Emanuela Navone's Blog, page 7
June 21, 2022
La scrittura fra arcaismi, tecnicismi e neologismi (e itanglese)

Divertente, per l’editor, è scartabellare il dizionario alla ricerca di parole nuove (o vecchie ma rispolverate).
C’è sempre qualcosa da scoprire!
Purtroppo, e questo capita con autori (credo) troppo sicuri di se stessi, a volte queste belle parole sono del tutto fuori contesto.
Ricercato? Sì!Usare un linguaggio più ricercato è qualcosa che mi piace, sia come editor sia come lettrice (come persona che scrive, invece, ammetto di essere molto terra-terra).
Spesso ci si perde in circonlocuzioni per spiegare qualcosa, quando invece il nostro dizionario ha la parola precisa; e che importa se è troppo letteraria, è la sola parola che possa servire in quel contesto.
Ad esempio, a me piace molto il verbo poetico verzicare (ossia verdeggiare, o cominciare a verdeggiare): sebbene non lo usi, lo trovo molto d’impatto. Altra parola è terebrante, il cui uso è davvero ristretto ad alcuni casi, ma che funziona per un dolore terebrante (un dolore trafiggente, che perfora).
Purtroppo, tutte queste parole hanno una frequenza d’uso davvero bassa nella scrittura odierna (c’è chi dice che lo stile degli scrittori si è ormai uniformato alle regole del mercato editoriale, e spesso è vero), e quando vengono impiegate più di una persona storce il naso, oppure cerca sul dizionario il suo significato.
Usare un linguaggio più letterario è però un esercizio interessante e coinvolgente, e anche se le parole sono desuete o troppo poetiche, questo non inficia la lettura – a meno che non prendiamo a scrivere come i nostri scrittori del Cinquecento, perché in quel caso non è ricercato ma arcaico, e spesso fuori contesto.
Diverso paio di maniche quando al ricercato si unisce il tecnico.
Tecnicismi? Però…Alcune parole sono tecnicismi, ossia, secondo Treccani “[t]ermine tecnico o locuzione tecnica, strettamente connessi ai fattori concettuali e pratici d’una data disciplina o attività […], in linguistica, termine o locuzione che indica concetti, nozioni e strumenti proprî di un determinato ambito settoriale…”.
Usare uno o più tecnicismi in letteratura non è un errore: è meglio specificare anziché generalizzare, e se il nostro testo ha necessità di spiegare un concetto tecnico, oppure vi sono dialoghi più tecnici, è sempre bene inserire un termine adeguato (al contesto, al registro…).
Spesso, però, i tecnicismi vengono impiegati alla stregua di meri sinonimi, e quindi mingere, ad esempio, è un termine che attiene esclusivamente al linguaggio medico e raramente viene impiegato come sinonimo di orinare o, più terra-terra, andare in bagno, fare pipì.
Spesso prendere in prestito un termine dai linguaggi settoriali viene visto come dar sfoggio delle proprie conoscenze (una sorta di “sazio il mio ego con…”); in realtà questi termini vengono definiti tecnici proprio per un motivo: sono impiegati esclusivamente in un certo settore.
Neologismi itanglesiNon potevo, anche in questo caso, tralasciare il mio amato (si fa per dire) itanglese.
I neologismi sono parole ormai entrate a far parte del nostro dizionario, e tra i vari tipi di neologismo abbiamo anche tutte quelle parole, molto recenti, che provengono dall’inglese. Quindi si usa ormai scrivere selfie, googlare, spammare, svapare, scrollare (nel senso di far scorrere il dito sullo schermo del cellulare o del tablet, da to scroll), fotoscioppare (o photoshoppare), friendzonare (?!)…
Ora, io sono aperta a tutto e sono convinta che ogni lingua debba evolversi sempre e comunque, ma se segui il mio blog sai che sono molto reticente a utilizzare parole derivanti e derivate dall’inglese quando è presente la stessa parola, o la stessa locuzione, anche in italiano. Certo, nessuno direbbe calcolatore al posto di computer, ma perché parlare di food delivery quando esiste la consegna a domicilio?
In questo caso sono sempre molto attenta all’utilizzo di neologismi e parole o locuzioni itanglesi in un qualsiasi testo, che sia mio o di altri, e lo ammetto: tendo sempre a rimuovere, o a consigliare di farlo, tutte quelle parole, o locuzioni, di cui esiste il corrispondente italiano. So di essere troppo severa, forse, ma se un libro è scritto in italiano, che sia tale. Sennò che venga scritto in inglese, francese, o altro.
Arcaismi, tecnicismi, neologismi itanglesi… ti capita di usarne? Ne hai scoperto qualcuno in qualche libro?Scrivimelo nei commenti!
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May 31, 2022
Mostrare, raccontare o… vedere?

La tecnica dello show è caldamente consigliata dai grandi romanzieri e dai maestri di scrittura creativa. A buona ragione: una scena mostrata, di qualsiasi tipo, è più di impatto rispetto al noioso e monocorde raccontare.
