la lettura del suo libro, i suoi pensieri, le sue riflessioni su un evento che definire straordinario è poco. Un’ultima riflessione per dire il libro ha per sottotitolo “Icone. Pensare per immagini”.
Quanti sono stati nel corso dei secoli i modi, gli stili e le tecniche, nel tentativo di dare un’immagine possibile al volto di questa inconsapevole “ragazzetta” destinata a generare il figlio di Dio? Immagini con le quali tutti abbiamo cercato di dare forma a questo volto al quale non ci stanchiamo mai di riferirci. Massimo Cacciari ci invita però, oltre a fare considerazioni di ordine estetico, anche a comprendere il senso di questo evento che resta comunque misterioso, puro atto di fede donato alla ragione degli uomini.
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Published on December 01, 2017 05:03
November 30, 2017
Il Grande Fratello sa tutto di noi

Non ce ne rendiamo conto. Abbiamo ormai tutti un “fratello” che sa tutto di noi. Nel suo famoso romanzo “1984” lo scrittore inglese George Orwell inventò un “Grande Fratello” che governava Oceania, assetato di potere, senza alcun interesse per il bene comune.
Quando Orwell si inventò quella storia negli anni quaranta del secolo e del millennio scorsi non era nemmeno pensabile che si potesse governare e dominare un popolo sottoponendolo ad un controllo continuo e spietato con mezzi straordinari come quello che avrebbe usato lui.
Tutto era, infatti, sotto il suo controllo tramite teleschermi dai quali una voce ricordava continuamente che il “grande fratello” sorvegliava. Oggi noi siamo sappiamo bene che la cosa è non solo possibile, ma ci scherziamo anche sopra con un famoso show televisivo.
Si pensava che quello che aveva immaginato lo scrittore inglese non sarebbe mai potuto accadere, invece è sotto gli occhi di tutti. Anzi, no. Sotto gli occhi del grande fratello chiamato Google.
A distanza di 70 anni questo fratello ce lo portiamo addirittura in tasca, lo maneggiamo ogni momento, per ogni occasione e in tutte le stagioni della vita. Lui dice anche dove siamo e cosa facciamo. Non ha sete di potere, non è cattivo e tirannico, oppressivo. Almeno così sembra.
Solo in apparenza è diverso da quello immaginato da Orwell, ma in sostanza le cose sono al peggio, è cambiata soltanto la forma. Lo strumento è diventato più sofisticato ed autocraticamente adattato alla realtà di oggi. Non è tanto lui che ci opprime, siamo noi che facciamo di tutto per farci opprimere.
Sembra un paradosso, ma è così. Google non è soltanto un motore di ricerca, capace di trovare l’impossibile. E’ anche e soprattutto una realtà algoritmica mirata a fare informazione che si nutre di notizie raccolte sul nostro conto, senza alcuna soluzione di sosta. Al computer, ipad o cellulare, il WiFi ci lega a lui indissolubilmente.
Ingoia dati, li classifica e li usa, rivendendoli e facendo grande, grandissima cassa. Soltanto nel 2015 if fatturato del grande fratello chiamato Google è stato di oltre 75 miliardi di dollari, dei quali il 77% ricavato da pubblicità. Tutto questo, sulle nostre spalle, se non lo sapete.
Qualche settimana fa, in un negozio di Bologna, per un acquisto, fu chiesta a mia moglie la tessera sanitaria. Lei non l’aveva con sè e non sapevamo come fare. La commessa subito ci tranquillizzò dicendo che avrebbe provveduto lei con una domanda al “grande fratello” Google.
Nome, cognome, luogo e data di nascita e la risposta venne immediata. Sapeva più lui di mia moglie che lei di sè stessa. Un esempio forse banale, ma reale per capire quanto diciamo al nostro grande fratello senza che lui ce lo chieda nemmeno.
Basta pensare a tutto quello che facciamo quando siamo collegati alla Rete. Le mail, i video, il carico e scarico, le visite, le ricerche, insomma tutto quanto viene chiamato “navigazione”, il tutto trasformato in dati che continuamente aggiorniamo in maniera volontaria, liberamente e anche inconsapevolmente. Per sempre, anche quando ci trasferiremo altrove, lasciando questo pianeta.
Non si illuda chi pensa che non avendo il cellulare, il pc, il tablet o quant’altro fa digitale sia salvo. Tutti hanno per legge il CF, l’algoritmo chiamato “codice fiscale”. Una ricerca, quando saremo “altrove”, basterà per farci sapere che ci siamo trasferiti da quelle parti dove abita il “Grande Fratello”, il quale speriamo ci guiderà dal Padre.