E se decidessimo di mostrare la nostra storia anche mentre la progettiamo?
Come in un filmOra sto per dire una banalità, e ti chiedo di scusarmi. Non solo scrivo da quando ero piccola, ma invento anche tantissime storie da che ho memoria.
Ecco, ti sento sbuffare. Lo so, è banale e ogni artista delle parole lo usa – che sia vero o usato a mo’ di cavallo di battaglia è tutt’altro paio di maniche.
Nel mio caso, è vero. Fin da piccola, inventavo storie. La maggior parte di esse è stata dimenticata perché non solevo trascriverle su carta, e spesso erano soltanto abbozzi di trame che si interrompevano come binari morti, alcune erano anche ben riuscite (ricordo… ragazzi, magari l’avessi scritta!, una storia fantasy complessissima con ripetuti colpi di scena che neanche, che so, un trono di spade).
Comunque. Io ho la mania – definirla dote è arrogante oltreché pretenzioso – di inventare storie che vedo, non che racconto. Insomma, io non mi parlo nella testa e mi dico “Mario Rossi va lì e poi fa così, poi vede Luigi e fa colà”. No, io vedo ogni scena come se avessi un film davanti. E ascolto anche i dialoghi.
So che tante altre persone fanno così (un amico, non scrittore – lo sarebbe ma è pigro, penso –, mi racconta talvolta di avere in mente le scene delle sue storie, comprese di dialoghi, e a volte me li recita). Ed è bellissimo, perché la storia non soltanto viene vista come se fosse un film, o telefilm, o sceneggiato, o novela (ne avevo inventata una quando ero piccola che era talmente lunga che mi ero immaginata anche i titoli di coda alla fine dopo il “continua”!), ma verrà poi anche raccontata come se fosse un film, e quindi mostrata.
È una tecnica di progettazione narrativa molto mentale e adatta a chi ha la testa fra le nuvole (e a chi soffre di insonnia: è un buon passatempo in attesa che il sonno decida di farti visita, te lo garantisco!), ma è utile sia per la costruzione di ogni scena (intreccio) sia anche per tutto quello che compone la scena.
Ingresso vietato alle talking headsSe non sai di cosa sto parlando, le talking heads sono le “teste che parlano”, ossia teste sospese in un mare di nulla, che parlano senza fare nient’altro – se non magari sorridersi o guardarsi. Un bel problema quando si scrive un dialogo, perché si rischia di renderlo inverosimile.
Ecco, vedere la storia come in un film aiuta anche a prevenire problemi come questo.
Sì, perché se tu vedi la storia come in un film, immagino anche che non vedrai soltanto i tuoi personaggi, ma anche l’ambiente circostante (vero o immaginario che sia). Un film di teste che parlano è raro possa esistere, e stare in piedi – magari sì, ma sarebbe molto concettuale e surreale.
Nel pacchetto visivo, allora, abbiamo personaggi, dialoghi, e anche ambientazione. Una manna dal cielo vera e propria, perché in fase di stesura non avremo bisogno di pensare e riflettere: ci basterà mettere su carta il film che avevamo già visto nella nostra mente.
Quindi mostrare è consigliato, vedere e poi mostrare è consigliatissimo.
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Nuovi orrori grammaticali

Sono loro, sono arrivati!
I nuovi orrori grammaticali del XXI secolo!
Chissà se anche tu li commetti, o se li hai commessi… o forse soltanto letti.
Sbagliare è bello (?!)Errare humanum est… ma perseverare è diabolico.
Lo senti dappertutto, vero? Eppure, è proprio così.
E questi nuovi orrori grammaticali sono talmente “perseverati” che molti li ritengono corretti, e magari incolpano te di sbagliare. Perché si sa, i memi sono come batteri, e si propagano…
Piuttosto che… cosa?Ormai sono anni che assistiamo a un diluvio di “piuttosto che” usato con valore disgiuntivo, al posto di oppure, mentre invece il corretto utilizzo ha un valore puramente avversativo.
Mangio una mela piuttosto che una pera: mangio una mela e NON una pera > uso corretto
Mangio una mela piuttosto che una pera: mangio una mela OPPURE una pera > uso errato
Il “piuttosto che” viene anche usato come “sinonimo” di “oltre che”: mangio una mela piuttosto che una pera (mangio una mela OLTRE CHE una pera > uso errato)
È una costruzione che, sebbene presente dappertutto (un po’ come l’odioso a lavoro), non va bene, né all’orale né (soprattutto) allo scritto. Anche perché, in questo ultimo caso, usare il “piuttosto che” con valore disgiuntivo spesso crea confusione, con il rischio che l’intera frase non si capisca, o perda di significato.
Di cui neOltre che essere una costruzione più tipica dell’orale (e di una scrittura trascurata), usare l’accoppiata “di cui” e “ne” è anche una tautologia.
Infatti, secondo la Crusca, il “ne”
[s]volge inoltre funzione di pronome personale o dimostrativo, preceduto da di/da: “non la conosco personalmente, ma ne (= di lei) dicono bene”, “chiuso l’affare, non volle più parlarne (= di esso)”, “ha visto il film e ne (= da esso) è stata impressionata.
Quindi, il “ne” implica già la presenza del “di cui”, semplificando all’estremo.
Ho visto un film e te ne parlerò (ti parlerò di questo film).
Il “di cui” ha lo stesso significato: ho visto un film di cui ti parlerò (ti parlerò di questo film).
Qualcosa che lo si può fareLa ripresa pronominale del soggetto, nel nostro esempio “qualcosa”, nell’orale viene spesso usata, e anche nello scritto. In quest’ultimo caso, però, è un errore e, a meno di non dare enfasi con una dislocazione (usando le virgole: qualcosa che, statene pur certi, lo si può fare! Oppure: lo si può fare, qualcosa), va evitato.
Infatti, la frase sta in piedi senza “lo”: qualcosa che si può fare.
C’è da dire che le dislocazioni di questo esempio e dell’esempio precedente sono maggiormente accettate dai linguisti e dagli editor meno “grammarnazi”, poiché in entrambi i casi la ripresa pronominale o la tautologia potrebbero servire, come scrivevo, per enfatizzare un concetto.
Riguardo, inerente…Errore invece da penna blu è “riguardo qualcosa” e “inerente qualcosa”.
Infatti, sia “riguardo” sia “inerente” reggono la preposizione “a”: riguardo a qualcosa e inerente a qualcosa.
Purtroppo, anche questo errore è ormai frequente dappertutto, e purtroppo l’ho visto usare anche da persone che si dichiarano editor – e qui ribadisco che prima di contattare un editor bisogna verificare se almeno conosce le basi grammaticali e ortografiche.
Il passato che appartenevanoErrore bruttino, però anche questo molto frequente (e tipico non solo dell’oralità ma anche di un italiano molto informale e molto trascurato).
Nei complementi indiretti, però, il “che” viene sostituito dalla forma “cui”: a cui, di cui, con cui, per cui…
Il passato a cui appartenevano.
C’è da dire, comunque, che questa forma scorretta al giorno d’oggi (come tante altre), in passato veniva ammessa: Questo è il diavolo di che io t’ho parlato (G. Boccaccio, Decameron).
Conosci altri errori o usi impropri della lingua?Scrivimelo nei commenti!
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Bio del personaggio e narrazione: 3 errori da non fareCome ormai pare assodato, è fondamentale conoscere la biografia di ogni personaggio, vizi, abitudini, tic e tutto il resto, come se fosse una persona in carne e ossa.Di tutta questa piccola esistenza su carta, però, che cosa serve davvero?E che cosa, invece, rischia di annoiare il lettore?
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May 24, 2022
Bio del personaggio e narrazione: 3 errori da non fare

Come ormai pare assodato, è fondamentale conoscere la biografia di ogni personaggio, vizi, abitudini, tic e tutto il resto, come se fosse una persona in carne e ossa.
Di tutta questa piccola esistenza su carta, però, che cosa serve davvero?
E che cosa, invece, rischia di annoiare il lettore?
Mi chiamo Mario e sono nato a…Come scrivevo in un precedente articolo, e come ho ricordato poco sopra, è necessario sapere tutto del proprio personaggio, magari annotandolo in una scheda a parte rispetto alla trama. È necessario perché per sapere come far muovere il nostro Mario all’interno di una storia bisogna prima conoscere Mario.
Il rischio, in caso contrario, è di creare situazioni di inverosimiglianza o paradossali, incappando spesso in veri e propri buchi narrativi.
Partendo quindi da questa regola base (una delle poche regole della scrittura creativa che consiglio di non infrangere), vediamo quali sono i principali errori di narrazione legati alla biografia di un personaggio (che sia protagonista o un altro).
Errore numero 1: quel lontano dì di marzo…In questo errore ahimè sono incappata anche io, fortunatamente il buonsenso mi è tornato prima che mi spingessi troppo oltre.
Consiste nel ripercorrere con un lungo flashback, o con rimembranze a mo’ di flusso di coscienza se si usa l’io narrante, l’intera storia del personaggio, occupando pagine e pagine di… niente.
A me è capitato durante una delle tante stesure de Io sono l’usignolo (chi mi segue sa che questo romanzo ha avuto una gestazione lunga e dolorosa). Mi ero messa in testa di dipanare la storia secondo tre linee narrative raccontate dal punto di vista di tre personaggi. Fin qui, nulla di originale o sbagliato. Arrivata a pagina cinquanta, però, mi sono resa conto… che la trama non si era mossa dalla situazione iniziale, né vi era stato alcun incidente scatenante. In pratica avevo sprecato cinquanta pagine – e forse erano anche di più, non ricordo, ho cancellato tutto e svuotato il cestino in meno di cinque minuti – raccontando della vita di questi tre personaggi prima del tempo presente.
Quante di queste informazioni sarebbero servite al lettore? La metà.