Published on November 30, 2017 04:59
November 29, 2017
Il cipresso "saggio surrealista" di Salvador Dalì




E' stato scritto che l'arte ha una funzione rassicurante, chi invece crede che debba essere una denunzia, chi ancora pensa che possa essere educativa. Io sono convinto che, quando è vera arte, è tutte queste cose insieme, ed altro anche. Tutto dipende sia da chi la fa, quanto da chi la fruisce, per usare una termine abusato, ma comodo per intenderci. Quella vera, a mio parere, è sempre un problema, anche quando si copre di armonia e proporzioni.
Non è il caso della mostra che ho avuto occasione di visitare nei giorni scorsi a Bologna su quella energia artistica che si sviluppò nella prima metà del Novecento. Arte come mezzo perturbante per parlare del mondo, tanto più vera quando si sta per spalancare quel periodo che fu l’abisso del Novecento. E' quando tutte le passate, usate e tradizionali proporzioni saltano.
Così, cosa succede quando si mettono vicino Duchamp, Magritte, Max Ernst, Man Ray, Dalì, Picabia e Tanguy fino a Pollock? Di fatto, si concentra in una volta sola tutta l’energia eversiva dell’arte della prima metà del Novecento: dadaismo, espressionismo, surrealismo, post impressionismo e "action painting". C’è proprio tutto. I pilastri che hanno rovesciato l’immaginario artistico del grande secolo.
Basta pensare all’orinatoio di Duchamp, o al suo portaombrelli, e contemporaneamente hanno aperto le finestre su altri mondi mai immaginati prima, ma che poi si scopre sono stati sempre presenti nella mente degli esseri umani. Ci mancavano solo Freud, Marx, Rimbaud, Apollinaire ed altri per inventare quella tecnica comunicativa nata da una poesia surrealista con la quale si sarebbe fatto bere al "cadavere squisito il vino nuovo".
Tutto questo abbiamo potuto vedere in mostra e le due ore non sono state sufficienti davvero. Alcune cose mi hanno colpito più di altre, come ad esempio il quadro di Salvador Dalì intitolato: "Saggio surrealista". Non conoscevo il dipinto. Nella esposizione ha avuto un posto di primo piano, come merita. Mi è diventato subito familiare in quanto quel cipresso mi ha riportato a "casa".
In un post di qualche tempo fa intitolato "I cipressi, l'aereo e l'infinito" ebbi modo, anche io, di fare del surrealismo, in un certo qual modo. Una mattina d'estate, davanti casa in Costa d'Amalfi, la punta di uno dei miei cipressi nell'orto di fronte "toccarono l'infinito". Ebbi modo di scattare alcune immagini in successione che potete vedere al link. Nella prima immagine l'areo sale velocemente nel cielo lasciando dietro di sé quel sottile filo bianco luminoso in perfetta linearità.
Sembrava quasi che volesse aggredire l'infinito. Ed io lo seguivo con la camera scattando immagini. Procedendo il suo percorso, come in caduta libera, si è insinuato tra i due, ha fatto una dolce curva ed è scomparso dietro le montagne che ospitano la Badia di Cava. Quella traccia di filo incantato s'è come per magia dissolta alla luce del sole che di lì a poco è apparso dietro la linea della montagna.
Rimasi lì impalato mentre il cielo si riempiva di luce, instupidito dalla bellezza del momento fuggito, ma felice per averlo catturato. Mi sembrò tutto surreale. Il senso dell'infinito, attraverso la magia dell'alba, il risveglio del mondo, il brivido dell'umano in quella macchina volante che non aveva nulla di celeste e che sembrava voler sfidare il mistero dell'universo e della vita. Associai i cipressi e l'aereo all'Infinito di Leopardi.
Diversa la sensazione provata davanti al quadro di Dalì che dal titolo si capiva avere un "progetto". Un corpo estraneo e sconosciuto colpisce il cipresso che diventa un simbolo difficilmente riconoscibile come si evince dal dettaglio. Misterioso il titolo, altrettanto misteriosa quell'asta che sembra destinata ad estrarre qualcosa dall'albero. I miei due cipressi sono antichi, oltre un secolo. Fanno da frangivento. Il vento è quello trasversale, uno dei tre venti che spirano da queste parti.
Il vento discendente dal valico, quello ascendente dal mare e quello trasversale che batte contro i cipressi che riparano la casa. Migliaia di uccelli li visitano e ci abitano. All'alba e al tramonto di ogni giorno va in onda il concerto della natura. Una musica scende dal cielo. Inizia qualche tempo prima del sorgere del sole, quando le ombre della notte avvolgono ancora la campagna circostante. Alle prime, incerte luci del mattino la musica dolcemente sfuma nel nuovo giorno. Quello strano oggetto che l'asta di Dali sembra voler estrarre dall'albero, resta quanto mai misterioso, surreale appunto.