Avrei potuto inserirle nel testo in altra maniera? Certo che sì.
Dobbiamo quindi conoscere tutto dei nostri personaggi, sì, ma saper dosare le informazioni. Un buon 80% non interesserà né alla storia né al lettore.
Errore numero 2: tutto ruota intorno a meComunissimo errore, che ho letto in svariati manoscritti, è di costruire la storia in funzione del protagonista, e non soltanto la storia: anche la trama, e talvolta pure l’intreccio.
Mi spiego meglio.
Nei manoscritti che ho letto, un buon 50% della narrazione (quindi cinquanta pagine su un totale di cento) era speso a parlare del protagonista, di quello che gli piaceva, di ciò che odiava, del rapporto con la famiglia, gli amici, gli amori… dei viaggi fatti, dei sogni nel cassetto…
Arrivata, di nuovo, a pagina cinquanta, mi sono domandata: e quindi? La storia dov’è?
Errore 1 ed errore 2 sono simili, cambia il contenuto. Nel primo errore ci si concentra sulla storia del personaggio, nel secondo errore su ciò che lo circonda e sul suo modo di essere.
Il risultato non cambia: l’80% delle informazioni date non serve.
Errore numero 3: conosco tutto… del tuo amicoQuesto errore è abbastanza ostico e per fortuna mi è capitato soltanto una volta di leggerlo in un manoscritto, ma è un interessante caso da studiare.
In pratica, sempre con il nostro metro di misura 50/100, le prime cinquanta pagine sono dedicate a parlare del carattere, la storia, i problemi… di un personaggio secondario.
Certo, potrai pensare, ma non è che invece era LUI il protagonista?
No: la storia era ben centrata sul protagonista, si faceva più volte riferimento ai suoi problemi (il conflitto), ma tutto veniva lasciato sempre in secondo piano a scapito del personaggio secondario.
Un errore ostico, appunto, e anche molto grave, perché l’unica soluzione è riscrivere tutto da capo.
In ogni caso, anche qui abbiamo cinquanta pagine di niente e un 80% di informazioni inutili.
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May 17, 2022
Ti fai pagare troppo! (?)

In pieno lockdown era scoppiata la solita “flame” su un social molto famoso in merito al costo di servizi editoriali (editing, correzione di bozze…) che alcuni autori ritenevano eccessivo, e mi è stato anche caldamente consigliato di “abbassare i prezzi” perché (non è stato detto proprio così, ma in soldoni il senso era quello) “se non ti cerca nessuno ci sarà un motivo”.
Premessa: il post che aveva scatenato la flame non riguardava il supposto “non cercarmi perché” bensì era una riflessione generale sul mondo infimo dell’editoria (soprattutto self-publishing). Chi ha detto che gli editori tradizionali sono str… non conosce certi autori indie e la becera maniera che hanno di coalizzarsi gli uni contro gli altri per prendere un cinque stelle in più su Amazon
).
Tutto questo pandemonio ha fatto emergere, semmai ce ne fosse la necessità, la noiosa e logorante questione del “se contatto un editor devo vendermi un rene”.
Editing no, ma altro sì…Oggi mi sento polemica (e se segui i miei articoli sai che lo sono spesso
) e quindi mi chiedo: ma perché non si vuol pagare 1000 euro per un lavoro di editing ma 1200 euro per qualsiasi altra cosa?
E l’esempio rimanda alla questione correlata al “non voglio un editor perché è caro”: la poca importanza che questa figura ha ancora nel panorama italiano.
Ho intrapreso questa professione da un po’ ormai e sebbene anni fa fosse ancora peggio, ancora adesso la tendenza è spesso quella di: ma che sarà mai, correggere un libro. A parte che non lo si corregge soltanto, editare va mooolto oltre la correzione, ma allora potremmo fare lo stesso discorso, che ne so, con un imbianchino.
Che sarà mai imbiancare una parete?
Però all’imbianchino diamo il compenso che merita, perché sappiamo quanto lavoro c’è dietro. Come paghiamo senza battere ciglio un intervento odontoiatrico, la seduta dallo psicologo, il meccanico che cambia le pastiglie dei freni.
Ecco, perché invece se un editor osa chiedere 500 euro (che per certi testi è davvero poco) si grida allo scandalo?
Non c’è tutelaLa professione dell’editor non è tutelata.
Non esiste un sindacato degli editor o un’associazione che li riunisca (a parte pseudo-associazioni farlocche con sede a XX in qualsiasi paese europeo e non in cui le tasse siano poche o nulle e il cui scopo è vendere corsi o servizi ad aspiranti editor) o qualsiasi altro organismo che li tuteli e faccia in modo che innanzitutto sia richiesto un titolo di studio (specifico, eh, non il masterino online che di universitario non ha nulla), ma che soprattutto possano lavorare soltanto le persone davvero competenti (per aderire all’AITI, ad esempio, l’associazione dei traduttori e degli interpreti, è prevista una prova di ingresso). E che, soprattutto di soprattutto, venga riconosciuto il giusto compenso a quello che a tutti gli effetti è un lavoro.
No, un editor non lavora quando capita o quando ne ha voglia, e sì, anche se lavora da casa non vuol dire che stia tutto il giorno su Steam (da quando c’è la pandemia il telelavoro è stato rivalutato, ma prima se dicevi che lavoravi da casa di squadravano manco avessi detto di aver parlato con ET).
Un editor paga le tasse come tutti gli altri lavoratori, e chi ha la partita IVA saprà bene che il salasso bussa alla porta ogni anno.
Quindi: perché?
Di risposte ce ne sono tante…… tralasciando le lacune giuridiche, che purtroppo non riguardano soltanto gli editor ma anche tante altre professioni, anche di altri settori, le risposte principali potrebbero essere due (che poi è la stessa, vista da un punto di vista diverso).
Uno, il marasma di editor alle prime armi che offrono i loro servizi a prezzi stracciati per farsi conoscere; il marasma di sedicenti editor che non importa pagare poco, l’importante è pagare.
Due, i tanti autori, case editrici e agenzie di servizi editoriali che sanno della presenza di queste persone, perciò se io X rifiuto di lavorare a un testo per 50 euro non “patteggiano” ma si rivolgono altrove.
Un gatto che si morde la coda, insomma.
Tutto questo pippone (rileggendo mi sono accorta che lo è davvero) per dare l’ennesimo, e inutile, contributo alla causa, e per gridare ancora una volta che se l’editor si fa pagare è perché sa fare il suo lavoro e perché sa che è un lavoro che richiede tempo (editing di testi lunghi in tempi record sono suicidi letterari), sa che deve pagare le tasse ecc. ecc. E poi, insomma: essere editor è una professione, è un lavoro. Diamogli l’importanza e il rispetto che merita!
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May 14, 2022
L’involuzione della nostra lingua tra preposizioni e maiuscole

L’italiano è entrato ormai in una fase involutiva senza precedenti.
E nemmeno gli accorati appelli di linguisti, grammatici e chiunque abbia ancora a cuore la propria lingua sembrano servire.
Ma cosa sta succedendo? mi chiederai. La domanda più consona sarebbe però: perché?
Dopo un “break” torniamo “a lavoro”È ormai assodato che la nostra lingua è sempre meno italiano e sempre più itanglese. E se questo non bastasse a preoccuparci, tra break, call, wall, lockdown, booster, pet-food e via dicendo, ci si mette un’altra branca di quello che ormai io chiamo sotto-italiano: il grammacannero.
Non bastavano gli svarioni sui congiuntivi, gli accenti sbagliati (e sballati), i participi made in fantàsia… una nuova serie di memi sta prendendo piede.
Sì, sto parlando di memi, e no, non sono le immaginette che girano su Facebook o Instagram. I memi esistono dapprima delle reti sociali, e sono “(s)ingol(i) element(i) di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabil(i) e trasmissibil(i) per imitazione da un individuo a un altro o da uno strumento di comunicazione ed espressione a un altro (giornale, libro, pellicola cinematografica, sito internet, ecc.)” (Treccani). Di solito ci si riferisce a proverbi, barzellette, film, canzoni, e adesso ai “meme-immagini”, ma io, senza presunzione o altro, vorrei aggiungere anche tutti gli svarioni ortografici che, per imitazione, vengono replicati ancora, e ancora, e ancora.
A lavoro, piuttosto che…È il caso del “a lavoro” usato nel titoletto di questo articolo, che fatico a scrivere e che anche il mio correttore grammaticale di Microsoft Word segnala come errore.
Ma tant’è, ormai dire “vado a lavoro”, “sono a lavoro”, “torno da lavoro” è… di moda. Anzi: se dici, correttamente eh!, “vado al lavoro”, ti fissano neanche avessi rivelato di provenire da un satellite di Giove.
L’uso improprio delle preposizioni è ormai trasbordato ovunque, persino sui cartelloni e in televisione (qui sotto due esempi dell’odiato “a lavoro” in bella vista). Addirittura una volta ho letto, sulle notizie in sovrimpressione (non mi piaceva dire flash news, per ovvi motivi) di un noto notiziario nazionale: “Passeggeri costretti a scendere da treno”. Lo giuro.

Due esempi dell’uso improprio (ed esteso) di “a lavoro”C’è poi il sempre presente “piuttosto che”, ormai usato con valore disgiuntivo di o, che se nel parlato ancora non dà troppi danni (in oralità siamo più inclini ad accettare strafalcioni), nello scritto non solo è da cancellare subito, ma ancor prima di cancellare l’editor deve interpretare il senso della frase in cui è stato usato, spesso oscura proprio a causa del “piuttosto che”.
“Piuttosto che” e “a lavoro” sono memi a tutti gli effetti, se mi passate l’utilizzo di questo termine che attiene di più alla biologia – si veda Il gene egoista di Dawkins).
Ma (purtroppo) non sono gli unici.