Published on November 29, 2017 11:00
Review: Buona vita a tutti

Buona vita a tutti by J.K. Rowling
My rating: 5 of 5 stars
Ho dovuto aggiungere una nuova parola chiave o etichetta per catalogare questo libro. Dio mio, chiamarlo libro non è proprio il caso. Soltanto poche pagine con la prolusione che la famosa J. K. Rowling, la "mamma" di Harry Potter, fece in occasione della cerimonia della laurea ad honorem che le diedero a Harvard.
I suoi editori hanno saputo sfruttare anche questa occasione per aggiungere altri milioni di copie ai 450 milioni di volumi venduti dei suoi libri in tutto il mondo. La parola magica è "immaginazione". Una di quelle parole astratte che caratterizzano gli uomini, in questo caso sopratutto le donne!
Questa signora, bisogna dirlo a gran voce, ne ha avuto molta di immaginazione, tanta e a sufficienza da diventare una della scrittrici più ricche al mondo. Non è che poi lo sia sempre stata. La sua sconfinata bravura e intelligenza l'hanno portata a meritarsi questo titolo.
Ma per arrivare ad esserlo, ha dovuto prima provare il significato della caduta, della sconfitta e della povertà, anche se relativa, ma abbastanza importante per rifarsi. "Ciò che conquistiamo interiormente, modificherà la realtà esterna" questa la frase chiave che caratterizza l'idea sia di questo libretto che della relazione dalla quale lo stesso è scaturito.
Una frase di Plutarco che prova, secondo la Rowling, l'importanza della conoscenza della cultura e degli studi classici intesi come modelli di riferimento per vuole affrontare la realtà della vita in maniera significativa.
La conquista interiore, secondo lei, conduce al cambiamento esteriore, quello del mondo. Condizione necessaria, è ovvio che sia il rapporto tra quelle due realtà nelle quali ogni essere umano è destinato a dibattersi. Da qui l'idea di questo libretto che augura "buona vita a tutti".
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Published on November 29, 2017 07:52
November 28, 2017
Quale realtà?

Dawn of the New Everything: Encounters with Reality and Virtual Reality by Jaron Lanier
My rating: 4 of 5 stars
Che cos’è la realtà? La risposta presuppone la conoscenza dei “luoghi”, reali e virtuali, nei quali ogni giorno viviamo e che crediamo di conoscere abbastanza. Purtroppo, ahimè, alla fine, ci accorgiamo che quella che abbiamo vissuto, non è quella realtà che abbiamo pensato. Infatti, nessuno è venuto a dirci, almeno finora, cosa c’è “oltre” di essa. Il “dopo”, per intenderci. Per non parlare poi del “prima”.
Se le cose stanno così, parlare di “realtà virtuale” potrebbe sembrare una provocazione, un non senso. Invece, la RV sembra essere diventata un argomento utile per leggere il futuro. Questo libro, appena uscito, cerca di dare delle risposte a questo interrogativo. Nei ventuno capitoli con le tre appendici si possono leggere una cinquantina di definizioni di cosa l’autore intende con RV.
Se fate una ricerca in rete scoprirete che Google vi proporrà milioni di risposte. Eccone alcune: “una tecnologia mediatica per la quale misurare è più importante che apparire”. Oppure “quella tecnologia che evidenzia l’esperienza”, o ancora “un simulatore che addestra a fare guerra informativa”. Tutto e di più, come si può immaginare, specialmente in questo momento in cui i media sono sempre in primo piano a far rumore. Come è logico che facciano: è il loro mestiere.
L’autore di questo libro, di cui ho letto diversi estratti e recensioni, è uno che nella Silicon Valley sin dal 1984 si è occupato di realtà virtuale con quelle famose cuffie. Ora lavora alla Microsoft. Ha scritto diversi libri i cui titoli “Tu non sei un aggeggio” (2010) e “Chi è il padrone del futuro?” segnalano il suo pensiero nei confronti del potere monopolistico delle grandi multinazionali, i colossi della “high tech”.
Questo libro è importante non solo e non tanto per quanto riguarda la RV, quanto per comprendere dove siamo arrivati, la strada che abbiamo percorso finora per arrivarci e dove siamo diretti. Egli scrive che un tempo, solo una ventina di anni fa, nella Silicon Valley si pensava che il mondo potesse essere “migliorato”, creando un tipo di potere che sarebbe stato più importante del denaro. Per fare questo era necessario che il “software” fosse libero, come l’aria o il sesso.
A distanza di una ventina di anni, i colossi della tecnologia sono soltanto tre, il web è meno caotico di quando nacque, è più strutturato, ma i risultati non sono quelli sperati. L’ossessione del “libero e gratis” ha quasi distrutto il mercato musicale, le grandi aziende tech globali resistono a qualsiasi tipo di condizionamento locale, senza essere responsabili di quello che fanno con le loro potenti piattaforme. Si preoccupano più per il tempo che i loro visitatori/clienti trascorrono su di esse, piuttosto che della qualità dei prodotti che offrono ed essi consumano.
Faron Lenier sembra piuttosto fiducioso non tanto negli algoritmi, quanto sul fattore umano che deve essere il centro di Internet. Cosa significa allora, in una realtà come questa, la “realtà virtuale”? Va detto subito che questa non potrà mai avere lo stesso successo dei cellulari, ma avrà la sua influenza. Si svilupperanno ambienti generati al computer in maniera da riproporre la realtà per fini specifici quali ad esempio, la medicina, la formazione, i servizi sociali.
Bisogna però fare attenzione a non manipolare i suoi utenti. Bisognerà stare attenti a “non ingabbiare i naviganti all’interno di un annuncio pubblicitario”. E’ chiaro, comunque, sin da ora, che la RV si diffonderà dopo che ci saremo sempre di più abituati ad usare al meglio, (e non al peggio!), tutto l’armamentario dei nuovi media, e sapremo come non farci manipolare.
Potremo così, almeno dare una migliore definizione della stessa RV: “Un’anticipazione di quello che sarà la realtà quando la tecnologia migliorerà”. Ed è un fatto certo, la tecnologia migliora di giorno in giorno sia che essa dipenda dai tecnici che la usano che dalla capacità della società umana a farne quello che vorrà.
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Published on November 28, 2017 05:31
November 26, 2017
La carta, il fuoco e lo spirito di Gianfranco Ravasi