Maiuscole a gogòAltro errore frequente ed esteso (dai giornali ai siti internet, dai cartelloni agli annunci) è l’uso improprio delle maiuscole.
Anche qui, basta scrivere Domenica 1° Maggio 2022 e il correttore di Word si dà alla pazza gioia con le sue sottolineature.
Infatti, i giorni della settimana e i mesi non vanno in maiuscolo (contrariamente all’inglese, ad esempio).
Purtroppo, anche questo “meme” si sta replicando velocemente, e dappertutto si trovano maiuscole in sovrabbondanza (anche per i nomi delle professioni! Il Pittore Mario Rossi, giusto “per”).
Torniamo all’inizioPiù precisamente, alla domanda: perché?
In realtà ho già risposto con la definizione di meme, il cui essere replicabile è insito nella sua stessa natura.
Uscendo dai tecnicismi ed evitando di scomodare linguisti e grammatici (che storceranno il naso di fronte a queste mie ingenuità), posso dire che questi strafalcioni grammaticali si replicano, sì, come si replicano tante altre cose in un mondo ormai sempre connesso. Consideriamole una moda (ahimè non ancora passata): l’uomo della strada (uso anche qui un termine tecnico per riferirmi semplicemente all’uomo “comune”) vede, legge, sente una determinata cosa, e a mo’ di moda la fa sua. Un po’ come la corsa a pubblicare la foto dell’albero di Natale, o la mano di nostro figlio appena nato, o ancora il micetto che dorme a pancia in su.
Ma soprattutto (e qui sta la gravità della situazione), non solo la fa sua ma la ritiene anche corretta, perché, dato l’alto livello di replicabilità, lo svarione grammaticale è usato anche su giornali, siti, notizie in sovrimpressione di organismi ai quali ci affidiamo per sostrato culturale (alcuni diranno sottomissione culturale) e dei quali nutriamo cieca fiducia.
Oh, se il giornale più letto nella mia regione scrive “a lavoro”, o usa le maiuscole a sproposito, mi viene magari da pensare che ha ragione a farlo, e quindi posso farlo anche io.
Niente di più sbagliato.
Dobbiamo imparare non solo a diffidare di quello che ci viene propinato quotidianamente, ma anche e soprattutto (dico io, poiché lavorare con la nostra lingua è la mia professione), da come ce lo propinano.
Insomma, torniamo a pensare italiano, e torniamo a scriverlo correttamente.
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May 10, 2022
Originalità o banalità?

La lotta fra banalità e originalità non ha mai vincitori ma sempre vinti.
Come per tanti altri aspetti della scrittura creativa, non esiste LA regola ma solo buone prassi da seguire.
Ma cosa vuol dire essere originali? E banali?
Già sentito…Una scrittura banale, lo sappiamo, è qualcosa di trito e ritrito, di già sentito, di “ma questo/a non ha fantasia?”
Per essere banali non ci vuole granché: basta attingere al padellone dei cliché e tirarne fuori una scodellata, e farcire le nostre pagine.
Così saremo tranquilli che i nostri personaggi saranno basiti di fronte a sguardi di ghiaccio, silenzi assordanti e capelli neri come la pece, e tremeranno come foglie oppure saranno tesi come corde di violino.
Un buon editor dovrebbe sempre consigliare lo scrittore di andare oltre il “già sentito”…
… ma senza esagerare.
Ossia?L’editor avrà però più da fare quando lo scrittore, anziché sbizzarrirsi con il dizionario delle banalità, si sbizzarrisce con il dizionario… delle assurdità.
È tra i lavori più difficili per un editor, quello di capire che cosa vuol dire lo scrittore con alcune sue frasi. Spesso non si tratta soltanto di sgrammaticature e orrori sintattici, bensì funambolismi stilistici che, però, e ahimè, sono comprensibili soltanto per lo scrittore.
E all’editor non resta che scrivere a commento: “Che cosa si intende?”
Non sto parlando soltanto di paragoni e metafore che saranno originali, quello sì, ma non vogliono dire nulla, ma anche di costruzioni fraseologiche di difficile comprensione.
La sua battaglia ai giorni era difficile, e Mario trascorreva le notti in giravolte di pensieri che non gli davano tregua.
Battaglia ai giorni?? E ossia??
Giravolte di pensieri? Carina, forse, ma fa troppe giravolte, appunto!
La giusta doseNon bisogna, quindi, né essere troppo banali né però voler essere troppo originali. In entrambi in casi questo non va bene.
La giusta dose è unire banalità e originalità costruendo qualcosa che si capisca ma che non sia troppo “già detto”.
Difficile? Forse, ma chi ha mai detto che scrivere è facile? 
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May 3, 2022
(altri) Cliché da cui scappare a gambe levate

Tempo fa ho scritto un articolo su alcuni cliché che consiglio di evitare (eccolo qui!).
Visto però che i cliché crescono davvero come funghi, ne ho preparati altri.
Buona (spero) lettura!
Ah, il mare…In seguito all’ennesimo (è proprio il caso di dirlo) scenario marittimo in cui la protagonista si fonde con il mare eccetera eccetera, mi sono domandata: non è che anche ’sto povero mare sta diventando un cliché?
A ben pensarci ne ho letti davvero tanti di libri in cui la protagonista (raramente il protagonista) è un tutt’uno con il mare. Mare che è infinito, raggiunge l’orizzonte, è calmo, pacifico, o al contrario (ma capita poco) burrascoso, in tempesta, con alti marosi e chi più ne ha e più ne metta…
Eh povero mare, dai! Lasciamolo per qualche tempo in pace e dedichiamoci ad altri scenari: le montagne, i fiumi, i laghi, i boschi… Anche questi offrono scenari suggestivi, e magari anche più originali del solito mare che, io ve lo dico, un po’ ha stancato.
Di rara bellezzaLa protagonista femminile è di solito, ahimè, di rara bellezza, capelli morbidi color del grano, occhi azzurri, volto da Madonna…
Questo cliché getta le radici davvero in là nel tempo, tant’è che troviamo rare bellezze anche in molti classici.
D’accordo, ma non è che perché questo è scritto in un classico che dobbiamo prenderlo come regola d’oro e farlo nostro!
Pensiamoci bene: in certe storie cosa cambia se la protagonista è di rara bellezza o se è un essere comune? Niente. Proprio niente. O forse sì se la storia è basata su un concorso per Miss Italia… ma anche in questo caso, vuoi mettere la “pallosità” di una storia in cui, visto che la protagonista è di rara bellezza, questa vincerà sicuramente, e la suspense di una storia in cui la protagonista scopre di non essere così bella come ha sempre creduto, tutte le sue certezze si frantumano e dovrà ricostruire se stessa…?
Specchio specchio delle mie brame…Altro cliché (strano a dirsi) super-usato: le descrizioni allo specchio.
Non sappiamo come descrivere il nostro personaggio, e riteniamo sia qualcosa di indispensabile ai fini della storia, quindi optiamo per l’escamotage che ci sembra il più originale e azzeccato: facciamo che il personaggio si descriva allo specchio.
E quindi si rimirerà osservando i capelli color XXX, la piega delle labbra XXX, gli occhi color XXX, il fisico, e via andare.
Non solo le descrizioni allo specchio sono ormai stra-usate, ma anche se non lo fossero, non servono a molto. Quante storie ben riuscite non hanno nemmeno una descrizione dei propri personaggi? Contale: ti stupirai!
Di rara bellezza parte secondaQuesta volta la nostra protagonista non si sente affatto bella, e forse nemmeno lo è. In genere è un maschiaccio, oppure si veste con tute sformate, per nascondere non si sa poi bene cosa (spesso, cliché del cliché, è bellissima ma non sa di esserlo e quindi si infagotta in sformati di patate).
Ma poi… magia!
Le viene (di solito) imposto di indossare un abito elegante, vuoi per una festa o altre ricorrenze importanti, e lei, guardandosi allo specchio (ma va’!), si scopre improvvisamente la nuova Afrodite e, doppia magia!, da ragazza insicura e con mille fisime si trasforma nella femme-fatale che tutti gli uomini desiderano.
Posso essere sincera? No, meglio di no…
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April 12, 2022
L’editor è str***o?

Su noi editor se ne sentono tante e prima o poi mi verrà voglia di scrivere un libro. Dicono che rendiamo i libri tutti uguali, oppure che vogliamo imporre il nostro stile, o ancora che ci sostituiamo all’autore… Be’, l’elenco sarebbe lungo.
Dappertutto, quindi, è estesa l’idea che l’editor non sia soltanto egoista ecc. ecc., ma anche e soprattutto str***o.
Più che str***o! Str***issimo!
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Il che è tanto inutile quanto controproducente.
Non è lo scopo di questo articolo invogliare chiunque abbia sbattuto contro una critica, o sia capitato in una bella stroncatura, a continuare a scrivere, quanto spiegare perché l’editor a volte stronchi o critichi.
Credimi, salvo rarissimi casi, non lo fa per ego o per sadismo!
https://www.emanuelanavone.it/pillole-di-self-publishingUn po’ str***o lo sono, ma è per il tuo beneTempo fa sono andata dal dentista per un controllo annuale. Dopo un bel plauso per non aver (finalmente) più carie, la ragazza, gentilissima, mi dice: «Purtroppo questo dente è storto, e come vedi non ha quasi più gengiva. Anzi, a dirti la verità tutta la tua arcata inferiore è storta. Dovresti mettere l’apparecchio, per evitare problemi.» «Ma come!» esclamo io. «Ho portato l’apparecchio per anni, ho sofferto come può soffrire qualunque ragazzino con l’apparecchio, e adesso a più di trentacinque anni mi si dice che dovrò rimetterlo?» La risposta è stata priva di appigli: sì.