Gli "hashtag" che ogni domenica scrive su "Il Sole 24 Ore" il cardinale Gianfranco Ravasi sono decisamente imperdibili. Se c'è una ragione valida per comprare e leggere un altro quotidiano, queste perle di "breviario" sono, forse, la prima. In alto, a destra della prima pagina del supplemento, il cardinale, scrittore, giornalista e finissimo intellettuale, è sicuramente diventato, non solo, per me, un punto di riferimento essenziale nella grande confusione della comunicazione contemporanea.
Un quotidiano come questo, di riconosciuta rilevanza sia economica che politica a livello europeo, la domenica, con il suo supplemento, diventa un imperdibile strumento culturale. Il cardinale, con il breviario, illumina e guida con naturale equilibrio, con la sua sterminata cultura, e sua inarrivabile puntualità, e sopratutto con la sua grande umanità, chi lo legge. Niente di parrocchiale, teologico, filosofico o dottrinario. Tutta umanità e grande cultura ricavata dai libri.
È sempre un libro, infatti, ad essere il suo riferimento, il suo punto di partenza e il suo punto arrivo. Un "hashtag" che segna, parla e indica la strada per un sapere che non ha nulla di cattedratico, fideistico, ideologico o fondamentalista. In una manciata di parole, il grande studioso, religioso e laico, che ho conosciuto molti anni fa quando lessi il suo indimenticabile libro sul "Qoehelet", sceglie un aforisma, un pensiero ed un libro e li condivide con i lettori. Chissà come sarà la biblioteca di Gianfranco Ravasi!
Ma una biblioteca cartacea non potrà mai essere granché di fronte alla biblioteca mentale di un bibliofilo (non so se posso dire "bibliomane") come quella che credo abbia questo Uomo, Cardinale della Chiesa di Roma. Certamente non sarà di carta, destinata ad ardere con fuochi fatui come quelli che sembrano ardere sempre più numerosi sugli altari della modernità.
Il "fuoco" che arde nella sua biblioteca mentale è senza dubbio quello dello "spirito santo". L'ho scritto in lettere minuscole per non creare associazioni che possono suonare blasfeme. Credo che sia proprio questo il "fuoco" che alimenta il "camino" della intelligenza di Gianfranco Ravasi.

Published on November 26, 2017 23:43
MEDIUM
Nessuno è stato mai me. Può darsi che io sia il primo. Nobody has been me before. Maybe I’m the first one.
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