Ora, pensiamo alla visita di controllo come all’invio di un manoscritto all’editor. I denti storti sono elementi che non vanno bene nella storia (architettura narrativa, stile, qualsiasi cosa). Il parere del dentista è il “no” dell’editor. La richiesta di rimettere l’apparecchio è il “tranchant”: devi riscrivere la tua storia.
Questo esempio è molto estremo: le critiche possono anche riguardare soltanto una parte del testo, o un elemento (trama, o intreccio, o personaggi, o stile…).
Quale che sia la critica, non va vista come una stroncatura o come il massimo degli affronti (alcuni scrittori reagiscono veramente male, quasi che tu li abbia offesi nel loro io più profondo), bensì come lo sprone a fare meglio.
Noi editor siamo qui apposta: per aiutarti a migliorare laddove necessario. Se ti diciamo che un testo va riscritto, non è per cattiveria, sadismo o altro ma perché abbiamo visto una potenzialità che riscrivendo potrà essere meglio espressa.
Io capisco gli autori, sono passata in queste forche più volte e comprendo lo scoramento, la rabbia di cui sono pervasi. A volte vorresti gettare all’aria tutto. Però poi capisci che seguendo i consigli dell’editor effettivamente il testo ne giova. E ti dici: non sarà meglio interfacciarsi con qualcuno che cerca il pelo nell’uovo e al quale nulla va bene, e che ti costringe a rivedere e rivedere e rivedere, rispetto a interfacciarsi con qualcuno a cui tutto va bene e che sembra ti consideri come la stella nascente della scrittura?
Personalmente, diffido di chi del settore apprezza in toto quello che faccio: conosco i miei limiti. Diffido anche di chi stronca in toto, perché ci vuole, come per tante altre cose, una via di mezzo.
Ossia: questo va bene, ma… e questo va male, ma…
Tu cosa ne pensi? Scrivilo nei commenti!
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April 9, 2022
3 errori da non fare nei dialoghi

Scrivere un dialogo è parte integrante di ogni storia. Può essere scritto bene o male, e purtroppo è una delle cose più difficili, i rischi di finire con qualcosa di mediocre sono tantissimi.
Prima ancora, però, di entrare nello stile del dialogo, occorre prendere in considerazione alcune accortezze… grafiche, diciamo.
Vediamone tre, le più “importanti”.
[image error]Pexels.com","created_timestamp":"0","copyright":"","focal_length":"0","iso":"0","shutter_speed":"0","title":"white and yellow flower on pink wall","orientation":"0"}" data-image-title="pexels-photo-1037994" data-image-description="" data-image-caption="Photo by Moose Photos on Pexels.com
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Proviamo a scrivere il dialogo senza virgolette: Ciao, disse Maria.
Ci viene spontaneo scrivere così, e non Ciao. Disse Maria. Giusto? E così deve essere se usiamo le virgolette, di qualsiasi tipo.
Anche perché disse Maria è un inciso direttamente collegato al dialogo, sta reggendo il dialogo stesso. Non è scollegato come, ad esempio, in questa frase: Ciao. Maria sorrise (e quindi: «Ciao.» Maria sorrise, e NON «Ciao» Maria sorrise. Sono due frasi separate, e per questo motivo vanno separate da un punto.
Quindi:
«Ciao» disse Maria.
«Ciao.» Maria sorrise.
e non:
«Ciao.» Disse Maria.
«Ciao» Maria sorrise.
«Ciao.» [stessa persona, a capo] «Come va?»Altro errore, che attiene di più alla comprensione (prima erano minuzie stilistiche che però è bene conoscere e seguire), è racchiudere il dialogo di una stessa persona in diverse virgolette e/o andare a capo.
«Ciao.»
«Come va?»
O:
«Ciao.» «Come va?»
Il lettore, anche il più disattento, capirà che qualcosa non funziona, o penserà che siano due persone a parlare.
Se un dialogo non è separato da incisi va inserito nella stessa coppia di virgolette, e non va mai a capo.
Quindi:
«Ciao. Come va?»
O:
«Ciao» disse Maria. «Come va?»
«Ciao, lo sai cosa mi ha detto ieri Maria? «Mi sposo!» mi ha detto! Non ci posso ancora credere.»Capita molto spesso di inserire dialoghi all’interno di dialoghi, ma non bisogna mai usare le stesse virgolette. È necessario inserire virgolette diverse per, appunto, diversificare il tipo di dialogo (riportato, in questo caso).
Quindi:
«Ciao, lo sai cosa mi ha detto ieri Maria? “Mi sposo!” mi ha detto! Non ci posso ancora credere.»
Sempre per diversificare, è opportuno anche usare virgolette diverse per i pensieri (se uso le caporali per i dialoghi, ad esempio, userò le virgolette alte per i pensieri), o scriverli in corsivo o in tondo.
Il lettore capirà di più… e ringrazierà!
https://www.emanuelanavone.it/prontuario-di-editingL'articolo 3 errori da non fare nei dialoghi proviene da Emanuela Navone Editor Freelance.


